Giordano Giacomini - Senza l'urgenza del presente

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NARRATIVA//:2018


SENZA L’URGENZA DEL PRESENTE di Giordano Giacomini © Edizione a cura di Ass. Culturale presentARTsì - Bottega di prodotti culturali associazionepresentartsì@gmail.com Tel. 0376 636839 - Fax 0376 1818203 Cercaci su FACEBOOK - presentARTsì Copertina - Progetto grafico XXXXXi © Stampa Atena - Vicenza Castiglione delle Stiviere (MN) - 2018 Tutti i diritti sono riservati, è vietata la riproduzione del testo, o parti di esso, senza l’autorizzazione dell’autore e dei curatori.


GIORDANO GIACOMINI

SENZA L’URGENZA DEL PRESENTE

NARRATIVA



Nascere prima, nascere dopo è pura casualità, non c’è bravura. Ma se vogliamo che, per noi, a passare sia solo il tempo, l’unica possibilità che abbiamo è lasciare qualcosa di buono.


PARTE PRIMA

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Ventotto giugno. Caldo, afa. Fine delle scuole. Esami di maturità. Francesco era vestito di tutto punto, con giacca e cravatta. Aveva finito gli scritti, doveva affrontare gli orali e aveva paura. Le gambe gli tremavano un po’. «Che cosa hai?» gli chiese l’insegnante di matematica. «Non avrai fifa per caso? Tu? Ma non farmi ridere. Con l’anno scolastico che hai alle spalle?» Lo incoraggiò: «Ancora un piccolo sforzo e tra poco sarà tutto finito.» Lo chiamarono. Entrò nell’aula, sistemata ad hoc per sostenere gli esami orali. Avevano disposto alcune scrivanie a ferro di cavallo per i membri della commissione e, al centro, un banco con una sedia per il candidato. In fondo, nello spazio libero, avevano piazzato altri banchi e altre sedie per chi desiderasse assistere agli esami. Francesco entrò e si sedette. Dietro di lui presero posto molti suoi compagni. Era uno dei migliori della classe e il suo orale era considerato interessante. Lui notò l’affluenza e la gradì. Il Presidente lo osservò un attimo. Colse la sua ansia, ma non disse niente. Poi attaccò: «Dunque...» Com’è strano il mondo! Nonostante la situazione, la tensione e la concentrazione, la prima cosa che venne in mente a Francesco furono le parole della sua insegnante di italiano che lo aveva ripreso proprio per lo stesso motivo. «Una frase non si deve mai aprire con “dunque”. “Dunque” è una congiunzione conclusiva e va in fondo al periodo. La conclusione è sempre in fondo, no?» Le aveva risposto: «La sua logica non fa una grinza, professoressa... ma, vede, ho cominciato con “dunque” perché inizio a parlare dopo avere concluso nel silenzio della mia testa una serie di ragionamenti. Quindi il “dunque” è il compimento di qualcosa che lei non ha potuto udire. I pensieri non fanno rumore, almeno i miei. D’altra parte, ce lo ha spiegato lei, anche il Foscolo fa la stessa cosa con quel “Forse” nel sonetto “Alla sera”...» 7


Aveva usato i suoi argomenti proprio contro di lei e l’aveva spuntata. Per la prima volta. La professoressa aveva scosso il capo e non aveva ribattuto, ma quello scambio di frasi gli era rimasto impresso e adesso era venuto fuori spontaneamente, quasi a confermare che anche gli insegnanti di italiano, com’era il caso del Presidente, alla fine parlavano il linguaggio che parlavano e trascuravano quelle regole che tanto declamavano e che si affannavano ad inculcare nella zucca degli studenti. «Volevo informarla di come sono andate le sue prove scritte... Italiano. Ha preso otto. Il tema ci è sembrato ben costruito, la critica finissima, le conclusioni originali. Questo è il parere dell’intera commissione.» Senza lasciargli il tempo di commentare, prese un altro foglio e continuò: «Anche in matematica ha preso otto. Ha svolto correttamente lo studio di funzione e ha risolto bene il problema di geometria. Apprezzabile e molto elegante l’uso del teorema di Talete. Un po’ meno bene col calcolo degli integrali. Qui vede...» e indicò il foglio col dito «si è un po’ confuso... sarebbe bastata una semplice integrazione per parti... Comunque, niente da dire. Finora il suo esame non poteva andare meglio di così. Le facciamo le nostre congratulazioni.» «Grazie.» «È solo merito suo. Non deve ringraziare nessuno. Bene, passiamo all’interrogazione, il motivo per cui siamo qui. Vuole iniziare lei professor Camari, con latino?» Quell’anno, allo scientifico, il Ministero dell’Istruzione aveva optato per il latino tra le materie orali, suscitando uno stupore quasi generale e tanta costernazione tra i maturandi. Il professor Camari si rivolse a Francesco. «Quest’anno voi avete studiato Le Metamorfosi di Ovidio, vero?» «Sì.» «Vuole parlarmene?» «Le Metamorfosi è il titolo di un poema epico di Publio Ovidio Nasone, terminato nell’anno otto dopo Cristo. Grazie a quest’opera siamo venuti a conoscenza di molte storie e racconti mitologici greci e romani. Infatti, ne raccoglie più di duecento cinquanta. Copre un periodo che va dal caos primordiale, dal quale hanno avuto origine gli dei, alla morte e divinizzazione di Giulio Cesare. Nei primi libri...» Il professor Camari lo interruppe. «Va bene, grazie. Mi parli del libro che avete tradotto, il quattordicesimo.» 8


«I libri decimo e undicesimo narrano la guerra di Troia e a loro sono collegati anche il tredicesimo e il quattordicesimo che hanno come protagonista Enea, l’eroe troiano che scappa dalla città distrutta, col padre Anchise sulle spalle e approda nel Lazio. Nel libro quattordicesimo sono descritte le vicende di Enea che, dopo aver abbandonato Didone, arriva a Cuma e incontra la Sibilla. Con il suo aiuto, entra negli Inferi, dove vede il padre, alcuni suoi compagni e altre persone...» «Basta così grazie. Vedo che è preparato. Prenda il testo e traduca... da Ego, verso cento trentasei.» Francesco lesse: «Ego pulveris hausti ostendens cumulum, quot haberet corpora pulvis, tot mihi natales contingere vana rogavi; excidit, ut peterem iuvenes quoque protinus annos.» Poi costruì e tradusse: «Ego, ostendens cumulum pulveris fausti... io, mostrando un mucchio di polvere raccolta vana rogavi... da stupida chiesi quot corpora haberet pulvis... quanti granelli avesse la polvere tot natales mihi contingere... tanti anni da vivere mi fossero concessi, letteralmente toccassero excidit... sfuggì a me... cioè mi scordai ut peterem quoque... di domandare anche annos protinus iuvenes... anni per sempre giovani.» «Un’altra frase. Da Tempus erit, verso cento quarantasette.» «Tempus erit, cum de tanto me corpore parvam longa dies faciet, consumptaque membra senecta nec placuisse deo, Phoebus quoque forsitan ipse vel non cognoscet, vel dilexisse negabit: usque adeo mutata ferar nullique videnda, voce tamen noscar; vocem mihi fata relinquent. Tempus erit... Verrà il tempo, 9


cum longa dies... in cui la lunga esistenza...» «Perché longa dies?» «Perché dies al singolare è anche femminile.» «Vada avanti.» «faciet me parvam... renderà me piccola de tanto corpore... da tanto corpo... da grande che era il mio corpo senecta membra consumptaque... e consumate le vecchie membra nec placuisse deo... e non piacerò al dio quoque ipse Phoebus forsitan... perfino lo stesso Apollo forse vel non cognoscet... non mi riconoscerà vel negabit dilexisse... o negherà di avermi amato usque adeo... da tanto che ferar mutata... sarò diventata diversa nullique videnda... e a nessuno sarò visibile... e nessuno mi vedrà tamen noscar voce... tuttavia sarò riconosciuta dalla voce vocem fata mihi relinquent... la voce che il fato mi lascerà... letteralmente i fati.» Francesco alzò gli occhi verso l’esaminatore, in attesa di altre domande. Il professor Camari indugiò un istante: «Io ho terminato. Presidente...» Il Presidente stava per passare la parola a un altro membro quando notò che il ragazzo era assorto, come incantato, a fissare il nulla. Lo chiamò: «Signor Foroni...» Nessun segnale di ripresa. Lo sguardo sempre vuoto, assente. Di nuovo: «Signor Foroni... Francesco...» Si riscosse. «Oh. Mi scusi professore, ero soprappensiero. Mi era venuta in mente una cosa... mi dica.» L’interrogazione proseguì. Fu la volta delle altre materie. Se la cavò egregiamente, rispondendo in maniera corretta ed esauriente. Quando uscì, i suoi compagni lo seguirono e si complimentarono con lui. Li salutò tutti, a uno ad uno. Baciò le ragazze. Promisero di telefonarsi e di tenersi in contatto. In realtà, tutti erano consapevoli che quelli erano gli ultimi minuti, che quei gesti rappresentavano la fine di un ciclo e che difficilmente, a parte qualche eccezione, si sarebbero rivisti. Non ci sarebbero più stati compiti in classe, assemblee, dibattiti, 10


