Dalla Diagnostica Artistica alla Technical Art History

T E C H N I C A L A R T H I S T O R Y

DALLA DIAGNOSTICA ARTISTICA ALLA TECHNICAL ART HISTORY NASCITA DI UNA METODOLOGIA DI STUDIO DELLA STORIA DELL’ARTE (1874-1938)

dalla prefazione di Riccardo Lattuada

€ 24,00

Marco Cardinali è uno storico dell’arte, esperto nelle ricerche tecniche, nell’imaging multispettrale e nelle analisi scientifiche delle opere d’arte.

Ha intrecciato a lungo l’esperienza professionale e sul campo (Emmebi Diagnostica Artistica) con l’attività di ricerca e didattica, svolta attualmente presso la Stockholm University, l’Università di Genova e l’Università della Campania “Luigi Vanvitelli”. Ha pubblicato numerosi contributi sui processi compositivi e sulla tecnica pittorica di Caravaggio e dei caravaggeschi. Nel presente volume riprende e sviluppa i temi relativi allo statuto disciplinare della Technical Art History, già affrontati in Diagnostica artistica (Roma 2002).

DALLA DIAGNOSTICA ARTISTICA ALLA TECHNICAL ART HISTORY

Il libro di Marco Cardinali sulla Technical Art History è il primo studio monografico che si sia prodotto in Italia su un ambito di ricerca confinato ad una comunità molto ristretta di addetti ai lavori: diagnosti, restauratori, alcuni storici dell’arte, alcuni fisici, alcuni chimici, alcuni ingegneri.

Uno degli aspetti più interessanti del libro è nella registrazione dell’evolversi di questa dialettica. Da un lato ritroviamo lungo tutto il corso del ‘secolo breve’ conoscitori decisi a rivendicare la primazia dell’occhio sulla macchina, e soprattutto dell’esperienza visiva ‘pura’ sull’idea di una meccanizzazione del sapere storico-artistico; dall’altro uomini in camice bianco chiamati ad affrontare il problema di un’interpretazione scientifica dei caratteri costitutivi e del degrado delle opere d’arte. Sullo sfondo di questi tentativi resta l’idea che l’analisi delle opere d’arte mediante strumentazioni scientifiche aumentava le conoscenze su di esse. Il lavoro sul corpo dell’arte non è più un percorso che possa essere compiuto in solitaria dallo storico dell’arte o dal diagnosta o dal restauratore.

MARCO CARDINALI

MARCO CARDINALI

MARCO CARDINALI

DALLA DIAGNOSTICA ARTISTICA ALLA TECHNICAL ART HISTORY NASCITA DI UNA METODOLOGIA DI STUDIO DELLA STORIA DELL’ARTE (1874-1938)

NEW ART HISTORY E TECHNICAL ART HISTORY

GIOVANNI MORELLI E LE RADICI DELLA DIAGNOSTICA ARTISTICA

GLI ANNI TRENTA E LE ‘RICERCHE TECNICHE’ DI STORIA DELL’ARTE

SOMMARIO

PREFAZIONE DI RICCARDO LATTUADA

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INTRODUZIONE

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CAPITOLO I NEW ART HISTORY E TECHNICAL ART HISTORY

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I nomi, le cose

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Le crisi e le trasformazioni della storia dell’arte alla fine del Novecento: gli st udi di cult ura materiale e la Technical Art History

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Le immagini tecniche e la Digital Art History

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CAPITOLO II IL PARADIGMA INDIZIARIO DELLA CONOSCENZA: GIOVANNI MORELLI E LE RADICI DELLA DIAGNOSTICA ARTISTICA La connoisseurship di Morelli tra contaminazioni scientifiche e intrecci disciplinari

33 33

Un nuovo modo di vedere e di ragionare per immagini

42

La fotografia e la nascita delle immagini tecniche

47

CAPITOLO III GLI ANNI TRENTA E LE ‘RICERCHE TECNICHE’ DI STORIA DELL’ARTE

Gli esordi del primo Novecento tra archeologia,chimica, raggi X e ultraviolet ti.

