ARCHITECTURE OF THE ABANDONMENT - Outskirts rehab?

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ARCHITETTURA DELL’ABBANDONO Progettare ai margini? ARCHITECTURE OF THE ABANDONMENT Outskirts rehab? Tesi di laurea di Johannes Equizi Relatore Prof. Arch. Raffaele Paloscia Corso di Laurea triennale in Scienze dell’architettura Anno Accademico 2017/18


A tutti gli Abbandonati



Indice 17 23 27 29 30

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1. Introduzione 2. Premesse 3. Contenuto teorico

3.1 L’abitare itinerante nei luoghi impermanenti 3.1.1 Il nomadismo contemporaneo dell’individuo: adattamento al circostante 3.1.2 Sviluppi dell’architettura effimera 3.1.2.1 Costruzioni d’emergenza 3.1.2.2 Padiglioni e sperimentazioni 3.1.2.3 Habitat culturale 3.2 I margini abbandonati come penisole sperimentali 3.2.1 Rivalutazione dei margini secondo la lettura di Gilles Clément 3.2.2 Il reperto abbandonato secondo l’archeologia industriale 3.2.3 Casi di recupero dei margini abbandonati 3.2.3.1 Aree interstiziali generiche 3.2.3.2 Aree interstiziali industriali 3.3 Autonomia nel costruire: il riscatto del destinatario 3.3.1 Criticità della modalità egemone 3.3.2 Rivalutazione delle tendenze marginali 3.3.2.1 Ridimensionare il ruolo dell’architetto

3.3.2.2 Indipendenza organizzativa, progettuale e costruttiva 3.3.2.3 Emancipazione assistita del destinatario 3.4 La sinergia creatività-riuso nel costruire 3.4.1 L’approccio progettuale capovolto: il componente é il punto di partenza 3.4.2 Il riuso in risposta alle problematiche ambientali 3.4.3 Metodi di recupero, distribuzione e formazione

4. Architettura dell’abbandono 5. Il progetto-pilota di un centro siderurgico abbandonato

5.1 Scenario d’attuazione 5.2 Il centro siderurgico: descrizione del sito 5.2.1 Preparazione dei materiali e produzione della ghisa nell’altoforno 5.2.2 Trasformazione della ghisa in acciaio 5.2.3 Produzione dei semilavorati e dei prodotti finiti 5.3 Abaco di recupero secondo lo scenario tipo

6. Conclusioni 7. Bibliografia e sitografia

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↓ citato in A. De Toni, R. Siagri, C. Battistella, Anticipare il futuro: Corporate Foresight, Egea Spa, 2015, p. 85

Non cambierai mai le cose combattendo la realtà esistente. Per cambiare qualcosa, costruisci un modello nuovo che renda la realtà obsoleta.

Richard Buckminster Fuller



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Introduzione 1


↓ Bey, 2007, p. 30

Nel percorso della mia formazione mi sono soffermato piú volte ad osservare il «potere magico del marginale», domandandomi spesso se esso, nel mondo in cui viviamo, ne fosse il sintomo o la cura. Con un'attenta osservazione possiamo notare come oggi sia presente una miriade di tendenze marginali, nell'abito dell'architettura, che vede lo sviluppo di manufatti informali, declinati ciascuno in risposta alle condizioni del territorio e delle persone coinvolte. Attratto da questi ambiti, da queste inusuali declinazioni dell'architettura, ho scelto di approfondirli per capirne di piú, per intravederne i significati ed i valori. Nella tesi che ho elaborato mi sono concentrato su quattro tematiche cercando di trovarne, ove possibile, un filo conduttore che potesse restituire loro il connotato di una tendenza d'approccio che, per quanto possa declinarsi in singolari sfaccettature, rimette in discussione il rapporto che lega uomo, paesaggio ed architettura. A seguito dell'analisi teorica condotta ho cercato di reinterpretarne il contenuto, filtrarlo e proporne uno scenario d'attuazione. Nel primo punto, la ricerca si snoda con una panoramica sul connotato effimero dell'abitare e dell'architettura, di come in essa si sia sviluppata una corrente – difficilmente catalogabile – indipendente dalla necessità di stabilizzarsi in un unico luogo e sempre piú discostata dall'immagine consueta della costruzione. Che sia una condizione d'emergenza, una sperimentazione artistica o un semplice fatto culturale, l'uomo e la costruzione hanno consolidato una vocazione all'imper-

