Catalogo

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FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL CINEMA DOCUMENTARIO MOSTRA “Da un Sud allʼAltro - MIGRAZIONI” PROMOSSO E ORGANIZZATO DA MAGAFILMS VIDEOPRODUZIONI ASSOCIAZIONE SOL LATINO DIRETTORE FESTIVAL GUILLERMO LAURIN PROGRAMMA MOSTRA ALBINO FERNANDEZ – CINEMEMORIA UFFICIO STAMPA ANTONIETTA CATANESE ADDETTO STAMPA MARIA FURFARO SUPERVISIONE GENERALE ANGELO OLIVERI COORDINAMENTO TECNICO ALESSIO PRINCIPATO EDITING ANGELO OLIVERI - MAGAFILMS REDAZIONE LAURA FURFARO PROGETTO GRAFICO E IMPAGINAZIONE CATALOGO FRANCESCO DE ROSE STAMPA CIPRINT di Cirillo Caterina - Cinquefrondi (RC) Una pubblicazione Festival Internazionale del Cinema Documentario www.festivaldelcinemadocumentario.org info@festivaldelcinemadocumentario.org


INDICE

08 Le verità documentate Guillermo Laurin 11 Il punto di vista del cambiamento Santo Gioffrè 12 Il documentario, la storia e la politica: corsi e ricorsi di una forma cinematografica Alessia Cervini 14 La migrazione degli sguardi Bruno Roberti 18 LA TERRA (e)STREMA di Enrico Montalbano, Angela Giardina, Ilaria Sposito 22 SEPTIEMBRES di Carles Bosch 24 SIN PAPELES EN ALEMANIA di Mauricio Estrella e Fernando Uzcategui 26 MADE IN L.A. di Almudena Carracedo 28 LA SEPARACIÓN di Samanta Yepez 30 PROBLEMAS PERSONALES di Manolo Sarmiento e Lisandra Rivera 34 Né cronaca né accademia. Libri “richiesti” dalla realtà. Antonello Mangano 36 Gli africani salveranno Rosarno. E, probabilmente, anche l`Italia. A cura di Antonello Mangano 38 Minatori e migranti, costretti alla velocità nei cantieri lumaca. Claudio Metallo 42 Da un Sud allʼAltro. Michele Carlino 46 La fabbrica dei sogni.. Cinquefrondi e il cinema documentario. Michele Conia 48 Essere (a) Sud. Associazione multiculturale Onlus Mammalucco 50 La Separación. Samanta Yépez 54 Fantasmi. Videoinchiesta di Sergio Conti 56 Il giorno dopo gli sbarchi. Documentario di Giuseppe Lazzaro Danzuso


60 U stisso sangu. Storie più a Sud di Tunisi. Film Documentario di Francesco Di Martino e Sebastiano Adernò 61 Promo di Paisà - storie di migranti in Campania 62 Osservatorio Migranti Africalabria Rosarno. Giuseppe Pugliese 64 Khoda. Reza Dolatabadi 66 Sitografia



LE VERITÀ DOCUMENTATE Guillermo Laurin*

Il festival internazionale del cinema documentario organizza, nel mese di ottobre, la rassegna “da un Sud allʼAltro/migrazioni”, un contributo di visioni diverse per poter comprendere e dare un volto a coloro i quali il linguaggio corrente definisce come “clandestini”, per dare elementi a una discussione che non si può lasciare solo alla televisione, la scatola magica che gestisce il monopolio delle informazioni. È urgente aprire nuovi spazi di discussione, nei quali poter vedere i visi degli altri e comprendere che sono uguali ai nostri. Questa prima esperienza ci dà la possibilità di affermare lʼesistenza di un gruppo composto da persone interessate a realizzare una piattaforma da dove poter vedere il mondo attraverso il panorama privilegiato dei documentari. Viviamo nellʼonnipotenza delle immagini, milioni di occhi, obiettivi, telecamere di sorveglianza poste in ogni angolo che documentano e registrano ogni cosa. Telefonini, fotocamere, teleobiettivi, perfino dalle orbite satellitari si riprendono scorci di spazi uniti in un enorme puzzle, che comprende e fa vedere tutto ma non racconta nulla. Tutti registrano tutto: i fatti che balzano alla fama sono stati visti da migliaia di persone attraverso la rete e hanno i loro 15 minuti di gloria e, se le immagini documentano situazioni particolarmente raccapriccianti, possono perfino finire dentro la scatola magica. Il tempo passa e vediamo ritornare con rinnovata naturalezza, il documentario, il documentare che arriva a raccontare il mondo. Le ultime tecnologie hanno permesso a chi non pensava neanche di comprare una videocamera, di averla allʼinterno di un comune e inseparabile telefonino. È sorprendente scoprire che un mezzo audiovisivo così elementare, già con pochi accorgimenti espressivi, riesca a raccontare una storia e a esprimere in grande, la voglia di libertà latente che ogni essere umano ha. Nella continua evoluzione sta la freschezza del documentario, nel darci la visione di una realtà, che se pur manipolata in senso tecnico ed espressivo, riesce a farci stare con i piedi per terra. Siamo stanchi e annoiati, però stiamo chiusi in casa, seduti con gli occhi fissi sulla scatola magica che ci fa vedere solo le miserie e amplifica le solitudini. Assistiamo


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attoniti come la dignità dellʼuomo venga promossa a prodotto commerciale e a come il dolore e le lacrime siano parte di un grande circo mediatico. Lʼ importante è partecipare.Non stare solo a vedere, questo dovrebbe essere lʼesercizio quotidiano di ognuno. Apprendere lʼuso di un mezzo in continua evoluzione come il documentario, appropriarsi dei suoi linguaggi, ci permette di amplificare ogni voce e farci riflettere e riflettere la nostra realtà come davanti uno specchio, per quella che è. Lo specchio può dire solo la verità, dice Umberto Eco. La verità è umana. Cercare di capire, documentare la realtà significa scrivere la storia umana, attraverso la verità degli uomini, di qualsiasi parte del mondo. È così vivo per i latinoamericani e per i nordamericani, il ricordo di una grande migrazione di europei che cercavano di sopravvivere alle carestie, alle guerre e alle leggi razziali del vecchio continente, neanche tanto tempo fa, così come deve essere ancora vivo per un italiano del sud il ricordo delle partenze verso le fabbriche del nord o, più di recente le cosiddette “emigrazioni culturali”, di giovani che cercano unʼopportunità altrove, se qualcuno dovesse riconoscersi in queste definizioni, allora stiamo parlando, non di flussi migratori, ma di persone, uomini e donne. Il cinema documentario ci dimostra queste verità. *Direttore del Festival Internazionale del Cinema Documentario



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IL PUNTO DI VISTA DEL CAMBIAMENTO Santo Gioffrè*

La Città e la Provincia di Reggio Calabria sono liete di ospitare la Prima Edizione del Festival Internazionale del Cinema Documentario, la mostra “Da un Sud allʼAltro- Migrazioni”. Un evento molto importante per le città coinvolte e per coloro che fruiranno dellʼiniziativa. Il tema di questa prima edizione è la questione della Migrazione che ci tocca, ancora oggi, in prima persona. Un secolo fa da questa terra partivano i nostri emigrati in cerca di fortuna e sopravvivenza in una terra lontana, lʼAmerica. Negli Cinquanta del secolo scorso dalla Calabria i nostri parenti più stretti, i nostri vicini di casa lasciavano case e famiglie in cerca di lavoro. Ancora oggi assistiamo alle partenze: ogni viaggio e ogni viaggiatore deve far parte della nostra memoria collettiva: dalla memoria ricostruiamo la nostra storia. A distanza di pochi anni, cambia il colore della pelle, la religione o il posto in cui si combatte una guerra ma ancora si è costretti a migrare. La Calabria si è trasformata da terra di emigranti in luogo ancora capace di donare uno dei suoi più grandi beni: lʼospitalità. Nella provincia di Reggio Calabria molte sono le esperienze di convivenza con altre culture, che in alcuni casi hanno aiutato a far rivivere paesi svuotati dalla necessità di lavoro, dallʼemigrazione. La società odierna si evolve in continuazione, è caratterizzata dalla multiculturalità, la comunicazione è uno strumento importante di questo cambiamento. Questo Festival rappresenta un punto di vista del cambiamento: da sempre il documentario, come forma cinematografica, recupera e tutela la memoria, oltre che essere un importante strumento educativo e formativo. Non sempre però il documentario, nonostante queste premesse, trova spazio nelle sale cinematografiche. Lʼinvito del Festival è rivolto in particolar modo ai giovani, ed è quello ad apprendere la potenzialità espressiva del linguaggio audiovisivo e a guardarsi intorno, osservare, registrare, ricercare, in una parola: testimoniare al futuro la nostra realtà presente. *Assessore alla Cultura e allo Spettacolo della Provincia di Reggio Calabria


IL DOCUMENTARIO, LA STORIA E LA POLITICA: CORSI E RICORSI DI UNA FORMA CINEMATOGRAFICA Alessia Cervini*

Nellʼenorme quantità di esempi illustri di cui si potrebbe parlare - volendo occuparsi del documentario inteso come forma cinematografica, per eccellenza politica - è possibile isolare una famiglia ben nota di registi per i quali lʼattività della ripresa documentaristica del reale è stata anzitutto azione politica, non solo e non semplicemente perché essa si è preoccupata di testimoniare un “dato” (sociale, antropologico, storico) che altrimenti sarebbe rimasto del tutto ignoto, ma anche e forse soprattutto perché essa è stata il risultato di un lavoro collettivo, portato avanti non da uno, ma da più operatori insieme. Così considerato, il documentario può dirsi prodotto di una presa di posizione politica, ben prima della sua effettiva realizzazione, per il fatto semplice, ma per nulla scontato, che esso assume la forma cooperativa come modalità privilegiata del proprio operare. Non è più, dunque, solo lʼoggetto del documentario a essere oggetto politico, ma è la forma documentaristica stessa a farsi, sin a subito, portatrice di unʼistanza politica irrinunciabile per un cinema che si proponga come strumento di conoscenza e trasformazione del reale. Trasformazione che, evidentemente, non può essere delegata allʼazione isolata di un singolo, ma che richiede la partecipazione attiva di un gruppo ben organizzato di persone: i realizzatori, così come, allo stesso modo, i fruitori di unʼopera cinematografica di tipo documentaristico. Sono esempi di questo modo di intendere il documentario i film realizzati da Dziga Vertov e dal suo combattivo gruppo di Kinoki, nella Russia sovietica dei primi anni Venti. Cosʼaltro erano, infatti, Kinoglaz (1924) e Kinopravda (1925) se non il tentativo radicale di rompere con quella concezione borghese secondo la quale la buona riuscita di un film era inevitabilmente connessa a una buon lavoro di scrittura, a una convincente prova attoriale, a una efficace costruzione registica? Sceneggiatura, recitazione, regia erano gli obiettivi contro cui si scagliava la


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battaglia politica e artistica del gruppo di cineoperatori guidati da Dziga Vertov. Fu forse proprio lʼidea che il compito di una ripresa diretta del reale (della “vita”, come diceva il grande regista russo) potesse, anzi dovesse, essere esteso a un numero sempre crescente di cineoperatori e non essere considerato privilegio esclusivo di un “autore”, a rendere invisa lʼopera di Vertov ai vertici politici sovietici.

