N°34 Comico

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LABORATORIO DI NARRAZIONI E ARTI VISIVE


DIRETTORE Massimo Carta VICEDIRETTORE Federica Pasqualetti ORGANIZZAZIONE E COORDINAMENTO Associazione Culturale A.p.s Lunatici REDAZIONE Silvia Bia, Enrico Cantino, Carlotta Fiore, Federica Pasqualetti, Andrea Rabaglia, Concetto Scuto, Andrea Tinterri RELAZIONI ESTERNE e UFFICIO STAMPA Andrea Rabaglia, Enrico Cantino REALIZZAZIONE GRAFICA Associazione Culturale A.p.s Lunatici STAMPA Pressup - Roma EDITORE Monte Università Parma Editore PROMOZIONE E DISTRIBUZIONE PDE - Promozione Distribuzione Editoriale INFORMAZIONI E COLLABORAZIONI lalunaditraverso@gmail.com - redazione@lalunaditraverso.it www.lalunaditraverso.com llustrazione d’autore in seconda di copertina: Fotografia d’autore - Gianni Pezzani, Makeup, © Gianni Pezzani, per gentile concessione Gianni Pezzani nasce nel 1951 nella provincia di Parma, di cui inizierà ad indagarne fotograficamente i luoghi a partire dagli anni Settanta. La sua prima mostra importante è quella organizzata da Lanfranco Colombo nel 1979 presso la galleria Il Diaframma-Canon di Milano. Nel 1981 viene selezionato dalle Edizioni Time-Life tra i sei più importanti fotografi emergenti dell’anno e il suo portfolio viene pubblicato nell’annuario “Photography Year”. Dal 1981 inizia a lavorare per le edizioni Condé Nast, collaborazione che continua tutt’oggi. Nel 1983 viene invitato ad esporre in Giappone presso la Kodak Gallery di Ginza (Nagase Photo Salon). A partire dallo stesso anno si trasferisce a Tokyo per 10 anni, dove lavora sia come fotografo che come disegnatore tessile. Nel 1984 partecipa ad una mostra itinerante sulla fotografia italiana che toccherà le più importanti gallerie della Cina Popolare. Nel 1993 torna in Italia e si trasferisce a Milano. I rapporti con le riviste di moda e design si intensificano come anche le mostre personali e collettive che lo vedono protagonista. A tale proposito si possono ricordare: la retrospettiva dedicatagli dalla Fondazione Magnani Rocca di Parma nel 2000, la mostra fotografica “Viaggi in Giappone” a Palazzo Barolo, Torino, nel 2003, e “I maestri della fotografia” alla Peggy Guggenheim Collection nel 2005. Nel Maggio 2009 presenta il lavoro “Storia di una foresta perduta” introdotto da Jacques Le Goff. Nel 2010 espone a Palazzo del Governatore di Parma nella mostra “NOVE100” curata da Arturo Carlo Quintavalle che, nel 2012 sempre nella medesima sede, lo invita a partecipare all’esposizione “I Mille. Scatti per una storia d’Italia”. Nel 2013 partecipa alla mostra collettiva “Prove di fotografia” a cinquant’anni dalla nascita del Gruppo ’63 coordinata da Uliano Lucas alla Fondazione Mudima, Milano. www.giannipezzani.com

La Luna di Traverso è sostenuta e realizzata con il contributo dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Parma

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INCIPIT D’AUTORE Mi raccomando: tutti vestiti bene di David Sedaris Fotografie d’autore di Gianni Pezzani RACCONTO D’AUTORE Vampiri con ghiaccio di Gianluca Morozzi Illustrazione d’autore di Fausto Gilberti RACCONTI Analogica gialla di Giovanni Locatelli Illustrazione di Lucia Conversi Bellissimi denti di Raffaella Migliaccio Illustrazione d’autore di Alessandro Baronciani Il giorno in cui di Enrico Cantino Illustrazione di Valentina Mangieri “Gelso Nero” Incidente sul lavoro di Simone Traversa Illustrazione di Lucia Conversi Letyournoseenjoyitself di Paolo Saporito Illustrazione di Adam Lister Storia di un bastardo e di altri due di Stefano Casacca Illustrazione di Alessandro Zanichelli Venerdì Santo di Giacomo Dazzi Fotografia, Archivio Amoretti

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FUMETTI Tavole d’autore di Giacomo Bevilacqua e Luca Giorgi 56 RUBRICHE Per un Hellzapoppin di meno di Armando Minuz Illustrazione di Veronica Ruffato 60 Pensando al mare di Andrea Tinterri Fotografie di Michele Corso 66 How I Met Your Friends. L’evoluzione della sit-com di Carlotta Fiore 74 A proposito di Davis, Marge, Lebowsky e gli altri (ovvero il cinema dei fratelli Coen) di Concetto Scuto 77 INTERVISTE Giacomo Bevilacqua, fumettista a cura di Silvia Bia

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RECENSIONI

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IL NUOVO BANDO

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Ma possono i falli di gomma riscrivere una realtà con ironia? D’altronde, i suddetti, non sono certo una novità e, per necessità tecniche o feticismo che sia, sono stati spesso utilizzati, soprattutto nel mondo cinematografico, per rileggere un’azione molto reale, come lo è il sesso, modificarla e, nell’attimo successivo del montaggio della pellicola, trasformarla in qualcos’altro, che a conti fatti sembra molto più meccanico e molto meno intimo. Bè, sì, certo appena dopo arriva l’ironia e una piccante vena lussuriosa a sistemare il gioco delle parti e le coscienze di chi guarda e immagina. Da Tinto Brass, che volente o nolente ha reinventato con anarchica ironia sporcacciona la percezione dell’ormai vetusto “proibito” scoprendo le vere pulsioni del godereccio utilizzatore medio che ancora si nascondeva dietro le commedie sexy all’italiana e ai suoi facili pruriti, all’intellettuale (sì o no?) Von Trier dell’ultima fatica Nymphomaniac Vol. 1 dove tutta la schiera di organi genitali è stata addirittura trapiantata e ricreata in digitale (altro che Avatar...) per animare la fauna umana libertina, delirante e depressa che sia, la fila dei falli di gomma è lunghissima. Tirando le somme: sì, forse questi “simpatici” oggetti possono reinterpretare una realtà e uno spazio, restituendo a chi legge una visione ironica e grottesca di un ambito emotivo, segreto e ben nascosto, di una società in piena solitudine sentimentale. Che poi, alla fine, tutto questo assomiglia più a una commedia tragica, una visione che non è neanche troppo distante dalla realtà.”

Fotografia d’autore (inedita) - Gianni Pezzani, Troppo cazzo, 1980, Colorno (Parma) © Gianni Pezzani, per gentile concessione (biografia a pag. 2)


INCIPIT D’AUTORE

David Sedaris, Mi raccomando: tutti vestiti bene, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2006

A differenza dell’allegro e obeso Babbo Natale americano, San Nicola è magrissimo e veste in modo non dissimile dal papa, con un alto cappello che ricorda una teiera ricamata. Questa tenuta, mi ha spiegato Oscar, è un residuato della sua precedente carriera di vescovo della Turchia. «Chiedo scusa?» dissi, «può ripetere?» Non amo l’eccessivo sciovinismo culturale, ma questa storia mi sembrava totalmente sbagliata. Innanzitutto, Babbo Natale non ha mai avuto una precedente carriera. Non è in pensione e – cosa ancora più importante – non ha niente a che spartire con la Turchia. È un paese troppo pericoloso, dove difficilmente lo apprezzerebbero. […] appresi che San Nicola viaggiava con un seguito formato “dai sei agli otto uomini neri”. Chiesi a diversi olandesi se potevano essere più precisi, ma nessuno fu in grado di fornirmi una cifra esatta. Era sempre “tra i sei e gli otto”, il che appare strano, visto che hanno avuto secoli e secoli per effettuare un conteggio accurato. Questi uomini neri, tra i sei e gli otto, erano stati caratterizzati come schiavi fino alla metà degli anni ’50, quando il clima politico mutò e si decise che, anziché schiavi, sarebbero stati dei buoni amici. La storia ha dimostrato, credo, che tra la

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schiavitù e l’amicizia esiste più di un passaggio intermedio, un periodo di tempo contraddistinto non dai biscotti e dalle ore trascorse davanti al caminetto, bensì da spargimenti di sangue e reciproche ostilità. Anche in Olanda esiste la violenza, ma anziché sfogarsi tra loro, Babbo Natale e i suoi ex schiavi hanno deciso di riversarla in pubblico. Anni fa, se un bambino era stato cattivo, San Nicola e i suoi uomini neri, tra i sei e gli otto, lo picchiavano con ciò che Oscar descrisse come “un piccolo ramo d’albero”. «Una bacchetta?» «Sì» disse. «Ecco. Lo prendevano a calci e lo picchiavano con una bacchetta. Se poi il bambino si era comportato davvero male, lo infilavano in un sacco e se lo portavano in Spagna.» «San Nicola ti prendeva a calci?» «Be’, ma adesso non più» disse Oscar. «Adesso fa solo finta.»

Fotografia d’autore (inedita) a pag. 9 - Gianni Pezzani, Troppo cazzo, 1980, Colorno (Parma) © Gianni Pezzani, per gentile concessione (biografia a pag. 2)

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RACCONTO D’AUTORE

Vampiri con ghiaccio Gianluca Morozzi racconto inedito

Dai, fatemi ridere: ditemi che non sapete come ci si sposta tra gli universi paralleli. Pure questa, mi tocca sentire. Non sapete come ci si sposta tra gli universi paralleli? Ma sul serio? Ma è semplicissimo, basta fare così e così… No, non sapete davvero di che cosa sto parlando? Oh sì, c’è un altro metodo: spegnere la parte del cervello che si occupa degli universi paralleli. Non sapete di nuovo di che cosa sto parlando? Ve la spiego come se aveste cinque anni, ok? C’è un pezzettino del cervello che si occupa degli spostamenti nello spazio. Cose tipo camminare, alzarsi, sdraiarsi, girarsi. E c’è un pezzettino del cervello che si occupa degli spostamenti tra gli universi paralleli. No, non bisogna accenderlo, per spostarsi. Bisogna spegnerlo.

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Perché quel pezzetto di cervello è come uno stabilizzatore, capite? Quello che ci tiene ancorati al nostro universo. Se andassimo in giro con lo stabilizzatore spento, non faremmo che passare da un universo all’altro. E così ci capiterebbe di entrare nella doccia ritrovandoci nella camera da letto di una locusta di trentasei chili residente su Terra-36. O di scendere in garage e, anziché la nostra macchina, trovarci una biga. (La biga sarebbe su Terra-109. Dove l’Impero Romano ha prosperato fino ai giorni nostri). Insomma, il localizzatore deve stare sempre acceso, per tenerci ancorati alla nostra realtà. Si attenua un po’ di notte, quando intravediamo qualche scorcio di altri universi in quelli che crediamo siano sogni. Davvero credevate che fossero soltanto dei sogni? Sì, ci sono vari modi di spegnere lo stabilizzatore. La meditazione. L’ipnosi. Il pieno raggiungimento del controllo delle facoltà cerebrali. Oppure, lo si seppellisce sotto litri e litri di alcool.

Lazzaro Piva, un uomo dalla straordinaria somiglianza con Frank Zappa, aveva trascorso una serata decisamente interessante. Aveva girovagato di locale in locale trangugiando long island white russian J&B cuba libre daiquiri vinodimmerda birradimmerda sambuca sangria grappa morbida grappa secca vodka vodka lemon vodka alla pera gin spritz aperol spritz campari spritz select cognac centerba montenegro fernet negroni negroni sbagliato tequila tequila sunrise pastis shottini altra birradimmerda altro vinodimmerda whisky jegermeister. Nell’ordine.

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In conseguenza della seratina interessante, poco prima dell’alba, aveva scambiato l’ingresso di un vicolo per la porta del suo lurido monolocale. Dopo aver girato la chiave nell’aria, pisciato contro un barbone addormentato, vomitato tra i bidoni, Lazzaro Piva era sprofondato nel buio più assoluto.

Versamene un altro. No, non sto esagerando! Cosa credi che sia, io, un comune ubriacone? Guarda questo distintivo. Lo riconosci? Esatto: Commissario Capo. Ora, per favore, sto cercando di essere gentile. Riempi questo bicchiere, oste. Dai. Sì, ho appena risolto un caso. È stata durissima, ma ci siamo riusciti. Sai quale caso ho risolto? Il caso del vampiro. Sì, il caso del vampiro. Ventiquattro vittime. Ventiquattro. Ti rendi conto? Ventiquattro uomini e donne a terra in un vicolo, con la gola squarciata e la vita fuggita, boh, da qualche parte. Là dove vanno a rifugiarsi le anime delle vittime di morte violenta. Ti ricordi cosa dicevano i giornali? A parte il solito, trito, ritrito, «la polizia brancola nel buio»? I giornali dicevano che alcune vittime erano state prosciugate. Il vampiro aveva bevuto tutto il sangue dalle loro vene, dalle loro arterie, dai loro capillari, lasciando mucchi di cadaveri bianchi per le nostre strade. Altre vittime, invece, erano state uccise e basta. Con il collo squarciato, anche loro, ma senza il macabro pasto del vampiro a dare un vago senso a quelle morti. Perché, ci eravamo chiesti tutti? Come mai il vampiro talvolta si nutriva e talvolta uccideva e basta? Poi, ti ricorderai, un ematologo aveva trovato la chiave. Qualcosa di sempli-

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Fausto Gilberti, disegno tratto dal libro L’Orco che mangiava i bambini, Corraini edizioni 2012 Š Fausto Gilberti, per gentile concessione


cissimo ed elementare, a cui, semplicemente, nessuno aveva pensato. Il gruppo sanguigno! Le vittime prosciugate avevano sangue del tipo A. Le altre, del tipo B. L’ipotesi, in questo secondo caso era: il vampiro si è comportato come fa lo squalo. Allo squalo, sai, non piace affatto la carne umana. Se ha davanti un essere umano, si limita ad assaggiarlo e poi se ne va schifato. Solo che non è bello, essere assaggiati da uno squalo. Ecco: il vampiro, avevamo dedotto, si limitava ad assaggiare le vittime del secondo tipo, ma al sapore del sangue tipo B se ne andava disgustato. Come fa lo squalo. Sai chi ha catturato il vampiro? Io. Proprio io. L’ho colto sul fatto, mentre beveva dal collo della ventiquattresima vittima. Conosci le leggende sul vampiro alto, bello, aristocratico, affascinante…? Ecco: niente di tutto questo. Il nostro assassino era brutto, sporco, lacero, con i capelli luridi, la barba lunga e gli occhi giallastri. L’avevamo arrestato senza difficoltà particolari, portandolo via mentre si dibatteva farfugliando. Vuoi sapere cosa ci ha detto in carcere il vampiro? Versamene prima un altro, dai. Ne ho molto bisogno. Il vampiro ha raccontato una storia incredibile. Questo mondo non è il suo mondo, ha detto. E non ha potuto fare a meno di uccidere quelle persone, ha detto: è stato attratto dall’odore irresistibile del loro sangue. Dice che il nostro sangue, nell’universo da cui proviene, non è affatto sangue. Il sangue, per lui, dice, è un’altra cosa. Dice che siamo creature con un organismo del tutto diverso dal suo. Che abbiamo

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un sistema circolatorio irresistibile, per uno come lui. E che ha ucciso tutti con un temperino, mica con dei canini affilati. Folle, eh? Quando gli abbiamo chiesto perché disdegnasse il sangue di gruppo B, ha dato una risposta incomprensibile e criptica. Quale risposta incomprensibile e criptica? «Perché il bianco frizzante mi fa schifo», ha detto. Che senso ha? Sì, hai ragione, è inutile pensarci. Versami qualcosa di forte, dai. Rh Negativo andrà benissimo. È un’ottima annata.