↑ Bey, 2007, p. 35

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manenza, ad un'erranza su un pianeta connotato dai muri e dai confini. Nel trovare quindi un luogo dove potesse prendere forma questa modalità di vivere gli spazi in maniera temporanea, ho dovuto reinterpretare il territorio per poterne scorgere delle possibili enclavi in cui manifestarsi: questa é la seconda tematica trattata. Fondamentale come punto di partenza é stata la rilettura del territorio secondo l'ottica di Gilles Clement – contenuta nella sua opera “Il Manifesto del Terzo paesaggio” – che riconosce tra le aree “di significato”, che ospitano la presenza umana, l'esistenza e il valore degli spazi interstiziali. Spazi marginali che peró non sono piú considerati solo come un tratto-limite tra aree di significato, ma come spessori, spessori imprecisi, privi dell'attività umana, che possono essere un luogo di rifugio per l'invenzione e la diversità – nella sua analisi, biologica. Il carattere di questi luoghi é l'esser privi di struttura spaziale autonoma, stabilità o definizione, essendo in riferimento al territorio organizzato e in opposizione a quest'ultimo; sono «penisole incastonate nella mappa». É proprio qui che si puó delineare un autonomo modo di costruire – e vivere – gli spazi, di lasciare un proprio corso alle sperimentazioni di chi si sofferma, di saturare questi margini abbandonati secondo un proprio divenire. Terzo punto della ricerca é la partecipazione e l'autocostruzione – piú o meno assistita – in quanto risultano modalità di costruzione comunitaria calzante in quanto permette una spontanea interazione tra l'uomo, le possibilità insite nell'interstizio e il significato temporaneo che se Introduzione

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ne vuole conferire. L'incontro che si manifesta non coinvolge solamente le suddette parti di un margine, ma ingloba in un continuo scambio, in una rete di legami che si dissolve e riforma, anche margine e margine e ció che é esterno da essi. Nelle aree di significato in cui si dispiega l'attività umana, sono presenti elementi che ne sono privi, come ad esempio i rifiuti, la cui sorte é l'abbandono. La quarta tematica é appunto il riuso di questi, il recupero di ogni tipo di manufatto che se osservato da altre prospettive, puó acquisire nuovi significati ed essere reimpiegato in formulazioni originali ed anonime, divenendo strumento epifanico della progettazione. Questi quattro capisaldi si intrecciano vicendevolmente nella tesi, armonizzandosi, conferendo un quadro inconsueto di un'architettura senza nome che, per quanto poco riconosciuta, esiste. Al contenuto teorico di carattere fortemente trasversale, ne segue un'ipotetica applicazione transcalare. La scelta di un sito abbandonato come territorio marginale mi é parso un luogo idoneo in cui attuarvi dei progetti di riutilizzo temporaneo. In particolare mi sono concentrato sulla tipologia del centro siderurgico, individuandone gli elementi caratteristici ed ipotizzandone vari scenari di riuso secondo differenti fruitori e materiali. Obbiettivi di questa tesi sono il cercare di avvalorare queste tendenze minoritarie, queste sperimentazioni che per certi aspetti «impartiscono un sobbalzo alla normalità», di assurger loro una dignità che ne permetta riconoscimento e quindi

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piú semplice attuazione. Ma ancor piú mi preme far sorgere nuove domande riguardo i ruoli e l’intreccio tra architettura, uomo e territorio. Come ripensare la disciplina in virtú delle sue potenzialità latenti? Cosa appare ormai obsoleto da dover abbandonare, cosa cambiare, cosa no? D’altronde anche i suoi stessi significati sono impermanenti.

↑ Staid, 2017, p. 174

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Introduzione

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Introduzione Premesse


Quando presentiamo un’immagine totale non vogliamo affatto specificare dettagliatamente come può essere la città del futuro. Le nostre proposte sono suggerimenti su quelli che ci sembrano i metodi e le vie da prendere. Non vi può essere un punto finale a cui la città possa un giorno arrivare nel suo sviluppo, perché, se questo accadesse, la città si ridurrebbe istantaneamente in rovina. Questo non significa che noi formuliamo soggettivi e impossibili sogni fantastici: noi siamo alla ricerca di un metodo che accomuna una varietà di immagini diverse. Prima di proseguire con il contenuto della tesi ritengo opportuno chiarire alcuni aspetti per evitare di incorrere in mal interpretazioni. Le tematiche trattate risultano essere molto ampie ed articolate, declinandosi in maniera differente a seconda del luogo e dei protagonisti coinvolti. Data la mole dei fattori presenti in ciascun contesto é stato necessario procedere cercando di mantenere una lettura dei soggetti circoscritta alle finalità della ricerca e ad un loro filtraggio volto a discernerne solo gli aspetti utili da riportare in queste pagine. Precisare ogni episodio, eccezione e problematica, oltre a rendere infinitamente lunga la ricerca, avrebbe fatto perdere il filo del discorso. La scelta dei soggetti, delle esperienze e dei casi emblematici, infatti é mirata a testimoniare solo alcune tra le tante manifestazioni alternative e minoritarie di questa architettura rispetto ai canoni consueti. Conseguentemente, ai fini di questa ricerca “libera”, ne é stata riportata una lettura parzia-