È infatti autenticamente rivoluzionario quel progetto che contempla la possibilità di assegnare a chiunque il compito di testimoniare il reale che ha davanti agli occhi. E se è così, quella che prima di tutto va superata è lʼidea che la realizzazione di un documentario possa essere affidata al lavoro di un singolo. Si richiamava, così, allʼautorità e allʼesperienza di gruppo come quello guidato da Dziga Vertov, il lavoro di un altro gruppo formato, questa volta, da Jean-Luc Godard e Jean-Pierre Gorin, un militante marxista-leninista che il regista aveva conosciuto dopo il Maggio 1968. Sin dal suo primo film, British Sounds (1969), il gruppo aveva posto fra i suoi obiettivi la necessità non solo di realizzare film “politici” (che avessero scelto cioè un oggetto politico come proprio oggetto), ma di farlo “politicamente”, rivoluzionando il sistema della produzione quanto quello della distribuzione cinematografica. Ciò che doveva rimanere quasi del tutto un sogno alla metà degli Venti, e poi ancora alla fine degli anni Sessanta, può invece per molti versi dirsi realtà oggi, in un momento storico in cui lʼincredibile avanzamento tecnologico degli ultimi anni (digitale e internet in primis) rendono per la prima volta realmente possibile la realizzazione di documentari a basso costo e con mezzi facilmente accessibili, nonché la loro capillare distribuzione su piattaforme capaci di superare e rendere desueti i circuiti classici delle sale cinematografiche. Il fiorire di nuovi gruppi di giovani operatori, più o meno consapevoli (dagli studenti dellʼOnda, ai manifestanti di Teheran) lascia sperare che alla rinascita di una forma cinematografica come quella documentaristica si associ, oggi come in passato, lʼavvento di una nuova stagione politica. *Docente di Filosofia del Cinema, Università della Calabria


LA MIGRAZIONE DEGLI SGUARDI di Bruno Roberti*

Il documentario ha alle sue spalle una doppia radice: da un lato le “origini” Lumiere, con gli spostamenti nelle città e gli arrivi nel mezzo della vita (cogliendola sul fatto) degli uominicon-la-macchina-da-presa e dei cineocchi ( in una linea che conduce direttamente a Dziga Vertov ); dallʼaltro la grande svolta moderna del cinema del reale (dallʼocchio migrante di un Ioris Ivens, allo sguardo “balade”, come direbbe Deleuze, del neorealismo), e poi quella del cinema-veritè, della camera-stylo, legata alla stagione delle Nouvelle Vague, quando scendere dans la rue significava non solo militanza filmica, ma anche grande libertà di stare sul campo, accanto allʼuomo, per registrarne i mutamenti, i movimenti, i gesti culturali. Questo paesaggio storico del documentario costituisce oggi la forza motrice, il retroterra, la spinta, della sua attualità, di una sua nuova possibilità e necessità, ma anche di una sua capacità di alterazione rispetto al contesto massificante della medialità, a quella sceneggiatura del reale già pre-scritta (direbbe Comolli) dalla sorveglianza di un occhio onnipresente e amorfo, che sostituisce al reale il reality. Da questʼocchio anodino, micidiale, panoptico, che mentre simula il voir (vedere) esercita il povoir (potere), bisogna fuggire, mettere in moto lʼenergia residuale , gli scarti di immaginario: in altri termini far circolare liberamente, oltre ogni frontiera, gli sguardi, e farli scambiare nel loro essere altri , nel loro essere portatori di altri cieli e altre terre, della circolarità visiva di altri orizzonti. Quindi essere insieme sul fatto, qui ed ora, calarsi con mille occhi ( anche quelli delle telecamerine digitali come è successo a Genova nel 2001) dentro le maglie del reale per metterne in luce anche il lato nascosto, per smascherarne i trucchi che pure vic sono inerenti, oltre che per esaltarne il potenziale ribollente e trasformativo, ma anche essere continuamente altrove , testimoniando il movimento e la dinamica di volti, di storie, di memorie, di progetti, di culture, riversando questo divenire nella stessa forma della visione, nella stessa attitudine documentaristica. Quindi inventando forme nomadi, contaminate : allʼoccorrenza crude e se è il caso allucinatorie. Perchè documentare con uno sguardo migrante il reale significa anche immettervi il potenziale della fantasia, lʼestasi della


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scoperta , il brivido dellʼimpre-visto. Cineasti come Kiarostami, Kusturica, Sokurov, Gitai, Naderi, Bressane, Ruiz, Pedro Costa, Straub/Huillet, Herzog, Wenders, che possono dirsi maestri del cinema, sono anche sempre pronti a mettersi in gioco, a inventare forme che solcano e dissodano terreni di frontiera non soltanto tra finzione e documentario, ma proprio tra un occhio dʼautore e un occhio fluido, diffuso, contaminato, migratorio: un occhio altro che ha il coraggio di uscire da sé e mettere in discussione tutte le sicurezze.

Aprirsi a questo altro significa mettersi in viaggio con la macchina da presa e insieme con la mente libera, per sprigionare energie capaci di rovesciare lʼappiattimento globalizzante. Pensare oggi un binomio documentario/migrazione significa anche praticare queste frontiere, mettere in relazione sguardi, e se questo lo si fa con un festival e lo si fa nel paesaggio meridiano di un Sud, italiano e del Mondo, che è di per sè frontiera mobile, che di per sé si destina allʼapertura di orizzonti, di frontiere non solo tra me e lʼaltro, tra il mio e lʼaltrui sguardo, ma anche tra lʼimmagine e il suo futuro. Lo si è visto proprio in Calabria con esempi recentissimi: la sperimentazione di Raul Ruiz,che ha girato un film, sospeso tra allucinazione e reale, assiemeagli studenti del Dams allʼUniversità della Calabria, elʼavventura di Wim Wenders che si è lanciato nel primo esperimento di 3D del reale: un cortometraggio sullʼepisodio dimigrazione e accoglienza a Badolato, girato, tra finzione e documento, con la plasticità volumetrica e stereoscopica dellʼimmagine e dello spazio in tre dimensioni, titolo “Il Volo”. Lo si è visto con la strenua resistenza di un cineasta ultraottantenne, maestro del documentario, come Vittorio De Seta, che continua a girare in Calabria e nel Sud del mondo, dedicando proprio ai temi della migrazione la sua attenzione e il suo sguardo. Lo si vede con i diversi gruppi di filmakers che si formano nel nostro Sud e in Calabria. Con molti cineasti giovani che mettono in volo il loro sguardo migrante, disseminandolo in diversi Sud: da Stefano Savona a Salvo Cuccia, da Frammartino a Cotronei, dalla coppia DʼAgostino e Lavorato a Ciprì e Maresco. Eʼ questo volo delle immagini, il loro migrare nelle visioni che va documentato. *Docente di cinema allʼUNICAL e critico cinematografico



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LA TERRA (e)STREMA

Anno di Produzione 2009 Durata 55ʼ Regia: Enrico Montalbano, Angela Giardina, Ilaria Sposito Produzione: Andy Studio Video Coproduzione: Arci Sicilia ASGI Sceneggiatura: Enrico Montalbano, Angela Giardina, Ilaria Sposito Fotografia: Enrico Montalbano, Ilaria Sposito Suono: Francesco De marco Montaggio: Enrico Montalbano Aiuto montaggio: Angela Giardina Musica: Tato Izzia – Lab. Idee

La raccolta stagionale nei campi della Sicilia si svolge quasi interamente sul lavoro dei migranti, braccianti improvvisati che subiscono tutte le contraddizioni di un territorio difficile e di un sistema profondamente in crisi, quello dellʼagricoltura. Il film è un viaggio, da oriente ad occidente, da maggio a novembre che racconta le “campagne” e i suoi protagonisti: il piccolo produttore che diviene bracciante di se stesso, strozzato da un mercato senza regole, ricattato da imposizioni di prezzo che lo


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costringono ad indebitarsi, ed il bracciante straniero che è costretto a lavorare sottopagato, senza contratto nella stragrande maggioranza dei casi, e senza casa, costretto a ripiegare su di un sistema di accoglienza ambiguo, quando presente, o ad auto-organizzarsi con accampamenti improvvisati in mezzo ai campi.

Angela Giardina Psicologa, vive e lavora a Palermo. Da molti anni si occupa con il Laboratorio Zeta di Palermo (www.zetalab.org) di immigrazione. Eʼ co-redattrice del webmagazine Kom-pa www.kom-pa.net/ e di Komzilla (sul sito di Kom-pa), videomagazine allʼinterno del quale ha realizzato insieme ad altri alcune video inchieste sul territorio Siciliano. Enrico Montalbano Si occupa di produzione video, con particolare attenzione al reportage sociale. Ha un proprio studio di produzione video denominato ANDY STUDIO ad Agrigento. Ha prodotto in questi anni alcuni documentari sulla questione migrante: uno fra tutti HURRYA scaricabile dal sito: www.arcoirs.tv Da anni collabora da freelance con alcune televisioni locali e nazionali. Ha collaborato alla realizzazione di immagini per altri documentari, svolgendo anche altri ruoli di produzione. Autore, insieme ad altri due freelance tedeschi,di un reportage prodotto dalla SWR, emittente naxionale tedesca. Ilaria Sposito Vive tra Pisa e Palermo e da molti anni si occupa di immigrazione e diritti di cittadinanza. Con il Laboratorio Zeta di Palermo (http:// www.inventati.org/zetalab/) ha realizzato numerose iniziative a sostegno dei richiedenti asilo e per la chiusura dei CPT. Con lʼassociazione Africa Insieme ha seguito numerose battaglie a favore dei migranti e dei rom presenti sul territorio pisano. Operatrice del terzo settore, vive con il cane Mario, il compagno Andrea e, da pochi mesi, il piccolo Bruno. Da un poʼ di tempo si occupa di ricerca e videodocumentazione sociale. Ha realizzato, insieme ad Alessia Del Bianco, il video “Voci senza quartiere”, sugli immigrati nella zona stazione a Pisa. Il documentario è in selezione al Festival dei Popoli di Firenze. In fase di allestimento la programmazione per la presentazione del video in dicerse tappe sul territorio europeo.