simpatie, confronti, partite di pallavolo in palestra, gite: quegli episodi di aggregazione che li avevano uniti erano persi per sempre. D’ora in poi ognuno avrebbe imboccato la propria strada, ognuno avrebbe trovato la propria posizione nel mondo. Era arrivato il tempo in cui ciascuno doveva camminare da solo. Le ultime strette di mano, gli ultimi abbracci e si avviò lungo il corridoio per raggiungere le scale. Svoltò nel salone centrale su cui si affacciavano tutte le aule dell’istituto. La seconda dal fondo era la sua, l’aula che lo aveva ricevuto e accompagnato negli ultimi anni. Premette la maniglia e aprì la porta. Si fermò sulla soglia. I banchi ordinati, la cattedra con la carta geografica dell’Europa appesa alla parete, la lavagna. Il cancellino era caduto. Fece tre passi, lo raccolse e lo rimise sul suo supporto. Ricordi, emozioni, pensieri. Richiuse il battente e si diresse verso le scale. Sul pianerottolo una ragazza, Laura, sembrava aspettasse proprio lui. Rimase sorpreso. «Ciao Laura. Anche tu qui?» Laura era una sua compagna, frequentava la stessa scuola, ma era indietro di due anni. Stessi insegnanti, stesse materie, stesse difficoltà. Alta, snella, una cascata di capelli neri, gli occhi grandi e luminosi, un sorriso bianchissimo. Indossava un paio di jeans e una maglietta azzurra. Ben fatta. Le forme giuste. Un trucco leggerissimo, quasi a mettere in risalto la sua semplicità di ragazza pulita. «Sono venuta ad assistere alla tua interrogazione. Sei stato bravo, davvero.» «Non ti ho visto, prima.» «Quando sono entrata, eri già sotto, ero in fondo. Non potevi vedermi, eri voltato di spalle. Sono uscita poco prima che finissi e ti ho aspettato qui. Avevo paura usassi l’altro ingresso, poi ho pensato che saresti passato a dare un’occhiata alla tua aula prima di andare via. Ho avuto ragione...» Era una mezza confessione, fatta nella maniera spontanea che la caratterizzava. Aveva indirettamente ammesso di provare interesse per lui, consapevole che nel dichiarare di volere bene a qualcuno non c’era niente di sbagliato e non c’erano neppure cose di cui vergognarsi. Francesco lo sapeva e sapeva anche che quel sentimento era ricambiato da parte sua. Niente di ufficiale, qualcosa che stava per nascere. Quelle parole gli fecero piacere. Allungò la mano e le accarezzò i capelli: «Grazie sei stata molto carina a venire.» Scesero insieme. La via era inondata di sole e la forte luce li abbagliò. Era 11


mattina inoltrata e faceva caldo. «Ho visto i tuoi voti, davvero una media invidiabile. Adesso ti farai tre mesi di ferie. Te li meriti tutti. Hai qualche programma?» disse Francesco. «No, penso che resterò a casa. Al massimo farò qualche giretto. Avrei voluto visitare la Grecia con le mie amiche... ma i miei non mi hanno accordato il permesso. Dicono che sono ancora troppo giovane per avventure del genere e che avrò tutto il tempo davanti.» Lui approvò annuendo e lei aggiunse: «E tu che cosa farai?» «Intanto ti accompagno a prendere un gelato. Poi alla fermata dell’autobus.» «Ma no. Intendevo dire se andrai in vacanza, se hai già un’idea dell’università, della facoltà cui iscriverti,...» «A dire la verità, no, non ho deciso ancora niente. Mio padre vorrebbe facessi Ingegneria oppure Economia e Commercio, sai per via della sua attività, ma io non sono sicuro di queste scelte, di nessuna delle due. Devo pensarci bene.» «Strano. Tu sei uno che di solito sta davanti alle situazioni. Ero convinta che l’avessi già fatto.» «È vero, hai ragione, ma mi è venuta in mente una certa idea e devo valutarla. Oh, ecco la gelateria.» Chiuse in fretta l’argomento, quasi si rifiutasse in quel momento di dire di più. Laura non insistette... glielo avrebbe detto lui spontaneamente. Quanto le sarebbe piaciuto discutere quell’idea con lui, valutare insieme i pro e i contro, consigliarlo, ascoltare le sue ragioni, dire le proprie... insomma le sarebbe piaciuto essere partecipe della sua vita. Sospirò di nascosto. «Che gusti vuoi?» «Nocciola e bacio.» Per sé ordinò stracciatella e amarena. Francesco pagò i coni e, affiancati, raggiunsero i portici. Non c’era molta gente, data l’ora. All’ombra poi la temperatura era accettabile, era gradevole passeggiare per la città. «A che ora hai l’autobus?» «A mezzogiorno, all’una. Ne passa uno a tutte le ore.» rispose lanciando un messaggio nemmeno troppo velato. Camminavano in silenzio, leccando il gelato. Lui le prese la mano. Che bella quell’intimità, quei momenti privati! Che effetto le faceva 12


quell’atmosfera distesa... un effetto quasi magico. Si sentì rapita, ancora più legata. Gli appoggiò la testa sulla spalla. «Sai che cosa mi dispiace di più di quello che sta succedendo?» «No.» «Non riesci ad immaginarlo?» Rifletté un attimo, capì tutto ma finse il contrario: voleva lo dicesse lei. «No.» «Che non ti vedrò più.» «Che cosa stai dicendo?» «Sì. Prima aspettavo l’ora di venire a scuola perché sapevo che ti avrei visto, che ti avrei parlato durante la ricreazione, che sarei stata insieme a te mentre mi accompagnavi all’autobus. Adesso però non sarà più così e non immagini quanto mi dispiaccia. A me mancano ancora due anni. E in due anni possono succedere tante cose....» Era la verità e lui ne era cosciente. «Ma cosa dici? Cosa vai a pensare? Cosa mai potrebbe capitare da stravolgerci la vita? Non credi che possa andare avanti così? Va bene, ci vedremo un po’ di meno, ma vorrà dire che quei momenti saranno più belli.» minimizzò Francesco. «Intanto, approfittiamo del fatto che siamo entrambi a casa, senza impegni particolari e che possiamo stare insieme. Non abiti poi così lontano, posso usare la macchina di mio padre, puoi prendere l’autobus...» Lo disse con convinzione e lei lo notò. L’atteggiamento rinforzò il bello della frase. Il linguaggio del corpo fu esplicito. Provò a far finta di niente, a nascondere il sorriso che le saliva alla labbra e la sensazione di appagamento che la scuoteva dentro. Sperò di riuscirci: quelle parole l’avevano fatta sentire importante, una parte di lui in un certo senso. Era quello che voleva. Quella giornata che tanto aveva desiderato e pianificato si stava rivelando all’altezza di ciò che aveva immaginato. Calò di nuovo il silenzio. Ognuno era concentrato sul proprio tumulto interiore. Stavano imparando le regole dell’amore. Continuarono a vagare per le vie, senza una meta, solo per il gusto di fare qualcosa insieme. Alla fine si diressero verso la fermata della corriera. Rimasero lì a parlare del più e del meno... di niente. Arrivò l’autobus, quello che avrebbe riportato Laura a casa. Erano le tredici e un minuto. Salì e occupò il sedile, dalla parte del finestrino. Gli fece cenno con la 13


mano mentre il mezzo ripartiva e prendeva velocità. Si voltò e vide che lui era rimasto fermo, a prolungare il contatto, in attesa che l’autobus sparisse alla sua vista. “Sì!” pensò e si appoggiò allo schienale. Francesco arrivò a casa e trovò la madre che stava lavorando in cucina. Era una cosa strana, quello era il territorio indiscusso di Alice, la governante tuttofare - da sempre presente - ormai membro della famiglia. «Allora?» gli chiese con gli occhi ridenti. «È andato tutto bene. Negli scritti ho preso bei voti e agli orali ho risposto a tutte le domande. Sono soddisfatto. Credo che se non mi daranno il massimo, ci sarò molto vicino.» «Bravo. Sono orgogliosa di te. Ad essere sincera, lo intuivo. Per questo ho detto ad Alice che avrei fatto io: ti sto preparando il tuo piatto preferito. Tra poco arriverà anche tuo padre.» Invece il padre non arrivò, telefonò all’ultimo momento per dire che aveva avuto un contrattempo e che si sarebbe fermato in ufficio. «Siamo alle solite.» Andò in camera sua, abbandonò la borsa sul pavimento contro la scrivania e si buttò sul letto in attesa che la madre lo chiamasse per il pranzo. Non erano passate tre ore da quando aveva terminato la scuola superiore, non conosceva ancora il punteggio con cui si era diplomato e già pianificava il futuro. “Dove vado? Che cosa scelgo? Mio padre preme perché faccia Ingegneria. È naturale, visto che possiede una ditta che costruisce macchine e pezzi meccanici di precisione. Oppure Economia e Commercio. Ripete sempre che i conti devono essere fatti dal proprietario e da nessun altro, anche se si tratta del collaboratore più fidato, perché è pur sempre un estraneo... Io, però...” Ripensò alla frase. Che cosa gli era accaduto? Che cosa avevano fatto scattare in lui quelle parole, così di colpo? In realtà, nulla di veramente nuovo, già da qualche tempo certe idee gli frullavano per la testa, ma mai in maniera tanto nitida, definita... una sorta di illuminazione improvvisa. «La famosa luce che si accende.» sussurrò. Tirò fuori il libro di latino, lo aprì alla pagina galeotta e rilesse il brano, fermandosi di tanto in tanto a riflettere. Cercava di capire, non di immedesimarsi con il testo, valutando gli effetti e le prospettive su di sé. 14