Le sperimentazioni di analisi scientifica delle opere d’arte e i pionieri della ricerca tecnica

57 57

Il panorama internazionale della Coopération intellect uelle e dell’Office International des Musées. La Conferenza di Roma del 1930

67

La protagonista rilu t tante della Conferenza di Roma: la specificità dell’Italia nel contesto europeo

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APPARATI ICONOGRAFICI E DOCUMENTARI

89

BIBLIOGRAFIA

129

INDICE DEI NOMI E DEI LUOGHI

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PREFAZIONE RICCARDO LATTUADA

Spero di non sbagliare affermando che il libro di Marco Cardinali sulla Technical Art History è il primo studio monografico che si sia prodotto in Italia su un ambito di ricerca confinato ad una comunità molto ristretta di addetti ai lavori: diagnosti, restauratori, alcuni storici dell’arte, alcuni fisici, alcuni chimici, alcuni ingegneri. Infatti, non ci sono dubbi sul fatto che leggendo questo studio comprendiamo immediatamente di non essere nel campo trattato dal fondamentale e fortunato libro di Simona Rinaldi, Storia tecnica dell’arte1, in cui l’oggetto della trattazione sono le tecniche e le tecnologie usate dagli artisti, non le tecniche e le tecnologie che la storia dell’arte usa attualmente per far avanzare le sue conoscenze sul corpo delle opere.

Il libro di Cardinali ripercorre una storia critica relativamente recente, che inizia alla fine dell’Ottocento e che trova una graduale codificazione, soprattutto nel mondo anglosassone, nella seconda metà del secolo scorso. Il filo metodologico si dipana a partire dall’opera di Giovanni Morelli, che per molti aspetti è il padre dei conoscitori moderni. Più che una storia dell’arte riscritta nei suoi quadri complessivi, Morelli ha innovato i termini in cui lo storico dell’arte affronta la lettura delle opere. Morelli si concentra sullo specifico fascio di problemi che esse gli pongono, una per una, e cerca una sintesi interpretativa in cui le emergenze esecutive, la conservazione – cioè quel che resta delle intenzioni dell’artista, al netto

dei danni e dell’azione del tempo – e gli elementi inconsci e deliberati dell’agire dell’esecutore si combinano in un oggetto che richiede non più solo strumenti interpretativi come il gusto dominante di un’epoca o l’eventuale accumularsi di una fortuna critica (la quale peraltro non esiste per migliaia di opere), o una rilettura più o meno acuta di fonti, documenti e critica, ma prassi conoscitive attinte all’esperienza dell’occhio e anche ai metodi dell’anamnesi medica.

La formazione medica di Morelli, così come quella di Arthur Conan Doyle e di Sigmund Freud, ha tratti comuni che in Italia sono stati evidenziati in un saggio pionieristico di Carlo Ginzburg sulle Radici di un para1.

Rinaldi 2011.

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DALLA DIAGNOSTICA ARTISTICA ALLA TECHNICAL ART HISTORY

digma indiziario2. L’avvicinamento della storia dell’arte italiana a un metodo basato sulla categoria semiologica dell’abduzione – e dunque su una dimensione diagnostica della conoscenza delle opere d’arte – è stato lento e controverso3. Non a caso, gran parte della letteratura su cui si basa la ricerca di Marco Cardinali non è italiana. Il suo studio si ferma deliberatamente al 1939, anno a partire dal quale nel nostro Paese viene fondata l’istituzione operante in quella che ancora non si chiamava Technical Art History: l’Istituto Centrale del Restauro. In tal senso questo libro è la valva di un dittico che ci auguriamo Cardinali vorrà completare con il versante italiano della questione, e non per ridicoli sciovinismi ma perché – come cercherò di dire qui più oltre – a partire dall’esperienza di Cesare Brandi e proseguendo per tutta la sequenza dei suoi successori, il contributo italiano ha allargato il perimetro della ricerca e del dibattito scientifico anche in un’area assente dalla riflessione compiuta all’estero.