Genesi de LA TERRA (e)STREMA Assistiamo da anni, ad una crescente restrizione dei diritti dei migranti nel nostro paese. In Sicilia, una delle prime terre dʼapprodo degli stranieri che attraversano il Mediterraneo, le leggi che impediscono la libertà di movimento degli stranieri sono in commistione ad una crisi profonda dellʼoccupazione e dello sviluppo. Ciò comporta una estrema precarietà della vita dei migranti, ricattabili dal punto di vista della loro regolarità sul suolo italiano, legata al filo sottile del permesso di soggiorno. La decisione di voler delineare le dinamiche entro le quali si snoda la tragicità della condizione dei braccianti migranti in Sicilia per noi è stata quasi una scelta obbligata. Obbligata dal percorso e dalle azioni da noi compiute da anni, dai tempi della legge TurcoNapolitano (legge 40/1998) Testo Unico sullʼimmigrazione, che istituisce i Centri di Permanenza Temporanea in Italia, e ancora di più, dopo lʼemanazione della legge Bossi-Fini (legge 189/2002) che lega lʼingresso in Italia dei lavoratori stranieri al permesso di soggiorno rendendoli così, inevitabilmente, vittime del lavoro nero e della clandestinità, soggetti costretti ad accontentarsi di condizioni lavorative e di sfruttamento inaccettabili, con il timore di poter essere in qualunque momento rispediti alla frontiera. Le nostre lotte, al fianco dei migranti, per la chiusura dei CPT, nelle vertenze per richiedere un centro di accoglienza idoneo ai richiedenti asilo, per denunciare soprusi, ingerenze ed indifferenza, hanno scandito questi ultimi dieci anni. In questi anni abbiamo prodotto eventi, documenti, raccolto testimonianze, sia in modo collettivo che individuale, abbiamo intrecciato percorsi, creato contatti, collaborazioni, abbiamo raccontato storie e ce le siamo fatte raccontare. I video, le inchieste, i dossier hanno avuto sempre la funzione di rispondere ad una nostra urgenza: quella di documentare, di diffondere, di creare conoscenza e consapevolezza della realtà, di non smettere mai di “camminare domandando”. Due anni fa un nostro amico ci contatta per raccontarci la situazione dei raccoglitori di patate a Cassibile, in provincia di Siracusa. Una situazione che conoscevamo già dagli anni


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precedenti e che puntuale si ripresentava ogni maggio, il periodo della raccolta. Raggiungiamo Cassibile e decidiamo di voler documentare la vicenda, questa volta con un video. Allora iniziamo, intervistiamo gli abitanti del paese, parliamo con i migranti rimasti nelle tende sotto gli alberi perché quel giorno nessuno li ha fatti lavorare, aspettiamo quelli che la sera tornano dai campi. Ci appoggiamo a persone che conosciamo li alle quali chiediamo di ospitarci, discutiamo insieme sulla vicenda, ci confrontiamo, nascono nuove idee. E nuove domande. Le condizioni dei migranti che si spostano nei vari territori siciliani inseguendo le raccolte stagionali sono uguali in tutti le zone? Quali sono le meccaniche del lavoro in nero in agricoltura? Ci spostiamo a Pachino, paese in provincia di Siracusa, uno dei più grandi centri di coltura in serra del famoso pomodorino e per la prima volta intervistiamo un piccolo agricoltore. È così che veniamo a conoscenza di un mondo a noi in gran lunga sconosciuto, un mondo in profonda crisi e in via di grandi trasformazioni, il mondo dellʼagricoltura. Decidiamo di saperne di più e di raccontarlo nel nostro lavoro, un livello di comprensione in più, che ci appare necessario per rendere intelligibile una parte del sistema che posta allo sfruttamento del lavoro migrante. Per lo stesso motivo decidiamo di occuparci dellʼaccoglienza allestita dalle istituzioni per i braccianti stagionali (tendopoli della Croce Rossa, della Misericordia), come elemento aggiuntivo e a nostro avviso indispensabile per leggere la vera faccia del pensiero e della politica del nostro Paese sulla questione immigrazione. Da questi elementi, e da molte più vicende, nasce un film che prova a far raccontare non solo i migranti, ma il sistema allʼinterno del quale le loro condizioni trovano lettura.

Post Scriptum. Questo film nasce dallʼidea dei tre coautori, e dal supporto materiale, cognitivo ed affettivo (ospitalità nei vari territori, disponibilità alla documentazione, partecipazione attiva alle ricerche e alle interviste, comprensione e cura) di un numero ampio di persone a noi vicine in questi anni, senza le quali tutto sarebbe stato molto più difficile. Lo spirito di questo film lo dobbiamo anche a loro.


Septiembres

Regia e Sceneggiatura: Carles Bosch Musica: Gorka Benitez Fotografia: Walter Ojeda, David Fernandez Miralles Produzione: Carles Bosch, Tono Folgueda, Loris Omedes Spagna 2007, BETA SP, v.o.sp./sott.it, 89ʼ Ogni settembre, nella prigione di Soto del Real, a Madrid, si celebra il Festival della Canzone. I partecipanti sono i reclusi provenienti da prigioni diverse, questi sono i protagonisti della pellicola. Il festival è solo il punto di partenza, da dove quattro uomini e quattro donne ritornano alla loro routine carceraria, che ci permette di entrare nelle loro vite e nelle intimità delle loro relazioni sentimentali. Lʼamore (o la sua assenza) serve da linguaggio comune, affinchè lo spettatore comprenda il mondo della prigione da unʼottica che risulta vicina a tutti noi. A distanza di un anno, da settembre a settembre tra festival e festival, la pellicola racconta le loro storie dʼamore, come si svolgono o come si disintegrano, la loro volontà di uscire dal pentimento e del senso di colpa che portano.


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Cada septiembre, la prisión de Soto del real, en Madrid, celebra el Festival de la Canción. Los participantes son reclusos venidos de distintas prisiones, y ellos son los protagonistas de la película. El festival es solo el punto de partida, desde donde los cuatro hombres y las cuatro mujeres regresan a su rutina carcelaria y nos permiten entrar en sus vidas y en la intimidad de sus relaciones de amor. El amor (o su ausencia) sirve de lenguaje común, para que el espectador entienda el mundo de la cárcel desde una óptica que a todos nos resulta próxima. A lo largo de un año-es decir, de septiembre a septiembre y entre festival y festival-, la película retrata sus historias de amor, cómo se desarrollan o cómo se desintegran, su voluntad de salir del arrepentimiento y del peso de la culpa que cargan.


Sin papeles en Alemania

Regia: Mauricio Estrella e Fernando Uzcategui Germania/Ecuador, 2006, v.o. sp.ted./sott.it., 30ʼ Eʼ un film composto dalle storie di vita di alcuni immigrati ecuadoriani in Germania che presenta soprattutto le difficoltà con le quali queste persone si trovano a causa della loro situazione di clandestinità. Il film mette in contrasto la perseveranza e la tenacità dei protagonisti, spinti dal compromesso ineludibile di dare benessere alla loro famiglia, con un sistema creato per annichilirli. Le storie e i loro aneddoti dipingono un atteggiamento ingenuo e astuto degli immigranti, la solidità dei loro sogni e il rischio al quale si espongono di venire umiliati ogni giorno.


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Filme compuesto por las historias de vida de algunos inmigrantes ecuatorianos en Alemania que retrata principalmente las penurias a las que se ven obligados estos personajes debido a su situaciĂłn de ilegalidad. El filme consigue contrastar la perseverancia y tenacidad de los protagonistas, empujaos por el compromiso ineludible que han adquirido de brindar bienestar a su familia, con un sistema diseĂąado para aniquilarlos. Las historias y sus anĂŠcdotas dibujan el talante a la ves ingenuo y astuto de los inmigrantes, la solides de sus sueĂąos y el riesgo de ser humillados al que se exponen a diario.


Made in L.A.

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USA 2007, BETA SP Color 70, v.o. sp.ing./sott.ita, 70ʼ Regia: Almudena Carracedo Sceneggiatura: Almudena Carracedo, Robert Baham, Lisa Leeman Fotografia: Almudena Carracedo Musica: Joseph Julian Gonzales Montaggio: Lisa Leeman, Kim Roberts, Almudena Carracedo Direttore di produzione: Robert Baham, Almudena Carracedo Maria, Lupe e Maura sono tre donne immigranti di origine latina che lottano per sopravvivere nelle sartorie di Los Angeles. Ma un giorno, determinate a conquistare sia pur minime tutele sul lavoro esse sʼimbarcano in unʼodissea di tre anni che trasformerà le loro vite per sempre. Commovente, umoristica e profondamente umana, Made in L.A. è una storia sulla immigrazione, il potere dellʼunità e il coraggio necessario a incontrare la nostra voce.


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María, Lupe y Maura son tres inmigrantes latinas que luchan por sobrevivir en los talleres de costura de Los Ángeles. Pero un día, con la determinación de conseguir derechos laborales básicos, se embarcan en una odisea de tres años que cambiará sus vidas para siempre. Conmovedora, simpática y profundamente humana, Made in L.A. es una historia sobre la inmigración, el poder de la unidad, y el valor que se necesita para encontrar tu propia voz.

MADE IN L.A


La separación

Francia 2005, v.o.sp/sott.it., 52ʼ Regia e sceneggiatura: Samanta Yépez Riprese: Cyirl Terracher Suono: Jean-Michel Vincent Montaggio: Seb Farges Direttore di produzione: David Hurst Delegato di produzione: Jean-Marie Bertineau Produzione: Zangra Production (Francia) Coproduzione: Linda Ortholan (Francia) Nel 1999, lʼEcuador attraversò una profonda crisi economica che scatenò una migrazione massiva verso la Spagna. Da allora quindi, una numerosa comunità ecuadoriana si concentrò in Murcia, ricca regione agricola del sud-est spagnolo. Qui vivono Pepin, Fausto e Fabian. I tre fanno parte di quella prima migrazione, il cui obiettivo iniziale era quello di ritornare in Ecuador, ma che, di fronte alla instabilità economica del loro paese, preferì rimanere in Spagna. Oggi, Fabian vive con sua moglie e sua figlia; Pepin, scapolo, sogna di portare in Spagna sua madre e i suoi fratelli, mentre Fausto, senza documenti, si ritrova tuttavia da solo. A tutti e tre è toccato vivere la sofferenza della separazione.


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Seguendo da vicinquesti personaggi, la pellicola esplora lʼesperienza dellʼesilio obbligato e dello sradicamento e ci mostra il legame vitale di questi migranti per avere un rapporto con la loro famiglia e il loro paese.