«Disprezzato il dono di Apollo, eccomi qui, ancora senza un uomo. Ma ormai l’età più bella mi ha voltato le spalle e a passi incerti avanza un’acida vecchiaia, che a lungo dovrò sopportare. Vedi, sette secoli son già vissuta: per eguagliare il numero dei granelli, trecento raccolti e trecento vendemmie devo ancora vedere.» La paura di sfiorire. Pensò a sua nonna, le mani rattrappite dall’artrite, a suo nonno, obbligato in carrozzella nell’ultimo periodo, a suo padre abbastanza grigio e segnato a cinquanta anni. L’unica che si manteneva bene era sua madre, ma di certo non si poteva paragonare a una ventenne... “È strano che ad avere idee simili sia un ragazzo di diciannove anni, ma se si vuole restare giovani bisogna arrestare il tempo quando si è giovani...” Il mito della giovinezza eterna da sempre auspicato, inseguito e rimpianto dall’uomo... la ricerca dell’elisir di lunga vita; Orazio... Tempus inesorabile fugit; Ovidio nelle Metamorfosi; Lorenzo de’ Medici... giovinezza giovinezza che si fugge tuttavia; Foscolo, forse il più assiduo a cantare la gioventù, uno dei suoi argomenti ricorrenti... e la danzante discende un clivo onde nessun risale... e poi Oscar Wilde con Il ritratto di Dorian Gray. Quanti autori, quanti tentativi e, soprattutto, quanti fallimenti! E anche lui adesso era lì a rincorrere quel miraggio... le prime idee, i primi piani... sarebbe mai stato possibile sconfiggere il tempo? Eppure gli sembrava una cosa fattibile, aveva l’impressione che ormai il livello delle conoscenze mediche, chimiche e biologiche fosse progredito al punto da tentare di compiere il passo... non più in senso figurato, come un sogno, ma sorretto da basi reali, concrete, scientifiche. “Ci hanno provato in tanti... perché non posso provarci anch’io?” L’idea lo affascinava. Udì prima la porta d’ingresso che si chiudeva, la voce dei due fratelli appena rientrati e quella della madre che annunciava che il pranzo era pronto. Accanto aveva la madre, di fronte stavano i gemelli, che frequentavano la sua stessa scuola ma erano di due anni più piccoli, e a capotavola il padre. Il posto era vuoto, la sedia non occupata era brutta a vedersi. Alice serviva. «Allora, Francesco raccontaci com’è andata...» lo invitò il fratello, mentre 15


la madre - voleva farlo lei - gli riempiva il piatto con una porzione gigantesca di lasagne. Francesco descrisse l’esame appena sostenuto, parlò dell’andamento degli scritti, delle domande che gli avevano fatto, delle risposte che aveva dato e dei commenti dei commissari. Era allegro e loquace. Gli altri lo ascoltavano, attenti. Era lui il protagonista. Poi aggiunse: «Brava mamma, queste lasagne sono superbe. Davvero. Ti sei superata.» La madre si estraniò un secondo e osservò i figli con orgoglio. “Che bella famiglia. Peccato che il padre non sia qui.” E poi: “Beh, peggio per lui. Sta perdendo qualcosa. Questi sono momenti unici.” «Ma allora prenderai il massimo! Complimeeeeeenti!» concluse la sorella, con voce stridula. La madre disse, con un tono tra lo scherzoso e il convinto: «Adesso basta con l’argomento “scuola”. Per un po’ è bandito da questa casa. Adesso voglio che parliate di vacanze, di riposo, di dolce far niente, di dormire fino a tardi. Sono stata chiara?» E rivolgendosi a Francesco: «Mi hai fatto morire in questi mesi di preparazione all’esame. Sei magro come un chiodo. Mangia! Hai davanti tutta l’estate per prendere le tue decisioni.» Quando si alzò da tavola, si trovò di fronte Alice che stava sparecchiando. La governante mise giù i piatti, gli prese le mani tra le sue e gli disse: «Bravo Francesco. Non ho mai avuto dubbi che ce l’avresti fatta. Prenderai il massimo, ne sono sicura perché sei il più valido di tutti.» Francesco, commosso, la abbracciò.

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2 Ma le decisioni erano già state prese, anche se ancora lo ignorava. Si era trattato di un amore a prima vista, anche se non se ne era accorto, ed era accaduto tutto in fretta, troppo. Provava un senso di incompletezza, di disagio quasi per questo, non riusciva ad individuare una base razionale, una spiegazione logica che gli facesse apparire quella decisione come la migliore possibile. Aveva bisogno di una giustificazione a supporto. Un piano, gli serviva un piano di azione. Doveva pensare. Da solo, senza nessuno che lo disturbasse, che gli rompesse il filo dei pensieri. Non nella sua stanza... perché lì era limitato, non libero, troppo immerso nell’atmosfera domestica che respirava da tanti anni, perché lì troppo forte era l’ingerenza del padre. E poi gli sembrava di avere mille idee a sovrapporsi nel cervello, ad ingolfarsi tutte insieme, incapaci di esprimersi. Ordine, doveva fare ordine, doveva dipanare la matassa e mettere concetti, azioni e ragioni una in fila all’altra in maniera inattaccabile. Optò per un giro con il motorino tra le colline. Erano lì, a poca distanza, strade basse e tortuose, paesaggi verdi, boschi, terreni coltivati, spazi ampi. Una campagna che dava serenità. In quella pace avrebbe di sicuro trovato quello che cercava. Si allacciò il casco, inforcò la moto e partì. “Per prima cosa devo sapere dove andare. In quale università? Tutte studiano l’argomento che ho in mente io? Probabilmente no. Come posso scoprire dove lo fanno? Telefonando? A chi? No, devo andare sul posto, devo parlare con i professori, indagare, rendermi conto... Domani... Stasera mi faccio un elenco e da domani inizio a visitare tutte le facoltà che potrebbero essere coinvolte... Partirò da quelle più vicine e sentirò che aria tira. Poi devo convincere mio padre. Sono sicuro che si arrabbierà da morire, contava molto su di me... beh si rifarà sui miei fratelli. Sono perfetti per essere ingegneri e contabili.” E il dubbio si ripresentò: “Soprattutto devo capire se la scelta che ho in mente è quella corretta... sono davvero portato a questo argomento o è un’infatuazione del momento? Mi apre davvero delle prospettive oppure non combinerò nulla e farò l’inutile per tutta la vita?” 17


Quella domanda ne apriva immediatamente un’altra serie, ancora più complessa. “Che cosa intendo fare nella mia vita? È evidente che la mia esistenza riceverà impulsi diversi a seconda delle decisioni che prenderò adesso. Fare il contabile è una cosa, fare l’ingegnere un’altra... Sono prospettive diverse... e questo a prescindere da quello che sceglierò... Quindi tanto vale... Ma io che cosa voglio? Entrare nel settore industriale? Ne ho la possibilità, certo, addirittura dall’ingresso principale. È indispensabile per me dimostrare il mio valore, avere successo? O mi basta un lavoro anonimo, essere una persona qualunque che si pone obiettivi ambiziosi? Per che cosa? Per chi? Aspiro alla fama? Per ciò che ho in testa, sarà molto difficile arrivare... è molto più probabile che rimanga tutto com’è nel senso che non sarò capace di cavarci nulla... Ma cavarci cosa?” Era una decisione pesante, anche perché doveva prenderla da solo. Chi poteva aiutarlo? Chi poteva sostenerlo? A nessuno era mai venuto in mente quello che era venuto in mente a lui. Tra l’altro era una cosa di altissima specializzazione e nessuno intorno a lui era in condizione non solo di comprendere ma neppure di concepire idee simili. “Laura? Ne parlo con Laura? È una ragazza sveglia e mi vuole bene. Lei capirebbe e mi appoggerebbe. Basta che stiamo insieme. Adesso sarebbe bello, ma domani di fronte alle probabili sconfitte, di fronte a una vita sicuramente non brillante quanto quella che potrei offrirle se accettassi le indicazioni di mio padre, sarà ancora disposta a seguirmi? O sarà una battaglia continua? Domani andrò a Milano... La invito... No forse è meglio di no... È ancora presto, prima devo sondare, rendermi conto... magari più avanti. Ma gliene parlerò di sicuro.” Tornò a casa più stanco di quando era partito. Il padre era ancora assente. «E papà?» «Partito per un viaggio d’affari. Dovrebbe tornare dopodomani.» «Niente di nuovo sotto il sole. Il lavoro e poi il lavoro e ancora il lavoro...» Ma lo giustificava, tra tutti membri della famiglia era quello che più di tutti era portato a difendere i suoi comportamenti, anche quelli un po’ un po’ strambi ed esagerati che di tanto in tanto assumeva. Molto più critici nei suoi confronti erano i due gemelli e la madre che non tolleravano quei cambiamenti improvvisi e digerivano a fatica quelle assenze impreviste o 18