Tornando alla dimensione diagnostica, la connessione del metodo di Morelli con le scienze sperimentali ha radici storiche che affiorano ovunque nel libro di Cardinali, e che meriteranno ulteriori approfondimenti sia sul piano epistemologico generale sia per quanto attie-

ne al peso storico e sociale del susseguirsi sempre più fitto e irreversibile di rivoluzioni industriali sin dalla seconda metà del Settecento. Questo processo, che ha subito un’accelerazione vertiginosa nell’Ottocento, ha visto una redistribuzione dei pesi nello scibile umano che non ha precedenti nella storia del pianeta. Prospettare qui anche solo i termini generali del problema è impossibile, ma qualche cenno alla questione va pur fatto.

Pensiamo all’invenzione della fotografia e all’allargarsi della possibilità di disporre su una scala sempre più estesa di riproduzioni di opere d’arte (e Cardinali dedica, non a caso, ampie parti del suo studio a tale questione); ai vertiginosi progressi dell’industria chimica: un solo esempio per tutti è l’avvento della produzione industriale dei colori per la pittura (e non solo) dopo secoli di lavorazioni meccaniche e manuali così ben raccontate da Manlio Brusatin4. E pensiamo ai progressi dell’ottica di precisione, delle tecnologie diagnostiche legate all’impiego in medicina dei raggi X, della fisica sperimentale. Tutte queste vicende, che si potrebbero ricondurre qui per comodità al drammatico passaggio descritto da Alexandre Koyré Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione5, hanno portato sin dagli anni Trenta del Novecento

a un’intensificazione sempre più pervasiva dell’uso di strumentazione scientifica nei tentativi di comprensione delle opere d’arte.

Cardinali segue puntualmente questo processo fino al dibattito odierno sui cambiamenti comportati dalla digitalizzazione delle immagini; il tratto novecentesco della sua indagine prende in esame le frizioni createsi fra pionieri della diagnostica come Alan Burroughs, autore del primo manuale radiografico per le opere d’arte (1938), e storici dell’arte come Julius Held, che nel 1940 negava l’utilità dell’approccio di Burroughs. Cardinali spiega bene anche come maturasse per tempo la coscienza della necessità di una connoisseurship nella valutazione delle immagini radiografiche e multispettrali di un’opera d’arte.

Tale esigenza, in verità, continua a essere attuale: il confine tra la produttività e l’inutilità nell’impiego delle risultanze di queste indagini è ancora labilissimo; lo strumento in sé non produce verità inoppugnabili.

2. Ginzburg 1979.

3. La resistenza all’impiego della semiotica nella storia dell’arte, specialmente quella di età moderna, è tutt’ora forte. Sull’abduzione cfr. il sempre fondamentale contributo di Bonfantini 1987. Del compianto Massimo Bonfantini resta centrale anche l’introduzione a Peirce 1980.

4. Brusatin 1983.

5. Koyré 1970.

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PREFAZIONE

Uno degli aspetti più interessanti del libro di Cardinali è nella registrazione dell’evolversi di questa dialettica. Da un lato ritroviamo lungo tutto il corso del ‘secolo breve’ conoscitori legati al mondo del museo, del collezionismo e del mercato, decisi a rivendicare la primazia dell’occhio sulla macchina, e soprattutto dell’esperienza visiva ‘pura’ sull’idea di una meccanizzazione – meglio, di una scientifizzazione – del sapere storico-artistico; dall’altro uomini in camice bianco chiamati ad affrontare il problema di un’interpretazione scientifica dei caratteri costitutivi e del degrado delle opere d’arte, e che nel tradurre ciò che trovavano in scelte operative magari combinavano anche guai sul corpo delle opere. Ma sullo sfondo di questi tentativi resta l’idea che funziona per tutto il libro come il tendicatena di una bicicletta: la lenta maturazione della consapevolezza che l’analisi delle opere d’arte mediante strumentazioni scientifiche aumentava le conoscenze su di esse. Agli inizi di questo percorso non era chiaro a nessuno dove si sarebbe andati a finire, ma l’inevitabile oscurità di un nuovo orizzonte di esperienze non ha mai impedito di continuare a esplorarlo, fra errori e balzi in avanti: è una storia quant’altre mai umana.