En 1999, el Ecuador Atravesó por una profunda crisis económica que desencadeno una migración masiva hacia España. Desde entonces, una numerosa comunidad ecuatoriana se concentro en Murcia, prospera región agrícola del sureste español. Aquí viven Pepín, Fausto y Fabián. Los tres forman parte de aquellos primeros migrantes cuyo objetivo inicial era regresar al Ecuador, pero que, frente a la inestabilidad económica de su país prefirieron quedarse en España. Hoy en día, Fabián vive con su esposa y su hija; Pepín, aún soltero sueña con traer a España a su madre y sus hermanos, mientras que fausto, sin papeles, se encuentra solo todavía. A los tres les ha tocado vivir el sufrimiento de la separación. Siguiendo de cerca a estos personajes, la película explora de cerca la experiencia del exilio obligado y el desarraigo, y trata de mostrarnos el lazo vital que estos migrantes se esfuerzan por mantener con su familia y su país.


Problemas personales

Ecuador 2003, DV Cam 16:9, v.o.sp./sott.ita, 72ʼ Regia e Sceneggiatura: Lisandra I. Rivera e Manolo Sarmiento Produzione: Pequena Nube, Quito-Ecuador

Antonio, Jorge e Geovany sono ecuadoriani e sono arrivati a Madrid in cerca di lavoro. Antonio apre unʼattività commerciale che rende bene nel fine settimana, Jorge aspetta la sua regolarizzazione in una piccola casa che divide con altri conterranei e Geovany si muove in città alla ricerca di un lavoro. Con il passare del tempo affiorano i loro dilemmi. Antonio non vuole tornare al suo paese, che è diventato per lui una terra senza futuro, Jorge tornerà quando riuscirà a trovare ciò che cerca e soltanto Geovany pensa di tornare. Finalmente, dopo un anno, oppressi dalla solitudine, la vita impone a ognuno di loro un destino differente. È giunta lʼora di tornare o di rimanere, di ricominciare ancora o di fare come se niente fosse stato.


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Antonio, Jorge y Geovany son ecuatorianos y han llegado a Madrid en busca de trabajo. Antonio abre un lucrativo negocio de fin de semana, Jorge espera su regularización en la estrecha habitación que comparte con otros paisanos y Geovany deambula por la ciudad en busca de trabajo. Con el paso del tiempo van aflorando sus dilemas. Antonio no quiere volver nunca a su país, que se ha convertido para él en una tierra sin futuro, Jorge solo volverá cuando consiga lo que busca y Geovany solo piensa en volver. Finalmente, al cabo de un año, agobiados por la soledad, la vida impone a cada uno de ellos un destino diferente. Es la hora de volver o de quedarse, de comenzar de nuevo o de hacer como si nada hubiera pasado.

Lisandra I. Rivera Nasce a San Juan, Puerto Rico, nel 1966. Vive in Ecuador dal 1992. Ha lavorato come produttore nellʼindustria televisiva degli Stati Uniti e dellʼEcuador fin dal 1988. Ha curato la produzione di lungometraggi di fiction “Ratas, ratones, rateros” (1998) e “Cronicas” (2003) di Sebastian Cordero. Ha compiuto gli studi di cinema e televisione nellʼAmerican University in Washington D.C. e ha insegnato produzione di documentari nellʼUniversità di San Francisco de Quito, in Ecuador. Manolo Sarmiento Nasce a Portoviejo, Ecuador, nel 1967. Ha lavorato come giornalista e regista televisivo dal 1994. Nel 1997 ha vinto il premio nazionale di giornalismo “Simboli di libertà” su una storia di una comunità di pescatori di crostacei e sulla lotta contro i proprietari delle vasche di allevamento. Nel 1998 ha diretto lo speciale televisivo “La strada dei libanesi” sulla storia dellʼimmigrazione libanese in Ecuador. Ha studiato diritto allʼuniversità Cattolica di Quito e cinema allʼUniversità di Parigi 3, Sorbonne Nouvelle in Francia. Lisandra Rivera e Manolo Sarmiento sono membri di Cinemenoria, associazione che organizza annualmente il festival di documentari “Encuentros de Otro Cine” in tre città dellʼEcuador. “Problemas Personales” è il loro primo lungometraggio documetario.


UNA STORIA DI MIGRANTI Tra il 1995 e il 2003 circa un milione di ecuadoriani ha abbandonato il loro paese in cerca di migliori opportunità. La maggior parte di essi si è trasferita in Spagna. Le riprese di “Problemas Personales” cominciano nel dicembre del 1999. Negli stessi giorni, migliaia di immigrati si riuniscono alla Puerta del Sol a Madrid, per protestare e per ottenere una legge sullʼimmigrazione più giusta. Tra loro ci sono alcuni ecuadoriani che più tardi diventeranno i personaggi principali del film. Durante i mesi seguenti – fino al luglio del 2000 - Sarmiento e Rivera si dedicano a filmare gli avvenimenti della loro vita privata. Le riunioni familiari, gli addii, i momenti di ozio e di solitudine, la ricerca di un lavoro, le feste, le telefonate e il ritorno di alcuni di loro. Il risultato è un film documentario di 72 minuti di durata, centrato sulla vita di tre personaggi: Antonio, Jorghe e Geovany. I realizzatori tornarono in Ecuador nellʼottobre del 2000 e lì filmarono alcune scene finali. Durante lʼanno 2001, la pellicola fu editata a Quito e fu proiettata nel I festival del cinedocumentario “Encuentros de Otro Cine” nellʼaprile del 2002 -Quito, Guayaquil y Cuenca- dove fu votata come migliore pellicola dal pubblico accanto a “Il caso Pinochet” di Patricio Guzman.


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NÉ CRONACA NÉ ACCADEMIA. LIBRI “RICHIESTI” DALLA REALTÀ Antonello Mangano*

Carta più Internet, memoria più ricerca sul campo: sono queste le parole chiave la nuova fase di “terrelibere.org”. Una svolta datata 2009, esattamente a dieci anni dalla fondazione del sito. Ma fin dal 1999 abbiamo provato a pensare un progetto differente da tutto il resto (“altre forme di comunicazione”): diverso dai mezzi di comunicazione su carta, ma differente anche dai modelli provenienti da Internet, che nella sua pur breve storia ha attraversato diverse fasi, dalla telematica amatoriale/ militante al prevalere dei portali commerciali, dalla bolla della new economy allʼesplosione dellʼautopubblicazione (il fenomeno dei blog) fino al web 2.0, caratterizzato da condivisione ed alta interattività . Eppure, troppi siti web sono oggi intrappolati nellʼ“lʼargomento del giorno” o nelle “news” imposte dalla televisione, limitandosi a commentare oppure a riprodurre informazioni “di minoranza” spesso ancora più conformiste e piatte rispetto a quelle prodotte dagli organi ufficiali. Il fenomeno del “copia-incolla”, inoltre, impedisce di individuare la fonte originale, e di conseguenza diminuisce la credibilità complessiva del mezzo. Il nostro sito - invece – si è subito caratterizzato come “rivista elettronica”, ospitando interventi di qualità e non legati necessariamente allʼattualità. La vera sfida per lʼinformazione alternativa sul web è quella di acquisire la capacità di “creare” le notizie, stimolare la riflessione e non solo di produrre commenti indignati. Poi, dieci anni dopo, nasce la consapevolezza che la rete non basta. Dunque, non un passo indietro ma una scelta che prova a creare sinergia tra carta e telematica. Il libro può essere quella calamita che collega associazioni, movimenti, persone,


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luoghi. Le presentazione lʼoccasione per andare nei centri sociali, nelle piazze, nelle parrocchie, nei circoli di conversazione, persino nei centri commerciali. Non per incontrare, banalmente, chi non usa il computer. Ma per mostrare lʼaspetto tangibile del nostro lavoro.

La casa editrice nasce subito con unʼidea precisa: “occupare” quella terra di mezzo tra la ricerca accademica, spesso autorefenziale ed astratta, ed il giornalismo cronachistico, incapace di approfondire e di avere memoria. Poi, ovviamente, integrare cartaceo ed internet, provando a costruire un nuovo strumento che raggiunga un pubblico più ampio, “svecchiando” quei settori che rimangono sterilmente affezionati alla carta ed allo stesso tempo dando nuova autorevolezza a quanto pubblicato sul Web. Dopo una lunga fase di sperimentazione (2007 e 2008), che ha visto la pubblicazione di diversi libri con tecnologia “print on demand”, dal 2009 terrelibere.org diventa un editore a tutti gli effetti (ISBN, bookshop on line, presenza nelle librerie), con i libri “Un posto civile”, “Ponte sullo Stretto e mucche da mungere” e “Gli africani salveranno Rosarno”. Questʼultimo libro rovescia il modo tradizionale di operare: non è lʼeditore a provare ad imporre una sua “creatura”, ma è la realtà stessa a mostrare la necessità di essere narrata. La realtà di Rosarno è estrema, durissima. Ma è anche un pugno in faccia allʼintero Paese che delira di immigrati criminali, ed ignora quelli che sono vittime della mafia e che ad essa si sono ribellati; che parla di malattie importate e non sa di quanti lavoratori stranieri si ammalano nelle campagne per sostenere la nostra economia; che accusa i “clandestini” e dimentica che tra essi cʼè, semplicemente, chi ha perso il lavoro o chi ha ricevuto un rifiuto alla domanda dʼasilo. *Terrelibere.org


GLI AFRICANI SALVERANNO ROSARNO. E, PROBABILMENTE ANCHE LʼITALIA. Non cʼè un posto in Italia come Rosarno, che come Rosarno riassuma i drammi e le contraddizioni della nostra epoca. Dallʼeconomia globale a quella criminale, dalla mafia alle migrazioni. Il libro analizza lʼaspetto socio-economico (lavoratori marginali inseriti in un contesto mafioso moderno ed arcaico), quello giuridico (come le leggi razziste producono marginalità fino al lavoro servile), storico (dallʼoccupazione delle terre allʼomicidio Valarioti fino alle lotte di massa contro la mafia), geopolitico (le grandi migrazioni dallʼAfrica allʼEuropa)

A cura di Antonello Mangano.

Gli africani salveranno Rosarno. E, probabilmente, anche l`Italia.

