Juggling Magazine #72, september 2016

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foto di Andrea Macchia

primo giorno di viaggio ho messo i finimenti al cavallo e siamo partiti in sette. Dopo due settimane eravamo rimasti in tre perchè era troppo duro. Non avevamo soldi e i cavalli erano difficili da gestire. Abbiamo attraversato la Francia, non facevamo ancora spettacoli perché non sapevano fare niente, non c’era teatro di strada, non c’era scuole di circo, nessun negozio dove comprare gli attrezzi. Il nostro circo non aveva nemmeno un nome. Lavoravamo nelle vigne per campare, e per arrotondare ho imparato a fare delle opere veloci su cartoncino che la gente poteva acquistare per finanziare il nostro progetto. Per strada ci fermavamo nei posti belli che incontravamo lungo i fiumi, nei boschi, dove ho cominciato ad allenarmi, imparando prima l’arte del mangiafuoco, che però non mi piaceva molto perchè mi faceva schifo il petrolio. Allora ho imparato da autodidatta la giocolieria, arrivando a lanciare 3 palline e costruendomi le clave, con il manico della scopa e il sughero, proprio come faceva il circo di tradizione. Il primo circo che ho fondato si chiamava AnarCircus. Facevamo piccoli spettacoli in strada, ai mercati. Fu allora che, sempre in un bosco, come in una favola, ho incon-

andare il giorno dopo in una piazza nuova. Ho imparato come si gestisce lo chapiteau, le gradinate, dove piazzarsi con il circo. Dopo questa esperienza mi sono fermato e ho cominciato a costruire la pista e le gradinate, e per inserire l’aerea della mia compagna ho realizzato le antenne, ma non abbiamo mai voluto un tendone.

trato la mia compagna. Lei era ballerina classica e sognava la vita itinerante, diventare trapezista, così ha lasciato tutto quello che aveva ed è venuta via con me per realizzare il suo sogno. È solo con la fine degli anni ‘70 che in Francia arrivano anche altre compagnie ed artisti di circo: Cirque Plume, Zingaro, e pochi altri. Ma allora eravamo i primi e i gitani ridevano di noi quando ci vedevano. Così mi sono fermato per sei mesi e sono andato a lavorare in un circo tradizionale per imparare il mestiere. Lavoravo duramente, ogni giorno si faceva spettacolo e poi si smontava per

Per anni la cosa più dura e importante era fare la strada, l’itineranza, e non c’era molto tempo per allenarsi. Gli spostamenti erano durissimi, dovevamo spingere i carrozzoni insieme ai cavalli, e ogni volta avevamo un solo sogno, quello di arrivare e di riposarci. Eravamo molto puristi, combattevamo sempre contro il tempo brutto e il freddo, spesso scalzi. Ci volevano regalare dei motorini, ma noi insistevamo di voler girare coi cavalli. Era una scelta di vita e sapevo cosa volevo: un bel circo itinerante all’aperto. Appena la primavera riscaldava le giornate ci mettevamo in giro per lavorare, per mangiare. Senza allenamento nè prove, si faceva la scaletta con i numeri che ognuno aveva, e così siamo andati avanti per molto tempo. Passavamo il cappello, e potendosi sedere la gente era più disposta a lasciare qualcosa.

Poi ho incontrato alcuni musicisti che viaggiavano con un carrozzone, e li ho invitati a seguirmi per percorrere la strada degli zingari al contrario, andando verso l’Europa dell’Est. Per andare in Jugoslavia avevo deciso di tagliare attraversando l’Italia. Siamo partiti con tre carovane e abbiamo preso il nome di Cirque Bidon, perchè eravamo tutti autodidatti e dicevamo chiaramente alla gente che lo spettacolo era un bidone! Eravamo molto autoironici e la gente si divertiva tanto. La traversata con i 6 carrozzoni per arrivare in Italia è stata durissima, con molti valichi e tratti anche di 20 km. in salita. Eravamo una novità assoluta e appena arrivati in Italia abbiamo avuto un successo enorme. Il pubblico è stato favoloso, riempiva il cappello, ma portava anche da mangiare; la gente si divertiva e l’arena era sempre piena, con uno spettacolo costruito per catturare la loro attenzione, agganciarli e non farli andare più via. Il pubblico era accogliente, la polizia più tollerante dei suoi colleghi francesi; era così bello che passare veloci sembrava quasi un peccato. Tutti ci parlavano dell’Umbria, della Toscana, e invece di proseguire per la Jugoslavia abbiamo deciso di fermarci, anche perché

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