Cardinali pone il lettore di fronte a una grande quantità di figure di ricercatori che sino ad oggi non sono mai apparsi nei discorsi della critica d’arte, e li situa storicamente nei contesti istituzionali in cui operarono.

Spesso erano medici, come André Cheron, che nel 1921 pubblicò indagini su dipinti del Louvre.

Alle volte erano addirittura investigatori di polizia come Edmond Bayle, che mediante i raggi UV scoprì una firma falsa su un dipinto di Goya (un caso canonico di dimostrazione del paradigma indiziario). Ed erano anche fisici come Robert William Wood, cui si deve l’invenzione del vetro con cui funziona la lampada che da lui prende il nome, e che in tanti ancor oggi usiamo nello scrutinio sul campo delle opere d’arte.

Uno dei passaggi chiave del libro è nel racconto della spinta critica impressa alle conoscenze diagnostiche sull’arte da Henri Focillon, prima e dopo la Conferenza Internazionale per lo studio dei metodi scientifici applicati all’esame e alla conservazione delle opere d’arte (Roma, 13-17 ottobre 1930). A Focillon, acuto maestro autore pochi anni dopo della Vie des formes (1934), non sfuggiva la necessità di combinare le ricerche scientifiche con ciò che ancora oggi chiamiamo storia dell’arte nel senso più classico del termine, e incoraggiò il suo

allievo Fernand Mercier ad approfondire le sue ricerche anche in chiave metodologica. Mercier vedeva il dipinto come “un tout infiniment complexe”, che per la sua stessa natura va affrontato mediante analisi in cui devono convergere competenze diverse.

Cardinali, che in ciò si basa anche su precedenti lavori suoi e di altri ricercatori, non nasconde che la reazione italiana al bagaglio di scambi e di conoscenze accumulato nella Conferenza di Roma fu quanto meno controversa se non inconsapevole. Era stato Sergio Ortolani, attraverso la fondazione del Gabinetto pinacologico della Pinacoteca del Museo Nazionale di Napoli, tra i primi a comprendere l’importanza del processo che si era avviato, ma la sua linea risultò perdente. Fa molta impressione leggere gli appunti presi da Roberto Longhi sugli interventi alla conferenza di Roma, e anche i passi della sua lettera del 1937 al Ministro dell’Educazione nazionale Giuseppe Bottai. Il suo dissenso nei confronti delle nuove prospettive diagnostiche è netto, e viene motivato persino sul piano ideologico: esse sono viste come “periodiche rifioriture positivistiche sul corpo martoriato della critica d’arte”, “specchietti e diagrammi pseudo-scientifici in pasto alle illuse culture dei paesi democratici e agli illumini-

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DALLA DIAGNOSTICA ARTISTICA ALLA TECHNICAL ART HISTORY

stici uffici di collegamento della Società delle Nazioni”.

Se il contesto storico-politico dell’anno 1930 non è irrilevante nel porre in prospettiva le frasi di Longhi, queste ultime palesano un conflitto che va molto oltre le loro stesse intenzioni. La reazione di Longhi ha un precedente estremamente indicativo: quella di Benedetto Croce alle relazioni di matematici come Giuseppe Peano, Jules Henri Poincaré e Paul Langevin al IV Congresso Internazionale di Filosofia, organizzato nel 1911 a Bologna dal matematico Federigo Enriques. Per Croce ciò che aveva ascoltato a Bologna da ricercatori di quel calibro non aveva niente a che fare con la filosofia, e non cambiò mai idea sulla nullità del peso della scienza del XX secolo sull’evoluzione del pensiero filosofico6.