Terrelibere.org edizioni, Messina-Catania. Febbraio 2009. Interventi di Giuseppe Lavorato, Fulvio Vassallo Paleologo, Fortress Europe. Prefazione di Valentina Loiero. Postfazione di Tonio Dell`Olio. Pagine 104. ISBN 9788890381713.

www.terrelibere.org

foto Aldo Valenti


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MINATORI E MIGRANTI, COSTRETTI ALLA VELOCITÁ NEI CANTIERI LUMACA Intervista di Claudio Metallo a Pietro Mirabelli, operaio nei cantieri tav

Si sono trasferiti in massa dal crotonese alla Toscana, vivono in file di container, vere baracche chiamate campo base. “Come si emigrava nel 1950 si emigra adesso, forse di più”, dicono. Scavano le gallerie del Treno ad Alta Velocità, è gente che sʼè spaccata mani e polmoni per costruire strade e ferrovie. Oggi lottano per ritmi di lavoro più umani, per non piangere più colleghi morti e per affermare che non farsi male è un diritto. Pagliarelle è un piccolo paese del crotonese che conta duemila abitanti circa. Eʼ arroccato sulle montagne sopra Petilia Policastro e non è per niente facile da raggiungere, non cʼè una stazione. Lʼunica strada percorribile in auto, in alcuni punti, è così stretta che due macchine nei sensi opposti di marcia non riescono a transitare. Il paesaggio lamenta una mancanza atavica di un piano regolatore cittadino ed anche Pagliarelle come Petilia ha strade strette e palazzoni di cinque o sei piani non rifiniti. Sembra strano, ma mi trovo in questo paese senza stazione e strade per parlare con gli abitanti del TAV, il treno ad alta velocità, presunto fiore allʼocchiello della modernizzazione del nostro paese. Infatti sto girando per lʼItalia un documentario che parla degli effetti collaterali della linea veloce (Fratelli di Tav) seguendo le linee ferroviarie in costruzione. Nel novembre del 2006 avevo incontrato un gruppo di abitanti di Pagliarelle che vivevano nel Mugello in file di container che gli stessi minatori chiamano baracche, chiamate campi base. Erano emigrati per lavorare come minatori nelle gallerie dove sarebbe sfreccita lʼalta velocità. Lì ho incotrato Pietro Mirabelli, cinquantʼanni di cui più della metà passati in giro per lʼItalia a scavare nel sottosuolo. Eʼ proprio Pietro che mi ha parlato del suo paese dicendomi che cʼè una tradizione di minatori, gente che sʼè spaccata mani e polmoni costruendo strade e ferrovie. Comincia a raccontarmi la sua storia partendo proprio da qui: “Mio padre morì di silicosi, era un minatore anche lui, come me e tanti altri compaesani più vecchi ed è per questo che ci


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siamo autonominati figli dʼarte. Io ho passato tre quarti della mia vita fuori di casa. Scavando gallerie.”

D: Da quando fai questo lavoro e cosa comporta? R: Io sono andato via di casa nel 1972. Da quel giorno la mia vita è stata un viaggiare su macchine, treni ed arei che mi portavano lontano prima da mia madre e poi da mia moglie e dai miei figli. In trentasei anni ho passato tre quarti della mia vita fuori di casa, facendo il minatore, scavando gallerie. Non è un bel lavoro, ma si guadagna di più di un metalmeccanico e ci si ammala prima (sorride). I miei figli li ho visti crescere a spanne, visto che mancavo da casa per lunghi periodi. Ci sono colleghi che hanno un figlio piccolo e quando tornano a casa neanche li riconosce. Ecco cosa comporta fare questo lavoro dal punto di vista affettivo. Per quanto riguarda la salute prima o poi ci si ammala tutti lavorando in mezzo a macchine, polvere e gas di scarico delle macchine. Perchè in galleria, forse non tutti lo sanno, ci sono ventidue, dico ventidue macchine che lavorano. Vanno a diesel. Questo da anche la dimensione di che cosa significa sicurezza o salute nel nostro lavoro. D: Qual è il posto più vicino a casa dove hai lavorato? R: A Firenze per lʼalta velocità. Prima ho lavorato in Friuli, in Val dʼAosta, in Liguria. Insomma in quasi tutto il nord Italia. Nè abbiamo scavato di gallerie… Noi di Pagliarelle, negli anni, abbiamo sfornato molta mano dʼopera per il benessere del paese, ma come si emigrava nel 1950 si emigra adesso, forse di più, dal sud al nord e su questo la politica non ci ha mai dato una risposta. Il nostro lavoro è molto duro anche per il fatto che si vive spesso nella solutidine. Io avevo chiesto allʼimpresa (CAVET) di prendere a lavorare i miei figli, ma hanno sempre detto no. Forse perché sono delegato sindacale… D: Volevo insistere con la questione della provenienza dei lavoratori che lavorano sulla tratta. Siete quasi tutti meridionali? R: Siamo persone che veniamo da zone dove non cʼè lavoro e cʼè disperazione ed in alternativa scegli lʼemigrazione. Anche se parlare di scelta mi sembra una forzatura. Sei costretto ad emigrare. Noi di Pagliarelle siamo più di un centinaio, ma poi ci sono siciliani, lucani, pugliesi, campani. Io fiorentini e bolognesi non né ho mai visto uno. Noi facciamo questi lavori


“sporchi”. Allʼinizio lʼimpatto con la popolazione è stato duro, molti pensavano che erano dei disperati pronti a tutto, cattivi e avremmo portato la prostituzione e bivacchi vari attorno ai loro paesi, poi per fortuna si sono ricreduti, almeno alcuni, e hanno capito che non siamo gente malavagia. Comunque è stato difficile fare amicizia. Anche se per me è stata anche una bella esperienza, perché quelli che si sono ricreduti cʼhanno dato una mano ad uscire dallʼisolamento. Il problema è che anche tra di noi cʼè gente, quasi tutti, che conta i giorni e non vede lʼora di tornare a casa sua in Calabria o Basilicata. E questo, aggiunto alle altre cose, non aiuta lʼintegrazione. D: Ci vuoi raccontare di quando avevi deciso di smettere con questo lavoro? R: Nel 1997 lavoravo sullʼalta velocità in Emilia Romagna. Mi sono ammalato di broncopolmonite e non volevo più tornare in galleria. Poi costretto dalla contingenze ci tornai, ma sul versante Toscano. Lì abbiamo scavato la galleria più lunga della tratta: galleria Vaglia. Proprio in questo cantiere ho avuto la sfortuna di essere presente ad un incidente mortale, una morte bianca. Il ragazzo che è morto era un mio compaesano si chiamava Pasqualino Costanzo, aveva ventitré anni. Eʼ morto nella galleria. Da lì abbiamo cominciato una battaglia che ancora non abbiamo smesso di combattere per migliorare le nostre condizioni sul posto di lavoro. D: Mi vuoi parlare dei turni che fate? R: I turni di lavoro sono quelli che abbiamo contestato di più. Perché non si può lavorare anche al sabato ed alla domenica a ciclo continuo. Con i turni di sei giorni di lavoro ed uno di riposo, sei giorni di lavoro e due di riposo e sei giorni di lavoro e tre di riposo. Eʼ un fatto che se si fanno turni di lavoro molto lunghi, lʼattenzione si abbassa: più ore lavori di fila e più cʼè il rischio incidenti. Infatti abbiamo avuti molti infortuni. Siamo lʼunica categoria che non ha la pausa pranzo. Ti fai otto ore filate. Se hai lʼattimo che ti puoi riposare è bene, altrimenti lavori tutto il tempo. D: Come vivete nei campo base? R: Non bene. Questi campi base sono divisi in container e non abbiamo stanze singole, ma solo stanze doppie, non abbiamo mai un momento di privacy. Questi posti sono sempre distanti


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da paese abitato più vicino come se ci volessero far evitare di venire a contatto con la popolazione locale. Tra lʼaltro spesso i campi sono anche lontani dal luogo di lavoro, se impieghiamo mezzʼora per arrivarci quella mezzʼora non ci viene pagata. La mensa è stata anchʼessa un terreno di lotta. Lʼalimentazione è una cosa importante per chi fa questo lavoro e tra lʼaltro non è che puoi dire: ”La mensa fa schifo, vado a mangiare a casa”. Poi ci sono alcune cose che sono ridicole, ad esempio: nei campi base ci sono dei campetti calcio! A parte che spesso, con gli amici, abbiamo turni diversi e non riusciamo neanche a vedereci, ma sfido chiunque dopo otto ore di lavoro in galleria in mezzo a polvere, fumo e rumore ad andare a fare una partita di calcietto. Spesso finito il turno non hai neanche voglia di farti la doccia.

D: Le vostre lotte hanno portato dei risultati? R: Si. Allʼinizio delle nostre battaglia lʼazienda era molto dura ed le condizioni di lavoro erano più dure. Se adesso la sicurezza rimane un problema(basti pensare che ci sono state dieci vittime legate alla cantierizzazione TAV fra Firenze e Bologna) prima, far rispettare le norme era praticamente impossibile. Anche perché lʼimpresa sfruttava il fatto che non tutti i lavoratori impegnati conoscevano le norme di sicurezza, nessuno li aveva istruiti e questo è colpa anche del sistema dei subappalti.Ci sono lavoratori che non sanno per chi lavorano con precisione, figurati se conoscono le norme elementari di sicurezza. Lʼimpresa ora è obbligata a far seguire dei corsi. Però quando si lavora ad alta velcità…In questa galleria abbiamo avuti due morti Pasqualino Costanzo e Damiano Giovanni di quarantadue anni con due figli. Anche grazie al loro sacrificio sʼè creata anche una coscienza diversa tra noi minatori e la consapevolezza che non morire sul posto di lavoro, non farsi male è un nostro diritto.


DA UN SUD ALLʼALTRO Michele Carlino*

I media italiani e la politica trattano lʼargomento delle migrazioni con una certa disonestà di fondo. Usano quasi soltanto categorie come invasione, clandestinità, criminalità (assumendo falsamente che vi sia un rapporto tra immigrazione e sicurezza), rappresentano un inesistente “conflitto di civiltà”, soffiano sul fuoco delle paure... Ma non accennano mai al motivo per il quale cosi tante persone lasciano i loro paesi per cercarsi da vivere in Europa. Un fenomeno epocale che avvolge il pianeta, con milioni di uomini e di donne in fuga dalla violenza e dalla povertà, che cerca di raggiungere, per salvarsi, la terra dove vive quel quinto della popolazione che possiede lʼ86 per cento della ricchezza: il mondo ricco e sviluppato, quello che gli chiude le porte davanti pur di non guardare in faccia la realtà. Se, come i due terzi degli italiani, ci informiamo prevalentemente guardando la tv, che idea ci facciamo del fenomeno? Che le migrazioni siano un fatto legato alla sicurezza, allʼordine pubblico, alla legalità; la sensazione diffusa che dalle migrazioni occorra difendersi, e che la presenza di immigrati accresce il pericolo sociale. Secondo una indagine quasi il 57 per cento delle notizie relative ai migranti è legato a casi di criminalità o illegalità, e nel 78 per cento le persone migranti sono associate a un contesto negativo. Nessuna informazione sulla dimensione globale ed epocale del fenomeno. Nessuno sforzo per far capire che quello che si vede ogni giorno nel Canale di Sicilia, a Lampedusa, è lo stesso di quel che accade ai confini meridionali della Grecia, a Malta, a Gibilterra, alle Canarie, in Messico... Ma non sarà innalzando i muri della fortezza, come vogliono far credere i governi - e i media - che si gestirÀ il problema. Nel 2009 nel mondo sarebbero 220 milioni le persone che vivono fuori dalla loro terra, ovvero il 3,5 per cento della popolazione mondiale. Le cause che li spingono a partire sono principalmente quelle della paura e dellʼinsicurezza: guerre, conflitti, massacri. E poi quelle legate alla povertà, alla precarietà esistenziale: il 40 per cento della popolazione mondiale vive col 5 per cento del reddito mondiale. E siccome sia i conflitti armati che la povertÀ non accennano a diminuire, la spinta di altri milioni di uomini


e di donne, nel futuro, sarà inevitabile.