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le, semplificata, che ha soppesato maggiormente i punti di forza e in comune che le divergenze e le contraddizioni tra gli interessati. Allo stesso modo, non si é tenuto conto di alcune problematiche che avrebbero ostacolato la fluida riuscita dello studio, escludendo intralci ad esempio in termini di legalità o costi. Quello che tra queste pagine puó trasparire come un metodo d'approccio al costruire, é da considerare come una risposta estrema ad una condizione di limite estremo; non vuole quindi porsi come una generalizzazione su quale sia la formula dell'abitare da perseguire, ma solo come possa esserne, marginalmente, una sua libera declinazione. ↑ Noburu Kawazoe, “City of the Future”, in Zodiac, n. 9, 1962, p. 99

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Premesse

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Contenuto teorico


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3.1 L’abitare itinerante negli habitat impermanenti

↓ Rahul Mehrotra, “Nulla é permanente, nulla é sacro”, articolo su Domus, 2016

Per leggere ed esaminare la relazione tra territorio, uomo ed architettura possiamo fornirci di differenti strumenti d’indagine, concentrarsi su precisi ambiti e focalizzarsi su un’ampio spettro di tematiche e suggestioni. Tra le numerose tipologie da adottare e i soggetti da prendere in esame, ho scelto di concentrarmi su quelle tendenze minoritarie, inconsuete ed inesplorate, su quelle esperienze sperimentali che scardinano e riformulano le dinamiche di tale relazione. L’intento delle prossime pagine é quello di scoprire quale siano le risorse insite in queste dinamiche, nel riutilizzo dei copertoni come materiale edilizio, nella trasformazione di una spazio di risulta scomodo in un’ambiente accogliente, o nella capacità rigenerativa di esperienze nate e condotte dal “basso”. La relazione che definisce l’identità di un ambiente può quindi provenire – in maniera soddisfacente ed apprezzabile – anche da ciò che é “abbandonato”. Il motivo di questa ricerca é che, come ci riporta Filippo De Pieri, «un luogo potrebbe non definirsi più per il più grande comune denominatore, il più visibile, ma per il più piccolo, il più fragile» ed é quindi necessario riconoscerne le sue possibili declinazioni, « ...la questione é sapere fino a che punto la perdita culturale rappresentata da quest’oscillazione del sistema identitario é ammissibile come tale, senza traumi».

↑ Clément, 2016, p. 103

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«Non si dovrebbe parlare di città formale o informale, ma che le città dell’India sono cinetiche, cioè si trasformano l’una nell’altra – il fattore tempo, la permanenza – e così mi sono trovato impegnato sul tema della temporalità perché ho iniziato a documentare la trasformazione dei campi da cricket che di sera diventano luoghi per le feste di matrimonio, grazie al bambù e al tessuto, e come lo spazio si trasforma lungo la scala temporale, e mi interessa molto questo concetto in quanto spiegazione della forma e della natura della città indiana.»

L’abitare itinerante negli habitat impermanenti

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3.1.1 Il nomadismo contemporaneo dell’individuo: adattamento al circostante Oggi giorno stiamo assistendo a una nuova importante diffusione del nomadismo con la conseguente chiusura della breve parentesi costituita dalla condizione sedentaria. La sedentarietà sembra essere un epifenomeno in rapporto all’arco temporale dell’esistenza dell’umanità: esistiamo da centomila anni, ma siamo sedentari solo da settemila. Se infatti gran parte della popolazione mondiale vive in maniera sedentaria, in una condizione stabile e permanente nella stessa abitazione, tuttavia é da tenere a mente che molte parentesi della loro vita, per quanto brevi siano i periodi, vengono trascorsi in luoghi differenti, risiedendo continuamente altrove. L’aspetto nomadico delle nostre vite – non inteso quindi nel senso stretto del termine come intera esistenza errante senza fissa dimora – negli anni a venire sarà sempre più accentuato per i motivi più diversi; saremo spinti a muoverci con un’identità svincolata da un luogo preciso e definita dalla memoria, dalla cultura, dagli oggetti che porteremo con noi ma anche dalle reti a cui saremo collegati. A fianco delle popolazioni nomadi, che in tutto questo tempo hanno difeso accanitamente la loro esistenza errante dai continui pericoli, si sono configurate tante forme di nomadismo con