Dal canto suo Longhi si è sempre posto nei confronti del suo lettore come un “conoscitore sciamano”7: il suo sapere è narrato in chiave divinatoria; si ammanta di un’infallibilità le cui pratiche restano misteriose, mai rivelate nel loro farsi; la trasmissione testuale di ciò che egli ritrova è scientemente costruita per trovar posto nel solco plurisecolare della letteratura artistica8. Come era possibile conciliare queste inclinazioni, che peraltro tanti successi avrebbero riscosso per tutto

l’arco di una lunga esistenza, con l’idea di circoscrivere la costruzione di un testo figurativo nella sala operatoria di un laboratorio?

Su un piano sociologico e storico-culturale più generale, gli atteggiamenti di Longhi – e se è per questo di buona parte dell’élite italiana della storia dell’arte d’anteguerra – palesano il crescente conflitto tra il progredire della conoscenza scientifica e la difficoltà della sua condivisione al di fuori della comunità degli addetti ai lavori, e ciò non solo nell’ambiente storico-artistico ma più in generale nel tessuto sociale, nel ‘pubblico’ del XX secolo.

Infatti, ancora oggi: è possibile percepire le conseguenze pratiche della teoria della relatività? I batteri furono già ‘visti’ nel Seicento mediante gli antenati dei microscopi moderni, ma la loro azione fu compresa solo verso la fine dell’Ottocento: cosa se ne ricavò esattamente? E che dire delle scoperte della ricerca astronomica e astrofisica (la misura delle dimensioni delle galassie, le teorie cosmologiche, etc.), del funzionamento dell’atomo e delle sue particelle? Cos’è, in pratica, la meccanica quantistica? E come funziona esattamente la genetica? La scienza è sempre più lontana dal comune sentire, e i sensi umani non sono più in grado di spiegare da soli la struttura soggiacente di quel che ci circonda.

L’epitaffio solenne, il malinconico e struggente commiato dal mondo del primato dei sensi, e il percorso verso quello subsensoriale dell’esperienza tecnologica, verrà celebrato da Italo Calvino in Palomar (1983). In tutte e tre le parti del suo libro il motore della narrazione risiede nell’impossibilità di comprendere la natura e l’esistenza, di racchiuderle in un sistema unico di conoscenza mediante gli strumenti cognitivi ‘naturali’ degli esseri umani.

Nondimeno, nella storia dell’arte è ancora e sempre dei sensi che abbiamo bisogno per trarre una sintesi, anche dopo essersi avvalsi della potenza di ogni possibile protesi tecnologica. La connoisseurship applicata ai dati sensoriali o alle risultanze di una radiografia passa innanzitutto e sempre per l’esercizio della reti6. Cfr. Barone 2016, che riporta un’intervista di Croce in cui il filosofo affermava che “Si addossa le fatiche dei congressi dei filosofi, meritorie quanto sarebbero meritorie e disinteressate le mie, se organizzassi congressi di matematici”. Ma, come nota Barone, Enriques era un fine intellettuale, “mentre la matematica di Croce non andava oltre le quattro operazioni”.

7. Su questo aspetto della personalità del grande studioso spero mi sia consentito di rinviare a Lattuada 2016.

8. È per questo motivo che appare ancora oggi ineguagliato, per la sua pertinenza e per la sintesi dell’asserto, il titolo che Giovanni Previtali dette agli atti dello storico convegno su Longhi, Previtali 1982.

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PREFAZIONE

na. Il perimetro della discussione, dunque, è tutt’ora ambiguo.

Gli approcci diagnostici alla conoscenza dell’arte ponevano grandi maestri nell’impiego dell’occhio, della storia, delle carte antiche e moderne, della ‘discussione’, della ‘critica’, di fronte a informazioni di cui non possedevano le chiavi interpretative. Questo disagio diveniva ancor più forte nel momento in cui una disciplina all’epoca ancora giovane come la storia dell’arte stava affrontando sfide poderose: la conoscenza di base di enormi aree figurative, di personalità artistiche perlopiù ancora ignote, di una documentazione non solo fotografica, di una massa enorme di testi di critica e storia della critica, etc. Nessuno di questi obiettivi è definitivamente conseguito, e la storia dell’arte continua il suo percorso anche nella sua configurazione metodologica più tradizionale, la cui utilità non è certo venuta meno nelle sue potenzialità.