prolungate. Le definivano una mancanza di organizzazione e sostenevano che, una volta fatto, un programma quello era e quello doveva rimanere o quantomeno non essere disatteso con una frequenza simile. In fin dei conti lui era il padrone e dovevano essere gli altri a sottostare, ovvero ad adattarsi. Era lui a dettare i tempi, non gli altri... «Questo discorso non vale con i clienti.» era la sua risposta classica. «I padroni sono i clienti e nessuno può permettersi di dimenticare questa regola basilare degli affari. Quindi a muover le chiappe devo essere io.» Francesco non andò a Milano il giorno dopo e neppure quello dopo. Volle prepararsi anche su altre università - Torino, Padova, Bologna, Parma, Firenze - ma procurare gli orari dei treni, mettere insieme gli indirizzi e i numeri di telefono, comprare e studiare le piantine delle città richiesero più tempo di quello che aveva messo in preventivo. Era elettrizzato... sarebbe stato il suo primo contatto con un mondo più ampio di quello in cui era vissuto finora, sarebbe stato da solo. Era una prova, l’aveva presa molto seriamente e la stava affrontando con determinazione. La sera di venerdì incontrò il padre a cena, era rientrato nel pomeriggio. «Ho saputo che hai superato brillantemente l’esame...» gli disse con orgoglio «Raccontami qualcosa di più. Dammi qualche particolare.» Francesco gradì quell’attenzione e prese a descrivere la sua prova, le domande che gli avevano posto, le risposte che aveva dato, i commenti che avevano fatto, interrotto di tanto in tanto dalla sorella che anticipava o specificava dettagli, o dal padre che ascoltava e, a sua volta, richiedeva puntualizzazioni o ulteriori particolari. Era bello stare a tavola in allegria, con la famiglia riunita, senza la televisione accesa, a commentare quello che era capitato a ciascuno. In quel momento era lui, Francesco, il padrone della scena. «E non sai ancora il punteggio?» «La settimana prossima, mercoledì. Hanno finito oggi gli orali, adesso devono riunirsi per raccogliere i dati e tirare le somme.» «Bene, direi che non potevi fare meglio di così.» Francesco fece un gesto di soddisfazione: gli faceva piacere quell’apprezzamento di suo padre. “Chissà...” pensò. «E hai già in mente cosa fare? In che università andare?» Occhiataccia della madre. «Ma lascialo in pace, santa pazienza! Ha appena finito e già gli stai 19


addosso. Dagli tregua.» Francesco fece finta di niente. «Sì, credo di sì. Ho le idee abbastanza chiare, ho intenzione di fare una cosa. In questi giorni mi sono preparato, ho procurato recapiti vari, cartine... voglio andare in alcune città universitarie, le più vicine, a parlare con gli studenti... voglio sondare come stanno le cose, voglio vedere com’è l’ambiente, che aria tira, direttamente sul posto...» «Mi sembra un’idea eccellente, ottima davvero...» Si interruppe un istante: «E mi sembra anche che tu la stia affrontando in modo responsabile. Stai facendo una scelta fondamentale, una scelta di vita ed è giusto pensarci bene prima di compiere il passo. Ah, volevo dirti... una volta che avrai stabilito dove andrai, se magari ti occorre una mano per un appartamento, una stanza, non farti scrupoli... conosco molte persone un po’ dappertutto e sono sicuro che non rifiuteranno di aiutarti...» «Grazie, lo terrò presente.» «E quando comincerai?» «Già da lunedì prossimo. Una città al giorno. Parto col treno la mattina e ritorno nel pomeriggio... E il giorno dopo ne faccio un’altra. Me la dovrei cavare in una settimana, una decina di giorni al massimo...» «Hai anche tracciato il programma! Molto bene. Sono orgoglioso di te.» Il lunedì mattina inforcò il motorino e andò alla stazione, lo parcheggiò, lo chiuse con la catena, si infilò la chiave in tasca, comprò il biglietto e salì sul treno. Destinazione Parma. Aveva studiato il percorso, non ci mise molto ad orientarsi e di buon passo raggiunse la facoltà in meno di mezz’ora di cammino. Fermò un gruppo di studenti. «Scusate siete di Biologia, voi?» «Sì, di Biologia e di Chimica e tecnologia farmaceutica.» «Vorrei chiedervi una cosa. Mi sono diplomato quest’anno e vorrei venire qua a studiare. Mi descrivete un po’ com’è?» «Non si sta male... Ci sono degli insegnanti validi, non siamo in troppi e questo significa che non ci sono resse per accaparrarsi il posto in aula... La città non è molto grande e si fa presto ad arrivare qui...» «Avrei un’altra domanda... che argomenti si studiano in tesi?» «Devi ancora iniziare e già pensi alla tesi?» «Sì, c’è uno specifico argomento che mi interessa e vorrei sapere se avrò 20


mai la possibilità di approfondirlo.» «Quale sarebbe questo argomento?» Lo disse. Gli altri assunsero un’espressione un po’ dubbiosa. «Non ne abbiamo mai sentito parlare, però siamo del primo anno... Ti consiglio di provare con l’assistente del professor Ternioli... lui ti risponderà di sicuro.» «Mi dite dove posso trovarlo? Come si chiama?» «Si chiama Fronzini, è un tipo alto e magro. È in gamba, parecchio. Vieni con noi che ti portiamo da lui. A quest’ora, di solito, è già arrivato.» «Grazie.» Gli mostrarono una porta. «È lì dentro. Fronzini, ricordalo.» «Vi ringrazio di nuovo. Ciao.» Entrò nell’edificio e avanzò lungo un corridoio. In fondo una porta era aperta e, seduta alla scrivania, una donna batteva a macchina. Bussò. La donna lo squadrò con aria interrogativa. «Vorrei parlare con il Dottor Fronzini...» «Terza porta a sinistra. Adesso è occupato con alcuni studenti e tra venti minuti ha un appuntamento. Penso che si libererà per quell’ora. Puoi aspettarlo qui...» «Sì, grazie.» «Se vuoi, c’è una macchinetta per prendere un caffè, più avanti.» «Va bene.» «Lei non sa che tipi di argomenti si trattano in tesi?» «Purtroppo no. Quindi è per questo che vuoi parlare con Fronzini?» «Sì.» «Beh, sei fortunato, ha fatto presto. Eccolo lì. È quello alto...» concluse, additando il gruppo di persone che si avvicinava. Lo chiamò. «Dottor Fronzini... Dottor Fronzini.» L’uomo la vide e alzò una mano. «C’è qui uno studente che vorrebbe parlare con lei. Ha qualche domanda da farle sui corsi.» «Veni.» disse rivolgendosi a Francesco. Francesco parlò molto apertamente e molto chiaramente. L’altro lo ascoltò con attenzione. «Perché ti attira la biologia molecolare?» 21


«Per quello che ho potuto valutare con gli elementi in mio possesso, sono convinto... sicuro... che diventerà un argomento su cui si concentrerà la maggior parte degli studi in un prossimo futuro. Ricerca di alto livello. Inoltre credo che ci siano dietro delle scoperte affascinanti e... utili.» «È indubbio che siano iniziati parecchi studi in proposito, posso ammettere che siano affascinanti, ma non sono così certo che avranno un futuro facile... Sono molto ma molto complessi, richiedono attrezzature molto costose... No, noi qui non siamo attrezzati e non credo che ci attrezzeremo per farli... Non a breve, almeno. Mi dispiace, so che non è la risposta che ti aspettavi.» «Va bene, grazie lo stesso. Potrebbe indicarmi quale università qui in Italia è più avanti nello studio di questo tipo di argomenti?» «Devi andare nell’università di una grande città... Milano, forse, Roma più probabilmente... ma non so darti notizie precise... Comunque da quello che ho capito la facoltà più adatta per te è Chimica e tecnologia farmaceutica. Avrai da affrontare più materiale chimico che biologico vero e proprio.» Ritornò un po’ deluso. La prima spedizione non aveva dato i risultati sperati. Poi ad alta voce disse: «Beh, sarebbe stato troppo bello se avesse funzionato al primo colpo. Ma quando mai...»