Gianluca Morozzi esordisce nel 2001 con il romanzo “Despero” e raggiunge la notorietà tre anni più tardi con il thriller claustrofobico “Blackout”, dal quale è stato tratto un film per la regia del messicano Rigoberto Castañeda. La sua scrittura vira dal noir più classico a testi di stampo autobiografico, non di rado apertamente esilaranti, nelle trame dei quali trovano spazio le passioni personali dell’autore: l’arte del flirt, la musica – Morozzi è un irriducibile della chitarra elettrica, che suona con i Lookout Mama – la fantascienza, i fumetti e la gloriosa maglia rossoblù del Bologna. Tra i suoi lavori ricordiamo “L’era del porco” (2005), “L’abisso” (2007), “Colui che gli dei vogliono distruggere” (2009), “Cicatrici” (2010), “Chi non muore” (2011), “Bob Dylan spiegato a una fan di Madonna e dei Queen” (2011), “Niente fiori per gli scrittori” (2013), “Marlene in the sky” (2013), “L’età dell’oro. La mia vita raccontata a Paz” (2014) e “Radiomorte” (2014). Fausto Gilberti è un artista, pittore e disegnatore. Nato nel 1970, ha studiato all’accademia di belle arti di Brera a Milano. Le sue immagini sono figure ridotte al minimo – omini esili dalle forme coniche, con occhi grandi e stralunati, corpi statici e piatti, sguardi sorpresi e interdetti, come smascherati in un momento di totale perplessità – stagliate su fogli bianchi in cui l’ambientazione è il più delle volte indefinita. Il colore è assente: predomina ovunque il contrasto tra il fondo chiaro e il tratto nero dei personaggi. Vincitore del premio ACACIA 2004 e del premio CAIRO 2007 ha all’attivo un centinaio di mostre tra personali e collettive in Italia e all’estero. Negli ultimi anni si è dedicato anche ai libri illustrati e ha pubblicato “Rockstars”, (2011) - una sorta di personale storia disegnata della musica rock - e successivamente due libri per bambini: ”L’Orco che mangiava i bambini” (2012) e “Bianca” (2013), tutti editi da Corraini. Vive e lavora a Brescia e sta bene.

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01 ANALOGICA GIALLA

Suggeriscimi, o Musa, barlume di risposta, per starnuto divino o umano bisbiglio, non perché ottenga dell’alloro le foglie, ma per non assaggiarne il legno

Giovanni Locatelli

Il professor Adami entrò in classe salutando tutti dalla A alla Z e guardando tutti dall’alto in basso. Le espressioni facciali degli studenti già si dimostravano preparate a quella serie di insufficienze che sarebbero piombate sul loro capo in capo a pochi minuti, ma i loro corpi freschi dimostravano in pieno tutta l’impossibilità all’immobilità propria della loro giovane età. Maturità, la parola d’ordine per accedere ai loro incubi e ai loro sogni peggiori, era già stata pronunciata: debiti formativi, programmi ministeriali, tesine interdisciplinari; tutto quello che avrebbe dovuto inchiodarli ad una sedia, contribuiva invece alla stesura dei loro piani di fuga: vacanze in Europa, Australia, America Latina. Quella mattina li attendeva invece il Pascoli con la sua storna cavallina. Il professor Adami non aspettava altro per crocifiggerli innocenti ad un’esegesi filologicamente perfetta, per sottoporli alla tortura di una parafrasi politicamente corretta. Quaranta minuti consecutivi passati sul testo del poeta, sciorinando riferimenti a questo e a quello, preda di un sacro, antologico furore. Nessuna fonte andava dimenticata, nessuna possibile interpretazione taciuta. Adami, alla fine esausto, si sentiva il paladino di una Santa Inquisizione di fronte ad un’orda di eretici bestemmiatori e di streghe miscredenti.

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Lucia Conversi, Fighting cholitas II, 2013, tecnica mista su tela, 150x100 cm Š Lucia Conversi, per gentile concessione


La platea davanti al professore, per la verità, era ben poco satanica nell’aspetto, e per nulla varia in quanto a religione, etnia ed estrazione sociale: tutti italiani e tutti di famiglia borghese, i ragazzi si distinguevano proprio il minimo indispensabile e soltanto nella fisionomia, nel look e nell’atteggiamento generale. Fra loro forse emergevano alcuni esemplari, o per il ruolo, come Francesco Belli, l’instancabile rappresentante di classe, o per il bell’aspetto, come la viziata Susanna Renzi ed il suo aitante e precocemente tatuato vicino di banco, Andrea Cortesi, o per la stirpe, come Paolo Bianconi, figlio del più importante industriale della città, ma nessuno fra questi spiccava di sicuro per acume o per preparazione. Tutti gli altri servivano solo a fare numero, e per il professor Adami si trattava di un branco informe di animali da allevamento che avrebbero trovato la macellazione, salvo rarissimi, improbabili colpi di scena, nell’esame di Giugno. Le pagelle di metà anno erano state consegnate pochi giorni prima per la consultazione da parte dei generali di istanza a casa, genericamente chiamati genitori. Distribuite come ambasciate infauste tramite messaggeri incauti che ne portavano ancora i segni sul volto e sulle mani, non rappresentavano comunque una tregua al bombardamento quotidiano di interrogazioni e compiti in classe. «Belli, sei tu il rappresentante di classe, vero? Ci sono dei volontari per oggi?» «No professore, aveva detto che non avrebbe interrogato… Aveva detto che saremmo andati avanti…». «Non è forse quello che ho fatto fino ad ora? Vorrà dire che chiamerò qualcuno io…». L’apertura del registro sprigionò un freddo silenzioso che costrinse tutti gli alunni a coprirsi la fronte con la mano, onde evitare inutili dispersioni di calore. Qualcuno cercò persino di ripararsi con quaderni ed astucci, creando una sorta di palizzata attorno al banco. «Milledavi, vieni tu?» Rilassamento generale, ma rassegnazione particolare. Le colpe di molti pagate col sacrificio di uno solo. «Parto con una domanda facile: ieri vi ho parlato di una poesia di Pascoli, “Digitale Purpurea”, cosa ti è rimasto impresso?». «“Digitale Purpurea”? Mai sentita», pensa Milledavi. «Suggeriscimi, o Musa,

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barlume di risposta, per starnuto divino o umano bisbiglio, non perché ottenga dell’alloro le foglie, ma per non assaggiarne il legno», invoca Milledavi, poi prende fiato e si tuffa. «“Digitale Purpurea”, splendida sinestesia tra una tecnologia a segnali discreti e il colore viola, il poeta appoggia due aggettivi perché si sostengano a vicenda, come farebbe con due carte da gioco, crea un miscuglio magico tra due fluidi insolubili: macchie purpuree si staccano da una superficie di liquido digitale. Evoca qualcosa dotato di caratteristiche inconciliabili nell’esperienza comune, abituata a sentire: calcolatrice digitale ed alba purpurea. “Analogica Gialla” potrebbe essere il suo analogo. Come le vocali, così i numeri hanno un colore: uno rosso, due verde, tre blu, eccetera. La poesia è avanguardista al punto da essere cyberpunk, avrebbe potuto scriverla un hacker e…» Tutta la classe ascoltava a bocca aperta, estasiata ed allibita da tale assolo, da una simile improvvisazione. Milledavi stava superando se stesso, stava raggiungendo vette non esplorate neppure dai poeti dadaisti della Parigi anni Venti. RITORNELLO (mezzo forte, crescendo): «Milledavi, basta così! Quello che stai dicendo non ha senso! La digitale purpurea non è nient’altro che un fiore. Non solo non hai studiato, ma ieri in classe non hai ascoltato una sola parola di quello che ho detto. Non è il caso di proseguire l’interrogazione. Vai al posto. Cinque.» SOLO (ritenuto): «Ma l’arte non appartiene all’autore Né alla critica, al professore. Avevo a disposizione solo un frammento È diventato la poesia di un momento. Perché non è possibile interpretare L’opera in maniera personale?». RITORNELLO (forte, crescendo): «Perché lo dico io! Com’è possibile? Ho passato un’ora ieri! Ve l’ho letta, ho fatto la parafrasi, ho ripetuto le stesse cose mille

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volte perché le capiste e oggi di cosa mi parli? Di computer paonazzi! E adesso discuti anche! Milledavi: cinque! Anzi, quattro!» TRE… il resto della classe… DUE… conta alla rovescia… UNO… in un sussurro… CAMPANELLA: «Driiiiiiiiiiin!». CORO (fortissimo): «Arrivederci, professore!».

Giovanni Locatelli (Cremona, 1977) scrittore, musicista e ingegnere timido, ha di recente terminato la pubblicazione sul suo blog www.giodiesis.wordpress.com di un romanzo a puntate intitolato “Biglietti di sola andata”. Lucia Conversi è nata a Parma nel 1980, si è laureata all’Accademia di Belle Arti di Brera nel 2004. All’attività di pittore affianca quella di illustratore per prodotti editoriali cartacei, multimediali e applicazioni per iPad. Tra le mostre e le collaborazioni più recenti: Personale “Rissa” presso la Galleria Dark Room Silmar, Carpi (2013-2014); collettiva “Xmas Square”, Parma (2013); collettiva “Galvanize” presso la Galleria Dark Room Silmar, Carpi (2013); personale “Pieghe” presso Spazio Heart, Vimercate - MI (2013); illustrazioni per l’antologia scolastica “Colori per leggere”, Mondadori Education (2012).

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02 BELLISSIMI DENTI

Lui guardò il suo viso solo per poco, anche se aveva ancora voglia di fissarla. Poi lei gli fece: «Li sente? Non sente gli uccelli?»

Raffaella Migliaccio

«Pronto?» fece una voce di donna dall’altra parte. «Pronto, casa Mautone?» disse l’uomo lasciando cadere altre due monete all’interno dell’apparecchio. «Sì, dica: chi è?» «Salve, c’è Elena?» «No non c’è, voi chi siete?» «Sono Antonio. Sono…». L’uomo ci pensò qualche istante, poi continuò: «… sono un amico. Sì, sì, un amico di Elena.» «Mi ricordo, Antonio. Ma Elena non c’è. Non abita più qui. Si è trasferita, ora sta ad abitare a Palermo, dal compagno.» «Ah» fece l’uomo, mentre con l’unghia dell’indice tormentava l’angolo di un adesivo attaccato sul lato del telefono a gettoni. «Se volete posso darvi il numero di telefono» disse la donna. «No, grazie. Volevo solo dirle che è morta mia sorella. Volevo darle questa notizia. È successo un mese fa, Elena voleva molto bene a mia sorella. Penso che avrebbe voluto saperlo.» Si sentì addosso gli occhi della gente nel retro del bar, ma quelli giocavano a carte e non si accorsero nemmeno di lui.

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«Uh, mi dispiace. Glielo dirò, mi dispiace. Condoglianze.» La donna stette un po’ in silenzio, poi disse: «Siete sicuro che non volete dirglielo voi? Ora vi do il numero.» «No, no. Grazie lo stesso. Arrivederci.» «Arrivederci» la sentì dire e attaccò. Andò al bancone del bar e ordinò un caffé. Il cameriere gli fissò la faccia, cioè gli fissò la macchia che gli sfigurava la faccia, la sua voglia. Non era molto grande, ma la sua era sempre una faccia con una voglia. Forse avrebbe potuto anche farsi dare il numero di Elena, pensò. Erano stati insieme per più di tre anni. Forse ci sarebbe rimasta male, le sarebbe dispiaciuto non sapere la notizia direttamente da lui. E invece non era il caso di chiamarla a casa, a casa sua e del suo nuovo ragazzo. Uno che non era lui e con il quale scopava, pensò mordendosi l’interno della guancia come se volesse farla sanguinare. Forse a Elena non avrebbe dato fastidio la sua telefonata, lei non era così. Almeno così ricordava, perchè a volte si commettono degli errori nel ricordare. Bevve il caffé senza aggiungere lo zucchero, poi si portò la sciarpa sulla bocca (gli nascondeva un poco la voglia) e stette con la mano lì per qualche secondo, a pensare. Pagò con una banconota da cinquemila lire, aspettò il resto e andò via. In strada il freddo gli gelò le guance, il naso, e la mano che portava la borsa del lavoro. Camminava a testa bassa, verso la stazione della Circumvesuviana, tra la gente che un po’ lo urtava e un po’ si scansava. Certi giorni ci pensava a Elena, almeno un po’. Anche se era un uomo che non ripensava mai a certe cose. Quando si sentiva solo, ricordava volentieri le domeniche in cui ascoltavano i dischi che compravano di seconda mano da certi robivecchi, seduti sul suo divano, e lei che gli si addormentava addosso. Ripensò alla prima volta che l’aveva vista, che le era piaciuta subito, e lui non aveva una sciarpa dove nascondere la voglia che gli sfigurava mezza faccia. Anche se lui era un uomo alto, con bellissimi denti, come gli diceva sempre Elena. Si erano incontrati sul treno metropolitano: lei era salita alla fermata di Cavour mentre lui era già su. Era sera tardi, e lui stava seduto nel posto in fondo al vagone. E poi salì lei con il cappotto rosso che avrebbe indossato per i due inverni

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Alessandro Baronciani, Rispecchio Š Alessandro Baronciani, per gentile concessione


successivi. Elena era una donna alta e con i capelli lunghissimi e ricci, e si mise a sedere proprio nel posto davanti al suo. Lui guardò il suo viso solo per poco, anche se aveva ancora voglia di fissarla. Poi lei gli fece: «Li sente? Non sente gli uccelli?» Lui avvicinò la faccia verso di lei, come per capire meglio la domanda, ma stette zitto. «Scusi, non sente anche lei?» Era vero, li sentiva anche lui, stavano viaggiando con degli uccelli nel vagone, pensò. Disse solo: «Sì.» «Ma dove sono?» fece lei, «io li sento, devono esserci: non li vedo, però.» Guardò anche sotto i sediolini, mentre la gente presente sembrava non dare alcun peso alla cosa. Il vagone era quasi vuoto: solo pochi la guardarono, senza dire nulla. Dio, li sento anche io questi cazzo di uccelli, pensò lui. Allora lei lo guardò, e di nuovo gli chiese, quasi ridendo: «Ma lei li sente?» «Sì» ripeté lui. Lei quasi rideva. Sembrava sorridergli divertita. «No, perchè sembra che li senta solo io» e si coprì la leggera risata con la mano. Riprese a guardarsi intorno, a guardare gli angoli del vagone, cercando di capire da dove venisse il cinguettio. Dopo la fermata di Amedeo non sentirono più nulla, e lei gli fece: «Ne sono sicura. Gli uccelli li teneva quel tizio con le borse, seduto lì davanti, lo ha visto? Stavano in quelle borse, teneva delle gabbiette lì dentro. Ne sono sicura, perchè altrimenti non so proprio da dove potesse venire quel rumore.» Sembrava imbarazzata, ma sorrideva, e disse: «Il tizio mi guardava anche male. Mi scusi, forse a lei non interessa nemmeno.» «No, no, anche io… È che sono curioso anche io adesso.» Lei lo guardò bene in viso, poi gli chiese quanto mancava alla sua fermata. «Devo scendere anche io lì, è la prossima.» Si alzò e lei fece lo stesso, lui le si mise accanto, di profilo, con il lato migliore del viso verso di lei. Le voleva dire che catturavano i cardellini e poi li rivendevano

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illegalmente al mercato, ma le disse solo: «Ecco, siamo quasi arrivati.» «Ancora non ci credo, a questa cosa degli uccelli dico.» Lui rise, poi il treno frenò bruscamente e lei si aggrappò alla manica della sua giacca per non cadere.

Raffaella Migliaccio è nata il 5 aprile del 1981. Vive a Roma ma è nata a Napoli, ed è sopravvissuta in provincia di Caserta. Ha vinto alcuni concorsi di narrativa, e pubblicato qualche racconto. Ha lavorato nel settore dell’editoria per un periodo. Attualmente inventa aneddoti divertenti e assolutamente falsi sui personaggi storici. Alessandro Baronciani è nato nel 1974 e originario del pesarese, lavora tra Pesaro e Milano come art director, illustratore e grafico pubblicitario. Ha iniziato a farsi conoscere autoproducendo albetti fotocopiati che spediva tramite posta alle persone che si abbonavano, fino a raggiungere un pubblico sempre più vasto. Un esperimento mai visto prima nel campo dell’editoria che è diventato un piccolo caso editoriale nel mondo del fumetto e un traguardo straordinario per un’esperienza di auto-produzione. Queste storie sono state poi raccolte nel volume “Una storia a fumetti” pubblicato nel 2006 da Black Velvet Editrice e sempre per la stessa casa editrice pubblica il romanzo a fumetti “Quando tutto diventò blu”. Nel 2013 esce per la Bao Publishing “Raccolta 1992-2012”. Ha lavorato per molte agenzie pubblicitarie ed è stato regista di spot a cartoni animati per diverse aziende. Ha pubblicato illustrazioni in numerose riviste e lavora come grafico per le case discografiche come Universal, mezcal e La Tempesta firmando le copertine di gruppi e cantautori come Bugo, Perturbazione, Tre Allegri Ragazzi Morti. Ha una rubrica a fumetti sulla storia della musica su “Rumore magazine”.

