Glossa / Estratto

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Juan José Saer

Juan José Saer (1937 - 2005) è stato uno dei grandi scrittori argentini della seconda metà del Novecento. Trasferitosi a Parigi nel 1968, ha lavorato come professore di letteratura all’Università di Rennes. La Nuova Frontiera ha già pubblicato: Cicatrici, L’indagine, L’arcano e Le nuvole.

glossa

Leto e il Matematico si incontrano una mattina per strada. Il primo si è appena trasferito in città dove lavora come contabile. Il secondo viene da una famiglia dell’alta borghesia cittadina ed è appena tornato da un viaggio di studio in Europa. Decidono di fare un pezzo di strada insieme parlando della festa del poeta Washington Noriega, festa alla quale nessuno dei due ha partecipato. A partire da un pretesto così semplice Saer costruisce una macchina letteraria perfetta, capace di insinuare il dubbio su tutto ciò che crediamo di vivere e percepire. Il lettore vede il romanzo dispiegarsi liberamente sotto i suoi occhi, come se si scrivesse da solo. Vede la coscienza dei protagonisti esitare e i loro ricordi ingannarli mentre si accumulano, passo dopo passo, parole non dette, angosce e disillusioni. Cosa sono i ricordi, il tempo, la realtà e come li raccontiamo sono i temi dell’opera più filosofica di Saer, che è, allo stesso tempo, il commovente racconto della generazione perduta di un paese, l’Argentina, che proprio in quegli anni viveva il suo periodo più buio.

Juan José Saer

Glossa

«Leto non si sente né male né bene: cammina dimentico, nel mattino, al centro di un orizzonte materiale che gli manda, in onde costanti, rumori, consistenze, luci, odori. È immerso in quell’orizzonte e al tempo stesso ne è il centro; se di colpo scomparisse, il centro cambierebbe di posto.»

“Uno dei romanzi più sorprendenti del XX secolo.” Le Figaro “Glossa coglie la natura selvaggia dell’esperienza umana in tutte le sue sfaccettature e la deriva cieca, incomprensibile e inarrestabile del tempo.” The New York Times “È un mondo intero, con le sue incertezze e il suo caos, quello che si dipana nel corso di questa passeggiata. Un mondo folle come quello che noi viviamo.” Le Monde

€ 17,50

ISBN 978-88-8373-333-8

ISBN 978-88-8373-333-8

9 788883 733338



Juan JosĂŠ Saer

Glossa Traduzione dallo spagnolo (Argentina) di Gina Maneri



A Michel, Patrick, Pierre Gilles, che praticano tre vere scienze, la grammatica, l’omeopatia, l’amministrazione, l’autore dedica, per le chiacchiere della domenica, questa commedia: but then time is your misfortune father said.



Non vidi che era anche la mia la fine toccata ad altri in sorte, ma tra febbre e geometria ecco che il tempo è volato via e ora piangono la mia morte.



i primi sette isolati



È, se vogliamo, ottobre, ottobre o novembre, 1960 o ’61, ottobre forse, il 14 o il 16, o forse il 22 o il 23, il 23 ottobre 1961, diciamo; che importa. Leto – Angel Leto, no? – Leto, dicevo, è sceso pochi istanti fa dall’autobus, all’angolo del boulevard, parecchi isolati prima di dove scende di solito, spinto dal desiderio improvviso di camminare, di farsi a piedi la calle San Martín, la via principale, e lasciarsi avvolgere dalla mattinata di sole invece di rinchiudersi nel buio mezzanino di uno di quei negozi di cui da alcuni mesi, con pazienza ma senza entusiasmo, cura la contabilità. È dunque sceso, non senza urtare, nella fretta, alcuni passeggeri che cercavano di salire, generando in loro un’ondata effimera di proteste indecise, ha aspettato che l’autobus azzurro ripartisse e, metallico, superasse il boulevard in direzione del centro, ha attraversato, cauto, le due corsie del boulevard separate dall’aiuola spartitraffico, per metà giardino e per metà lastricato, schivando le auto che passavano, placide e calde, in entrambe le direzioni, ha guadagnato il marciapiede opposto, ha comprato al chiosco delle sigarette un pacchetto di Particulares e una scatola di fiammiferi che si è messo nelle tasche della camicia a maniche corte, ha percorso i pochi metri che lo separavano dall’incrocio, che ora ha raggiunto, e poi ha girato l’angolo e, rivolto verso sud, sul 11


