LAB2.0 Architecture Magazine #18

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Vuoto intenso La Bruder Kappelle di Peter Zumthor

Testo, traduzione e foto, di Francesco Leoni «L’architettura non deriva da una somma di larghezze, lunghezze e altezze degli elementi costruttivi che racchiudono lo spazio, ma proprio dal vuoto, dallo spazio racchiuso, dallo spazio interno in cui gli uomini camminano e vivono». (Bruno Zevi, Saper Vedere l’Architettura, Einaudi, 1948) La Bruder Kapelle è stata costruita dai contadini locali con l’intenzione di onorare il loro patrono, lo svizzero San Nicholas von der Flue (1417-1487), conosciuto come Fratello Klaus. I committenti, l’agricoltore Hermann-Josef Scheidtweiler e sua moglie Trudel, sono gli stessi che, per larga parte, l’hanno fisicamente costruita su uno dei campi sopra il paese, con l’aiuto di amici e artigiani. Questo austero cristiano, che si racconta sia sopravvissuto per 19 anni con nessun‘altra forma di sostentamento che non fosse l’eucarestia, ha affascinato l’architetto che lo ricordava come una delle figure religiose più a cuore a sua madre e, come omaggio ad essa, Zumthor ha declinato il pagamento della propria prestazione. Completamente immerso nella natura circostante, l’edificio è raggiungibile solo a piedi dopo circa dieci minuti di cammino. La Cappella, privata di ogni connotazione strettamente funzionale, è libera di esprimersi esattamente per quello che è: un monolite indipendente tra i campi coltivati, in stretto contatto con l’ambiente, incarnando perfettamente l’ascetismo di Fratello Klaus. Un dolmen, un gesto iconico ma aniconico allo stesso tempo, che si rivela come una epifania che sembra essere stato lì da sempre. Un edificio che aspira solo di essere se stesso, senza fingere in alcun modo, solo essendoci. La sua superficie striata, ottenuta da strati sovrapposti di cemento bianco mescolato con la sabbia e la ghiaia locale, integra questa “stele” con il contesto e la fa emergere dal terreno come l’eruzione di un vulcano. Questi 24 strati di mezzo metro di cemento, che ricorda fortemente la terra pressata, che hanno riposato per 24 giorni l’uno, misurano lo spazio, in altezza, ed il tempo (ogni layer rappresenta un’ora del giorno, evocando il concetto del giorno lavorativo). Zumthor sostiene: «Credo che i materiali, in qualche modo, si collochino prima della forma. Artisti come Beuys hanno usato i materiali in maniera più essenziale, originaria di quanto non abbiano fatto molti architetti contemporanei.

Esiste un codice non scritto che connota i materiali in contesti particolari e, nei miei edifici, io voglio lavorare su quello». (Zumthor, P., Thermal Baths at Vals, London, Architectural Association, 1996, pag. 64, Trad. Leoni F.). Tutto qui racconta del processo. Lo storico Adrian Forty sostiene che il cemento «non è un materiale, è un processo». Lo spazio interno è solamente una traccia. L’impronta di 112 abeti rossi che hanno bruciato per tre settimane ininterrottamente prima di dissolversi completamente lasciando solo il calco della loro scomparsa. L’impronta di un’assenza che evoca la parabola del Santo cui è dedicata la Cappella. L’impronta di un’archetipica tenda, di una capanna per Nicholaus l’Eremita, ma, allo stesso tempo, una fornace di carbone che, di nuovo, rivela la sua genesi attraverso il fumo che ha annerito i muri benedetti da un fuoco sacrificale. Il tema riguarda tutto il confronto fra massa e vuoto. La formazione di uno spazio interno grazie alla combustione dei tronchi posizionati per ottenere una specie di cassaforma che sarebbe svanita assieme alle fiamme. Questo è il processo che plasma il vuoto in questo incredibile spazio sacro dove la luce che si proietta dall’apertura sul tetto scivola lungo le scanalature testimoni della precedente struttura lignea. I tronchi sono lentamente spariti con il fumo della loro combustione. Un’assenza si è materializzata. Il cemento assume la forma del proprio stampo, quindi, in sé, è anamorfico. Così, la scoperta dello spazio diviene un’esperienza più che mai fisica. Difficile immaginare un vuoto altrettanto denso e materico. I muri carbonizzati incontrano il piombo fuso congelato del pavimento con una soluzione di continuità che sorprende. «Io credo che i materiali assumano una sostanza poetica nel contesto di un oggetto architettonico, altrimenti, i materiali in se stessi non sono poetici... Il senso emerge quando io riesco ad estrarre significati peculiari di certi materiali nei miei edifici. Significati che possono essere compresi solo in questa maniera, in questo edificio». (Peter Zumthor, Thinking Architecture, Basel, Birkhäuser, 2006) In questo modo la perpetuità dei materiali e dell’aspetto esterno si confronta con la provvisorietà del processo e dell’assenza. È la dialettica fra passato e futuro, spiritualità e materialismo, positivo e negativo che, tradotta nel linguaggio dell’architettura si fa quella della forma e del 13


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