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3 Il martedì ripeté la procedura... motorino, stazione, treno, facoltà, chiacchierata. Università di Padova, questa volta. Attese il dottor Mozzani, l’assistente del professore, per un paio d’ore perché era impegnato con gli esami dell’appello estivo, ma non si annoiò, anzi seguì volentieri le interrogazioni. Il tempo volò. Durante il colloquio, usò le stesse parole del giorno prima. L’uomo gli pose le stesse domande e lui diede le stesse risposte. «Sei stato chiaro.» commentò il dottor Mozzani. «Qui, però, non siamo in grado di svolgere questo tipo di studi. Non abbiamo esperienza sufficiente e cominciare così, praticamente dal nulla, non è proprio il caso. Con quello che bisogna investire in attrezzature... No, deve essere l’università a iniziare questa attività e organizzare un gruppo di persone. Persone che dovranno necessariamente venire dall’esterno. Non la vedo come una cosa semplice e neppure rapida.» «“Dall’esterno” significa da altre città dell’Italia o addirittura dall’estero? Perché, se fosse la prima opzione, potrei tentare là, dove mi suggerisce lei.» «È davvero tanto importante per te?» «Sì, le posso assicurare di sì. Ci sto investendo il mio futuro.» L’uomo lo osservò. Le sue labbra si piegarono in un’espressione strana che manifestava sarcasmo, dubbio, di certo non comprensione né simpatia. Comunque fu professionale. «Noi siamo in contatto con le Università di Bologna e di Milano con le quali stiamo portando avanti un progetto congiunto molto vasto. Non mi pare che in queste sedi si eseguano sperimentazioni del genere. Se ci fossero, lo saprei. Forse c’è qualcosa a Torino, ma è da verificare. Mi ricordo che un collega mi parlava dell’idea di attrezzare un laboratorio, ma poi ci siamo persi di vista e non so se la cosa sia andata in porto. Invece, so per certo che c’è un professore che si occupa di argomenti del genere a Roma, alla Sapienza. È tutto quello che ti posso dire.» «Mi basta e avanza, dottor Mozzani. La ringrazio molto.» Si alzò, gli strinse la mano e se ne andò. “Questo mi ha compatito. Mi ha passato le informazioni solo per farmi andare via alla svelta...” 23


Quella negatività evidente che aveva riscontrato in giro, prima a Parma e poi, riconfermata, a Padova lo fece riflettere e quei pensieri lo coinvolsero per l’intero viaggio di ritorno. “Perché persone competenti, persone del settore rifiutano questo soggetto? Sono ricercatori, la novità non dovrebbe spaventarli, eppure dicono di no e sembrano convinti e motivano il loro rifiuto con giustificazioni oggettive... difficoltà, costi. Ma la ricerca è complicata e cara. Tracciare strade nuove è da sempre difficile, ma è proprio perché c’è stata gente che non ha avuto paura a farlo che siamo andati avanti. Per fortuna esiste qualcuno che ci prova. E allora che significato ha questo timore? Aspirazione a rimanere tranquilli in un ambiente tranquillo? Desiderio di vivere seguendo un pacifico tran-tran... O è un combattimento contro i mulini vento? Un compito impossibile, per cui tutti prediligono argomenti più “abituali”, che generano qualche vantaggio concreto, abbandonando le materie più complesse che comportano il rischio di non scoprire, ovvero di non pubblicare, nulla? Pubblicare è il loro scopo?” Era combattuto, stentava a crederci e ad accettare la situazione. Quella latitanza di menti in un campo che, a suo modo di vedere, rappresentava il massimo, lo stupiva ma ancora di più lo sbilanciava, lo infastidiva. “E se avessero ragione loro? Sto investendo male? Sto sbagliando tutto?” Quel dubbio non durò più di tre secondi. “Non esiste, non può essere così. Se funzionasse, avrei il mondo in mano e già questo, da solo, è sufficiente per farmi andare avanti. Se non lo facessi, mi resterebbe il tarlo per tutta la vita.” Rincuorato dalla convinzione che aveva maturato, passò a considerare le opportunità che erano racchiuse nelle parole del dottor Mozzani. “Torino, forse, e Roma.” «Speriamo sia Torino.» mormorò. Roma, la metropoli, lo spaventava di più. Grande, troppo grande in tutto. Gigantesca. Distante. Formale. Subdola. Politica. Tentacolare. «Mi piace “tentacolare”. Wow!» esclamò ad alta voce. Per fortuna il treno era quasi vuoto. Mercoledì. Il gran giorno è arrivato. Manca poco alle dieci. Folla di ragazzi davanti all’edificio scolastico, alcuni di loro sono lì da parecchio tempo. Schiere di motorini lungo la via, sul marciapiede, dove possibile. Gruppi di studenti dispersi in giro, risate, 24


non del tutto convinte. Occhiate vivaci al portone, sguardi sfuggenti agli orologi. Il tempo sembra fermo. Attesa, tensione, adrenalina. L’ansia taglia respiro e discorsi riducendoli a frasi. Magliette, jeans, borse, niente libri. Qualcuno accende una sigaretta. Concitazione, incertezza, paura. Dall’interno, rumore di chiavi, di serrature che scattano... finalmente... il silenzio cala di colpo, i battenti si aprono. «Piano, ragazzi, piano...» ci prova il bidello. Parole al vento. La fiumana spinge, preme, si stringe, entra, si riversa nel corridoio, su per le scale, nel salone, si accalca davanti alla bacheca dove sono appesi i prospetti con gli esiti. Ognuno scruta il foglio relativo alla propria classe. Il nome di chi è stato promosso riporta in fondo alla riga la dicitura “Maturo”, quello dei bocciati, “Respinto”. Anche Francesco è lì, impaziente come tutti gli altri. Non conta se sa di aver sostenuto un esame quasi perfetto, se è conscio che la promozione è un fatto acquisito: in quel momento la tensione prevale sulla logica, l’agitazione sulla razionalità... Gli occhi scorrono febbrilmente l’elenco, si fermano sul proprio nome, seguono la linea, cercano il punteggio, si fissano sull’ultima parola... «Foroni Francesco, sessanta sessantesimi, maturo.» Aveva preso il massimo. Ci aveva sperato, aveva ripercorso la sua interrogazione, le risposte che aveva dato, ne aveva esaminato i punti deboli, le parole che avrebbe potuto dire e non aveva detto, forse avrebbe potuto fare qualcosa di meglio... alla fine era stato premiato. “Sì! È finita.” pensò. L’eccitazione si placò, il nervosismo scomparve, l’affanno si sgonfiò in un attimo e altre sensazioni si sostituirono alle precedenti... gioia, soddisfazione, orgoglio. La felicità come fine di una preoccupazione. Poi tutti presero a guardare i punteggi dei compagni. Curiosità, partecipazione. Diversa la condotta di chi non ce l’aveva fatta: una ragazza singhiozzava in disparte; uno studente, salutati alla svelta i compagni, aveva infilato le scale ed era scomparso nelle vie della città per restare da solo; un terzo sembrava averla presa con maggiore filosofia. «... non ho mai studiato, ci ho provato, è normale che sia andata così.» Francesco abbracciò Laura. Gli era comparsa dietro, in silenzio, non se ne era accorto, gli aveva afferrato una mano e gliela aveva stretta mentre 25


lui, in mezzo agli altri, tentava di individuare il proprio nome sulla lista. Si girò un attimo e fece un cenno di assenso, ancora intento a leggere. Lei quella mattina era venuta apposta per incontrarlo, aveva la capacità di spuntare all’improvviso, discreta, non invadente. Silenziosa ma sempre presente, sceglieva i momenti più adeguati per entrare in scena anticipando anche i suoi pensieri. Adesso ridevano, contenti. Francesco rimase parecchio tempo nel salone a parlare con i compagni, erano quelli gli ultimi attimi di un lungo periodo trascorso insieme, un giorno dopo l’altro, e condiviso in molti aspetti. Le domande più frequenti che si scambiavano reciprocamente: «Hai qualche idea per la facoltà? E per l’università?» Le risposte tipiche: «Adesso me ne vado in vacanza...» «Vado al mare con i miei...» «Vado a fare un viaggio con gli amici...» «Non so di preciso, probabilmente Medicina... Giurisprudenza... «Ingegneria... al Politecnico di Milano. È il mio sogno.» «Non parlarmi di scuola per un bel po’...» «E tu che cosa farai? Magari andiamo insieme...» «Vedremo, per adesso non ho voglia di pensarci...» Si rendeva conto che nessuno stava facendo come lui, nessuno affrontava la situazione con la sua urgenza e in maniera tanto seria. Questo, però, non implicava che l’avrebbero presa alla leggera. Di certo avrebbero agito al meglio delle loro capacità e delle loro inclinazioni e, nei tempi giusti, avrebbero individuato la città, si sarebbero iscritti e avrebbero trovato l’alloggio. Insomma, si sarebbero organizzati con più calma mentale, con maggiore lucidità e in modo meno turbolento di come invece si stava comportando lui. Laura era sempre lì, partecipe, ombra alle sue spalle, felice della sua allegria. Quando furono in strada nella luce del giorno, Francesco le chiese: «Come sei venuta?» «In motorino. L’ho parcheggiato un po’ più avanti.» «Anch’io. Lasciamoli qui. Facciamo due passi in città e poi veniamo a recuperarli?» «Sì, volentieri.» «Gelato?» 26