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03 IL GIORNO IN CUI

Sono abituato ad avere vicine le persone a cui tengo, nei momenti importanti. E la mia prima morte era un momento importante

Enrico Cantino

Lo ricordo come fosse domani. Il giorno in cui sono morto per la prima volta, pioveva. Anzi, diluviava. Un’acqua feroce e incessante si abbatteva senza requie su persone e cose, con l’arroganza di chi ritiene di potersi permettere ciò che vuole. L’ho considerata una mancanza di rispetto postuma. Da vivo, infatti, ho sempre detestato la pioggia. Ero ossessionato dalla paura di lasciare l’ombrello da qualche parte. Forse è per questo che ne ho persi tanti. Quel giorno lei non c’era. Me l’aveva giurato. Ci eravamo praticamente dati appuntamento. Senti, io mercoledì muoio. L’ho saputo pochi minuti fa. Avrei piacere fossi presente. Ci sarò senz’altro. Mi raccomando, però. Sai, è la prima volta e non sono mica abituato. Non so se riesco a morire tranquillo, senza di te. Ti ho detto che ci sarò. Allora ci conto.

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Contaci. Qualcosa deve essere andato storto. Oppure ho sbagliato i conti. Mi è dispiaciuto molto che lei non ci fosse. Sono abituato ad avere vicine le persone a cui tengo, nei momenti importanti. E la mia prima morte era un momento importante. Oltretutto non sapevo bene cosa aspettarmi. Tutti a dirmi di stare tranquillo, che non sarebbe successo assolutamente nulla di particolare. Devo ammettere che avevano ragione. Ma quando mi chiedono com’è stato, non so cosa rispondere. Non ci ho capito granché nemmeno io. Eppure c’ero. Ma sto divagando. Lei non era venuta. Non mi aveva fatto sapere nulla. Non sapevo cosa potesse esserle successo. Ero preoccupato, perché era una donna di parola. Se ti diceva che una cosa la faceva, la faceva. Punto e basta. Senza sgarrare di un decimo di millimetro. L’avevo conosciuta in circostanze fortuite. In un luogo dove non avremmo dovuto essere, né io né lei. Ci eravamo scambiati qualche parola, due o tre battute, diverse opinioni, i numeri di cellulare, la promessa di rivedersi appena possibile.E un po’ di liquidi organici. Finalmente ho saputo cosa è successo. C’è stato un equivoco. Che non è dipeso in alcun modo né da lei né da me. Noi, insomma, non c’entriamo. Me l’hanno spiegato alcune conoscenze in comune: il giorno in cui sono morto per la prima volta lei non c’era perché non poteva esserci. Stava effettivamente venendo da me. Voleva assistermi. Tenermi la mano mentre affrontavo un’esperienza della quale non sapevo nulla e che un po’ di paura me la faceva anche. Solo che la sua auto era stata letteralmente sminuzzata da un mastodontico autotreno a pochi isolati di distanza dal luogo della mia dipartita.

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Valentina Mangieri “Gelso Nero”, Color agnosia (from the Greek ἀγνωσία agnōsia, “ignorance” or “non-knowledge”), also known as “cerebral achromatopsia”, is a medical or psychological condition that prevents a person from recognizing colors even though the eyes are capable of distinguishing them. It is a specific form of agnosia and generally results from damage to the visual cortex, often in V4 (as opposed to most other kinds of color blindness, which stem from problems with the photoreceptor cells), 2010, digital collage © Valentina Mangieri, per gentile concessione


E la colpa non era sua. Al contrario. Si è trattato del solito disguido burocratico. Il Responsabile dei Decessi, di solito molto attento a queste cose, si era sbagliato. In pratica, aveva anticipato il momento della sua terza morte. Lei non lo sapeva nemmeno ciò che le sarebbe successo quel giorno. Sì, perché quando tocca a te – che sia per la prima o per la sesta volta non importa – hanno almeno la delicatezza di avvisarti. Così ti puoi preparare. Morire all’improvviso crea sempre dei casini. Perdi la memoria… non sai più chi sei… vai in confusione… e prima che tu possa riprenderti ci vuole veramente un sacco di tempo. A lei proprio questo era successo. Morte imprevista. Dovevano aiutarla a rimettere insieme i pezzi. Per questo non ne avevo più avuto notizie. Quel giorno lei non c’era. Ora so perché. Sto ancora aspettando. Hanno detto che mi avrebbero fatto sapere qualcosa in tempi brevi. Speriamo. È un po’ che sono morto. Sono curioso di vedere cosa mi capiterà, quale mai potrà essere la mia nuova condizione. Magari la incontrerò di nuovo. È raro, dicono, ma può capitare. Spero solo una cosa. Che non piova la prossima volta che muoio.

Enrico Cantino ha 48 anni, una laurea in Materie letterarie e un blog all’indirizzo abatelunare.tumblr.com. Ha pure un libro nel cassetto riguardante le tecniche narrative dei cartoni animati giapponesi, dal quale ha ricavato due brevi saggi - “Da Goldrake a Supercar Gattiger. Dal semplice al complesso: tipologie di robottoni dell’animazione giapponese” e “Da Kenshiro a Sasuke. Gli anime guerrieri e il codice d’onore degli antichi samurai” - pubblicati nell’aprile 2013 dall’Editore Mimesis. Coltiva inoltre quattro o cinque passioni. Non di più, perché preferisce concentrarsi su poche cose per volta. Valentina Mangieri, in arte “Gelso Nero”, nasce a Sassuolo il 23 Marzo 1987. Fin da piccola si appassiona al cinema e alla letteratura, che diventeranno poi ricche fonti di ispirazione per il proprio lavoro. Nel corso del 2006 inizia un percorso di ricerca visiva, e quasi per caso inizia ad utilizzare programmi di grafica fino a quel momento inesplorati. Nello stesso periodo, decide di creare un alter ego virtuale che possa rispecchiare le sfaccettature della propria personalità: nasce Gelso Nero. Nel 2008 invece, ha luogo a Roma, la prima esposizione fotografica. Nel corso degli anni successivi collabora con progetti musicali nella realizzazione di copertine per album e artwork. Attualmente si sta dedicando a nuovi progetti fotografici. gelsonero.carbonmade.com

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04 INCIDENTE SUL LAVORO

Porca merda, ti vedi da un giorno all’altro un tuo collega che dice oh aspetta ti faccio vedere quanto sono resistenti ‘sti vetri, prende la rincorsa e poi wooooooom. Capito, no? Cosa deve pensare uno?

Simone Traversa

Gentile avvocato ***; in merito alla sua richiesta di chiarimenti riguardo l’incidente avvenuto in data XX/XX/XXXX allego il presente resoconto nella speranza di fornirvi quanti più dettagli utili al fine di stabilire la reale dinamica dell’increscioso evento. TESTIMONIANZA #1 [L’uomo, alto, riccioluto, mantiene per tutta la durata dell’intervista lo stesso sguardo allampanato] Io no. Non lo conoscevo. Forse ci siamo incontrati alla macchinetta del caffè un paio di volte, però, ecco, insomma, non è che avress... abb... cioè, sì insomma, non lo conoscevo. Però mi dispiace, anche se, cioè, dico, non è per mancare di rispetto, ma a me sembra proprio una morte da coglione. Il sig. ***, durante la sua seconda pausa caffè, si ritrovava impegnato in quella che noi chiamiamo ASA: Attività di Socializzazione Aziendale; trattasi, invero, di una pratica caldamente incoraggiata, poiché aiuta a conferire all’ambiente lavorativo serenità e rilassatezza.

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TESTIMONIANZA #2 [Un trentenne elegante, ma non affettato, affetto da una leggera balbuzie] A-assunto d-due giorni f-fa, sì. Doveva fa-a-armi da guida, sì. Ma no, insomma, e-era una persona simpatica. Fo-o-rse un po’, come dire, s-sopra le righe, però ecco, i-io pensavo stesse scherzando. S-sì, ecco. Non pensavo l’avrebbe f-fatto sul s-serio. Il sig. *** era in compagnia, oltre che dei soliti colleghi con cui aveva rapporti così saldi e continuativi da poterli considerare parenti, del nuovo impiegato di cui aveva appena fatto la conoscenza. TESTIMONIANZA #3 [L’uomo, un cinquantenne brizzolato e con un’abbronzatura artificiale arancione, ha insistito vigorosamente per poter rilasciare la sua testimonianza, dichiarandosi testimone accidentale della scena] Ma io pensavo scherzasse, cazzo! Cioè [interrompe il discorso, concedendosi una pausa di riflessione, premendo su entrambi gli occhi chiusi l’indice e il pollice della mano destra, poi riprende] chi è così fuori di testa da fare una roba del genere porca merda?! Cioè [una nuova pausa accompagnata dalla precedente postura] no, aspe’, sì, sono sconvolto, cazzo. Vorrei vedere te, ‘ca troia! Perché ho tutta la scena qui davanti agli occhi quasi non ci posso credere. E anche mentre succedeva, era tutto così lento tipo [fa un gesto con la mano accompagnato da un fischio discendente]. Skatakrash. [il rumore di qualcosa che si schianta viene pronunciato con voce compassata.] Cazzo! Al sig. *** era stato richiesto, da parte del sottoscritto, proprietario dell’orgogliosa ed operosa azienda, di seguire il nuovo arrivato allo scopo di fornire a quest’ultimo quante più informazioni possibili sull’azienda e l’ufficio, essendo il sig. *** un veterano, nonché uno dei nostri migliori venditori. TESTIMONIANZA #4 [La donna piange, ed è costretta a interrompere il discorso per soffiarsi il naso o riprendere fiato.] Io − guardi non so [si asciuga col palmo della mano le lacrime]

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Lucia Conversi, Fighting cholitas I, 2013, tecnica mista su tela, 150x100 cm © Lucia Conversi, per gentile concessione

Simone Traversa è nato nel 1989 a Moncalieri, dalle parti di Torino, dove si è laureato, col percorso triennale, in Filosofia. Per la specialistica ha deciso di spostarsi settecento chilometri più a sud, a Roma. Lucia Conversi è nata a Parma nel 1980, si è laureata all’Accademia di Belle Arti di Brera nel 2004. All’attività di pittore affianca quella di illustratore per prodotti editoriali cartacei, multimediali e applicazioni per iPad. Tra le mostre e le collaborazioni più recenti: Personale “Rissa” presso la Galleria Dark Room Silmar, Carpi (2013-2014); collettiva “Xmas Square”, Parma (2013); collettiva “Galvanize” presso la Galleria Dark Room Silmar, Carpi (2013); personale “Pieghe” presso Spazio Heart, Vimercate - MI (2013); illustrazioni per l’antologia scolastica “Colori per leggere”, Mondadori Education (2012).


– non − [si soffia il naso] mi scusi, è che − [un singulto] io proprio, proprio non capisco che cosa − eh, cioè, è che mi sembra di vederlo ancora mentre − Oddio. Essendo la nostra un’azienda produttrice di vetri antisfondamento, i nostri uffici amministrativi si foggiano dell’installazione dei migliori cristalli da noi prodotti. Posso garantire che ogni cristallo, prima di essere immesso sul mercato, viene sottoposto ai controlli più ferrei e a prove di resistenza in condizioni estreme. TESTIMONIANZA #1.1 Ma guardi io non lo avr… avreb… ho… Cioè, io se mi devo ammazzare prendo una pistola. Cioè, adesso io non vor… vole… no, cioè, suicidio no, ecco. Era coglione. D’altra parte, per l’installazione dei vetri, ci avvaliamo di un’azienda esterna. Quel che mi preme sottolineare è che la nostra società si addossa ogni responsabilità nel caso di comprovata mancanza di resistenza dei cristalli ma, nel caso in cui i malfunzionamenti siano attribuibili ad installazioni difettose, la MIA azienda si sente sollevata dall’assunzione di responsabilità, demandandone l’assunzione all’azienda competente delle installazioni. TESTIMONIANZA #2.1 Ma i-io lo avevo detto p-per scherzo. C-cioè che i vetri s-sembravano vetri normali. E-era uno scherzo. Non pensavo la-a prendesse così s-sul serio. N-no, in colpa no. Poi anche fo-ossi sicuro dei vetri c-comunque non mi ci lancerei sopra a peso m-morto. E come potranno anche rilevare le vostre successive indagini, l’incidente non si deve né ad incuria, né a difetti dei vetri, sostituiti, quello stesso giorno, ai vecchi cristalli a rischio rottura. TESTIMONIANZA #3.1 Ma che cosa devo pensare, fanculo! Che ne so. Cioè [l’uomo associa istintivamente

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alla parola cioè al momento per la pausa riflessiva] porca merda, ti vedi da un giorno all’altro un tuo collega che dice oh aspetta ti faccio vedere quanto sono resistenti ‘sti vetri, prende la rincorsa e poi wooooooom [l’uomo ha un vocabolario ed un prontuario gesticolare assai ridotti]. Capito, no? Cosa deve pensare uno? Cazzo! Il concatenamento degli eventi che ha portato alla tragica fatalità, per la quale il sig. *** è precipitato dal 30˚ piano del palazzo dove gli uffici della MIA azienda risiedono, è stato il seguente: lanciatosi contro una delle nuove finestre appena installate al fine di dimostrare al neo-assunto la perfetta fattura, qualità e resistenza dei vetri prodotti dalla nostra azienda, il sig. *** si è ritrovato vittima inconsapevole della negligenza, o incompetenza, degli operai addetti all’installazione i quali, montando i cardini della finestra al contrario, hanno creato le condizioni per cui questa si aprisse verso l’esterno, e non verso l’interno come, tanto il buon senso, quanto le ultimissime normative di sicurezza sul lavoro, che la nostra azienda segue ed applica pedestremente, suggeriscono. TESTIMONIANZA #4.1 Ma poi perché? [si soffia il naso, vorrebbe strillare ma le manca il fiato] Perché proprio a me? Non capisco. Proprio la mia macchina, guardi. E adesso chi me la ripaga? Eh? Secondo lei, chi me la ripaga? La dinamica dell’incidente riportata descrive anche i motivi per cui la MIA azienda si sente sollevata da responsabilità civile e penale alcuna, rifiutandosi con ciò di pagare un risarcimento alla famiglia, alla quale, comunque, porge le sue più sentite condoglianze. In fede. XXXXXXX TESTIMONIANZA #4.2 Io so solo [si soffia il naso] che non voglio mai più parcheggiare in un posto all’aperto. Non me ne frega niente. Io la macchina non la voglio più lasciare sotto una finestra.

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05 LETYOURNOSE ENJOYITSELF

Dolcemente dondolata dall’oscillante pendolarità automobilistica della vita adulta, la magra figurina di un corpicino femminile squadrava piacevolmente lo spazio circostante in tutta la sua rotondità

Paolo Saporito

All’ennesimo riproporsi di una serie inaspettata di condizioni favorevoli e propizie, una mano furtiva percepì improvvisamente entro di sé una schifiltosa energia propulsiva mirante a spostarla verso l’alto, lungo la china che, ripidamente ma ad una distanza facilmente colmabile da un pigro sforzo, l’avrebbe portata a godere privatamente dell’attrito dinamico esercitato dall’unghia su una delle tanto agognate, invidiate e maltrattate soglie dell’appendice nasale. Si diceva delle contingenze che hanno portato al realizzarsi di questo simpatico connubio: ebbene, si dia il caso, non tanto fortuito in verità, che la suddetta mano appartenesse al tipico esemplare di uomo di razza caucasica collocato svaccatamente all’interno di un ampio abitacolo automobilistico ergonomico, ma vi assicuro, non economico, e che tale personaggio sia in attesa e con lui il suo ruggente mezzo di trasporto, ancora quiescente però grazie all’iniezione di pace temporanea attivata dal meccanismo di stop, tutto con la scusa di sparagnare energia, giustificazione che, in realtà, e nella fantasia, il potente mezzo si gode beatamente, rilassando le meningi e non pensando minimamente alle migliaia di rotazioni cui è costretto quotidianamente dalla foga con cui il proprietario già citato pigia l’almo pedale di fabbricazione tedesca, in attesa che il globo infuocato posto in cima ad un palo ferroso da rosso

