CIRQUE, IN FONDO IL L ABORATORIO ANARCHICO La loro chiara intenzione era di concludere le rispettive tournée con un evento festivo collettivo, non di fare un festival. Ma è stato in pratica, l’invenzione di un festival, e io non li incoraggerei mai abbastanza a “preservare il loro essere” (come Spinoza definiva il desiderio) e io spero che ci sarà una seconda edizione (con dei bagni di lusso, ovviamente, e con svi-
conquistate dal raptus del circo, dell’arte, del viaggio e in qualche modo “costrette” ad unire le istanze artistiche a quelle dell’impresa. Con le dovute proporzioni e differenze, sembra che oggi stia succedendo qualcosa di simile. Un folto gruppo di giovani provenienti da mondi del tutto diversi si innamora del circo, o di un’idea di esso, e finisce per dedicargli la vita inventando nuove modalità estetiche, aziendali e quindi antropologiche. Non sembra che il circo contemporaneo italiano visto a Bologna si sia definito in contrapposizione a quello classico. Non si tratta, appunto, di un lavoro a tavolino o da laboratorio. Pare piuttosto una fioritura di stili diversi in qualche modo ispirati proprio ad alcuni sensi del classico. Che siano quello di appartenenza ad una tribù itinerante, quello di trasgressione anche sociale (che comunque continua ad appartenere anche al classico), quello, ovviamente, di utilizzo di tecniche specifiche dello straordinario. Le modalità produttive sono molteplici ma fra le tante colpisce quella adottata a Bologna Città di Circo: l’offerta libera e consapevole. Si tratta di un format di impresa che ha del rivo-
luppi a tutte le buone idee sperimentali che hanno avuto). Circo in Italia? Sinceramente, ho avuto l’impressione di tornare 40 anni indietro nella mia esperienza in Francia. Il dolce clima italiano invita alla presentazione del circo più “in strada” che in teatro o sotto tenda. Ma la strada, oggi, è più una necessità che una scelta. E finché i teatri italiani resteranno ermeticamente chiusi al circo di creazione, allora si, lo chapiteau sarà la via di libertà. Ma quanto è cara! Il suo prezzo estetico è una dipendenza troppo grande a riguardo del supposto gusto del pubblico o delle sue ansie culturali, il suo prezzo politico è la compiacenza della “marginalità per la marginalità” (poichè nessuno ama il fango per il fango) e il prezzo morale è lo stato dei bagni. Il prezzo globale, tradotto in soldoni, cioè in euro, ostacola lo sviluppo del circo di creazione in Italia, che dispone, ciononostante, di tutti i talenti (anche se - o perché - il 70% degli artisti italiani, diaspora formidabile, lavora fuori dalla penisola). Insomma, io ho applaudito e pianto allo stesso tempo: in fin dei conti io mi auguro una politica italiana di circo d’arte d’attacco, basata su un dialogo franco, non falso, trasparente, democratico, iperrealista (verso il potere pubblico, i cittadini, i teatri… etc). La prospettiva elettorale in Italia mi fa paura: ho voglia di dire agli artisti di circo italiano, così immaginativi e così padroni delle loro tecniche, scappate! La vostra terra non è l’Italia ma il mondo. Ma sarà davvero un peccato per tutti gli italiani e non che vivono nello stivale, o no? Si, è necessario che ci sia un circo di creazione pure in Italia! Aspettate, sembra un sogno, un paese di 60 milioni di abitanti, un paese conosciuto nel mondo intero come la culla dell’arte, il paese dell’eleganza e di pensatori politici fuori dal comune! Ma si, il circo dei giovani italiani è all’altezza di questa reputazione e aggiungo che essi la onorano. Serve un francese per dirlo? Ma che aspetta il Potere a esprimersi pienamente e considerare, capire anzi amare, con il fango o senza il fango, questa avant-garde popolare che io ho visto brillare a Bologna?
luzionario. Raccoglie una consuetudine dell’arte di strada e la porta sotto al tendone. Gli spettatori pagano solo se lo desiderano, quanto desiderano e solo al termine dello spettacolo. Inoltre, in genere, i componenti della compagnia si dividono l’incasso in parti pattuite in precedenza. Un po’ come avveniva sulle baleniere ai tempi di Melville e del Capitano Achab, ma con percentuali persino più democratiche. Questa è un’altra grande innovazione del contemporaneo italiano. Una sorta di democratizzazione della tribù itinerante, che esisteva già, è vero, nelle piccole famiglie di viaggianti, ma di solito si perdeva non appena l’azienda diventava un tantino più grande. Altra innovazione paradossale è quella di tornare a mettere lo chapiteau al centro dell’itineranza e contemporaneamente, con un salto mortale tipico per il genere, cercare di riconquistare anche il centro della città, non senza fatica. Ed ecco che diventa interessante il punto di vista dei fruitori, degli spettatori. Per un attimo pensiamo quindi al circo come a un prodotto (seppur culturale). Riassumiamo: il circo contemporaneo continua ad essere presentato sotto chapiteau ma è più facile che esso sorga in zone centrali, che non sia necessario prendere automobile o mezzi e spostarsi di chilometri. Conferma come essenziale lo stupore, sia nella tecnica che nella creazione. Si propone con metodi di pagamento differenti. Queste nuove soluzioni vivono nella continuità con la tradizione. Curiose fusioni che generano di fatto un genere nuovo con sfumature di antico. Di sicuro c’è che le discipline dello straordinario che 250 anni fa sono convenute nella pista rotonda del circo moderno di Philip Astley (a proposito… auguri!) sono antiche di migliaia di anni. Nel corso delle epoche hanno affrontato difficoltà e persino ostilità di ogni tipo. Sono state censurate, proibite, messe al bando. Ma sempre, sempre, hanno trovato il modo di tornare ad affacciarsi alla ribalta tanta è la loro energia creativa. Con nuovi formati, nuove istanze, ma la caratteristica eterna dello stupore. 1 Cfr. anche Meldolesi Claudio, “La miseria e il palazzo degli spettacoli”, in Meldolesi e Taviani, Teatro e spettacolo nel primo Ottocento, Laterza, Roma-Bari, 1991.
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