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marciapiede est, ossia quello in ombra a quell’ora, ha cominciato a camminare lungo calle San Martín, cioè la via principale, i due marciapiedi paralleli che, via via che si avvicinano al centro, si riempiono di negozi di dischi, di scarpe, di abbigliamento, di biancheria per la casa, pasticcerie, librerie, banche, profumerie, gioiellerie, chiese, gallerie, rivendite di sigari, e che alle due estremità, quando il grumo di negozi si assottiglia e infine diluisce, esibiscono le facciate pretenziose e persino eleganti, in qualche caso, perché no, degli edifici residenziali, non pochi dei quali adornati, accanto al portone d’ingresso, da targhe di bronzo che annunciano la professione degli occupanti, medici, avvocati, notai, ingegneri, architetti, otorinolaringoiatri, radiologi, odontoiatri, commercialisti, biochimici, banditori d’asta… insomma, in una parola, o meglio in due, per essere precisi, tutto quanto. L’uomo che si alza la mattina, si fa una doccia, fa colazione e poi esce nel sole della città, viene, non c’è dubbio, da più lontano che dal suo letto, e da un buio più nero e più fitto di quello della sua camera: nulla e nessuno al mondo potrebbe dire perché Leto, questa mattina, invece di andare come tutti i giorni al lavoro, sta camminando, indolente e tranquillo, sotto gli alberi che contribuiscono all’ombra della fila di case, lungo la calle San Martín in direzione sud. Lui, che ha tanto sofferto, ha detto a colazione Isabel, sua madre, prima di andare al lavoro a sua volta, e poi, rimasto solo, Leto ha preso la seconda tazza di caffè ed è andato a bersela nel patio sul retro. Costui, quello che ha tanto sofferto, si è già cancellato dalle sue rappresentazioni mentre passeggia per il piccolo patio fiorito, nei cui angoli in ombra prato e piante, vasi e aiuole mantengono ancora l’umidità della notte, ma la totalità del suo corpo e i suoi impalpabili prolungamenti ne conservano un’eco fragile e distratta. È forse l’ombra umida e concentrata che persiste ai piedi degli edifici, sulla via prin12


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cipale, o quel misto di umidità e lucentezza che esibisce il verde in primavera e che è visibile in alcuni giardini davanti alle case, a ricordare a Leto l’espressione di sua madre, nella doppia accezione di espressione del viso e frase fatta. L’umidità mattutina che perdura nel caldo crescente ma mitigato lo assorbe, per associazione, nell’immagine persistente e nitida, benché al tempo stesso familiare ed estranea, di sua madre che, voltando le spalle ai fornelli con la caffettiera fumante in mano, ha proferito a voce bassa e pensosa, come tra sé e sé e senza alcun nesso con quanto stava dicendo un attimo prima, quella frase: lui, che ha tanto sofferto. Nella penombra mattutina della cucina, le fiammelle azzurre del gas, raggruppate in corone circolari della stessa altezza, bruciano ancora alle sue spalle dopo che lei ha tolto il caffè, il latte, l’acqua, il pane tostato e si è voltata verso il tavolo con la caffettiera fumante. Per Leto, la frase che è appena risuonata e poi si è dissolta nella cucina ha la tipica ambiguità di molte delle affermazioni di sua madre, motivo per cui gli riesce difficile comprenderne l’esatto significato; e quando alza la testa, vincendo il pudore e forse la vergogna, e si mette a scrutare l’espressione di Isabel, il sospetto che quell’ambiguità sia deliberata non fa che crescere, perché il corpo già un po’ appesantito di Isabel avanza muto sullo sfondo delle fiammelle azzurre, e gli occhi bassi, che evitano il suo sguardo, disarmano ogni intento indagatorio. Ha lasciato cadere, inattesa, la sua frase in cucina, nel mezzo dello scambio meccanico della colazione in cui le frasi, dette per ostentare, per cortesia, una dubbia presenza, non hanno più significato né estensione dell’acciottolio di piatti e posate. E mentre beve il primo sorso di caffè nero e la vede sedersi, vagamente, all’altro capo del tavolo, Leto si mette a pensare: “È certamente la speranza di cancellare l’umiliazione a farle sostenere che lui ha tanto sofferto”; ma, e la testa di Leto si alza di nuovo e gli occhi fissano il volto già 13