Al tempo stesso la Technical Art History, che è figlia legittima delle rivoluzioni industriali della fine dell’Ottocento, ha finito per fertilizzare sin dai suoi prodromi un territorio più ampio di quello dei musei, delle gallerie d’arte e/o antiquarie, etc. Se l’Italia quasi non c’è nella traiettoria delineata da Marco Cardinali nel secondo dopoguerra, intellet-

tuali e metodologi come Giovanni Urbani le faranno assumere un ruolo-guida in un ambito ben più vasto di quello della Technical Art History applicata alle opere d’arte in musei, gallerie e collezioni: la questione dell’impatto antropico, industriale e ambientale sulle opere d’arte disseminate sui territori. È, questo, un carattere peculiare e primario del territorio italiano, che è stato calpestato e violato sistematicamente sin dagli anni del boom economico. E se con il nuovo millennio il processo di aggressione sembra aver rallentato non dipende da una nuova coscienza nelle politiche sui territori ma solo dal pluridecennale dimenarsi del nostro Paese tra crisi economiche ricorrenti e riprese semi-abortite. È ben noto come fu persa la battaglia di Urbani per studiare e ridurre l’impatto dell’ambiente sul patrimonio dei beni culturali italiani e per predisporre metodologie nuove per la sua conservazione. Ma di quella lezione resta il fatto che anche la sola idea di produrre protocolli di monitoraggio, manutenzione, prevenzione dell’azione di degrado causata dall’inquinamento da industrializzazione mediante metodi e tecnologie strumentali ha potenzialmente esteso la visione e gli obiettivi della Technical Art History e della scienza della

conservazione all’intero contesto della presenza antropica sui territori.

In attesa di veder recuperare anche questa parte della storia, la ricerca di Marco Cardinali, che qui si pubblica, stabilisce importanti punti fermi e ci porta a registrare una prima fondamentale evidenza: il lavoro sul corpo dell’arte non è più un percorso che possa essere compiuto in solitaria dallo storico dell’arte o dal diagnosta o dal restauratore, ciascuno di essi chiuso nella sua biblioteca, nel suo archivio, nella sua fototeca o nel suo laboratorio. È solo mediante l’interazione – non occasionale e paritetica, ma realmente dialettica – tra queste e altre figure che si produrrà una storia dell’arte più efficace, capace di porre a sé stessa domande vecchie e nuove con strumenti umanistici, tecnologici e soprattutto metodologici che siano in linea con le istanze e la sensibilità del tempo che viviamo.

Roma, 28 maggio 2020

INTRODUZIONE Contare quanti fili d’erba ci sono, di quali specie, quanto fitti e come distribuiti.

In base a questo calcolo si arriverà a una conoscenza statistica del prato… Ma contare i fili d’erba è inutile, non s’arriverà mai a saperne il numero. Un prato non ha confini netti, c’è un orlo dove l’erba cessa di crescere ma ancora qualche filo sparso ne spunta più in là…

Ma pure là dove non c’è che erba, non si sa mai a che punto si può smettere di contare.

(Italo Calvino, Palomar, Torino 1983, p. 16) Bisogna insegnare alla materia a ricordare.

(Roberto Barni, 2020)

Volgersi indietro, cambiar direzione e avanzare a ritroso per riscoprire l’origine della strada che si sta percorrendo è un’esperienza coinvolgente ma rischiosa. La ricerca delle radici di un pensiero e di una metodologia di studio in cui ci si riconosce pone un compito aggiuntivo di equilibrio, la necessità di una doppia verifica sul peso di eventi, opinioni e relazioni all’interno del contesto ricostruito.

Premessa doverosa è una precisa definizione dei termini cronologici e disciplinari da un lato, nonché della prospettiva di osservazione da cui dipende il focus degli approfondimenti, dall’altro.

Il lasso di tempo considerato è fissato da due date

indicative e non rigide, che non precludono cioè ulteriori salti all’indietro o in avanti.