«No, oggi no.» Si misero a camminare affiancati, parlando, scherzando e ridendo di niente. Non c’era molta gente in giro, le ferie e il caldo limitavano l’affluenza ma una leggera brezza mattutina rendeva l’atmosfera accettabile. Francesco era spiritoso, brillante e Laura ne subiva il fascino per intero. “Sarà sempre così...” Si fermarono di fronte alla vetrina di un negozio di costumi. Francesco la osservò mentre, attenta, li passava uno per uno. Quando individuò l’articolo di suo gusto, sorrise e lui colse dove si era posato lo sguardo. «Scommetto che indovino quale sceglierai.» la sfidò. «Su, dài...» «Quello rosa, in alto a destra, con le righe e i disegni neri.» «Sì! Come hai fatto?» «Conosco i tuoi gusti... Com’è il tuo diario? Rosa. E la tua cartella? Rosa... Credo di poter affermare che il rosa è il tuo colore preferito. Non è stato difficile.» mentì in parte. «Beh, non mi vesto sempre di rosa.» rispose lei. «Io... ho un’idea...» «Dimmi.» «Tu adesso vai dentro e ti provi il costume. Se ti piace, lo prendi ed io lo pago.» «Mi vuoi regalare un costume? E perché?» «Diciamo che oggi è un bel giorno, che vedo tutto in maniera positiva, diciamo che ho gradito molto che tu sia venuta e che ho voglia di farti un regalo. E poi perché...» «... perché...» lo incoraggiò a finire. «... ho un po’ di soldi in tasca. Approfittane.» Aveva sperato per un attimo che dicesse “... perché sei la mia ragazza.” Comunque entrò insieme a Francesco, parlò con la commessa che la indirizzò a uno scaffale dove immediatamente tirò fuori un costume uguale a quello esposto in vetrina. Laura sparì nel camerino. Quando riemerse, teneva l’indumento in mano e aveva il volto soddisfatto. «Sì, va bene, lo compro, anzi lo compriamo.» concluse, rivolgendosi alla commessa. Francesco pagò. Non appena furono fuori dal negozio, lei reggendo il suo pacchettino gli si strinse contro. «Grazie.» gli disse. 27


«Questo ed altro per la mia ragazza.» L’aveva detto. “La mia ragazza”. Era la sua ragazza. “Sono la sua ragazza.” pensò e le venne un nodo in gola di commozione. Ma Francesco non le diede tregua. «Non credere che questo regalo sia del tutto gratis...» cominciò. Lo guardò con aria interrogativa. «Non pensare a cose sbagliate. Però, voglio qualcosa in cambio, anch’io.» «Cosa?» domandò, non del tutto convinta. «Oggi pomeriggio alle due e mezzo, passo da casa tua, in macchina, ti porto in piscina e tu devi indossare questo costume. Ok?» «Solo questo?» Era più rilassata. «No.» Di nuovo l’aria interrogativa. «Restiamo in piscina fino alla chiusura, ci facciamo una doccia e poi andiamo a mangiare una pizza. Ti va?» «Sì che mi va.» confermò senza indugio. «Per un momento mi avevi fatto pa...» «Sei tu che non ti fidi di me e ti vai a immaginare cose che non devi.» la interruppe. «Pensi che i tuoi abbiano qualcosa da dire se ti vengo a prendere in macchina e se facciamo un po’ tardi?» «No, assolutamente.» Lentamente tornarono ai motorini. “Sono la sua ragazza!” pensò di nuovo e avrebbe voluto gridarlo a squarciagola. Alle quattordici e trenta Francesco suonò al cancello di Laura. Lei uscì immediatamente, con una borsa in spalla. «Ciao mamma! Tornerò presto, non stare in pensiero.» Poi salì in macchina e chiuse la portiera. «Ciao. Tutto a posto?» «Sì.» «Fatto fatica ad ottenere il permesso?» «No, affatto.» «Ho dovuto prendere l’auto di mia madre. Pensavo di poter usare quella di mio padre, ma è partito questa mattina. Ha detto che doveva andare in Svizzera. Non c’è mai ogni volta che a me succede qualcosa di 28


importante.» Laura gli toccò un braccio. Un segno per dimostrargli che capiva il suo stato d’animo. «Va benissimo anche questa.» «Non c’era quando ho sostenuto l’esame, non c’è adesso che sono usciti i risultati. Glieli dirò quando telefona. Se telefona.» concluse, seguendo il suo pensiero. Cercò di distrarlo. «Dài raccontami che cosa hanno detto a casa tua. Ti avranno ricevuto come un eroe e trattato come un re.» Francesco prese tempo. «Mia sorella non stava più nella pelle, mia madre mi ha stampato baci dappertutto e mi ha preparato il mio piatto preferito... è già la seconda volta in pochi giorni... Anche mio fratello ha fatto tanti apprezzamenti.» «Ti ha chiesto che cosa desideri come regalo della maturità?» «Sì. È lei che sonda il terreno e poi riporta a mio padre.» «E tu che cosa hai indicato?» «Una macchina, per la verità meno scassata di questa, mi farebbe davvero comodo.» «Un bel premio davvero. Pensi che te la compreranno?» «Ma sì, non vedo perché no. Devo andare all’università, ho bisogno di avere una maggiore indipendenza.» Arrivarono alla piscina, pagarono il biglietto e si diressero ai rispettivi spogliatoi. Forte fu l’impatto che Laura ebbe su Francesco quando riapparve. Bella come una dea. Fisico armonioso, curve perfette, capelli lunghi, pelle vellutata e scura quel tanto che bastava. La giovinezza sbocciava in tutto il suo splendore, il costume le stava d’incanto e ne valorizzava l’incarnato. Scosse la testa, compiaciuto. Si sistemarono sugli asciugamani stesi sull’erba all’ombra di un albero. Francesco non smetteva di fissare la ragazza. Sembrava rapito. Il fatto è che gli veniva spontaneo e non si accorgeva nemmeno della sua insistenza. «Allora ho superato l’esame?» lo punzecchiò. «Come?» «È mezz’ora che mi fai i raggi X. Vado bene?» «Oh scusa... ma sei una calamita... ed io non mi...» farfugliò. E poi: 29


«Sì, sei bellissima, con quel costume lì, poi. Ti dona molto.» Laura abbassò gli occhi, quasi a schermirsi, ma quel complimento l’aveva colpita e temeva di rivelare il rossore. «Andiamo in acqua.» disse. «No, aspetta un po’. Resta qui, parliamo.» Stava seduta, composta, e lui osservava le lunghe gambe, i fianchi, la curva del seno, il modo in cui muoveva le labbra, le pieghe che si formavano agli angoli della bocca quando rideva, i denti bianchi. «Lo sai che sei proprio bella...» se ne uscì all’improvviso, mentre lei parlava di tutt’altro. «Sono un ragazzo molto fortunato.» «E te ne sei accorto adesso?» lo prese in giro «Mi stavi proprio ascoltando, eh?» «Che vuoi farci Laura, ma valeva la pena... esaminarti, te lo assicuro.» “E allora perché non ti fai avanti di più?” pensò? «Francesco...» «Sì?» «Perché non mi hai telefonato in questi giorni? Credevo ti facessi vivo, adesso non devi più studiare e hai tutto il tempo. Avevo voglia di vederti, pensavo di trascorrere qualche pomeriggio con te.» «Sono stato molto occupato.» «Occupato? Adesso? Sei bugiardo.» «Non sono frottole. Dopo l’esame sono andato in due università, a Parma e a Padova, per tastare il terreno, per vedere come stanno le cose. Ho dovuto organizzarmi, non è stato immediato.» «Potevi dirmelo, però.» «Hai ragione.» «E poi ci sono stati sabato e domenica... e lì non sei andato da nessuna parte.» «È vero, ma vedi... il fatto è che la situazione è piuttosto complessa, io stesso non ho le idee del tutto chiare. Continuo a pensare se faccio bene, se faccio male. Ho passato ore a spremermi le meningi... Insomma ho la testa concentrata là e non so come uscirne. In casa non posso parlarne, non ora almeno...» «Ed io allora che cosa ci sto a fare? Puoi parlarne con me, no? Se siamo insieme, è logico che io mi occupi dei tuoi problemi e che tu me ne faccia partecipe.» «Vero, non fa una piega. Ma i problemi sono grossi, più grossi di me 30