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Altri fattori, come le tendenze demografiche o il riscaldamento globale, aumenteranno ancora le proporzioni di questo flusso. Una generale miopia pare essersi appropriata della rappresentazione sociale del fenomeno migratorio, un appannamento della vista che ha finito per generare unimmaginario lontano dal dato di realtà. Opinioni da Bar dello Sport vengono spacciate per analisi sociologiche, e misure nella realtà inutili e inutilmente vessatorie (come il reato di clandestinità) vengono fatte passare per soluzioni. Eʼ così che il cerchio si chiude. Presentata falsamente come un problema di ordine pubblico, schiacciata sullo sfondo opaco della criminalità, la vicenda dei migranti può facilmente essere privata di ogni aspetto umanitario. Alla luce di questo corto circuito dei significati, dei simboli e della logica, chi scende dalle barche di Lampedusa, o esce dai sottofondi dei camion turchi, al pari dei non cittadini della Roma antica, ci somiglia, ma non è come noi; merita la nostra commiserazione, ma non un aiuto degno di questo nome. Il cerchio si è chiuso, la Fortezza europea è in salvo. Ma cosa sarebbe della nozione socialmente diffusa di migrazione, se lʼinformazione fosse stata diversa? A saperla tutta, a essere informati correttamente e in maniera completa, le implicazioni della presenza degli stranieri smetterebbero di essere categoria sociologica o materia di cronaca nera, per trasformarsi in un insieme di facce, e di storie personali e collettive, e di speranze, e di sogni di normalità. La chiave di questa Mostra di documentari, in fondo è qui. Nel bisogno di ragionare su un aspetto della nostra vita sociale - come questo che riguarda il rapporto con lʼaltro, il diverso, lo straniero - per quello che davvero esso è. I film in programmazione diranno di percorsi e di speranze, di dolori e di sconfitte. E non come qualcosa che accade in una dimensione incorporale, ma come un tratto che riguarda lʼumanità, e segna ogni spettatore, e lo chiama in causa, con la sua coscienza e il suo corpo, davanti al reale. Questa è anche lʼessenza del documentario come linguaggio espressivo: un occhio sugli accadimenti, con i fatti in primo piano, quasi a parlare da soli; un occhio sulle persone, in un gioco di immedesimazioni e di differenze.



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Per una regione come la Calabria, poi, discutere di questioni del genere significa anche rileggere a ruoli invertiti una gran parte della storia sociale della regione: centinaia di migliaia di calabresi, negli ultimi due secoli, sono stati emigranti e hanno imparato sulla loro pelle cosa sia il pregiudizio, il razzismo, lʼindifferenza. I film della rassegna diventano in questo contesto una specie di specchio, che restituisce, seppure mutata, lʼimmagine di se stessi.

Il Festival però vuole puntare oltre. Non solo dare un contributo sulla conoscenza e sulla comprensione di un fenomeno tanto complesso come quello delle migrazioni, ma anche generare uno sguardo critico sulle realtà di ciascuno, in nome di un mondo più consapevole della realtà e dellʼinterdipendenza. Sol Latino, lʼassociazione che ha promosso la rassegna, non vuole fermarsi a questo, ma intende favorire tanto gli scambi culturali tra giovani autori e cineasti di diversi continenti, quanto la produzione di documentari che raccontando la realtà, aiutino tutti a comprenderla meglio. Il tema delle migrazioni, al centro di questa prima edizione, continuerà a essere esplorato, costituendo un archivio della memoria delle vicende più significative, lavorando assieme alle scuole e agli studenti, raccogliendo materiali audiovisivi e sperando di riuscire a far cambiare lo sguardo sociale sul fenomeno. Tuttavia Sol Latino intende continuare il proprio lavoro affrontando di volta in volta argomenti specifici, che verranno sviluppati coinvolgendo i cittadini. “Da un Sud allʼAltro” non è solo il segno di un viaggio fisico di chi si mette in fuga dalla povertà; vuole essere anche il tratto di un flusso di comunicazione e di culture, perchè, come spiegava uno slogan di qualche anno fa, “siamo tutti stranieri, quasi ovunque”. *Associazione Culturale Sol Latino

foto Andrea Scarfò


LA FABBRICA DEI SOGNI. CINQUEFRONDI E IL CINEMA DOCUMENTARIO. Michele Conia*

Quando mi è stato prospettato di poter creare una tale iniziativa di spessore culturale e sociale ho subito pensato che potesse essere una grande opportunità di crescita per la comunità. Una comunità cresce in base alla sua capacità di saper interagire con la diversità e prospettandosi come punto focale di iniziative capaci di attivare processi di crescita e contaminazione culturale. Pensare un festival cinematografico che si concentrasse sui grandi movimenti migratori può essere un modo per mettere in relazione la storia di donne e uomini in carne e ossa che ancora oggi, decidono di partire dal Sud Italia per andare altrove, con quella di uomini e donne che partono da altri Sud del Mondo con lo stesso intento di migliorare le proprie condizioni materiali e sociali. Incontrare, insomma, vicende che hanno nella nostra terra oggi un crocevia paradigmatico di tutto il processo migratorio. La forma di questo festival permette di tracciare uno sguardo da un Sud a un Altro con la capacità critica del documentario che “trova nellʼanalisi e nella lettura della realtà il senso primo dellʼesistenza” come afferma Marco Bertozzi. Questa è la sfida-utopia che mi ha spinto a voler rendere Cinquefrondi una tappa fondamentale di questo festival dal carattere internazionale, e che avrà la straordinaria possibilità di collaborare con la Corporación Cinenemoria che a Quito, Guayaquil e Cuenca promuove eventi cinematografici con oltre 500 proiezioni facendo convergere oltre 10.000 visitatori ai festival. Questo è lʼintento che mi ha mosso: quello di legare lʼaspetto altamente culturale con la volontà di divenire un laboratorio cinematografico giovanile in un luogo in cui il cinema ha notevoli difficoltà a entrare per mancanza di strutture e iniziative, con lo scopo di far diventare Cinquefrondi meta culturale per i visitatori.


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La possibilità di ospitare lʼEcuador e di incontrare uno dei registi dei documentari è unʼoccasione legata allʼaspetto educativo e formativo del Festival: entrare in relazione con uno degli autori e interagire con lui significa ascoltare e apprendere le posizioni dellʼartista sul mondo in relazione ai suoi processi di creazione culturale. Le due giornate di Cinquefrondi ospiteranno inoltre, nei momenti di incontro e dibattito, il mondo della ricerca e del giornalismo, che faranno di Cinquefrondi una cittadina aperta alla sperimentazione e allʼapprofondimento sulle condizioni dei processi migratori. Eʼ unʼiniziativa capace di attrarre la curiosità e la partecipazione di un notevole flusso di persone non solo provenienti dallʼesterno anche grazie alla partecipazione attiva delle persone che abitano i nostri luoghi; per questo abbiamo coinvolto i ragazzi, gli adulti e le comunità di migranti presenti sul nostro territorio nel tentativo di mettere in relazione i propri vissuti. Sosteniamo lʼintento di questo progetto di promuovere il cinema responsabile, di valorizzare il cinema indipendente che ha maggiori difficoltà a raggiungere le sale, ma che dà lʼopportunità ai registi emergenti, sorretti dalla coscienza critica, di farci vedere quegli squarci reali della nostra società che molte volte, sono rimossi. Abbiamo un obiettivo comune con gli organizzatori del festival: costruire un evento che, con il coinvolgimento di attori locali, si proietti come evento culturale e turistico di qualità al Sud che abbia la capacità di creare una rete di base locale, per lʼorganizzazione delle edizioni successive. Cinquefrondi, come unica tappa della Provincia e come comune apripista in Calabria per questo evento partecipato, si afferma come spazio aperto alla cinematografia di qualità e alla cinematografia responsabile. *Assessore alle Politiche Giovanili Comune di Cinquefrondi


ESSERE (a) SUD

Ass. Culturale Onlus Mammalucco Lʼassociazione Mammalucco, nata nel 2006 a Taurianova, è unʼassociazione multiculturale che veicola messaggi di legalità, ambientalismo, cultura, integrazione e responsabilizzazione civica, attraverso lʼideazione e lʼorganizzazione di laboratori creativi (attività svolte tra gli associati) e iniziative di varie carattere (eventi che si rivolgono a tutti) in grado di sollecitare e mettere al centro la socialità e la partecipazione, condizioni indispensabili per il raggiungimento degli obiettivi statutari e per la creazione di un ricambio virtuoso delle energie volontarie, garanzia di continuità e freschezza al progetto e di crescita per il territorio. Il contributo dellʼassociazione Mammalucco alle giornate di Cinquefrondi della prima edizione del Festival Internazionale del Cinema Documentario si colloca in un ampio e rodato sistema di collaborazioni con i gruppi attivi presenti sul posto e su precedenti e fruttuose collaborazioni con il Comune di Cinquefrondi. Gli interventi proposti sono una mini expo fotografica dal titolo “LontaniUgualiVicini” la proiezione del documentario La TERRA(e)STREMA di Enrico Montalbano, Angela Giardina e Ilaria Sposito, la proiezione del cortometraggio di animazione “Khoda” di Reza Dolatabadi. La nostra associazione ama tessere reti, creare fili tra gli artisti che incontra e conosce, tra gli eventi che organizza o a cui partecipa. Da questo modus operandi nasce spesso lʼidea di continuare a coinvolgere le persone giuste, artisti, registi, fotografi, scrittori, chiunque è disposto a donarsi con generosità alla richiesta di partecipare ad eventi culturalmente stimolanti e necessari. Così è successo, alla proposta di partecipare con il documentario la TERRA(e)STREMA, che narra con un taglio attuale il problema italiano delle immigrazioni e del lavoro,


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Enrico e gli altri registi non hanno esitato ad accettare con entusiasmo. Alla richiesta di proiettare il corto “Khoda”, realizzato con 6.000 disegni in due anni, Reza Dolatabadi non ha pensato due volte. Stessa reazione e entusiasmo tra tutti gli associati per la mini expo fotografica proposta. Partecipare, supportare in maniera attiva o fare in qualche modo parte dellʼorganizzazione della prima edizione di un festival internazionale dedicato al cinema documentario, è una sorta di “dovere” per lʼassociazione Mammalucco che in altri contesti, e con diverse strategie di comunicazione, ha sempre ribadito e sollecitato la necessità di comprendere i fenomeni legati alle migrazioni. Più in generale ci piace dire che “essere (a) sud” significa conoscere meglio e spesso sulla propria pelle, lʼamaro sapore della partenza, del viaggio guidato dalla speranza di vivere meglio, di avere unʼopportunità. Infine, nulla ci impedisce di immaginare che questa nuova esperienza di collaborazione, dentro un circuito più ampio di energie organizzate, rappresenta una splendida occasione di crescita per ognuno ma ancora prima, una concretizzazione di uno degli slogan utilizzati dallʼassociazione: “fare rete è intelligente, fare gli indifferenti è comodo”.