Il 1874 è la data di pubblicazione del primo contributo dei Kunstkritische Studien di Giovanni Morelli e dunque di introduzione del suo ‘metodo sperimentale’ per l’attribuzione dei dipinti. Tale metodo rappresentò la prima proposta metodologica multidisciplinare e una trasformazione radicale per lo statuto epistemologico della storia dell’arte, che apriva i confini della disciplina alla medicina e all’anatomia comparata. La prima contaminazione tra scienze sperimentali e scienze storiche avveniva nel cuore dell’atto identitario dello studio storico-artistico: la

facoltà dello storico dell’arte connoisseur di riconoscere le opere d’arte.

Iniziava in quel momento lo studio scientifico dell’opera d’arte, l’analisi visiva accurata dei dettagli formali – e successivamente delle tracce materiali nel corpo delle opere – con l’unico ma poderoso ausilio tecnologico della prima tipologia di immagine tecnica, la fotografia. Proprio i primi passi della fotografia e la spinta verso una critica visuale e non più esclusivamente letteraria hanno autorizzato un primo sguardo all’indietro nel corso dell’Ottocento.

L’altro limite cronologico, termine temporale ante quem, è il 1938. In quell’anno si pub-

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DALLA DIAGNOSTICA ARTISTICA ALLA TECHNICAL ART HISTORY

blicò il manuale La Conservation des Peintures, che l’Office International des Musées si era impegnato a coordinare e produrre secondo quanto promosso e richiesto dalle conclusioni della Conferenza internazionale per lo studio dei metodi scientifici applicati all’esame e alla conservazione delle pitture, tenutasi a Roma nell’ottobre 1930.

Nello stesso anno, 1938, Alan Burroughs pubblicava Art Criticism from a Laboratory, il primo manuale di radiologia applicata allo studio dei dipinti, che raccoglieva i risultati delle ricerche intraprese dal Fogg Art Museum fin dal 1926 con campagne radiografiche condotte nei principali musei europei e americani.

All’interno di questa cronologia ho individuato le radici teoriche e storiche della Technical Art History e ho inteso raccontarne la nascita quale momento di svolta in un percorso che vede la partecipazione parallela di diverse realtà nazionali accademiche e museali – soprattutto non italiane – nonché una regia sovranazionale riconoscibile nell’Institut International de Coopération Intellectuelle.

In questo contesto, il ricorso alla moderna dizione di Technical Art History è quanto meno improprio rispetto al periodo descritto.

Cionondimeno è funzionale al focus sul presente e sul recente passato, sulla crisi della storia dell’arte nell’ultimo scorcio del Novecento, quando per la nuova metodologia tale dizione è stata coniata in ambito anglosassone.

Lo sguardo sul presente è dunque uno sguardo sulla critica d’arte e sulla trasformazione in atto della storia dell’arte sotto la spinta sia delle ricerche tecniche e materiali sia dei nuovi visual studies che la rivoluzione digitale delle immagini ha prodotto negli ultimi anni.

Con sempre maggior evidenza e diffusione, la creazione ed elaborazione delle immagini, dispiegata dalle più recenti tecniche di imaging multispettrale si traduce nella capacità di generare e trasmettere conoscenza.

Ciò investe e intreccia, apparentemente sottotraccia, un dibattito teorico e di ambito semiologico intorno alla valenza plurima dell’immagine e al dialogo/contrapposizione nei confronti del

linguaggio: dal pensiero filosofico e pionieristico di Vilém Flusser sulla natura delle “immagini tecniche”1, alla “teoria dell’atto iconico” (Horst Bredekamp) attraverso cui “le immagini diventano entità autonome in grado di collegare l’inorganico alla cultura” (Libera Pisano)2, fino alle riflessioni sull’immagine tecnica e scientifica, che nella definizione di immagine e di imaging considerano gli sviluppi tecnologici e descrivono il carattere di processo scientifico insito nella formazione dell’immagine tecnica (Das technische Bild)3.

La prospettiva che ho privilegiato in queste riflessioni è quella dello storico dell’arte e per questo la narrazione lascia sullo sfondo lo specifico tecnologico degli avanzamenti strumentali che hanno accompagnato – talvolta indirizzando talvolta seguendo – la nuova metodologia. Al contempo anche l’emergente 1. Flusser 1985.