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diventi verde e dia la possibilità ad entrambi di tornare all’errante preoccupazione di chi può permettersi di trascorrere un intero pomeriggio in auto senza avere una meta. Ed eccola, questa benedetta mano, mentre si accinge allo scostumato compito. Gli occhi del beato sono nascosti dietro a due Ray-Ban scuri e per niente decisi a lasciar intravedere a chicchessia l’imbarazzante espressione di impassibilità malcelata tipica di chi è solleticato dall’attivazione lenta ma prolungata delle terminazioni nervose sottilmente dispiegate a cornice del vestibolo nasale. L’arto si avvicina lentamente ma deciso e, come per assicurarsi di trovarsi nel giusto punto, tasta prima il terreno e verifica che gli anfratti olfattivi siano pronti all’esplorazione. Non ci sono ostacoli al suo lavorio, ogni piccola particella ostativa è stata rimossa da due rapide percussioni avvolgenti e fascianti, pressioni esterno-interno, letyournoseenjoyitself. L’indice si appresta a violare consenzientemente il vestibolo nasale e finalmente penetra in tutta la sua rotondità, appena scalfita dall’irregolare contorno dell’unghia, comodo e cheratinoso spuntino nei momenti di nervosismo, spasmo, suspense ossessiva compulsiva per anancasmo imminente. Ora però sono proprio i primitivi solchi a scatenare il piacere dell’escavatore, che si diverte all’imprevedibilità arcoriflessa dei cambi di direzione, degli aumenti di intensità, delle combinazioni più inedite tra rotazione, strofinamento, inserimento in profondità. Eppure, in quel punto preciso del globo terracqueo,confinato in una corsia stradale poco efficacemente delimitata da una vernice scadente, ma ben isolato dal resto del putiferio terrestre grazie alla costosa cornice del suo veicolo nero metallizzato, quest’uomo non poteva certo pensare o prevedere che proprio a quel semaforo e proprio in quei concitati istanti cittadini gli si accostasse un’altra autovettura che, il caso ha voluto, si collocò, indicatore acceso e lampeggiante, sulla corsia di preselezione per la svolta a sinistra. Dolcemente dondolata dall’oscillante pendolarità automobilistica della vita adulta, la magra figurina di un corpicino femminile squadrava piacevolmente lo spazio circostante, notando come questo mutasse di continuo mentre una forma si sostituiva ad un’altra, anche se nella cosa buia che la bambina riusciva a vedere solo

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quando chiudeva gli occhi, che si tinteggiava di rosso se rivolgeva il viso al sole, quel posticino dove poteva far arrivare le parole senza pronunciarle o sentirle, anche con il naso tappato e un piede alzato da terra, lì lei trovava altri colori e altre forme che poteva comporre e combinare come voleva: LAMPIONE BRONTOSAURO! ROTONDA ASTRONAVE! PALLONE SFERA POKÉ! ACQUASANTIERA PENSATOIO! ALBINO VAMPIRO! Ridisegnava tutto e così era proprio divertente, non come a casa. Dei diciotto computer che avevano cambiato (un giorno li aveva contati insieme al suo papà e avevano anche scoperto centosette giochi diversi), nessuno riusciva a solleticarla in quel modo. Dopo quattro o cinque livelli gli scenari si ripetevano e le immagini erano sempre le stesse, non c’era più gusto! Linda spesso si annoiava perché un’infinità di piccoli e selezionati pixel non era in grado di accontentare la ricchezza caleidoscopica di un’innocua fantasia tinteggiatrice. Ebbene, questo piccolo concentrato artistico aveva collegato covalentemente i suoi occhi al finestrino dell’utilitaria che la sua bella mamma («No Linda, i bigodini no! E quella non è Nutella, ma una crema buona buona per le labbra della mamma, ma… NO! NON SI METTE IN BOCCA!») stava incessantemente guidando da circa tutto il pomeriggio, proprio nell’istante in cui l’auto, che poi coincide con quella di prima, scelta dal caso, si era accostata al mostro di lucidità e luminosità riflessa dal Trip Nero-pece-bollente-inferno-arsenale-veneziano-ventunesimodantesco il quale, secondo il proprietario, gli era stato rifilato erroneamente al posto di un più serio e pretenzioso Nero-schermo-apple-i-phone, Trip che avrebbe barattato con qualsiasi altra cosa, magari con un Boro, e per il quale avrebbe anche affogato quel dannato baro del concessionario in un barile di vernice color Neropece-bollente-inferno-arsenale-veneziano-ventunesimo-dantesco, anche solo per il gusto di sentire a quali santi il furfante si sarebbe appellato. Facendo scorrere gli occhi lungo l’oscura silhouette metallica, Linda arrivò alla porzione di spazio trasparente del finestrino, all’interno della quale notò che c’era una persona e che la mano destra di questa persona aveva l’indice infilato nella narice destra del suo naso: le terminazioni nervose di tale appendice nasale erano all’apice della sollecitazione, quando un brivido sottile e imbarazzato fece sollevare i quattro peli del collo del nostro uomo al volante, il quale, dietro alle sue lenti

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Questo recente gruppo di acquerelli geometrici ha lo scopo di abbattere, riorganizzare e alludere a specifiche immagini iconiche della storia dell’arte e della cultura pop. Appiattendo e semplificando queste immagini, ho utilizzato un metodo angolare di elaborazione visiva per rinnovare e ricomporre un quadro familiare. Mi incuriosisce l’atto del decifrare e tradurre il linguaggio visivo, e il modo in cui leggiamo e comprendiamo le cose che vediamo. Ho scelto l’acquerello perché sono attratto da tutto ciò che è fatto a mano e dall’evanescenza della pittura stessa. Inoltre ritengo che sia interessante l’accostamento di un disegno netto a morbidi colori diluiti. Queste immagini sono come puzzle, accuratamente smontati e poi di nuovo ricomposti per rivelarne il soggetto. Con il loro riferimento a opere d’arte classiche, e a scene e oggetti che possono far nascere un senso di nostalgia, penso che queste opere siano trasformazioni di immagini che appartengono ad ognuno di noi.”

Adam Lister, Mona Lisa at the Louvre, 6x6 inches, watercolor on paper © Adam Lister, per gentile concessione


oscurate, iniziò lentamente a ruotare le pupille verso sinistra, senza però spostare bruscamente la vista, per paura di causare un allarmismo eccessivo nell’inconsapevolmente percepita presenza mancina, ma soprattutto perché in quelle situazioni era fondamentale non far capire di aver capito di essere osservati, e ancora più importante, qualora si fosse fatto capire, era farlo evitando assolutamente di arrivare a contraccambiare lo sguardo di chi effettivamente stava osservando. La prima cosa che rientrò nel campo visivo del guidatore impaziente furono cinque dita (sporche e sudate) applicate a ventosa sul finestrino dell’auto che simpateticamente stava aspettando che il semaforo mutasse colore. In fondo cinque dita non presupponevano l’esistenza di un braccio e di un corpo ad esso collegato, ma se anche l’evidenza lo avesse fatto pensare, non c’era nessun teorema matematico che comportasse che quel corpo si trovasse nell’esatta posizione che avrebbe portato gli occhi di questo corpo a concentrarsi intensamente sull’atto smodatamente godurioso portato avanti dall’oggetto dell’osservazione. Nonostante l’assenza di qualsiasi tipo di necessità accademica, l’uomo scoprì che oltre alla mano, al braccio, alla spalla, ad una ciocca di capelli castani giocosamente raccolta in un elastico fucsia e ad un orecchio un po’ pallido, all’interno del finestrino c’erano esattamente due occhi, prima uno poi l’altro, rivolti verso di lui. Essi contemplavano: sebbene a scuola infilarsi le dita nel naso fosse uno dei giochi preferiti di Linda e del suo compagno di banco (Marco Pani, il figlio del panettiere, le aveva insegnato che c’erano almeno quarantaquattro modi per ripulire il setto nasale e impastare il ricavato per ottenere la sfericità perfetta ed ideale, fondamentale per la costruzione di un proiettile adatto ad ogni tipo di lancio e di preda; certo, c’era da dire che un giorno Marco si era messo a giocare anche se aveva le unghie molto lunghe e questo comportò un copioso sanguinamento della narice ludica, epistassi che lo fece restare assente, inspiegabilmente, per due giorni, e che per ben due settimane sottrasse Linda e il suo fraterno compagno di banco dal loro gioco preferito), Linda non aveva mai visto un adulto occupato in quel gesto, cosicché quell’uomo, in quell’auto, le diede all’istante l’impressione di una plasticità fuori dal comune. I muscoli palmari emergevano floridi nella contrazione necessaria a sospingere l’indice o il mignolo verso l’alto e ad arcuare il resto

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della mano, generando chiaroscuri fiamminghi, i quali a loro volta ombreggiavano parte dell’avambraccio, dove invece la luce mediata avvolgeva l’arto escludendo il flessore radiale, ponte scolpito che portava all’articolazione del gomito, alla leggera depressione del pronatore rotondo, fino alla marmorea robustezza del bicipite, replicata esclusivamente dal modo in cui il collo piegava leggermente verso sinistra, rapendo così il profilo dell’immagine per riproporla nello scorcio a tre quarti, ellenistica protuberanza sostenuta dall’epicità dello sternocleidomastoideo. Il volto era silenziosa riproduzione di questa immobilità e l’assenza nella visione dei bulbi oculari escludeva dalla raffigurazione la fisiologia umana, lasciando l’oggetto nell’empireo canone classico della statuariagreca, romana, ellenistica, ma che dico, rinascimentale. L’uomo si plastificò e diventò icona. Mossa dall’improvviso desiderio di trovarsi oltre il finestrino, al di là dell’aria che separava i due vetri, dall’altra parte della seconda membrana vitrea e più precisamente nell’abitacolo incorniciato di nero, più dettagliatamente nei contorni di quel sembiante dalle sembianze tanto vicine alla perfezione, Linda non poté non contrarre a sua volta alcuni muscoli del suo esile braccino e, piegandolo, avvicinare la mano al viso, innalzare il dito indice ed infilarlo nella narice destra, trattenendo il respiro, intimidita dalla figurina al cui cospetto si era appena accorta di essere. Eccoli lì i due ovetti bianchi dal tuorlo verde acqua, tondi ed esterrefatti occhielli della boccuccia spalancata e allibita. Quella dannata ragazzina continuava a fissare l’uomo, la cui intimità non poteva essere messa in discussione grazie alle lenti scure che lo dividevano dal mondo. Il suo dito innanzitutto si fermò, cosicché a gratificarlo degli sforzi impiegati rimase soltanto il riverbero delle sensazioni scatenate dal digitale moto caterpillarico. Poi il contatto venne meno. Era il giorno della Befana di tanti anni prima: le lampade di un vecchio appartamento ne ritagliavano il calore dal cartone blu scuro che la signora Sera aveva appiccicato a tutte le finestre. Seduto in un angolo, un piccolo infante osservava il canto opposto, dove l’albero di Natale stava ancora trasformando la parete in un capolavoro di action painting, grazie alla costellazione di luci di cui era disseminato. La mamma, appesantita dall’ennesimo pranzo alla

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mensa parentale (la nuova formula “allyou can feastbutonlyeating” che avevano sperimentano quell’anno era stata un successone di indigestioni), stava aprendo uno scatolone su cui si erano accumulati almeno otto strati di scotch. Poi fu un attimo: la mamma allungò il braccio destro verso un insieme di fili di plastica ingarbugliati e decise che uno poteva essere liberato. Le stelle che decoravano gli aghi di pino plastificati si spensero tutte insieme. Il bambino vide il cantuccio oscurarsi e l’albero diventare un semplice arbusto prodotto in serie: gli schizzi di luce erano stati riassorbiti dalla macchia triangolare verde scuro che adesso dominava silenziosa ed inattiva la stanza, la magia artistica per cui la parete si era tramutata in gesto inimitabile terminò con un nulla, che poi era un tutto, ma dal sapore banale ed estremamente ordinario. Sulle ciglia del piccolo neonato si depositò la liquida rotondità di una lacrima, che rimanendo immobile e perfetta nella sua tensione idrostatica, nacque, visse e si prosciugò sulla ciglia stessa, all’ombra dell’immobile sguardo del bambino, a significare la durata e l’intensità muta di un incalzante alone di tristezza. Fu così che ciò che Linda non riuscì mai a vedere in quell’interminabile ma irripetibile sequenza di minuti semaforici, fu lo svilupparsi di una goccia di liquido lacrimale, proprio dietro le lenti dell’ormai famigerato occhiale da sole scuro. L’uomo si accorse appena di ciò che affiorò sulla sua ciglia destra, ma il sapore dell’amarezza provata si presentò al palato e lo riportò a qualcosa che aveva completamente dimenticato.

Paolo Saporito: venticinque anni, laureato in lettere moderne, lavoratore occasionale: un’etichetta adatta a tanti giovani italiani, tra cui Paolo Saporito, scrittore fin dagli anni del liceo, amante della forma racconto e della letteratura angloamericana, aspirante professore di lettere. Paolo vive a Calolziocorte, in provincia di Lecco, dove sprofonda quotidianamente nella lettura di autori funambolici in cui il riso non è mai specchietto gratuito bensì glassa corrosiva di una realtà superficiale, illusoria. È abitudinario, pignolo, ossessionato dalla precisione linguistica ma, al tempo stesso, è colui che non rifiuterà mai un bicchiere (anche due) di buon vino (rosso, se possibile), un ricco piatto tradizionale o un curioso esperimento culinario, una serata in compagnia trascorsa a ridere di gusto. Adam Lister è nato a Fairfax in Virginia nel 1978. Si è laureato in BFA alla School of Visual Arts in Manhattan e attualmente vive e lavora a Beacon, New York, dove dirige l’Adam Lister Gallery della quale è proprietario: www.adamlistergallery.com.

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06 STORIA DI UN BASTARDO E DI ALTRI DUE

Le offro il cuore, tirandolo fuori dal mio bicchiere e asciugandolo tra le dita.

Stefano Casacca

Era un bastardo, lo era sempre stato. Quando entrò in vigore la legge a tutela della privacy, revocò il consenso all’uso del suo nome nei confronti di mezzo mondo. Tra cui l’ottico sotto casa. Fece una semplice telefonata: poteva farlo. Qualche giorno dopo l’ottico – puntuale ma poco diligente – gli spedì le novità per l’inverno: 20% di sconto! Solo fino al 31 gennaio!, così il bastardo s’infilò la giacca e volò al negozio. «Che diavolo fa? Mi sembrava di averle revocato il consenso.» Lanciò sul bancone una busta con i lembi strappati. «Ne è sicuro?» L’uomo sapeva che il suo cliente era un bastardo. «Niente giochini. Le ho vietato di spedirmi qualsiasi cartaccia con il mio nome sopra.» «Io non ho ricevuto nessuna disposizione da parte sua.» «Controlli meglio.» «Fatto.» «Riprovi.» «Fatto, le ho detto.»

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«Controlli ancora.» «La smette? Ho altro da fare. Nulla di suo pugno.» «Certo che non c’è nulla di scritto, furbone, ti ho telefonato.» «Non puoi provarlo.» «Posso eccome: ho registrato la telefonata! Sai com’è, c’è in giro brutta gente, mi cautelo.» E fece partire un’allucinante registrazione analogica con una voce che proveniva dagli inferi di un nastro arrotolato: una cassetta basf al cromo del 1989. Finita la riproduzione, partì Manuela di Iglesias. «Facciamo così:» – proseguì – «fammi occhiali nuovi e non ne parliamo più, va bene?» «Nessuno può dire a quando risale la telefonata. Magari hai chiamato ieri, giusto?» «Beh, nel corso della telefonata ho fissato un appuntamento con te. “Intende dire il 18 aprile 2012?”, ho chiesto. Tu hai confermato. La busta invece ha un annullo postale con la data del 2 novembre 2012.» «Ora ricordo: ho aspettato tutto il pomeriggio per niente!» «Che c’entro io? Ho avuto un attacco di diarrea. Posso dare un’occhiata alle montature?» Qualche giorno dopo è in giro per la città – a testa alta – con l’atteggiamento sciocco e felice di chi si sente di salutare tutti. L’imbarazzante bachelite anni Settanta ha ceduto il passo ad un nuovo, eclatante paio d’occhiali in metallo sottilissimo. Pare il solo cittadino ad avere il dono della vista, se solo si presta attenzione alla baldanza con cui guarda le cose. Le vede doppie e bellissime, e non perché è ubriaco. È ubriaco, però, quando mi racconta tutto, una sera al bar. E allora io, che ho pagato cinquecento euro compreso il trattamento antiriflesso, sono il più stupido di tutti? Che colpa ne ho se un giorno, svoltando l’angolo, il bastardo non fa caso a niente e nessuno ma solo alla sua boria e mi sbatte contro? Il crash del suo occhialetto nuovo sotto i miei pattini: uno dei ricordi a cui attingo quando sono triste. Crash! Rido. E scappo.