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un po’ appesantito, benché ancora infantile, che abbassando le palpebre non lascia trapelare nulla all’esterno: “Lo sa?, se ne rende conto?, mi sta sondando?, mi mette alla prova?” La cosa più difficile, però, è di gran lunga sapere cosa rispondere; Leto sarebbe disponibile, gentile e soprattutto sollevato, a darle la risposta che lei si aspetta, naturalmente se gli fosse possibile conoscerla, ma con una pretesa disperata lei sembra volere che la indovini da solo, e non gli dà, pertanto, alcun aiuto. Leto cerca, esita; e poi, insicuro, benché non senza un certo rancore, con la stessa reazione che ha davanti a tutte le frasi di quel genere, non dice niente. Segue un silenzio un po’ scontroso, imbarazzante per entrambi, in cui c’è forse delusione e non poco sollievo, e che Isabel rompe bevendo in un sorso la sua tazza di caffelatte e masticando, rumorosa, l’ultima fetta di pane tostato, e poi tornano le frasi opache e consuete che solo l’intonazione potrebbe dotare di ambiguità ma che escono dai denti neutre e distratte. Anche quelle frasi vengono, di sicuro, da più lontano, da più indietro della lingua, delle corde vocali, dei polmoni, del cervello, del fiato, dall’altra parte del deposito di esperienza nominata e accumulata da cui, pescando alla cieca, pur credendo di soppesarle, ciascuno le prende e le espelle. Nel silenzio che, ancora, viene poi, dopo che lei gli ha sfiorato la guancia con le labbra e si è chiusa alle spalle due o tre porte, senza far rumore, per andare al lavoro prima di lui, lasciandosi dietro la sua immagine estranea quanto familiare, quell’immagine si è gradualmente cancellata dalle sue rappresentazioni per diffondersi piuttosto in tutto il suo corpo, come se, nel suo andirivieni, il sangue fosse in grado di ridurre l’impalpabile alla sua ostinazione materiale, metabolizzandolo e distribuendolo in cellule, tessuti, carne, ossa, muscoli. Con la seconda tazza di caffè in mano, mentre osserva l’umidità della notte che non si cancella negli angoli in ombra, Leto, ma non il suo 14