e non credo che adesso sia corretto caricarti di un peso del genere. In questo momento è tutto confuso, non ci sono linee guida né punti di riferimento. Tutto è egualmente probabile.» «Certo che sei strano, Francesco. Hai appena finito di studiare, sei stato promosso col massimo dei voti e, invece di goderti il successo dei tuoi sforzi, sei già lì che macini cosa fare, dove andare... e tra l’altro con una intensità che faccio fatica a condividere. Ma che cosa ti sta succedendo di tanto terribile da comportarti così? Per favore, dimmelo. Magari posso aiutarti...» Francesco sospirò, muto, esitante, imbarazzato quasi. Alla fine si aprì. «Tanto per cominciare, ho mio padre che mi sta addosso perché scelga l’indirizzo che ha in mente lui, te ne ho già accennato mi pare, ma io ho idee diverse, che non gli piaceranno per nulla. E questo è già un bel problema. Tu non sai che rullo compressore sia mio padre quando di mette in testa una cosa e neppure puoi immaginare che tipo di reazione ha quando qualcuno si permette di non approvare le sue idee.» «Beh forse dovrebbe partire dal concetto che è in ballo la tua vita e non la sua. Dovrebbe lasciarti fare. Mi sembra più giusto.» «Già, ma il suo punto di vista è comprensibile. Ha costruito quello che ha, ne è orgoglioso e tenta di coinvolgere i figli, adesso che è arrivato il momento. Inoltre è una persona abituata a comandare, a imporre il proprio pensiero. Non sarà semplice dirglielo e fuori discussione convincerlo. Prevedo una bella battaglia.» Si fermò a riflettere e riprese. «Probabilmente ha ragione lui, la strada più concreta, più regolare è la sua. La mia è labile, astratta, con fondamenta deboli... Ma non è solo questione di quello che vuole mio padre, è che io ho una gran confusione in testa. A volte mi sembra chiaro, lineare e cinque minuti dopo, esattamente il contrario.» «Non riesco a seguirti.» «Non puoi, no...» Rimase in silenzio, incerto su cosa fare. Raccontarle tutto? Stare zitto? Ormai aveva iniziato, tanto valeva andare avanti. «Se te ne parlassi, molto probabilmente alla fine avrei un’altra persona contro... Tu saresti la prima a cui rivelerei questa mia idea.» «Tu provaci, prima o dopo verrei a saperlo comunque. E se deve succedere che debba esserti contro, cosa che non credo affatto, ti sarò 31


contro allora.» Si fermò un attimo, schiuse le labbra in un sorriso e esclamò: «Io contro di te, ma non esiste!» «Io voglio fare Chimica e tecnologia farmaceutica.» disse tutto d’un fiato. Restò a bocca aperta. Aveva previsto sorpresa... e sorpresa c’era stata. Grossa. «Chimica farmaceutica? E che te ne fai?» ribatté. «Visto? Questa sarà la reazione di mio padre e anche di mia madre e forse anche dei miei fratelli. Tutti a pensare che gli sbocchi offerti da questa disciplina siano inesistenti, tutti a ritenere che io stia buttando via la fortuna che la mia famiglia... mio padre... ha messo in piedi con l’azienda di proprietà... che stia sputando nel piatto in cui mangio.» «Beh... ci sta...» disse ammiccando. «Prova a spiegarti meglio, per favore.» «D’accordo, parto dall’inizio, sarà una cosa lunga.» «Abbiamo davanti tutto il pomeriggio.» «Tutto è cominciato tempo fa. Un’idea, una semplice idea nata per caso. In principio era lì, ferma da qualche parte, un pensiero come un altro, poi di colpo, qualche giorno fa, in un lampo è cresciuta, si è piantata nel cervello e non si è più schiodata. È successo durante l’orale di latino, dopo aver tradotto le parole della Sibilla cumana.» «E quale sarebbe l’idea?» «Quella di fermare il tempo.» Laura si irrigidì. Non commentò, non disse niente. Si impose anche di non pensare a niente. Ripeté solo: «Fermare il tempo?» «Non è una cosa nuova, come concetto. Il mito dell’elisir di lunga vita o dell’eterna giovinezza è ben noto e compare negli scritti di tantissimi autori di tutti i tempi... solo che detto come l’ho detto io fa un’altra impressione.» «È vero.» «Il fatto è che io sono convinto sia possibile.» «Possibile?» Adesso la postura e l’espressione del viso denotavano curiosità. «Qui sta il punto. Noi, uomini e donne, siamo un insieme di corpo e spirito. Questo è quello che abbiamo sempre creduto. Ridere, piangere, commuoversi, l’amore, la gioia, il dolore sono sempre stati chiamati “sentimenti” e sono sempre strati identificati come appartenenti ad un 32


universo distinto dalla nostra parte “materiale”. Un conto è un dolore fisico, un altro è un dolore interiore. Mi segui?» «Finora sì.» «Beh, io sono convinto, anzi sono sicuro che non sia così. Tu hai mal di denti e sei malinconica. Io ti faccio respirare un po’ di gas esilarante e tu ti metti a ridere e sei tutta contenta. Oppure, attraverso indagini opportune, hanno visto che le persone felici hanno in circolo un tasso maggiore di un ormone di cui non ricordo il nome rispetto a quelle che sono tristi. Hanno scoperto che i livelli di felicità e di quell’ormone sono proporzionali. Ci sei?» «Sì, ci sono, ma mi sfugge dove vuoi andare a parare, che cosa vuoi dimostrare.» «Voglio dire che anche la gioia o la tristezza, in questo caso, non sono altro che risultati di reazioni chimiche o, in altre parole, sono dovute solo alla presenza o all’assenza di determinate molecole che il nostro corpo riceve o produce.» «E questo che cosa significa?» «Significa che i sentimenti non esistono, che sono già in noi, sono una parte del nostro corpo. È una teoria piuttosto... avanzata.» Laura buttò lì debolmente. «Non è ancora dimostrata, però.» «No, ma per un momento fingiamo che lo sia e proviamo ad andare avanti, a estendere il concetto. Proseguo o smetto? Se adesso mi dicessi “fermati, per favore” non avrei nulla da obiettare.» «No, va avanti.» «D’accordo. Proviamo ad analizzare meglio cos’altro implica questa visione. Noi abbiamo sempre ritenuto che ciascuno sia l’artefice del proprio destino. Le frasi come “usa la volontà...” “non abbatterti mai...” “chi la dura la vince...” “non mollare, insisti...” “volere è potere...” si sprecano e sono validissime per dimostrare che dandosi da fare si può ottenere qualcosa. E ci sono evidenze che hanno un fondo di verità. Potrebbe, però, esserci un altro modo, in linea con quello che ho detto prima.» 33


«Cioè?» «Che il nostro destino sia già scritto dentro di noi.» «Non vedo la relazione, non ti seguo più.» «Prendiamo un ragno. Sa tessere la ragnatela in una maniera perfetta. Chi glielo ha insegnato? Nessuno, lo sa già. E come fa? Perché è già scritto dentro di lui. Da qualche parte. Lui legge a modo suo le istruzioni e tesse la sua tela senza commettere un errore. Io non sono capace di disegnare, tu sei brava, perché? A te non lo ha insegnato nessuno, lo sapevi già da sola. Come hai fatto? Con la scuola, l’esercizio, lo studio assiduo potrai perfezionarti e allora diventerai bravissima, ma la base di partenza è già superiore, e di molto, alla mia. Io, con la volontà e l’abnegazione, potrei forse diventare discreto, ma mi fermerei lì, non sarei mai un campione in questo settore perché non ce l’ho dentro.» «Mmmm...» commentò Laura nel cui cervello cominciava ad apparire un barlume di chiarezza. «Faccio altri esempi. Prendiamo un criminale. Perché è capace di fare del male e non gli pesa? Perché la gente, in generale, non agisce così? Come si può ammazzare una persona e restare impassibili? Da qualche parte, dentro, deve avere qualcosa in più, o qualcosa in meno, che lo rende insensibile a quel tipo di emozioni. E ancora. San Francesco, il santo per eccellenza, il santo da imitare. Perché è capace di pregare per ore, immobile, in ginocchio? Perché entra in trance mentre parla con Dio? Perché anela a fare solo il bene? Ma se dentro di lui ci sono le molecole giuste, per lui fare il bene è facile, così come fare il male per un criminale è facile. Nessuno è più bravo o meno bravo, semplicemente ciascuno fa quello che gli viene più semplice fare. Fare il male per un santo è difficile quanto fare il bene per un criminale. Ma se è così, io non vedo nessuna abilità in un santo, sta semplicemente seguendo la sua natura.» «Ma no, non può essere così, non puoi paragonare un santo a... Hitler.» «Già. Accettare questo è molto difficile, uno è campione del bene, l’altro del male... Sono le convenzioni sociali che fanno la differenza e ci inducono a vedere uno in positivo e l’altro in negativo, uno da imitare e l’altro da condannare... È un concetto forte, molto forte, me ne rendo conto.» «Fortissimo, non ci riesco. Ma dove mi stai conducendo? Di che cosa stai tentando di convincermi?» 34