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Francesco Zanichelli, Dallo psicanalista, 2008, acquarello su carta, 50x35 cm Š Francesco Zanichelli, per gentile concessione


È sera e in un ristorante del centro aspetto lei. Bevo una pinta di weiss, dolce e leggera. Mezz’ora dopo, lei non è ancora arrivata. Vado in bagno, la birra ri-esce identica: stessa quantità e colore. Mi sciacquo le mani e la faccia, torno al tavolo. Due minuti dopo, eccola: sembra sempre diversa. Stasera è araba, con quegli occhi bistrati, scurissimi. Arrivano due calici di spumante dal perlage abbondante. In fondo al bicchiere, un cuore di metallo. Le strizzo l’occhio. Una mia idea. Lei addenta il vetro del bicchiere come per romperlo e guarda dritto verso di me. Deglutisco. Le offro il cuore, tirandolo fuori dal mio bicchiere e asciugandolo tra le dita. Lo spumante mi schizza nell’occhio. Lei prende il mio cuore, poi vuota il bicchiere con due sorsi e socchiude la bocca: il suo cuore è nell’incavo della lingua. Amore mio. Arriva il bastardo. Anche lui al ristorante. Gira la sedia e si accomoda tra noi due. «Paga il danno.» «Sono con una signora, imbecille!» «Signorina. Chi è lui?» «Un amico…», dice il bastardo. «Non siamo amici, amore. Lo conosceresti se lo fossimo. Ma non lo conosci. È perché non lo siamo.» «È un pazzo allora!» «Non sono pazzo.» «Non è pazzo. Peggio. È un bastardo.» È il ristorante più noto della città. Passano tutti di lì: dentisti, avvocati, fidanzati che vogliono una serata speciale, ottici. Figurarsi: ecco l’ottico. «Voglio i miei seicento euro. Non me ne frega niente del tuo nastro dei poveri, mi ha detto un amico che non vale niente, potrebbe essere chiunque a parlare.» «Grazie,» fa il bastardo. «Adesso so quanto chiedere a questo verme.» Si volta verso di me: «Seicento euro!» «Non vi darò un bel niente. Cioè, non ti darò un bel niente.» «Amore, in cosa sei implicato?» dice lei con il cuore di metallo stretto nel pugno.

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«Nulla, anima mia, in giro c’è gente schifosa, meglio starsene a casa. Anzi, andiamo? Ho dei sofficini agli spinaci nel congelatore, mi pare.» «Sono allergica agli spinaci…» «Da quanto tempo state assieme? Non sai neppure cosa mangia e cosa no,» fa l’ottico. «Le ho forse chiesto aiuto? Questa è una cena a due, non a quattro.» «Sì, però per certe cose lui ha occhio» dice il bastardo. «Cos’è, una battuta?» «Lei è innamorata perché non sa nulla di te, neppure le presenti gli amici,» fa il bastardo. «E tu non sai nulla di lei, a quanto pare. Sofficini, che tristezza…» dice l’ottico. «Amore, cosa devo sapere di te che non so?» dice lei alzandosi. «È meglio che ceniamo un’altra sera.» «Piccola, ma è il nostro anniversario… con voi bastardi consulenti di coppia faccio i conti dopo.» La seguo. Lei si mischia alla folla che riempie il salone del ristorante. Vorrei trattenerla, o forse no. Le lascio le chiavi dell’auto e la guardo uscire. «Grazie. Faccio così quando state con le vostre mogli? Che non so come facciano a sopportarvi, tra l’altro. Specie la tua, bastardo!» «Non ne verremo mai a capo. Allora giochiamoceli a poker, i seicento. Fuori i soldi» dice l’ottico. «Cosa?» «Mi sta bene.» «Cameriere, conto!» «Non mangiate nulla? La gente prenota con due mesi d’anticipo per mangiare qui!» «No grazie. C’è una sala appartata?» «Di qua.» «Chi dà carte?» «A proposito: la tua donna. Non mi ha riconosciuto. Due Capodanni fa. Festa da amici. Ah, come si dava da fare.»

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«E tu guardavi da un angolo, immagino. Dubito ti abbia anche solo degnato d’un’occhiata, bastardo.» «Due volte in una notte. Tre carte, grazie.» «Come no. Due carte per me.» «Io non la lasciavo andar via così. Sei tu il bastardo. Servito!»

Stefano Casacca è nato nel 1973 a Milano. Scrive da quando aveva dieci anni. Non ha fatto nient’altro così a lungo. Legge tutto, pubblicità comprese. Ha viaggiato in tutti i continenti meno l’Oceania: lascia qualcosa per domani. La sua casa ospita molti mappamondi e colleziona carte da gioco smarrite. Le sue pubblicazioni: contributo all’antologia “Opere d’inchiostro” (Rubbettino, 2002); il racconto della domenica “L’ospite inatteso” (“L’Informazione”, 6/7/2009, in collaborazione con “La Luna di Traverso”); il racconto “Il dio motore” (“La Luna di traverso”, n. 24, 9/2009); il racconto “Ogni città è un’invenzione del cuore” nell’antologia “Urban noise” (Gorilla Sapiens, 2012); la raccolta di racconti “Tanti modi di fuggire da una città” (Gorilla Sapiens, 2012); la raccolta di poesie “Oggi si viaggia a parole” (Nomos, 2013). Francesco Zanichelli è nato a Parma nel 1961 dove vive e lavora. Totalmente autodidatta, inizia a dipingere giovanissimo. Nelle sue opere, risulta essere centrale il corpo, gravato dalla vita, dal tempo, ma sopratutto in maniera esplicita dalla malattia. “Zanichelli indaga la carnalità, a partire dal momento in cui essa inizia a vacillare, quando ha ormai perduto quella energia debordante di certezze dell’età giovanile che ottenebra i sensi e impedisce all’uomo di percepire la precarietà di cui essa è invece costituita (Silvia Iorio)”. L’autore ha esposto le sue opere in mostre personali e collettive, ultima tra queste Arte Gallery a Parma (2014).

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07 VENERDÌ SANTO

Tra un’assicurazione e un uomo coi baffi sto sempre dalla parte dell’uomo coi baffi

Giacomo Dazzi

L’ufficio dell’assicurazione è al secondo piano. Apro la porta e quei due stanno già discutendo. L’uomo è un cliente, la ragazza un’impiegata. L’uomo è sull’uno e settanta, ottanta chili, sessantacinque anni, baffi folti, accento meridionale. La ragazza è sul punto di mettersi a urlare. L’uomo scrolla la testa. «Lei non mi vuole capire.» La ragazza ha la faccia lunga, le unghie lunghe, i capelli scuri, una brutta pelle. Si sporge vero di lui e si porta una mano a conca dietro l’orecchio. «No! È lei signor DellaVedova che non mi vuole capire! Apra le orecchie!» Me ne frego e cerco la signora Carla oltre il banco ma non la vedo. L’ho sentita per telefono nel pomeriggio. È quella che si occupa delle moto d’epoca. È quella che fa per me. La moto d’epoca ce l’ho parcheggiata di sotto. Honda CB 500 Four, color ORO. Passano venti secondi e la signora Carla entra da una porta laterale. Mi lancia un’occhiata ma mi sa che non mi riconosce. Si piega sulla sua scrivania e poi comincia a fare avanti e indietro dalla fotocopiatrice. Ogni tanto getta un occhio ai due che discutono qua di fianco. A parte lei c’è quella di schiena che scrive al computer. Ce l’ho di fronte ma non

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ricordo di averla vista l’altra volta. Ha perfino un vassoio di pasticcini posato sulla scrivania: siamo sotto Pasqua e queste donne festeggiano. Nell’angolo c’è quella con le tette grosse. Questa me la ricordo. Le spunta la cima della testa da sopra il monitor. E sono tre. La quarta è qui di fianco che litiga col signor DellaVedova. La guardo bene: brutti denti. I due continuano a sbraitare. Lui parla del 19 novembre, lei elenca dei mesi. Arriva quella con le tette grosse: è qui per me. «Ha bisogno?» Mi guarda complice e capisco che allude al DellaVedova che le tormenta. Io mi tengo addosso la mia gran faccia imperturbabile e non le guardo nemmeno le tette: sono l’uomo dalla moto d’oro e tra un’assicurazione e un uomo coi baffi sto sempre dalla parte dell’uomo coi baffi. «Devo assicurare una moto d’epoca» dico. «Allora per le moto d’epoca serve la Carla.» E questo già lo so. La signora Carla intanto è tornata alla sua scrivania. Quando si sente chiamata in causa si volta da questa parte. «Sì, le moto d’epoca toccano a me che sono d’epoca anche io.» Infatti ormai è un po’ appassita ma a suo tempo deve aver battagliato parecchio. Lo si capisce da come si ricorda ancora di muovere il culo mentre si sposta alla fotocopiatrice, dalle unghie laccate, dalle scarpe col tacco e dal nastro nero stretto intorno collo: una vecchia tigre. Una vecchia tigre che assicura moto d’epoca. La miiiiia vecchia tigre! «Un secondo e arrivo» dice. Quella con le tette torna al suo posto e nel passare dà di gomito all’urlatrice qui di fianco. Quella di spalle si volta di qua per la prima volta. Non me la ricordo proprio. Deve essere nuova. Passano un paio di minuti. Sono in attesa della signora Carla. È già intervenuta nella disputa un paio di volte. Io aspetto. Mi è venuto caldo. Mi tolgo la giacca e l’appoggio sul banco. Ho già in mano il libretto e tutto quel che serve. La signora Carla mi guarda e mi fa segno che arriva. Io invece ho il sospetto che fino a quando non riescono a sistemare il DellaVedova qui non si muove nessuno. Mi volto e

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faccio un giro lungo il corridoio. Il corridoio è corto e finisce subito. Torno al mio posto. I due continuano a urlare. Il signor DellaVedova chiede spiegazioni. La ragazza continua ad elencare i mesi. Lui mi sembra sospettoso. Lei mi sembra incompetente. «Signor DellaVedova deve aprire le orecchie!» dice «Aprire le orecchie! Mi sto innervosendo!» Mi sto innervosendo anche io se è per questo. Ogni tanto una delle altre interviene per supportare la collega. Adesso il signor DellaVedova è da solo contro queste quattro donne. Ok. Non mi resta che cercare di capire di cosa stanno discutendo. Lui ha appena riattivato un’assicurazione stipulata in marzo dell’anno scorso e sospesa il 19 novembre. Dice che gli spettano ancora quattro mesi e venti giorni. La ragazza dice che gli spettano quattro mesi e un giorno. Lui dice che gli stanno fregando diciannove giorni. Lei gli elenca dei mesi. Io mi dico che lo stanno fregando ma devo capire meglio. Sono l’uomo dalla Moto d’Oro: non posso sparare cazzate. La signora Carla mi guarda. Io sto attento. Sto attento vi dico! Memorizzo le date. Faccio due conti. Ormai ci sono dentro. Parla lui. Urla lei. Mostra i denti: brutti denti. Sbuffa: brutta pelle. La marco stretta. Mi appoggio perfino con un gomito al banco. Ormai ci sono. Conto i mesi. Conto i giorni. Gestisco i riporti. Aspetta… aspetta… Ecco l’inghippo! Ci sono. Ho capito. Merda! Ha ragione lei. Peccato. La signora Carla interviene: «Signor DellaVedova, porti gli incartamenti ad un’altra assicurazione e veda cosa le dicono se non crede a noi.» «Io voglio solo capire» dice il DellaVedova. La ragazza sbuffa. Non riesce a spiegarsi perché non ci capisce una forca neanche lei. Ha solo una data scritta su un foglio: in base a quella prova a far tornare i conti. Così elenca i mesi. Il signor DellaVedova l’attacca con una domanda a bruciapelo. Lei s’imbroglia e

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Sede CIT, 1962 © Archivio Amoretti (Parma), per gentile concessione

Giacomo Dazzi è nato a Parma nel 1971. Abita a Fontevivo da sempre. Nel 1990 si è diplomato come perito informatico. Attualmente lavora come progettista software in una azienda con sede a Corcagnano. Gli piace scrivere storie, guardare film western e polizieschi, leggere romanzi polizieschi e gangster, correre e andare in bicicletta da corsa. Suona la chitarra e canta in un gruppo di Rock’n’Roll. Archivio Amoretti è la raccolta dell’intero corpus fotografico dello “Studio Amoretti”, fondato a Parma nel 1938 da Armando Amoretti, fotografo con alle spalle un lungo praticantato presso alcuni tra i più importanti operatori della città, tra cui Luigi Vaghi per il quale realizzò gli scatti durante le barricate di Parma dell’Estate del 1922. L’attività proseguì con il figlio Mario che, oltre a testimoniare gli eventi politici del territorio come ad esempio la visita di Mussolini in città o il comizio elettorale di Togliatti per le elezioni del 1948, inizia ad intraprendere duraturi sodalizi lavorativi con importanti realtà economiche locali. Giovanni, il più giovane dei figli di Armando, affiancò il fratello nella direzione dello Studio instaurando rapporti con enti pubblici come l’Università degli Studi di Parma per la quale curò importanti campagne fotografiche riguardanti principalmente lo studio dell’architettura e della scultura romanica.


spara una cazzata mondiale. Il signor DellaVedova strabuzza gli occhi. «Ehhh?» Lei si accorge subito della bestialità e d’istinto spara quattro mesi a raffica: da novembre a febbraio, tutti in fila, senza saltarne nemmeno uno. Il DellaVedova sospira. La signora Carla si alza e si avvicina al banco: «Signor DellaVedova porti con sé gli incartamenti e li faccia vedere a qualcuno di cui si fida. Ci sentiamo fra una settimana. È inutile continuare adesso. Ritorni dopo le feste. Adesso cerchiamo tutti di passare una buona Pasqua.» Al DellaVedova della Pasqua non gliene frega un cazzo. È convinto che gli stiano fregando diciannove giorni. Però si sbaglia. Intervengo e mi rivolgo a lui: «Scusi.» Lui mi guarda, non dice niente. Parlo io. «Sono un cliente come lei e vedo le cose dalla sua parte. Mi sembra di aver capito dov’è il malinteso e posso provare a spiegarle.» Lui acconsente. È un brav’uomo e ha dei gran baffi. Comincio. Mi interrompe. Proseguo. Le quattro gallinacce oltre al banco mi guardano in silenzio. Quella con le tette si sposta da una parte per vedere oltre il monitor: ha una seggiola con le ruote. DellaVedova comincia a capire, lo vedo bene. So cosa lo confonde perché aveva confuso anche me. Gli faccio un paio di esempi. Lui annuisce. Parlo adagio. Le quattro donne sono immobili. Le quattro donne mi fissano a bocca aperta. Sono alla fine del ragionamento. Tiro le fila. Lui annuisce. Ho finito. Ha capito. Fa segno di “sì” con la testa. La ragazza invece non ci ha capito un cazzo ma si permette di cantar vittoria. «Ohh finalmente!» Il DellaVedova le dà della maleducata. Si dimentica di dargli della scema ma io non posso suggerire. Poi se la prende con la signora Carla per un’altra faccenda. Tra quei due c’è ruggine di vecchia data. Non serve un genio per capirlo. Discutono ancora un po’ ma lui gioca fuori casa ed è costretto a mollare. Alla fine se ne va a testa bassa con i suoi incartamenti. Rimango solo con queste quattro. Io di qua dal banco, loro di là. La signora Carla mi ringrazia.

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La ragazza mi sorride. Crede che sia intervenuto in suo aiuto. Insiste. Piantala con quel sorriso del cazzo, sono intervenuto perché avevo fretta. Oca! Il sole entra dalle veneziane e accende l’ufficio: lame di luce, polvere in sospensione, quattro donne in fregola per le feste imminenti: c’è da diventare scemi. Quella nuova arriva col vassoio dei pasticcini per offrirmene. Io rifiuto. Lei insiste. Io rifiuto. Lei mi fa gli occhi dolci. Io sono inamovibile. Queste qui cercano di tirarmi dentro. Ma loro sono assicuratrici e scommettono sulle persone. Io sono l’uomo con la Moto d’Oro e sono nella squadra dei buoni. Non posso mangiare alla loro tavola. Devo solo assicurare la moto e poi filarmela. Arriva quella con le tette e me le fa dondolare sotto il naso. Io me ne frego. Lei si mangia un cannoncino. La signora Carla sculetta verso la fotocopiatrice. C’è ancora quella nuova col vassoio di pasticcini, è tutta smorfie e sorrisi. Mi sa che si è innamorata. Quelle nuove si innamorano con niente. La Signora Carla prova a riportare un po’ d’ordine nel pollaio. «Su su.» Quella nuova se ne torna al posto e visto che non ci sono più i pasticcini se ne va anche quella con le tette. Finalmente arriva la signora Carla: «Eccomi! Sono tutta per lei.» Io faccio per dirle della mia gran moto, una Honda CB 500 Four del 1974. Lei mi interrompe. «Ohh è stato molto gentile sa!» si appoggia coi gomiti al banco e si sporge verso di me. Ce l’ho a una spanna. Sento il suo profumo da vecchia tigre che le sale dalla camicetta. Così piegata in avanti con il culo per aria comincia a dondolarsi sui tacchi e intanto lo muove da una parte e dall’altra. Sto zitto e lei riprende: «Quello fa sempre così, deve sempre fare polemica… ma dica… mi dica pure.» Finalmente riesco a spiegarle che devo assicurare la moto. Ci siamo messi d’accordo per telefono. Lei annuisce. Le porgo il libretto di circolazione. Va e torna dalla sua postazione. Mi fa firmare un paio di fogli poi si sposta verso la fotocopiatrice. Fa schioccare i tacchi sul pavimento. Il sole entra dalle veneziane. Strisce di luce orizzontali. La primavera impazza. A queste quattro frigge il culo. Quella con le tette dice una spiritosaggine. Quella nuova si volta per vedere se mi è piaciuta.