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corpo, si è già scordato della madre, ed è quella stessa ombra umida che persiste ora, attorno alle dieci, sulla via principale, e che avvolge il suo corpo come un primo strato trasparente di mondo a sua volta circondato dalla mattina soleggiata, a riportargliela alla mente, a proiettarla sul piccolo schermo mobile e instabile delle sue rappresentazioni sul quale lampeggia, a tratti, il minuscolo riflettore dell’attenzione. Con tutta certezza, come si suol dire, la stessa ragione che spinge Isabel a pronunciare le sue frasi sorprendenti e misteriose ha indotto lui, all’improvviso, a scendere dall’autobus, attraversare il boulevard, comprare le sigarette e mettersi a camminare, senza un motivo, in direzione sud. Ogni quindici metri, una tipa si erge sul bordo del marciapiede e i suoi rami toccano quasi i rami di quella che, alla stessa altezza, si erge sul bordo del marciapiede di fronte. Negli spazi lasciati liberi dalle fronde non troppo fitte si scorgono porzioni di cielo azzurro, e per strada e sul marciapiede di fronte sono più i tratti assolati degli spazi in ombra. Puerili, di tutti i colori, le auto passano a velocità costante in entrambe le direzioni: quelle che vengono verso Leto costeggiano il marciapiede sul quale lui cammina in direzione contraria, e quelli che, appunto, vanno in quella direzione costeggiano il marciapiede di fronte. Man mano che le auto procedono lunga la strada alberata, lampi e ombra di foglie e rami si alternano fugaci sulle cromature delle carrozzerie, sulla lamiera dipinta e sui vetri. Altri pedoni – non tanti, perché il centro è lontano ed è ancora relativamente presto – camminano sui marciapiedi, solitari o in gruppetti, immersi nei loro pensieri o nella conversazione. Ancora una trentina di metri a passo regolare, e Leto arriverà all’incrocio. È, come sappiamo, mattina: anche se non ha senso dirlo, perché è sempre la stessa volta, ancora una volta il sole, dato che la terra a quanto pare gira, ha dato l’impressione di salire, 15


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da quella direzione chiamata Est, nella distesa azzurra che chiamiamo cielo, e a poco a poco, dopo l’alba, dopo l’aurora, è giunto abbastanza in alto, a metà dell’ascesa, diciamo, perché dall’intensità di quella che chiamiamo luce si possa chiamare ciò che ne risulta mattina – una mattina di primavera in cui ancora una volta, anche se, come dicevamo, è sempre la stessa volta, la temperatura è gradualmente salita, le nuvole si sono dissipate e gli alberi che, per qualche ragione, avevano perduto a poco a poco le foglie stanno rinverdendo, mettendo fiori un’altra volta, anche se, come dicevamo, è sempre la stessa, l’unica Volta e, come dicono, di equinozio in solstizio, è la stessa, no?, come dicevo, diciamo “una” perché ci sembra ce ne siano state tante a causa dei cambiamenti che ci pare di percepire e a cui diamo dei nomi – una mattina di primavera, luminosa, che ha cominciato a formarsi tre o quattro giorni prima, quando le ultime piogge di settembre e ottobre hanno ripulito, in un cielo sempre più tiepido e trasparente, le ultime tracce dell’inverno. Leto non si sente né male né bene: cammina dimentico, nel mattino, al centro di un orizzonte materiale che gli manda, in onde costanti, rumori, consistenze, luci, odori. È immerso in quell’orizzonte e al tempo stesso ne è il centro; se di colpo scomparisse, il centro cambierebbe di posto. Per quella ragione, per provare a se stessa che lui ha tanto sofferto, circa tre mesi prima lei si era scoperta una pallina dura nel seno destro: come un frutto dell’albero dei rosari, aveva cominciato a ripetere. Charo, la cugina insegnante che, in mancanza di un fidanzato o un marito, ha acquisito, a quarantacinque anni, un sapere approssimativo su quasi tutte le malattie destinato a palliare le lacune di altre curiosità o sed non satiata, l’aveva obbligata a prenotare una visita da uno specialista – un luminare, aveva sostanziato, ditirambica, la zia Charo, che in realtà era solo una cugina di secondo gra16