LA SEPARACIÓN

Con la participazione del “Centre National de la Cinématographie”, della Región Aquitania, della PROCIREP (Sociedad de Productores) e della ANGOA – AGICOA. Questa pellicola ha vinto la borsa di studio “Brouillon dʼun rêve” della SCAM (Sociedad Civil de Autores Multimedia). Il progetto è stato sviluppato nel seminario di scrittura europeo Eurodoc Script e ha partecipato anche agli Incontri per le Opere prime di Saint-Laurent durante il festival di Lussas, Francia.


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Festivales : - Encuentro de video documental « La imágen de los pueblos », Ecuador, octubre 2008 - Competencia oficial, Encuentro Hispanoamericano de cine y video documental independiente “Contra el Silencio todas las voces”, México, abril 2008 - Festival Internacional de Cine de Punta del Este, Uruguay, febrero 2008 - “Documentales y Fotografías de América Latina”, Albacete, España, abril 2007 - Festival Internacional de documental “Santiago Alvarez in memoriam”, Cuba, marzo 2007 - Festival Internacional de Cine y T.V. de Cartagena, Colombia, marzo 2007 - Competencia oficial, Festival Iberoamericano de Cine de Atacama-Caldera, Chile, febrero 2007 - Festival “Filmar en América Latina”, Ginebra, Suiza, noviembre 2006 - Festival Internacional de Amiens, Francia, noviembre 2006 - Competencia oficial, Festival Internacional de Bogotá, Colombia, noviembre 2006 - Mes del Film Documental”, Pessac, Francia, noviembre 2006 - Festival “Tres Continentes del Documental”, Buenos Aires, Argentina, octubre 2006 - “Itinerarios” del documental latinoamericano, Bruselas, Bélgica, octubre 2006 - Competencia oficial, Festival Internacional de Cine “El Ojo Cojo”, Madrid, septiembre 2006 - Festival Internacional “Encuentros del Otro Cine - EDOC”, Ecuador, mayo 2006 (3er lugar en la clasificación del público, de un total de 67 documentales) - Reflets du Cinéma Ibérique et Ibéro-américain de Villeurbanne, Francia, marzo 2006 - Festival Culturamérica de Pau, Francia, marzo 2006 - Rencontres avec le Cinéma dʼAmérique Latine de Bordeaux, Francia, marzo 2006 Diffusione: - Diffusione nel canale televisivo francese VOI Sénart, dicembre 2005 - Diffusione nel canale televisivo VIVE Tv del Venezuela, septiembre 2007 - Proyección en la Universidad de Toulouse le Mirail durante el seminario “Movilidades, relaciones al territorio e identidades”, organizado por el Laboratorio Dinámicas Rurales, Toulouse, Francia, febrero 2008. - Proyección en la Universidad de Toulouse le Mirail durante el seminario “Sociedad, imágenes y sonidos”, organizado por el Laboratorio Dinámicas Rurales y el Laboratorio de Investigación en Audiovisual, Toulouse, Francia, enero 2008. - Proyección organizada por el Instituto Provincial de Formación Social de Namur, en el marco del curso de especialización “Asistente psicosocial para las poblaciones migrantes”, Namur, Bélgica, octubre 2007. - Proyección durante el taller del Plan Migración Comunicación y Desarrollo organizado por el Fondo Ecuatoriano Populorum Progressio (FEPP), Quito, Ecuador, abril 2007. - Proyección organizada por el Cine club de los “sin-papeles” en la iglesiaSaint Alene de Bruselas, ocupada por un colectivo de inmigrantes ecuatorianos, marzo 2007. - Proyección en la Universidad de Burdeos 3, Facultad de Español, febrero 2007. - Proyección en la SCAM, Paris, junio 2006.


- Proyección en el castillo de Lavison, Loubens, Francia, junio 2006. - Proyección en la Universidad Politécnica Salesiana, Quito, Ecuador, mayo 2006. - Proyección “Cine en el Garage de Vincent Lefort”, Burdeos, Francia, mayo 2006. - Proyecciones escolares en el marco de los 23e Rencontres avec le Cinéma dʼAmérique Latine de Burdeos : colegio de Vergt (Dordogne) y colegio de Libourne, marzo 2006. - Proyección en el Instituto Universitario Tecnológico, facultad de “Gestión del Desarrollo y de Acción Humanitaria”, Burdeos, marzo 2006. - Proyección en la galería de arte “Espace ART”, Burdeos, marzo 2006.

Bio-filmografía : Samanta Yépez è ecuadoriana vive in Francia dall 1994. Ha realizzato studi di cinema, di produzione audiovisiva e di civilizzazione iberoamericana nellʼUniversità di Burdeos. Ha lavorato come assistente di produzione di documentare attualmente sta preparando una tesi di dottorato sulla migrazione ecuatoriana. Ha realizzato “Memoria”, 2001, 15 min., documentario sullʼesilio politico dei Cileni e degli Argentini a Burdeos. - Bruxelles, carrefour dʼexils - Cycle de conférences au Centre Garcia Lorca, mai 2007 - 11e Journées du Film Ethnographique de Bordeaux, marzo 2006 - 1e Rencontres avec le Cinéma dʼAmérique Latine dʼIle de France, 2002 - 18e Rencontres avec le Cinéma dʼAmérique Latine de Bordeaux, 2001.


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FANTASMI

Reportage di Sergio Conti Fotografia: Domenico Guzzo Audio presa diretta: Lorenzo Iero Musiche originali: Matteo Camera Durata: 1h circa Realizzazione: febbraio-maggio 2009 Il racconto di storie di ordinaria immigrazione in Calabria, tra le condizioni di vita dei lavoratori nei campi a Rosarno e la presenza di Medici senza Frontiere in una provincia dellʼItalia, uno dei paesi che partecipano al G8. Quanti soldi girano attorno al fenomeno dellʼimmigrazione e come vengono investiti. Tutto questo è “Fantasmi”, reportage realizzato dal giornalista freelance Sergio Conti, unʼinchiesta giornalistica che si caratterizza per lo stile della narrazione e le voci di persone invisibili, di cui nessuno conosce nome e provenienza. Uomini e donne che vivono al fianco degli italiani, sotto gli occhi delle forze dellʼordine, eppure è come se non ci fossero.


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Biografia del curatore Sergio Conti è un giornalista freelance. In passato, ha realizzato per la televisione i reportage “Bambini in bilico” sulla realtà dei minori a rischio in Calabria, “Gli spazi della pena” un viaggio allʼinterno delle carceri calabresi vissuto al fianco dei detenuti, “Credo in un solo dio” sullʼintegrazione fra cristiani e musulmani. Nel 2009 ha prodotto la serie di inchieste dal titolo “In punta di stivale” con due approfondimenti sui temi dellʼimmigrazione e della sanità in Calabria. Tra le esperienze, anche due anni di radio, a Touring104 di Reggio Calabria, con un programma/contenitore giornaliero dal titolo “2°me”.


IL GIORNO DOPO GLI SBARCHI

Regia di Giuseppe Lazzaro Danzuso 21 min., dv cam, Italiano, 2009, Italia produzione Fondazione Integra - Melamedia

In due anni oltre 43 mila persone, ben più che gli abitanti di città come Belluno o Gorizia, sono giunte a Lampedusa a bordo di carrette del mare, provenienti dalle coste africane. Le immagini di questi sbarchi sono state usate per convincere lʼopinione pubblica italiana che era in corso unʼinvasione. La paura ha condotto, in un Paese in cui il ricordo delle sofferenze dellʼemigrazione è ancora vivo, a far diventare reato la clandestinità. Negli stessi anni, però, cʼè stato anche chi è riuscito a mutare un autentico lager, quello di Lampedusa, in un modello di accoglienza “da esportare in tutto il mondo”, come hanno scritto i rappresentanti dellʼOim. Un documentario che racconta il complesso meccanismo della gestione dellʼ immigrazione clandestina in Italia, articolata tra Cspa, Cie e Cara. Il documentario “Il giorno dopo gli sbarchi”, è nato con la finalità di mostrare, nel corso del convegno omonimo, svoltosi


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tra Catania e Lampedusa nel settembre del 2009, quale fosse la situazione dellʼaccoglienza in Sicilia a quattro anni dal bel reportage di Fabrizio Gatti che, sullʼEspresso, aveva mostrato il Cpt lampedusano come un autentico lager.