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Quella scema non capisce la battuta. Per un attimo temo che possa ricominciare ad elencare i mesi. Nel giro di cinque minuti è tutto finto. Chiedo alla Signora Carla quanto le devo ma so già che sono 8 euro. La Signora Carla sorride perché non vedeva l’ora. «Siamo a posto così» dice «Non voglio niente. Sei stato così carino ad aiutarci con quello. Proprio carino.» Ecco com’è: 8 euro e si sente già in diritto di usare vezzeggiativi del cazzo. Ringrazio a denti stretti e rimetto i soldi nel portafoglio. Saluto e mi volto per andarmene ma queste qui non hanno ancora finito. «Arrivederci e grazie ancora.» «Grazie per l’aiuto.» «Sei stato molto gentile.» «Ci hai salvato da DellaVedova.» Risolini. Ci manca solo che si mettano ad agitare i fazzoletti bianchi. Taglio la corda e sparisco dietro la porta come un gatto. Scendo di corsa due rampe di scale. Apro il portone e sono fuori sul marciapiede. Ci tiro un gran respiro per riprendere fiato. Profumo di tiglio mischiato agli idrocarburi. Una pacchia. La moto è parcheggiata proprio qui davanti. Le cromature brillano sotto il sole. Sulla strada passano macchine, autobus e biciclette. Sull’altro marciapiede c’è un bar. Sulla porta del bar c’è il Della Vedova. Mi sta guardando con sospetto. Forse si crede che sono in combutta con quelle quattro. A me ‘sta cosa non va giù. Mi decido e attraverso la strada. Sistemerò tutto: io e il DellaVedova che ci facciamo un paio di aperitivi alla faccia delle quattro gallinacce. Mr. DellaVedova, mi permette di offrirle un Ginger? Ecco come sto andando a chiudere tutta la faccenda. Lui è sulla porta del bar. Io sono in avvicinamento. Il sole s’appoggia alla città.

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Giacomo Bevilacqua è nato nel 1983 e si diploma a 22 anni alla Scuola Internazionale di Comics e inizia a lavorare per Eura editoriale. Ha lavorato sotto sceneggiature di Lorenzo Bartoli su “Detective Dante”, “John Doe”, “Trapassati inc.” e “Easter”. Nel 2008 crea “A Panda piace”, una strip comica che diventa in breve tempo un fenomeno della rete, declinata successivamente in 8 libri, corti animati per la tv e merchandise di ogni genere e che continua tutt’oggi ad essere pubblicata settimanalmente e gratuitamente sul sito www.pandalikes.com e sul sito www.wired.it. Nel 2010 realizza una miniserie dei G.I.Joe per la IDW Publishing scritta da Andy Schmidt e l’anno dopo inizia a scrivere e a disegnare “Metamorphosis”, una miniserie in tre numeri pubblicata in tutte le edicole d’Italia alla fine del 2012. Il suo sito personale è www.keison.it Luca Giorgi (Rimini 1986) è disegnatore, illustratore, vignettista e colorista. Alcuni suoi lavori sono stati pubblicati nelle pagine di “Agenda Ridens”, “Lupo Alberto”, “Fumo di China”, “Cartoon Club”, Tunuè, “Sbam!Comics”, Edizioni Arcadia, “Il Resto del Carlino”, Vivacittà Marche, Edizioni Dentiblù, Colors&Gold Entertainement. Collabora tuttora come illustratore, storyboarder e visualizer presso agenzie e studi pubblicitari. www.lucagiorgicomics.com Blog: lucagiorgi.wordpress.com

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GIACOMO BEVILACQUA Š per gentile concessione A Panda piace la Luna di Traverso 2014


LUCA GIORGI Š per gentile concessione No parking in this planet 2014, china + photoshop

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PER UN HELLZAPOPPIN DI MENO Diciamolo subito. Il comico è il folle, il matto, il giullare, non il maestoso incedere del cavallo ma la zoppicante andatura del ciuco. Il comico è lo sguardo obliquo, le viscere, tutto il triviale, la terra, lo sterco, la torta che ti sbattono in faccia, davanti a tutti, combinando un casino con il tuo vestito nuovo, quello che avevi comprato apposta per la festa di fine anno. Il comico è disordine, e il suo potenziale rivoluzionario sta, per dirla con Adorno (che però si riferiva all’arte tutta), in quella sua possibilità di introdurre caos nell’ordine. Il comico è tutto ciò che sta in basso, la risata che parte, anzi sgorga, non dal cervello ma dalla pancia.

Ma l’America è lontana dall’altra parte della luna che li guarda e anche se ride a vederla mette quasi paura. Lucio Dalla, Anna e Marco Armando Minuz

Comico è in parte il linguaggio dell’imo dantesco, il suo inferno fatto di mescolanze linguistiche (e diavoli della gang Malebranche che con il cul facean trombetta). Anche nella più grande opera della nostra letteratura, più si sale e più ci si allontana dal comico. Poi ci si avvicina al sublime, ma questa è un’altra storia. Secondo la leggenda il riso è stato per anni demonizzato dalla Chiesa. Qualcuno particolarmente spaventato notò che l’uomo mentre rideva deformava i tratti del volto fino a ricordare quelli della scimmia. E fra una risata e l’altra, come dice mamma, alla fine qualcuno ci lascia un occhio. Dev’essere stata la

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stessa, terribile mamma che un giorno disse il gioco è bello finché è corto, terrorizzando milioni di bambini che poi diventarono politici, assessori alla cultura e aspiranti scrittori di short novel. Eppure, già nell’Antico Testamento Re Davide balla cinto da un efod di lino, cioè vestito di poco e niente. È in preda a una gioia estatica di fronte all’Arca dell’Alleanza, e con la danza vuole ringraziare il Signore. Come un Kevin Bacon ante-litteram in Footloose Davide balla fuori di testa, preoccupato solo di esprimere la sua incontenibile gioia nei confronti dell’Eterno. Non per niente, Davide era Re ed era un dritto, e soprattutto un uomo libero. Le Scritture dicono che era anche musicista, dunque me lo immagino mentre balla facendo headbanging, saltando e contorcendosi fino al punto in cui, perso ogni controllo, senza rendersene conto forse mostra ciò che un uomo non dovrebbe mai mostrare in pubblico (altro elemento comico, a cui dedicano un libro sia Moravia, Io e lui, sia Luigi Malerba, quest’ultimo dandogli il titolo emblematico de Il Protagonista). E la moglie Mikal, patrizia di nobile famiglia, lo osserva scandalizzata e lo rimprovera, accusandolo di essersi

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avvicinato troppo con il suo comportamento ai servi e alle serve, come un qualunque uomo del volgo. Naturalmente, sempre stando al secondo Libro di Samuele, Davide le risponderà per le rime e il Signore, per ribadire il concetto, renderà sterile Mikal. Ma anche questa è un’altra storia. Per appartenere alla nobile e ieratica cultura araba, anche Cristo aveva un ottimo senso dell’umorismo. C’era da farsi capire non tanto dall’élite dei Farisei, quanto da un intero popolo di soldati, pescatori, assassini, puttane, lebbrosi, ciechi, storpi, incestuosi, esattori delle tasse, dunque occorreva essere arguti e non filosofeggiare troppo. Bisognava raccontare fondamentali e intricate verità con metafore e immagini che fossero allo stesso tempo semplici e indimenticabili. Infatti, quell’enorme trave che ti entra nell’occhio non se la scorderà più nessuno, così come quel cammello che attraversa continuamente la cruna dell’ago, impunito. Il comico è tensione, tensione che poi si libera improvvisamente, deflagrando come un ordigno nucleare. L’aveva ben capito Nietzsche, che regalò al mondo gli splendidi aforismi della


Gaia Scienza, composti prima che il Nostro si mettesse a baciar cavalli. Estrema sintesi di questa straziante tensione fu Buster Keaton, il comico che non rideva mai. Buster fu anche un atleta eccezionale, un acrobata, un funambolo che, nel tentativo di rendere plastico, gommoso, insomma comico il proprio corpo ne fece di cotte e di crude, quasi riuscendo a trasformarsi in un cartoon. Un’altra leggenda narra che, durante una visita medica, il dottore gli trovò una frattura all’osso del collo che stava lì chissà da quando, procurata chissà come. Forse se la sarà fatta quella volta che si fece cascare addosso l’intera facciata di una casa a due piani, rimanendo immobile per far sì che il suo corpo passasse perfettamente attraverso la finestra (aperta) della casa in collasso. Un metro più avanti, o più indietro, e sarebbe probabilmente morto. E lasciamo stare il fatto che, verosimilmente, quella fu la prima e unica scena nella storia del cinema in cui un uomo scavalcò una finestra non buttandovisi attraverso ma tirandosi addosso l’intera casa. Fucking insane. Chiudiamo questo indecoroso Hellzapoppin narrativo vergognandoci di

non aver nemmeno scalfito quell’enorme monolite che è “il comico”. A (parziale) discolpa dichiariamo che tutto ciò che segue, in ordine sparso e senza pretese di esaudire l’argomento, è comico: Alberto Arbasino e i suoi Fratelli d’Italia (prima edizione), la Carmen di Bizet, il proverbio ebraico “quando l’uomo pensa, Dio ride”, i fratelli Marx, quasi tutte le riletture tardo novecentesche di Marx, Charlie Chaplin, Gregor Samsa, le ultime dieci righe dell’Ulysses, la trilogia tedesca di Céline, il Parlamento Italiano, Quelo, Shakespeare quando non fa il tragico, l’epistassi di Leonore Stonecipher Beadsman, Disco Stu, i rutti e le scorreggie, le bollicine della Coca Cola che frizzano sulla lingua, tutti i buoni propositi, Walter White cooking meth in underpants, le mensole, gli spazzolini elettrici, Tony Pagoda, il naso di Nixon, l’ukulele, Alan Pauls, il 115esimo sogno di Bob Dylan, il Dom Pérignon, la costola perduta del Vate, la forma a stivale dell’Italia, Salvador Dalì, il picaresco, le ali di pollo piccanti fritte, il presente numero de La Luna di Traverso, Billy Wilder in vena di fare lo spiritoso, Rabelais, Aldo Busi bacia tutti, l’Inter, gli spoiler, il tasto random

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su iTunes quando hai 22 giorni di musica, le epifanie felliniane, lo scrivere in maniche di camicia, il maglioncino a collo alto, la pizza mariemonti, Jack

Black, l’italietta, il ridopernonpiangere, il posizionamento SEO. Soprattutto fare ancora, oggi, del postmodernismo. E baci.

A pagina 65: Veronica Ruffato, Buster, 2013, tecnica mista (acquerello, gessetto, collage), 21x20 cm

Armando Minuz è nato a Pieve di Cadore nel 1975. In quell’anno Frank Zappa sciolse i Mothers of Invention e il buon Dio, nella sua infinita misericordia, decise di bilanciare il Karma negativo del mondo destinando il Nobel a Montale e facendo nascere il piccolo Armando. Per il resto non successero grandi cose. Giunto oltre i 30, vanta oggi una laurea in letteratura italiana sulla retorica e il comico nelle opere di Luigi Malerba (relatore l’immenso e funambolico Marzio Pieri), collaborazioni con alcune case editrici, alcuni amori e amicizie indimenticabili (molti dei quali consistenti in libri, cd, film). È il chitarrista del miglior gruppo della storia del rock dopo gli Who. Il miglior gruppo del mondo, davvero. Solo che il mondo non vuole proprio rendersene conto. Il suo blog letterario è pianuraproibita.wordpress.com Veronica Ruffato nasce nel 1989 a Camposampiero in provincia di Padova. Si diploma al Liceo artistico statale A. Modigliani, dal 2009 è iscritta all’Accademia di Belle Arti di Venezia, laurea triennale in pittura. Ha collaborato con la rivista “Nyc.it”, “Atlantis” e “Rivista di Venezia” a cura di Mazzanti editore.

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Fotografia d’autore - Michele Corso, Appennino Parmense, 2011 Š Michele Corso, per gentile concessione


PENSANDO AL MARE

Andrea Tinterri

A: «Ti devo proporre una cosa.» Credo sia nato così il racconto fotografico di Michele Corso. Conoscevo il suo lavoro da abbastanza tempo per avere la (quasi) certezza del risultato, cioè una storia per immagini che giocasse su improbabili accostamenti geografici, titoli che mettessero in discussione lo scatto, grandezze che spiazzassero il paesaggio. Volevo un fotografo che raccontasse qualcosa, frase dopo frase a comporre un testo, volevo un finale a sorpresa, volevo un racconto per immagini che non avesse bisogno di alcuna scrittura verbale aggiuntiva, un percorso autonomo, per dimostrare la capacità della fotografia di autoali-

mentarsi, di procacciarsi il cibo autonomamente, con le proprie mani. Non cercavo un semplice accostamento di immagini, ma un discorrere in cui anche la mancanza di una sola parola si sarebbe fatta sentire. Volevo un inizio e una fine. Volevo un intreccio. Volevo che scrivesse (con la luce). In questo momento sono le 23:28 del giorno 04/02/2014 e ho visto il lavoro che mi ha proposto Michele per la prima volta dieci minuti fa. Mi è arrivato via mail. A: «Pronto.» M: «Ciao Andrea [ecc.]» A: «Fra poco mi guardo l’impaginato.» M: «Non voglio dirti niente, voglio che

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Fotografia d’autore - Michele Corso, Levanto (SP), 2007 Š Michele Corso, per gentile concessione


Fotografia d’autore - Michele Corso, Lago di Suviana (BO), 2003 Š Michele Corso, per gentile concessione


lo guardi e poi dopo ne parliamo.» A: «Sì dai, lo guardo, ti chiamo, ne discutiamo e poi provo a buttare giù qualcosa.» In realtà ho cambiato la successione degli eventi. Ho guardato l’impaginato, sto scrivendo, domani farò la telefonata. Sto riflettendo su una cosa di cui in realtà non so nulla. Conosco solo quello che vedo: una fotografia di un bosco scattata nell’Appennino parmense, un’immagine intitolata Pensando al mare. L’incipit narrativo. Guardo quello che ho davanti e mi prefiguro un cambiamento di luogo improvviso, in realtà non sono sicuro se la mia immaginazione sia in realtà condizionata dal fatto che ho già letto l’intero racconto e ora lo sto solo rileggendo più attentamente (lentamente). Comunque il paesaggio caotico restituito dal fotogramma mi fa sospettare un possibile passaggio, uno slittamento territoriale. E naturalmente il titolo aiuta. Probabilmente il mare è poco distante, probabilmente basta scendere a valle e la Liguria ci aspetta, basta camminare. E infatti ecco Levanto, ecco la spiaggia, siamo arrivati e senza saperlo avevamo qualcuno al nostro fianco con cui ci stiamo abbracciando. Ma perché

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lo stiamo facendo? Per proteggerci da una possibile onda anomala? Di fronte a noi abbiamo il mare, solo poco mosso (c’è una barca all’orizzonte?). Stiamo aspettando un battesimo che si trasformerà in una morte per affogamento. Penso al mare come un limite, penso alla spiaggia come qualcosa d’affollato, come qualcosa che viene occupato per stanziarsi sul bordo della Terra, sull’estremo lembo praticabile. Perché lo facciamo? Perché ci sediamo sull’ultima porzione di territorio a nostra disposizione? Giro la pagina, cambio parola e trovo una possibile congiunzione logica che potrebbe aiutarmi. Un uomo seduto su una sdraio posizionata a riva (lago di Suviana). Davanti a noi probabilmente abbiamo uno specchio d’acqua, ma non lo vediamo: l’inquadratura ci prospetta solamente quello che si trova alle spalle dell’uomo seduto, un bosco che occlude l’orizzonte retrostante, una successione di alberi, la terra dall’altra parte dell’acqua. E l’uomo con la sua sdraio, solo, sull’angolo basso della fotografia, una macchia, un segno di punteggiatura, un punto fermo. Un segno che sta sul limite, una pausa necessaria al significato stesso del testo, all’accostamento di due bre-


vi frasi. Noi che baciavamo un uomo o una donna, noi seduti soli sulla sdraio siamo una pausa della vista, un qualchecosa che ci permette di percepire i limiti, di percepirli visivamente. Credo d’aver capito tutto. Per ora sono tranquillo, sono io che ho il controllo, sono io che ho il controllo della situazione, sono io il punto di contatto tra il mare e la terra, sono io ad indicare il possibile pericolo dell’acqua e sto comunque lì davanti perché lo posso fare, posso prevedere le sue mosse e in qualche modo evitare possibili danni. Volto pagina, sposto lo sguardo. Mi trovo a Venezia. Ho paura. Due parole, due fotografie accostate, la stessa inquadratura. Non posso che immedesimarmi nell’unico personaggio che rimane costante nell’immagine.