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do. Leto pensa: “Non è stato male neppure quando l’ha detto a Charo: è come se uno dicesse a un lenone che gli avanza qualche soldo e vorrebbe spenderselo in accompagnatrici.” A causa dei suoi convegni internazionali, della fila di candidati cancerosi che sfogliavano vecchie riviste nella sala d’aspetto dello studio e delle conferenze con cena al Rotary, lo specialista l’aveva ricevuta soltanto un mese dopo: e dopo averla osservata, palpata, con attenzione e perizia, le aveva detto, con distratta cordialità, che secondo il suo modesto parere non c’era motivo di preoccuparsi, e che un esame più approfondito o una biopsia non erano giustificati. La pallina dura, delle dimensioni di un frutto dell’albero dei rosari secondo Isabel o di una ghianda, secondo Charo, la quale, per chissà quali ragioni confuse e a lei ignote, l’aveva palpata a sua volta, non aveva rivelato la propria presenza alle dita esperte dello specialista, che per quanto cercassero non avevano trovato alcuna durezza eccezionale nei seni viceversa ormai un po’ flosci di Isabel, né nel destro né nel sinistro. Lo specialista era andato a sedersi alla scrivania e si era messo a compilare una scheda, e mentre si rivestiva, in piedi accanto al lettino, Isabel aveva cominciato a sondarlo con molti sottintesi, e lo specialista rispondeva a monosillabi indecisi, il cui senso dipendeva, come quello delle macchie di un test psicologico, dal preesistente nell’osservatore: secondo Isabel lo specialista, vedendola entrare, le aveva già lanciato occhiate significative, dato che lei si era annunciata con il cognome da sposata, e il caso di suo marito, così recente e così fulminante oltretutto, come spesso succede con le persone giovani, non doveva averlo dimenticato. Poiché prima della visita le avevano fatto compilare una scheda in cui figurava che era nata a Rosario, e lui doveva essere sicuramente venuto da Rosario a consultarlo, lo specialista non poteva non aver stabilito un nesso. Certo, a causa del segreto professionale – sì, fa parte della deontologia, 17


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Juan José Saer (1937 - 2005) è stato uno dei grandi scrittori argentini della seconda metà del Novecento. Trasferitosi a Parigi nel 1968, ha lavorato come professore di letteratura all’Università di Rennes. La Nuova Frontiera ha già pubblicato: Cicatrici, L’indagine, L’arcano e Le nuvole.

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Leto e il Matematico si incontrano una mattina per strada. Il primo si è appena trasferito in città dove lavora come contabile. Il secondo viene da una famiglia dell’alta borghesia cittadina ed è appena tornato da un viaggio di studio in Europa. Decidono di fare un pezzo di strada insieme parlando della festa del poeta Washington Noriega, festa alla quale nessuno dei due ha partecipato. A partire da un pretesto così semplice Saer costruisce una macchina letteraria perfetta, capace di insinuare il dubbio su tutto ciò che crediamo di vivere e percepire. Il lettore vede il romanzo dispiegarsi liberamente sotto i suoi occhi, come se si scrivesse da solo. Vede la coscienza dei protagonisti esitare e i loro ricordi ingannarli mentre si accumulano, passo dopo passo, parole non dette, angosce e disillusioni. Cosa sono i ricordi, il tempo, la realtà e come li raccontiamo sono i temi dell’opera più filosofica di Saer, che è, allo stesso tempo, il commovente racconto della generazione perduta di un paese, l’Argentina, che proprio in quegli anni viveva il suo periodo più buio.

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«Leto non si sente né male né bene: cammina dimentico, nel mattino, al centro di un orizzonte materiale che gli manda, in onde costanti, rumori, consistenze, luci, odori. È immerso in quell’orizzonte e al tempo stesso ne è il centro; se di colpo scomparisse, il centro cambierebbe di posto.»

“Uno dei romanzi più sorprendenti del XX secolo.” Le Figaro “Glossa coglie la natura selvaggia dell’esperienza umana in tutte le sue sfaccettature e la deriva cieca, incomprensibile e inarrestabile del tempo.” The New York Times “È un mondo intero, con le sue incertezze e il suo caos, quello che si dipana nel corso di questa passeggiata. Un mondo folle come quello che noi viviamo.” Le Monde

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ISBN 978-88-8373-333-8

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