A organizzare il convegno e produrre il documentario è stata la Fondazione Integra, che appartiene a quella Lega delle Cooperative di cui fanno parte anche LampedusAccoglienze, dal 2007 gestore del Cspa – Centro soccorso prima accoglienza - dellʼisoletta siciliana, e la Sisifo, gestore del Cara – Centro assistenza richiedenti asilo - di SantʼAngelo di Brolo, in provincia di Messina. Ho avuto così la possibilità di portare le telecamere allʼinterno di queste strutture, intervistando il personale e gli ospiti, e, attingendo anche a materiale dʼarchivio, ho provato, da una parte a fotografare la realtà che viviamo, quella dei respingimenti, e dallʼaltra a riagganciarmi anche alla storia recente del nostro Paese, fatto di storie di emigrazione prima che di immigrazione. Ecco perché, proprio allʼinizio, viene sottolineato come appena lʼaltroieri sui piroscafi, a volte autentiche carrette del mare, stavano le nostre famiglie. Trattate con il medesimo razzismo con cui, oggi, certi leghisti – e non solo – trattano i “negri selvaggi” – che magari hanno una laurea in ingegneria – giunti sulle nostre coste. Gli italiani, quando giungevano in America, con quella loro pelle olivastra, venivano guardati con sospetto: nel 1879, cinquantʼanni prima di Sacco e Vanzetti, il New York Times scriveva: “Tra i passeggeri di terza classe (..) cʼerano ieri 200 italiani…la parte più lurida e miserabile di esseri umani mai sbarcati”. In quel tempo a emigrare negli Usa non erano i “sudici” siciliani, calabresi, campani. Erano soprattutto veneti e piemontesi, che capitava venissero linciati perché si credeva fossero veicolo di malattie. Tra lʼOtto e il Novecento erano gli italiani diretti in Brasile, negli Usa o in Argentina – dalla struggente malinconia


di chi scelse quel Paese nacque il tango, che ho usato come colonna sonora - a morire nei naufragi verso la loro terra promessa. Da quasi due decenni a questa parte sono i migranti provenienti dallʼAfrica e diretti a Lampedusa. Partendo da questi dati, ho cercato di far sì che il documentario fosse una sorta di specchio in cui lʼItaliano potesse guardare, per scoprire che la propria immagine coincideva con quella del Migrante. Per questo, allʼinizio, alle foto dʼepoca dei nostri emigrati, con il tipico viraggio seppia, ho mescolato dei fermo immagine, trattati, degli sbarchi a Lampedusa. Nei volti dei nostri nonni e dei migranti di oggi cʼerano dentro lo stesso dolore, la stessa paura del domani, la stessa angoscia. E a allo stesso tempo la medesima determinazione, lʼorgoglio di essere portatori di cultura, per quanto diversa, e una forte consapevolezza nei propri mezzi. Tutto ciò, insomma, che fece grandi i nostri emigrati. Il documentario, oltre a una carrellata sulle varie strutture in cui è articolata lʼassistenza italiana, contiene anche la proposta di Legacoop per “Il giorno dopo gli sbarchi”. Ossia la possibilità per questi migranti di “studiare da cittadini europei” attraverso lʼistituzione di corsi di lingua e indicazioni sui “codici comportamentali” occidentali, convenzioni con Case famiglia ed enti di formazione, strumenti che consentano lʼincontro tra lʼofferta e la domanda di lavoro, una legislazione di favore simile a quello delle persone svantaggiate per quei settori dove ormai i cittadini italiani non investono dal punto di vista delle risorse umane, ossia agricoltura, assistenza agli anziani, lavori usuranti. Una storia finita bene chiude il racconto, quella di un ragazzo somalo di 26 anni, che ha moglie e tre bambini in patria, “adottato” dal paesino di SantʼAngelo di Brolo dove oggi vive facendo il fornaio. E lʼintera cittadina sta lavorando per riunire quella famiglia.


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U STISSO SANGU

Regia: Francesco Di Martino Soggetto e sceneggiatura: Francesco Di Martino e Sebastiano Adernò Montaggio: Corrado Iuvara Musiche: Trio Migrantes: Angelo Moncada, Davide Di Rosolini, Costanza Paternò con la partecipazione dei Trinakant Suono: Angelo Moncada Traduzioni: Domenico Lepanto, Kathy Magnus, Abdessamed Abderrazak e Tarig Ahmed Mohamed Nour

Il film ripercorre le tappe fondamentali che, in maniera diversa, affrontano i migranti che approdano sulle coste siciliane: il viaggio e lo sbarco, la prima accoglienza e il problema della casa, il lavoro e lʼintegrazione.Le storie si incrociano e a volte si scontrano con quelle della nostra realtà: la Guardia Costiera che li recupera in mare, il medico che presta loro i primi soccorsi, il reporter che segue le loro vicende, lʼimprenditore che li prende a lavorare nei campi, il personale della comunità che li ospita, lo “sconosciuto” che pure assiste al rito di commemorazione di quelli tra loro che sono morti in mare.


PAISĂ€ STORIE DI MIGRANTI IN CAMPANIA

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PROMO - Ideato e realizzato da Alfonso De Vito, Manolo Lupacchini, Jacopo Mariani, Claudio Metallo Montaggio di Claudio Metallo foto Aldo Valenti


OSSERVATORIO MIGRANTI AFRICALABRIA Giuseppe Pugliese*

Dicembre 2008: una Rosarno ancora assonnata viene svegliata da un corteo rumoroso e colorato. Chi sono? E con chi ce lʼhanno? Sono gli africani della Cartiera e protestano perchè la sera prima due loro fratelli vengono feriti a colpi di arma da fuoco. Quella degli africani è senza dubbio la comunità straniera più mite in assoluto ma oggi sono incazzati, alzano la testa e si riprendono con dignità lo spazio che lʼinsensibilità e ignoranza unite a leggi incomprensibili e ipocrite da troppo tempo gli negano rendendoli di fatto braccia invisibili. Il corteo, al grido “Gli africani non sono criminali” si dirige verso il Municipio e una delegazione viene ricevuta dai Commissari Prefettizi: è proprio in quel momento che nasce lʼOsservatorio invernale sulla raccolta degli agrumi nella Piana di Gioia Tauro. Semplicemente abbiamo scelto di non voltarci dallʼaltra parte di fronte alle condizioni di vita di lavoratori, esseri umani che vivono in un modo che di umano non ha assolutamente nulla. Una situazione inaccettabile per un Paese civile, che persiste ormai da molti anni e che costitisce unʼoffesa per lʼumanità intera. I nostri scopi? Mantenere alta lʼattenzione, contrastare ogni forma di razzismo non ultimo quello istituzionale e politico, stigmatizzare i luoghi comuni sul fenomeno dellʼimmigrazione, promuovere percorsi di integrazione. Come si fa? Informando correttamente. Socializzando tutte le questioni negative e positive che riguardano il nostro Paese non solo come entità geograficamente delimitata ma anche e forse più come parte di un pianeta in cui le migrazioni sono da sempre un fenomeno naturale e inarrestabile. Condividendo le esperienze nostre e dei migranti anche con lʼaiuto di documenti audiovisivi e testimonianze dirette e stimolando momenti di analisi e riflessione. Siamo convinti che un mondo più giusto sia ancora possibile e perchè sentiamo la responsabilità del nostro ruolo nella costruzione di un mondo migliore che non può prescindere dal rispetto della persona e dalla difesa dei diritti degli individui. Perchè riteniamo che lʼaccoglienza sia non solo un dovere imprescindibile da parte di quellʼesigua


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minoranza di abitanti del pianeta che ne brucia la maggior parte delle risorse e che spesso è corresponsabile di quella fame e di quelle guerre da cui i migranti fuggono, ma anche perchè rappresenta una formidabile oppurtunità di crescita e sviluppo, considerando il contributo fondamentale che 60 milioni di italiani hanno dato e continuano a dare in quei paesi dove sono stati accolti. *Osservatorio Migranti Africalabria Rosarno


Khoda

(Scozia) Regia e direzione artistica: Reza Dolatabadi scritto da Reza Dolatabadi & Mark Szalos Farkas Animazione di Adam Thomson Musica di Hamed Mafakheri Khoda è un thiller psicologico, un progetto studentesco considerato da molte persone una “missione impossibile”, ma che alla fine è risultata possibile. Oltre 6000 disegni sono stati accuratamente prodotti in due anni per creare cinque minuti di film. Khoda è una storia di libertà! - Vincitore del Best Animation Canary Wharf Film Festival (London) 2008 - Vincitore del Best Student Animation Flip Festival (Birmingham) 2008 - Vincitore del Best Student Animation, Royal Television Society Award, Scotland (rts) 2009 - Selezione ufficiale per il “Best Short Film Program” al Waterford Film Festival (Ireland) 10/2009


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(Scotland) Director and art director: Reza Dolatabadi Written by Reza Dolatabadi & Mark Szalos Farkas Animation by Adam Thomson Music by Hamed Mafakheri Khoda is a psychological thriller; a student project which was seen as a ʻmission impossibleʼ by many people but eventually proved possible. Over 6000 paintings were painstakingly produced during two years to create a five minutes film. Khoda is a story of freedom! - Winner of the Best Animation Canary Wharf Film Festival (London) Aug, 2008 - Winner of the Best Student Animation Flip Festival (Birmingham) 2008 - Winner of the Best Student Animation, Royal Television Society Award, Scotland (rts) 2009 - Official selection for the “Best Short Film Program” at Waterford Film Festival (Ireland) 10/2009


Grazie a tutti coloro che hanno appoggiato e sostenuto la realizzazione di questo Festival, grazie allʼinteresse e allʼentusiasmo di tutti quelli che credono fermamente nellʼenorme potenzialità comunicativa della cultura. A tutti quelli che, ogni giorno, mettono in atto le molteplici ipotesi di sviluppo multiculturale della nostra società, attraverso le proprie sensibilità, il proprio lavoro, attraverso i linguaggi dellʼarte: grazie di cuore. Una particolare menzione è rivolta ai giovani, ragazze e ragazzi di Cinquefrondi, al Liceo Pedagogico Musicale, alla professoressa Franca Ieranò e alle volontarie del Servizio Civile Nazionale, che hanno realizzato, in previsione delle giornate del Festival a Cinquefrondi, delle videointerviste ai migranti residenti a Cinquefrondi, con particolare riguardo allʼaspetto femminile della migrazione, approfondendo i temi che interessano la delicata condizione sociale e lavorativa delle donne immigrate nel contesto calabrese. Grazie a Michele Raso, che ha documentato lʼemigrazione cinquefrondese degli anni 60-70 videointervistando gli abitanti di Cinquefrondi che sono ritornati, dialogando con loro, attraverso la videocamera si è reso testimone delle loro aspettative, degli ostacoli, della difficoltà a integrarsi, di tutti i sacrifici e le discriminazioni subite. Un ringraziamento particolare va al consorzio di autoproduzioni Equo Sud e ad Aldo Valenti. Esposizioni fotografiche di Aldo Valenti Mostra fotografica “ Lontani uguali vicini diversi” Andrea Scarfò, Associazione Mammalucco edizioni@terrelibere.org http://www.terrelibere.org/libreria/gli-africani-salv eranno-rosarno http://www.terrelibere.it/raccontare-gli-africani-di-rosarno-migranti-senza-documenti http://www.terrelibere.it/terrediconfine/minatori-emigranti-costretti-alla-velocitanei-cantieri-lumaca http://fratelliditav.noblogs.org/ www.autistici.org/teleimmagini http://www.ustissosangu.com/ http://fortresseurope.blogspot.com/ http://fatamorgana.unical.it/FATA.htm www.africalabria.org



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