Un uomo incappucciato prima, scoperto dopo. Da chi? Da un agente di polizia impegnato a spiegarci che quello che abbiamo pensato prima era sbagliato, come se solo pensarlo potesse essere considerato un reato. Qui non c’è nessuna pausa, non siamo punti fermi, adesso siamo a Venezia e i limiti non esistono, una città costruita su palafitte che galleggia sull’acqua. Siamo persone diverse, con un cervello diverso, non siamo in riva ad un lago, nemmeno in una spiaggia in Liguria, adesso siamo sull’acqua ed immaginare d’essere il nesso logico, la pausa della vista tra un prima e un dopo, tra una certezza e un possibile pericolo è pura idiozia. Perché allora comunicarci una cosa e poi subito dopo contraddirla? Ironia della sorte?

Fotografia d’autore - Michele Corso, Venezia, 2004 © Michele Corso, per gentile concessione

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Verrò portato via: la sera sta arrivando. Giro pagina e non si vede già più nulla. Due fari di un’automobile: Arles. Qualcosa che parla di fotografia, Les rencontres d’Arles, mi tranquillizzo, forse è solo un gruppo organizzato (della gendarmeria?) che mi porta ad esplorare la campagna, mi hanno scambiato per un turista sperduto e annoiato (pericoloso?). Probabilmente sarà un incontro innocuo, senza sbalzi d’umore, forse il mio reato non era poi così grave.

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Che cosa avevo fatto? O forse non devo credere proprio a niente, forse quelle due luci sono solo un modo per dirmi che devo fidarmi della fotografia come delle storie sugli UFO o sulla transustanziazione. Se mi sarà consentito farò delle foto dal finestrino, con il mio smartphone, e farò capire a tutto il mondo come a Venezia giudicano chi crede ancora alle favole… e vissero tutti felici e contenti.


Fotografia d’autore - Michele Corso, Arles (Camargue), 2004 © Michele Corso, per gentile concessione

Michele Corso nasce a Parma nel 1974. Inizia a fotografare nel 2001 e nel 2003 consegue il diploma di fotografo presso il CFP Riccardo Bauer di Milano. Nel febbraio 2005 vince due borse di studio per una ricerca in fotografia contemporanea presso la SMFA di Boston con il progetto “The Human Landscape”, ricerca tuttora in opera. Orienta il suo lavoro prevalentemente sul paesaggio contemporaneo sia urbano che rurale; le trasformazioni territoriali e i repentini cambiamenti degli agglomerati urbani sono il cardine del suo operare. Diplomatosi sommelier, si occupa parallelamente di enogastronomia e agroalimentare; dal progetto “Metà per uno” nascono infatti gli eventi “VisualTasting” (performance multisensoriali attente alle tematiche del territorio). Ha collaborato con il Dipartimento di Fotografia del CSAC, con la Facoltà di Architettura, con la Facoltà di Agraria dell’Università di Parma e con la Scuola di Architettura e Società del Politecnico di Milano. È fotografo di Parma Urban Center e docente di linguaggio fotografico presso il Liceo classico Romagnosi e il Liceo Scientifico Ulivi di Parma. Tra le varie partecipazioni ad esposizioni e progetti si ricordano: “Il boccone amaro” al PAC di Ferrara (2010), “Alice e il cavaliere” al Castello dei Pico a Mirandola (MO) nel 2010, “Death in the Making” all’ex Oratorio di S.Quirino (PR) nel 2011, “A buon rendere” allo Spazio Gerra di Reggio Emilia (2012), “Gli oggetti necessari” alla Galleria delle colonne, Solares Fondazione delle Arti a Parma (2012). Selezionato al Premio Nocivelli 2012 per l’arte contemporanea, sezione fotografia. Vive e lavora nel quartiere Oltretorrente a Parma.


HOW I MET YOUR FRIENDS L’evoluzione della sit-com

Carlotta Fiore

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Un numero limitato di ambientazioni, risate registrate e archetipi facilmente riconoscibili sono elementi sufficienti per arrivare a un’intera generazione, diventando punto di riferimento e di contatto. Questo è senza dubbio il caso di Friends, la situation comedy targata Fox che ha segnato il decennio tra il 1994 e il 2004.

no a intricarsi e risolversi nell’arco di un unico appuntamento. I personaggi mostravano raramente una vera e propria trasformazione personale, o legata alla propria carriera (pensiamo ad alcuni tra gli esempi più celebri: Seinfeld, Cin Cin, I Robinson, Happy Days) e gli unici cambiamenti erano quelli strettamente necessari.

Una coerenza narrativa particolarmente puntale e lo sviluppo di diverse trame orizzontali, regalano a Friends una manciata di punti in più rispetto a molte sit-com precedenti, in cui l’episodio era quasi esclusivamente autoconclusivo e le situazioni tendeva-

Nelle dieci stagioni di Friends non si percepisce quella fissità, talvolta rassicurante, che era divenuta sinonimo di sit-com dai tempi delle origini radiofoniche, passando per il capostipite televisivo Lucy ed io, fino all’accenno di interesse sociale della famiglia Brady.


Il successo di Friends ha trasformato la serie in una sorta di apripista in grado di spianare la strada alle numerose evoluzioni del genere. La differenza concettuale e stilistica che separava la sit-com dagli altri generi televisivi si è ridotta negli anni, rendendo gli episodi meno indipendenti e imbastendo un fil rouge che in alcuni casi impariamo a conoscere fin dal primo episodio e talvolta diviene una vera e propria dichiarazione d’intenti, come nel caso di How I Met Your Mother (CBS, 2005-2014). HIMYM inizia nel 2030, quando il puntiglioso architetto Ted Mosby costringe i suoi due figli adolescenti a sedersi sul divano e ascoltare le vicende che lo porteranno ad incontrare, finalmente e dopo una serie di disastrose esperienze sentimentali, la loro madre. Per la prima volta la fine è nota e (almeno apparentemente) non importa più dove la storia conduca, l’attenzione si concentra unicamente sul viaggio. Gli episodi, in prevalenza indipendenti, ma dalla struttura narrativa molto più complessa, analizzano le situazioni da più punti di vista, o incastrano

senza ordine cronologico diversi piani temporali. Gli elementi ricorrenti sono spesso assenti per numerosi episodi e ricompaiono quando se ne era persa ogni memoria, strizzando l’occhio allo spettatore, ma allo stesso tempo richiedendo un’attenzione meno passiva di quella che eravamo soliti concedere. Poco importa che l’episodio finale, sbrigativo e non all’altezza, abbia creato un certo dissenso nel pubblico, poiché l’innovazione di HIMYM è innegabile ed è soprattutto mediatica: come era accaduto in modo massivo per LOST, il pubblico segue i protagonisti anche oltre lo schermo e li cerca in rete, dove esistono profili MySpace, falsi siti e addirittura opere letterarie citate nella serie e, in seguito, realmente pubblicate. HIMYM è un contenitore di citazioni, prevalentemente cinematografiche, oppure legate alla passata carriera degli interpreti (i cosiddetti inside jokes), e viene a sua volta citata come un fenomeno non trascurabile che segna una nuova era in cui la finzione televisiva, non più sufficiente, può scherzare con la realtà e uniformarsi ad essa, rompendo gli schemi e valicando i confini.

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Il successo di queste sit-com, tuttavia, è da cercare oltre le tecniche e gli espedienti. Come sempre accade, è qualcosa di più immediato e semplice, che si percepisce sullo strato più esterno dell’epidermide, qualcosa come un solletico che ci rende impossibile trattenere una risata. È la comicità che si appoggia al quotidiano, quella che aiuta a vivere meglio, quella che ci autorizza

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a ridere di un inquilino infastidito che batte sul soffitto con la scopa, di qualcuno che ci consiglia di “fare perno” mentre trasportiamo un divano per una rampa di scale, o nell’eventualità di restare intrappolati nel cubicolo di una banca. È la comicità involontaria della vita, quella che si manifesta quando non siamo troppo impegnati a cercare il lato buio di tutte le cose.


A PROPOSITO DI DAVIS MARGE, LEBOWSKI E GLI ALTRI (Ovvero il cinema dei fratelli Coen)

Concetto Scuto

Il protagonista di A serious man, Gopnik, è inquadrato con un totale dell’aula, sembra di vedere uno scarafaggio, appoggiato sulla enorme lavagna dominata dai segni dell’equazione. Possiamo dire che questa inquadratura configuri il cinema dei fratelli Coen: un mondo di regole ossessive che cova al proprio interno il caos più totale. Queste regole i Coen le hanno sempre mutuate dai generi cinematografici classici, mentre il caos viene instillato puntualmente con chiavi diverse ed inaspettate per lo spettatore: vedi l’ironia lugubre del male (Fargo), l’idiozia umana imperante (Burn after reading), il surreale crollo di ogni mito (Non è un paese per vecchi).

Il genere non ha più le fondamenta, rimane pura forma. Pensiamo anche alla loro prima pellicola: Blood simple, un noir (genere in quel periodo considerato morto) nella viva contemporaneità. I Coen sono stati precursori, insieme al Lynch di Velluto blu, del riabilitare e svuotare il genere lasciando solo le mura. Oppure ricordiamo le divagazioni narrative de Il grande Lebowski, le situazioni secondarie, il surrealismo disincantato di alcune scene/parentesi che portano in altri mondi. Beh, questo, nel cinema prima di loro non si era visto. Il loro sguardo è raffinato, intelligente e divertente. Hanno giocato con le regole dei generi cinematografici

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come i funamboli fanno con la legge di gravità, e hanno dato luce a personaggi che nel cinema precedente erano abituati a stare fermi al loro posto. Proviamo a stendere una mappa dei personaggi che hanno costellato il cinema dei Coen. Partiamo dal sorprendente Fargo (1996), per molti (e anche per il sottoscritto) il loro capolavoro. Siamo di fronte alla costruzione del personaggio femminile del decennio: Marge è una poliziotta incinta, accudita da un marito tenero e servizievole, goffa e ingenua. Il suo ingresso arriva dopo mezz’ora di film: deve vedersela con due killer in un nevoso Minnesota. In

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questo caso assistiamo al rovesciamento della logica di genere: non ci sono dark lady sensuali e misteriose, ma una futura mamma gentile con un pancione troppo pesante da scarrozzare. Un film da vedere e rivedere, con personaggi indimenticabili. Qualche anno dopo, alla fine degli anni novanta arriva il cult per eccellenza: Il grande Lebowski (1998). Una galleria di personaggi impressionanti, un film folle e geniale diventato un antidoto al vivere della nostra società. L’ex-hippie Lebowski, detto Drugo, passa le giornata tra una partita di bowling con gli amici, una fumata di marijuana e grandi quantità di White Russian, elogio della


calma e bandiera della pigrizia. Un film che sarebbe sicuramente piaciuto a Jimi Hendrix e a Frank Zappa. “Ero un fantasma. Non vedevo nessuno. E nessuno vedeva me. Ero il barbiere.” L’uomo che non c’era (2001) Il taciturno barbiere, tipico antieroe coeniano, è���������������������������� protagonista �������������������������� di una pellicola dalla sceneggiatura perfetta, che si mette di traverso tra Lo Straniero e La fiamma del peccato. Ed Crane sembra uscito dal cinema noir degli anni ’40: lì sarebbe stato una comparsa, nel mondo dei Coen invece è il protagonista della storia. Anche a costo di finire sulla sedia elettrica. In A serious man (2009) il protagonista è Larry Gopnik: un middle man, uno che nel cinema classico americano poteva diventare presidente degli Stati Uniti d’America, seguendo le regole del buon senso e del vivere civile. Ma il destino di Larry è altro. I Coen, a differenza di Capra e compagni, non credono nelle favole e Larry lo scoprirà a sue spese. Nelle loro mani la vita di Larry, onesto professore e affidabile marito, andrà nella direzione della disillusione e dell’incomprensione. Se

dovessi accostare un libro o uno scrittore al film, penserei a Kafka. Loro probabilmente del mio accostamento direbbero: che senso ha (la vita)? La solitudine e la perdita di senso si propagano anche fino all’ultimo antieroe coeniano, attraverso un solitario viaggio claustrofobico. A proposito di Davis (2013) racconta di un uomo che prova a seguire la sua stella luminosa, ma girato l’angolo della strada la stella sparisce come se non fosse mai esistita. Il film è molto vicino alla silenziosa disperazione di Emanuel Carnevali nel romanzo L’ultimo Dio, alle sue scarpe rotte, alle fredde e umide stanze d’albergo, lontano invece dal romanticismo di On the road. Davis è il personaggio definitivo sulla sconfitta. I film dei fratelli Coen spesso mi ricordano quella storia raccontata da Carlo M. Cipolla: un uomo francese inciampa salendo i gradini che lo portano alla ghigliottina, si rivolge alle guardie esclamando: «dicono che inciampare porti sfortuna». Ecco, quel gentiluomo meritava certamente che la sua testa venisse risparmiata.

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GIACOMO BEVILACQUA fumettista

Intervista a cura di Silvia Bia

Da qualche anno la sua “creatura” strappa sorrisi a chiunque si imbatta nelle sue avventure, racconto genuino di debolezze e virtù umane. È alle strisce comiche A Panda piace che Giacomo Bevilacqua deve il suo successo come autore di fumetti, ma la sua vera identità è quella di un artista a tutto tondo, che si divide tra teatro, penna e matite, spaziando tra generi che vanno al di là dell’universo umoristico.

regolarmente per diventare un fumettista e, ad un tratto, a 20 anni, quando mi sono ritrovato con i primi soldi in banca provenienti da un lavoro da fumettista, ho pensato “oh, sono un fumettista”.

Parlaci di te. Cosa volevi fare da piccolo e quando hai deciso che saresti diventato un fumettista? E soprattutto, quando hai capito che ci eri riuscito per davvero?

Nasco come disegnatore grottesco-realistico ma mai del tutto realistico. Per le mie creazioni prendo spunto dalla mia vita, da ciò che leggo, da ciò che vedo, il tutto filtrato attraverso la pellicola dell’inconscio. Fare fumetti comici non è né facile né difficile. Dipende come imposti il fumetto. Io tendo a creare comunque una storia complessa e con di-

Quando avevo 5 anni volevo fare il fumettista, a 10 anni ho deciso ufficialmente che volevo fare il fumettista, a 17-18 ho iniziato a studiare seriamente e

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Tu non nasci come autore di fumetti umoristici. È più facile o più difficile fare fumetti che fanno ridere? Da dove trovi le idee per le tue creazioni?


versi significati al loro interno, intervallati da qualche gag o da moti comici di uno o più personaggi. La mia comicità risiede più nelle situazioni che si creano piuttosto che nella battuta vera e propria. Aborro la parolaccia e il gioco di parole. Credo siano due tipi di comicità troppo facile e bassa. Cerco di evitare entrambe il più possibile. Quanto di te c’è in Panda e nei personaggi che crei? Panda ha anche un alter ego oscuro: lo hai anche tu? Di me c’è molto. Di me, dei miei amici, del mio mondo. Molti pensano che sia per egocentrismo, invece è il contrario: parlando in maniera generica e semplice di me stesso, dei miei problemi, delle mie paure, dei miei lati oscuri, riesco a parlare a tutti quelli con cui questi punti si hanno in comune. Non è essere egocentrici, al contrario, è decentrare se stessi a tal punto che ogni persona riesce a occupare il tuo posto e vedere le stesse cose che vedi tu. E ci si sente tutti meno soli, perché fa bene sapere che c’è qualcuno che sente ciò che senti anche tu. Nella vita di tutti i giorni, cos’è che fa ri-

dere o sorridere Giacomo Bevilacqua? A me fa sorridere qualsiasi cosa sia spontanea, e fa ridere qualsiasi cosa sia originale, oppure il totale nonsense, i Monty Python mi hanno sempre fatto ridere parecchio. A Panda piacciono cose, ma ci sono anche cose che non gli piacciono. A te cosa non piace? I carciofi, il caldo eccessivo, i prepotenti e gli irrispettosi. Se potessi aprire una porta, in quale luogo e secolo vorresti trovarti? Vorrei trovarmi in questo secolo, una ventina d’anni fa, fermo nel corridoio della mia scuola elementare mentre vado in bagno, osservare il pulviscolo dentro un raggio di luce che entra dall’enorme finestra e che sbatte sul muro beige pieno di disegni dei miei compagni. E ricordarmi com’era quando “devo fare pipì” era l’unico pensiero importante che avevo in testa. Dal cinema alla letteratura e ai fumetti, ci sono autori o opere a cui ti ispiri e che

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sono il tuo punto di riferimento?

tempo? Come ovviare a questo problema?