«Ma secondo questa teoria, ancora una volta noi siamo quello che le nostre molecole ci dicono di essere. Con l’esercizio, la volontà e la tenacia possiamo migliorare, ma siamo già stati definiti nel momento in cui siamo nati. Il nostro destino non è completamente nelle nostre mani, ma è già stato scritto. Se preferisci, a noi è dato di cambiarlo leggermente, ma non nell’essenziale.» Laura era sbigottita. «Ma questa è una rivoluzione...» «Già. Essere confinati al rango di pure molecole, dire che i comportamenti e la sfera affettiva sono semplici conseguenze di interferenze ormonali sembra blasfemo, dire che il libero arbitrio non esiste o è estremamente limitato, può sconvolgere. Sì, sono d’accordo.» «Quindi non contano i rapporti sociali, l’ambiente in cui viviamo, il modo in cui siamo stati educati, i valori in cui ci hanno insegnato a credere...» «Certo che contano, perché è dimostrato che esercitano la loro influenza, ma li relego tra i fattori che possono indurre solo piccole variazioni al tutto. Non sono essenziali.» «Mi fai paura quando dici questo.» «Allora mi fermo qui...» «No, continua. Che cosa centra questo con la tua idea che è possibile fermare il tempo?» «Se partiamo da questa base, allora anche la data della nostra fine è già scritta, dentro di noi da qualche parte ci deve essere qualche molecola che agisce sulle cellule e dice al nostro organismo di invecchiare. È questo il punto chiave: se si riuscisse a individuare da dove provengono queste sostanze, a scoprire con quale meccanismo interferiscono con le cellule e quali sono i composti chimici che trasmettono il messaggio, ovvero che provocano l’invecchiamento, si potrebbe intervenire inibendole in qualche modo...» «E questo significherebbe giovinezza eterna...» concluse Laura. «In linea di principio sì. Giovinezza eterna forse no, ma magari si potrebbe “congelare” il corpo all’età in cui si trova nel momento in cui si interviene.» «Quindi, mi stai dicendo che vorresti fare Chimica farmaceutica per studiare questo fenomeno, per scoprire le molecole “cattive” e bloccarle. E ti fermeresti all’età che avresti in quel momento. E vuoi cominciare subito perché, prima finisci, prima arresti il tempo e l’età.» 35


«Esatto. Ecco perché ho fretta, è da qui che viene la mia frenesia, questo è il motivo dell’intensità che ci sto mettendo nello stabilire l’università che dovrei frequentare. Ho bisogno di conoscere dove sia possibile compiere studi di questo tipo.» Laura non disse niente. Era pensierosa. Giocava con un lembo dell’asciugamano, strappava un filo d’erba. E non parlava. Francesco la osservava in silenzio. Aspettava. Cosa avrebbe detto? Come l’avrebbe presa? “Ma tu sei tutto scemo... Scusami ma io non voglio essere la ragazza di un matto. Ti auguro buona fortuna.” Oppure: “È geniale...” Che cosa stava elucubrando in quel momento? «Ma questo vorrebbe dire che non morirebbe più nessuno...» «Non proprio... si morirebbe di malattia, di incidenti, di guerre, non si morirebbe di vecchiaia, non col ritmo attuale almeno.» «Ma diventeremmo troppi e la Terra non potrebbe accoglierci tutti.» «Solo se si rendesse pubblica la scoperta. Ma se l’inventore la tenesse segreta... ne usufruirebbero solo lui e magari poche altre persone.» «E tu pensi di affrontare, da solo, una incombenza del genere? Deve essere immensa.» «Già. Ma se uno non ci prova... non arriva mai in fondo. Io questa possibilità ho. Non un’altra.» «E dove si eseguirebbero questi studi?» «Finora sono andato solo a Parma e a Padova e lì ho parlato con gli assistenti dei professori. In nessuna conducono queste ricerche.» «Come puoi pretendere che si occupino di queste cose, ma dài, insomma! Un po’ di buonsenso...» «Lo so anch’io. In realtà ho chiesto se si compivano studi sull’identificazione dei geni e delle loro funzioni. Sul DNA. Il DNA è la nostra matrice, la matrice che ci rende unici, simile ma diversa in ognuno, un po’ come le impronte digitali. Noi siamo come siamo perché il nostro DNA è quello che è. Là sono già scritti il colore dei capelli e degli occhi. Secondo me, per estensione c’è scritto anche tutto il resto e i sentimenti non sono esclusi. Quindi, la nostra propensione a una condotta, il fatto di essere buoni o cattivi oppure di diventare pittore invece che saltatore in alto, sono già contenuti nei nostri geni. Le catene che li costituiscono ci 36


fanno fare quello che ci fanno fare e ognuno di noi diventa simile, ma non uguale, agli altri. Si tratta “solo” di comprendere a quale anello sia associata un’azione, di collegare l’effetto al relativo pezzetto di DNA...» Rimase in silenzio per un po’. Poi riprese: «Ammettendo che tutto nasca da lì, sono convinto che, da qualche parte, ci sia anche il “gene della morte”, che impone alle nostre cellule di modificarsi. Io intendo scovare quel maledetto brandello di catena capace di sintetizzare quella maledetta sostanza. Lascia che lo stani e poi vedrai che gli faccio...» «Tu lo chiami “maledetto”, ma, ripeto, meno male che c’è perché altrimenti diventeremmo troppi.» «Certo, questo è il suo compito. Da un punto di vista molto personale, però, “maledetto” è e “maledetto” resta. E sai come mi piacerebbe utilizzare una scoperta del genere?» «Ne parli come se l’avessi già fatta.» «Sì... già fatta, proprio così. Mi rendo perfettamente conto di quanto lavoro ci sia dietro. Come lo farò? Che problemi dovrò affrontare? Sarò da solo o ci sarà qualcuno accanto a me a condividere le mie idee? Ma vorrò veramente avere qualcuno vicino? E dove troverò gli strumenti? Tutti mi hanno assicurato che servono apparecchiature costose... o che magari non esistono ancora. Non ci voglio nemmeno pensare.» «E allora che farai?» «Per adesso il mio obiettivo è iscrivermi a una università che svolga questo tipo di studi, che abbia un minimo di attrezzature e di preparazione. Hanno parlato di Torino e di Roma. Milano e Bologna sono già escluse. Andrò a Torino domani, a verificare.» «Sei proprio deciso?» «Anche questa è una domanda che mi dà molto da pensare. Devo andare lontano, da solo, in una città grande... un po’ mi fa paura, specialmente Roma. Se poi ci aggiungo che dovrò dirlo a mio padre, alla sua reazione... mi viene freddo lungo la schiena. Si arrabbierà tanto che non vorrà nemmeno mantenermi. Se devo lavorare per pagarmi la scuola, oltre che studiare, i tempi saranno più lunghi ed io non ho molto tempo, non posso permettermi di perdere molto tempo. E poi, per tenermi aggiornato, per approfondire, devo restare nell’ambito universitario, ma solo i migliori ci rimangono, con una borsa di studio. Se dovrò lavorare, non potrò essere tra i migliori e non potrò avere la borsa di studio... È tutto molto 37


complicato. Inoltre, mi sto accorgendo che non tornerò più a casa. La mia esistenza dovrà essere impostata là.» «E tu sei disposto ad affrontare tutto questo... hai davanti una vita nel complesso facile, un posto assicurato nella ditta di tuo padre, una posizione di responsabilità, di carriera, di soddisfazioni. Te la invidierebbero in tanti. Una vita già destinata al successo. E sei pronto a rinunciarci per un’idea che potrebbe rivelarsi... consentimi... bizzarra. In fin dei conti non sei un esperto in materia, le tue teorie non sono confermate e quindi potrebbero essere completamente sbagliate.» Francesco la guardò. Non è mai facile dirigere un’azienda e quindi “facile” forse non era la parola più adatta, ma in fin dei conti non poteva darle torto, perché lui non partiva da zero. Era stato anche il suo pensiero, era la cosa più semplice cui pensare. L’aveva visto lui, lo vedeva lei, lo vedevano tutti. Laura si fece pensierosa. «Adesso riesco a inquadrare i tuoi silenzi, il tuo viso sempre tirato, quasi sofferente, l’aria sempre seria, riflessiva, la riga sulla fronte e anche... il poco tempo che trovi per me. È per questo, vero?» «Sì, è per questo. Se avessi un aiuto, la fatica sarebbe divisa per due e anche il tempo necessario per raggiungere lo scopo.» Poi si fermò e la fissò negli occhi. Lei intuì. «Oddio, no, non dirmelo... mi stai proponendo di seguirti in questa avventura? Non lo so, non sono pronta, non so risponderti... per favore non farlo.» «Se non ci fossero i matti, non ci sarebbero gli altri. Evidentemente il gene che produce la molecola della pazzia nel mio DNA è molto attivo.» Lei fece per parlare. Lui la precedette. «Fermati. Non aggiungere altro. Non c’è bisogno. Ho inteso... mi rendo conto molto bene.» «Aspetta. Non ti ho ancora detto né sì né no, non ti ho detto niente. Concedimi di essere stupita, confusa, anzi di più, frastornata.» «Basta parlare. Andiamo a fare il bagno.» Si infilarono la cuffia e insieme si tuffarono in piscina.

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