2. Pisano 2015, p. 394.

3. Das technische Bild è un progetto di ricerca dell’Hermann von HelmholtzZentrum für Kulturtechnik (Humboldt-Universität, Berlino), nato nel 2000; interdisciplinary-laboratory.huberlin.de/en/content/das-technischebild.

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INTRODUZIONE

scienza della conservazione, che partecipò a quella nascita, entra nella sceneggiatura come attore non protagonista.

Alcuni temi sono stati invece individuati e isolati con delle finestre che si aprono fuori dal racconto. Questo è il senso dell’apparato iconografico e documentale, che impaginato separatamente riunisce intorno alle immagini alcuni approfondimenti anche sulla scorta di estratti bibliografici o di documenti d’archivio. Tra questi – quali esempi in ordine di trattazione nel corso del volume e non cronologico – il caso del Rembrandt Research Project, primo e dibattuto tentativo di ricostruzione del catalogo di un pittore come opera collettiva e multidisciplinare; il dibattito sull’uso improprio della documentazione fotografica delle opere d’arte, attraverso la famosa critica di Heinrich Wölfflin (1896) alle riprese di sculture da errati punti di vista; la ricostruzione del programma della conferenza del 1930 con il documento delle sue conclusioni; i criteri di interpretazione delle radiografie di dipinti e il modello di report proposti da Alan Burroughs per l’archivio radio-

grafico del Fogg Art Museum.

La costituzione del primo archivio dedicato alla documentazione scientifica dei dipinti, espressamente inserita nella lettura critica dei dipinti, rappresenta il segno tangibile di una consapevolezza acquisita in merito al contributo conoscitivo delle indagini.

Ho avuto modo di affrontare in passato quest’ultimo tema, insieme a quello della Conferenza di Roma del 1930.

Entrambi sono al centro dei miei studi attuali con una rinnovata attenzione per la documentazione di archivio, grazie al dottorato di ricerca in corso presso l’Università di Genova4 e, successivamente, all’assegno di ricerca presso l’Università della Campania, che mi hanno spinto a ricostruire dall’inizio le vicende dell’ingresso di una metodologia di ricerca tecnica all’interno della storia dell’arte del Novecento e del suo impatto nella riconfigurazione composita e multipolare della disciplina. In questo quadro il presente volume intende avviare una narrazione che proseguirà con le tappe dell’evoluzione della Technical Art History nel secondo Novecento, quando tra l’altro il contri-

buto dell’Italia, abbandonato il ruolo lungamente rivestito di spettatore scettico se non di oppositore manifesto, avrebbe impresso una svolta alla considerazione delle ricerche tecniche attraverso il magistero e l’attività dell’Istituto Centrale del Restauro e dell’Opificio delle Pietre Dure.

Numerosi amici e colleghi hanno partecipato nel corso degli anni alle riflessioni raccolte in questo volume, che non sarebbe nato senza la pazienza di chi vive intorno a me (Sabina, Ian, Luca, Adriano).

A tutti loro la mia gratitudine sincera e in particolare: Jaynie Anderson, Francesca Bewer, Giorgio Bonsanti, Andreas Burmester, Maria Ida Catalano, Silvia Cecchini, Angela Cerasuolo, Marisa Dalai Emiliani, Maria Beatrice De Ruggieri, Annamaria Ducci, Sven Dupré, Maria Clelia Galassi, Riccardo Lattuada, Valentina Locatelli, Maurizio Lorber, Sabrina Norlander Eliasson, Matteo Positano, Claudio Seccaroni, Richard Spear, Geert Vanpaemel, Elizabeth Walmsley, Andrea Zezza.

4. Progetto di ricerca: Materialità e Imaging. Le nuove competenze della critica d’arte attraverso la storia della Technical Art History, XXXIV ciclo dottorato di ricerca (Studio e valorizzazione del patrimonio storico, artistico-architettonico e ambientale), Università di Genova.