Potremmo stare qui delle ore, ma di base io assimilo tutto ciò che trovo, da Watterson a Katsuhiro Otomo, non si fanno prigionieri.

Lo è, maledizione. Non esiste un modo per ovviare, l’unica è farselo amico il più possibile. Ma anche in questo caso, non ci sono garanzie di successo.

Come si costruisce la trama in un fumetto, da dove si parte e dove si arriva?

Come vivi e come pensi il tuo modo di narrare?

Io questo ancora non lo so. Cioè, non ho una regola, nella mia testa io mi immedesimo nel personaggio di cui sto scrivendo e mi immagino che sia io a compiere le azioni, e a quel punto inizio a scrivere. Ma cerco di fare tutto il più possibile secondo logica; se c’è una cosa che non ho mai sopportato sono le cose lasciate in sospeso, le sottotrame non chiuse o roba simile, quindi cerco sempre di fare in modo che tutti i tasselli tornino al loro posto, sempre. All’inizio era molto molto difficile, perché sono una persona molto confusa, adesso col fatto che ho una serie regolare e DEVO fare questa cosa per forza, mi sto abituando. Alla fine è sempre tutto una questione di esercizio cerebrale, non c’è niente da fare.

Abito a due passi dal centro di Roma, se devo pensare molto vado in bici, oppure salgo sulla terrazza condominiale e guardo Roma dall’alto, oppure tiro per aria una palletta di gomma.

La vera nemesi del fumettista è davvero il

Cosa consigli a un giovane esordiente che vuole seguire la tua strada? Di guardare il più possibile il mondo, prendere più input possibili, leggere, studiare, guardare, ascoltare centinaia e centinaia di libri, fumetti, serie tv, film, tutto! Consiglio di passare almeno due anni immersi completamente in tutto ciò che di importante è stato creato dagli anni Sessanta ad oggi e, intanto, disegnare, disegnare, disegnare. Ma non disegnare mentre stai al telefono. Disegnare come non ci fosse un domani.


Illustrazione d’autore - Giacomo Bevilacqua, A Panda Piace - Gli Spiccioli di Saggezza © Pandalikes.com e Giacomo Bevilacqua, per gentile concessione

Giacomo Bevilacqua è nato nel 1983, si diploma a 22 anni alla Scuola Internazionale di Comics e inizia a lavorare per Eura editoriale. Ha lavorato sotto sceneggiature di Lorenzo Bartoli su “Detective Dante”, “John Doe”, “Trapassati inc.” e “Easter”. Nel 2008 crea “A Panda piace”, una strip comica che diventa in breve tempo un fenomeno della rete, declinata successivamente in 8 libri, corti animati per la tv e merchandise di ogni genere e che continua tutt’oggi ad essere pubblicata settimanalmente e gratuitamente sul sito www.pandalikes.com e sul sito www.wired.it. Nel 2010 realizza una miniserie dei G.I.Joe per la IDW Publishing scritta da Andy Schmidt e l’anno dopo inizia a scrivere e a disegnare “Metamorphosis”, una miniserie in tre numeri pubblicata in tutte le edicole d’Italia alla fine del 2012.Il suo sito personale è www.keison.it.


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CASI, Daniil Charms, 2009 «Io ero un vecchio molto saggio. Ora non sono più lo stesso, anzi, fate addirittura conto che io non ci sia.» La scrittura di Daniil Charms prende avvio da un’affermazione in apparenza innocua: la constatazione di un fatto non privo d’una sua credibilità. Subito dopo, deraglia. Imbocca una direzione che il lettore non si aspetta, ma senza clamore. L’assurdo non irrompe, semplicemente s’insinua nella sintassi. A quel punto è troppo tardi. Charms dà vita a un crescendo illogico la cui unica finalità è spiazzare chi legge. Volendo paragonare l’autore a un cuoco, potremmo dire che prepara una maionese senza curarsi che le uova non impazziscano. Ne agevola, anzi, la follia. Salvo alcune eccezioni, le sue storie sono brevissime ed è inevitabile che sia così, dato che la comicità è figlia della brevità. La risata richiede infatti tempi serrati. Non esplode se ci giriamo intorno o la dilazioniamo: C’era un uomo con i capelli rossi, che non aveva né occhi né orecchie. Non aveva neppure i capelli, per cui dicevano che aveva i capelli rossi tanto per dire. Come si vede, il senso dei tempi comici è notevole. Charms, in realtà, lavora per accumulazione. Come in un cartone animato della Warner Bros., in cui le gag si succedono a ritmo vertiginoso nello spazio di pochi minuti. In una manciata di frasi, contraddice tutto quello che ha scritto prima. Con la noncuranza di chi conosce alla perfezione le proprie potenzialità espressive. Non si serve di trucchi complicati, né di Grandi Effetti Speciali. Perché la comicità, oltre a essere breve, deve anche essere semplice. Altrimenti non funziona.

Enrico Cantino

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FRANK ZAPPA, 1940-1993 «Scrivo brutta musica perché l’America è brutta» Dadaista, collagista, alchimista, parodista, umorista, iconoclasta, cerniera tra mondi musicali agli antipodi, grande provocatore, ma soprattutto: un geniale artista a tutto tondo. Nato a Baltimora da padre di origini palermitane, Frank Zappa è stato compositore d’avanguardia, virtuoso, musicista jazz, autore d’operetta, prog-rock, new wave e punk ante litteram, oltre a molto altro ancora: rock, blues, fusion, avanguardia, classica, cabaret, teatro dell’assurdo. Suo il primo concept album della storia, Freak Out! (1966, Verve), che influenzerà i Beatles di Sgt. Pepper’s (album da lui poi parodiato con We’re Only in It for the Money del 1968). Dalle fonti più disparate considerato un autentico genio, Zappa ha realizzato in circa trent’anni oltre sessanta produzioni eterogenee, sempre intrise di un forte senso dello humour, schierate contro l’ordine costituito, l’industria della musica e i politici. La sua vis ironica, polemica e sarcastica lo ha sempre portato a sbeffeggiare il perbenismo tramite sketch musicali che, attraverso l’ascolto “forzato” (convogliato dal Contenitoreinvolucro musicale, dato dalla fusione di stereotipi della musica) del Contenuto (fatto perlopiù di testi satirico-surreali, mediante brevi declamazioni di carattere comico e spesso grottesco) hanno attaccato frontalmente i tanti, troppi cliché della musica commerciale e della società. Contro il falso perbenismo, così come avverso alla controcultura tout-court, ma anche contro l’omologazione, la mercificazione, il conformismo, la massificazione, la civiltà consumistacapitalista-imperialista-razzista dell’“AmeriKa”. L’ironia sferzante e lo humour al vetriolo, nel tempo sfociati in gigioneggiante goliardia demenziale e divertissement, non nascondono però il dolore per la realtà, per la tragica decadenza in cui la società sprofonda senza requie, al punto da fargli annunciare di volersi seriamente candidare alla presidenza degli Stati Uniti d’America. La domanda, in fondo, è retorica: «Potrei mai fare peggio di Ronald Reagan?».

Andrea Rabaglia

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NUOVO CONCORSO PER NARRATORI, FOTOGRAFI, ILLUSTRATORI E FUMETTISTI La rivista letteraria semestrale “La Luna di Traverso” e l’Associazione Culturale A.p.s. “Lunatici”, condivisa e supportata dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Parma, bandisce per l’edizione n°36: TEMA DEL CONCORSO Il nuovo tema dell’edizione n°36 de “La Luna di Traverso” è Fuoricampo. Sport è gara, gioco, competizione, sudore, sfida, successo e fatica. Ma sport è anche grande, ispirata, memorabile letteratura. Raccontateci lo sport nella sua accezione più epica, o quotidiana attraverso gli uomini e i momenti, le coincidenze e l’eleganza, le sconfitte e la volontà. Art. 1 – REQUISITI PER LA PARTECIPAZIONE Il bando è rivolto ad autori operanti nei settori della Narrativa, della Fotografia, dell’Illustrazione e del Fumetto. Si richiede materiale inedito, in lingua italiana, che non sia stato premiato in altri concorsi o già pubblicato, anche parzialmente, oppure presente in Internet. La partecipazione al bando è totalmente gratuita. Art. 2 – MODALITÀ DI PARTECIPAZIONE e INVIO DEI MATERIALI Opere narrative: si ammettono da 1 a 3 racconti originali ed inediti per una lunghezza massima di 6000 battute, spazi inclusi (formati ammessi: .pdf, .doc e .rtf). Fotografie: si ammettono da 1 a 5 fotografie, originali e inedite, in bianco e nero o a colori, formato massimo 22x22 cm. È preferibile scansionare ed inviare il materiale via mail o tramite posta su cd rom, con risoluzione minima 300 dpi (formati ammessi: .jpg e .tiff). Illustrazioni: si ammettono da 1 a 5 tavole, originali e inedite, in bianco e nero o a colori, formato massimo 22x22 cm. È preferibile scansionare ed inviare il materiale via mail o tramite posta su cd rom,con risoluzione minima 300 dpi (formati ammessi: .jpg, .pdf e .tiff). Fumetti: si ammettono un massimo di 2 tavole in bianco e nero o a colori, in cui sviluppare un racconto e realizzarlo con tecnica a libera scelta, formato massimo 22x22 cm. È preferibile scansionare ed inviare il materiale via mail o tramite posta su cd rom, con risoluzione minima 300 dpi (formati ammessi: .jpg, .pdf e .tiff). Per una maggiore valorizzazione, fruizione e aderenza agli intenti artistici e comunicativi di ogni fotografo o illustratore o fumettista si richiede, ove lo stesso autore lo ritenga utile e necessario, di indicare il titolo della propria opera, le dimensioni e la tecnica utilizzata. Questi dati verranno indicati come didascalia di accompagnamento alle fotografie o illustrazioni che verranno scelte per la pubblicazione. Le opere di tutti i partecipanti (Narrativa, Fotografia, Illustrazione, Fumetto) dovranno essere obbligatoriamente accompagnate da: una breve biografia dell’autore (massimo 800 battute, per evitarne tagli arbitrari) corredata dai dati personali (nome, cognome, indirizzo, recapiti telefonici, indirizzo e-mail). Eventuali attestati di partecipazione al concorso saranno assegnati agli artisti che ne faranno richiesta solo qualora i loro lavori vengano selezionati. I materiali dovranno essere inviati via mail a: lalunaditraverso@gmail.com Chi volesse, può comunque inviare le proprie opere per posta ordinaria (farà fede il timbro postale), facendole pervenire al seguente indirizzo: ASSOCIAZIONE CULTURALE APS LUNATICI, via Volturno n°13, 43125, Parma (PR). Art. 3 – TRATTAMENTO DEI DATI PERSONALI e RESPONSABILITÀ In relazione alla previsione che il materiale possa essere pubblicato e utilizzato dalla redazione sul sito della rivista www.lalunaditraverso.com o per letture e reading, in esecuzione del Decreto Legislativo n. 196 del 30 giugno 2003 (Codice in materia di protezione dei dati personali), il partecipante fornisce il permesso e il proprio consenso al trattamento dei propri dati personali. Ogni autore partecipante sarà responsabile per i contenuti della propria opera. Inoltre i candidati si faranno garanti che l’opera presentata è originale, che non è mai stata premiata né presentata in altri concorsi, né mai pubblicata, nemmeno parzialmente, né immessa nella rete Internet. Art. 4 - CRITERI DI SELEZIONE e PREMIO Per la valutazione delle opere si terrà conto della qualità, dei percorsi di ricerca formale e dell’originalità dei testi e delle immagini. Il premio del concorso consiste nella pubblicazione dell’opera sul sito www.lalunaditraverso.com e sulla rivista “La Luna di Traverso”, in formato cartaceo e digitale. Solo i vincitori saranno contattati dalla redazione e riceveranno al proprio domicilio due copie omaggio. Non si accettano racconti e materiali già editi o che hanno partecipato a bandi precedenti. Le decisioni della Commissione redazionale saranno inappellabili. Partecipando all’eventuale selezione, si concede il diritto, a titolo gratuito, di prima edizione delle opere inviate e al loro utilizzo sul sito della rivista www.lalunaditraverso.com, per letture e reading, senza avere nulla a pretendere come Diritto d’Autore. Art. 5 – SCADENZA Le opere devono essere consegnate entro e non oltre le ore 12.00 del 14 luglio 2014 INFORMAZIONI Per ulteriori informazioni, rivolgersi ai seguenti indirizzi di posta elettronica: lalunaditraverso@gmail.com – info@associazionelunatici.it – redazione@lalunaditraverso.it www.lalunaditraverso.it | www.associazionelunatici.it

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REDAZIONE Silvia Bia è nata a Parma il 29 febbraio e per questo le piace credere che non invecchierà mai. Giornalista professionista, è sempre in cerca di novità e progetti in cui lanciarsi, a volte anche follemente. Lunatica di nome e di fatto, ama viaggiare, scrivere e adora il Giappone e i manga. Non sa ancora cosa farà da grande. silvia.bia@associazionelunatici.it Enrico Cantino ha 48 anni, una laurea in Materie letterarie e un blog all’indirizzo abatelunare.tumblr.com. Ha pure un libro nel cassetto riguardante le tecniche narrative dei cartoni animati giapponesi, dal quale ha ricavato due brevi saggi - “Da Goldrake a Supercar Gattiger. Dal semplice al complesso: tipologie di robottoni dell’animazione giapponese” e “Da Kenshiro a Sasuke. Gli anime guerrieri e il codice d’onore degli antichi samurai” - pubblicati nell’aprile 2013 dall’Editore Mimesis. Coltiva inoltre quattro o cinque passioni. Non di più, perché preferisce concentrarsi su poche cose per volta.

enrico.cantino@associazionelunatici.it

Massimo Carta è nato e vive a Parma. In una vita precedente ha scritto alcune raccolte di racconti, collaborato con quotidiani e riviste locali, letto molto di ciò che poteva trovarsi in forma scritta e ha fondato nel 2001 assieme a pochi coraggiosi, La Luna di Traverso. massimo.carta@associazionelunatici.it Carlotta Fiore è nata nell’agosto del 1983. È da sempre innamorata dell’America, specialmente dopo averla incontrata. Combattuta tra l’amore per la scrittura e la passione per la recitazione ha deciso di diventare critica cinematografica. Se si rivelasse la scelta sbagliata ricorrerebbe al piano B: trasformarsi in una cantante country. carlotta.fiore@associazionelunatici.it Federica Pasqualettii, la Vicedirettrice, è nata nel giorno più lungo dell’estate e per questo ha un pessimo carattere. Ha fatto un po’ di cose: l’archeologa, la libraia, la scrittrice. Si occupa di enogastronomia e cucina ma non fa tutorial online. Sopra ogni cosa: B. Vian, A. Jodorowsky, E. Lee Masters, E. Carnevali, W. Shakespeare, H. Selby J., C. Pavese, R. Arenas, R. Carver, L. Ferlinghetti, J. Fante. Nel cuore: F. Kalho, C. Claudel e i Joy Division. Se fosse nata maschio avrebbe fatto il pugile. O il pirata. federica.pasqualetti@associazionelunatici.it Andrea Rabaglia è nato una settimana esatta prima che Paul Simonon distruggesse il suo Fender Precision sul palco del Palladium di New York, immagine immortalata sulla celebre copertina di “London Calling”. Laureato in Lettere Moderne, vive e lavora a Parma, ma appena può cerca conforto tra le cime dei monti. andrea.rabaglia@associazionelunatici.it Concetto Scuto a 14 anni compra la sua prima telecamera, a 16 anni s’innamora del cinema francese e della letteratura americana. Con il tempo diventa filmaker. Prende una laurea al D.A.M.S. di Bologna in Storia del Cinema. Dal 2011 fa parte della scuola di sceneggiatura di Carlo Lucarelli “Bottega delle Finzioni”. Ha collaborato con la fondazione “Federico Fellini” sullo sviluppo di alcuni suoi soggetti inediti. Lavora come libraio. concetto.scuto@lalunaditraverso.com Andrea Tinterri è critico e curatore indipendente e si occupa di fotografia riflettendo sulle possibili contaminazioni con altri tipi di scrittura. È tra i membri del “T0 Studio”, ufficio di competenze pluridisciplinari che combina progettazione urbana a ricerca teorica, scrittura, fotografia, economia. andrea.tinterri@associazionelunatici.it


2013 - Anno 12 - n° 34 - MUP Editore - € 5,00

Registro Tribunale di Parma n°14 del 5/9/2005 Finito di stampare nel mese di dicembre 2013 da Pressup - Roma.


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