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un crescente prevalere di quello individuale e solitario rispetto a quello collettivo, caratteristico di quei nomadi del passato mossi e legati da un sentimento di movimento, libertà e solidarietà. Altrettanti sono i motivi che spingono le persone a spostarsi continuamente: se ad un estremo abbiamo i nuovi nomadi ricchi, almeno una cinquantina di milioni di persone, che, per piacere o per lavoro, viaggiano dappertutto nel globo, all’estremo opposto, due o tre miliardi di persone si muovono di continuo per sopravvivere. Che sia quello di lusso o dei diseredati ad oggi possiamo contare duecento milioni di persone che vivono in un paese diverso da quello in cui sono nati ma tra trent’anni se ne stimano almeno un miliardo. Infatti sotto il duplice shock della mondializzazione e della globalizzazione lo scenario si va modificando inesorabilmente. La globalizzazione, che investe il nostro mondo e il complesso delle società esistenti sul pianeta, genera infatti la moltiplicazione di luoghi identici e ciò porta con sé considerevoli movimenti di popolazione ma, se da un lato é tranquillamente favorita la libera circolazione dei capitali e delle merci, dall’altro quella degli uomini é ancora critica. La circolazione degli oggetti e del denaro non ha senso senza la libertà di spostamento per gli individui. L’economia stessa lo richiede ma naturalmente c’ è chi vi si oppone. É interessante osservare che oltre al nomadismo prettamente fisico, si é affermata una sua forma più relativa legata al virtuale. Videogiochi, internet e altre nuove tecnologie ci consentono Il nomadismo contemporaneo dell’individuo: adattamento al circostante

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di spostarci, ma senza muoverci da casa, e ci dispongono perfino di un indirizzo virtuale slegato da un luogo specifico. Al riguardo Jacques Attali ritiene che:

so di un ambiente circoscritto in un preciso arco temporale dovrebbe influenzare la “natura” della costruzione e dotarla di un carattere effimero che possa mutare di volta in volta, divenendo perfino reversibile. In merito alla prima domanda Attali sostiene che «la condizione umana è legata all’erranza. Chiunque è rinchiuso in un luogo prima o poi desidera partire. Da questo punto di vista, le dittature sono sempre sedentarie. E la prima rivendicazione dei popoli oppressi è la libertà di andarsene via. La libertà di movimento è un bisogno profondo di tutti gli individui».

Fino ad oggi, una persona senza un indirizzo fisico era considerato un clochard. Non aveva esistenza giuridica, finiva per essere escluso dal mondo del lavoro e si ritrovava ai margini della società. Oggi con la posta elettronica e i cellulari la situazione è cambiata. Diventa possibile essere attivamente integrati alla società pur senza avere una dimora fissa. Non è ancora vero sul piano giuridico, ma sul piano pratico è già così. L’esistenza personale è riconosciuta indipendentemente da un radicamento in un luogo. E anche la nostra identità è sempre più svincolata dalla definizione territoriale. Viviamo in quell’autentica mitologia della mobilità, soprattutto geografica, che accompagna inevitabilmente la nozione di globalizzazione. Le migrazioni riguardano tutti i gruppi umani, sia coloro che sono alla ricerca della sopravvivenza sia i rappresentanti delle multinazionali: il nomadismo non ha mai avuto tanto successo. In questo contesto sarebbe necessario soffermarsi e chiedersi, perché la spinta al nomadismo negli uomini è così resistente e tenace? E a seguito di questi cambiamenti, sono necessari nuovi tipi di spazi architettonici, altre forme abitative per ospitare le nostre esistenze? Invece di continuare a “progettare per l’assolutezza” é da tenere conto della transitorietà, dell’offrire ambienti adattabili. L’u-

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↕ Attali, 2003

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Il nomadismo contemporaneo dell’individuo: adattamento al circostante

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3.1.2 Sviluppi dell’architettura effimera Jacques Derridá sostiene che, a livello inconscio, per la maggior parte di noi l’architettura è associata all’idea di sedentarietà; limitarla a quest’ambito peró è riduttivo rispetto a una complessità originata dai due bisogni umani fondamentali: abitare e spostarsi. Il passaggio, pur obbligato, dal nomadismo alla sedentarietà induce forse a una visione restrittiva e semplificata dell’architettura che invece, nell’ambito delle costruzioni temporanee, si declina in molteplici versioni e presenta una varietà di approcci architettonici, sia originali sia derivati dalle correnti dominanti, spesso criticabili. A seconda del soggetto nomade, che esso sia un tuareg del deserto, un migrante in fuga da guerre o degli abitanti sfollati a seguito di un cataclisma, si sono sviluppate tipologie edilizie volte a rispondere alle necessità di un abitare temporaneo, definito non solo dall’ambiente e dal contesto in cui si colloca, ma anche dalle risorse che il soggetto possiede. Nell’ampia declinazione di queste costruzioni sono da tenere a mente alcuni tratti, di seguito riportati, che caratterizzano la declinazione del costruito: l’uso del sito nel tempo, se cioè é destinato ad essere un luogo nel quale sostare per un breve arco di tempo, come ad esempio

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un padiglione artistico in esposizione, o se é uno spazio mobile nel quale risiedere a lungo, come una tenda mongola; chi si occupa della progettazione e costruzione, basta pensare ad esempio ai container d’emergenza preconfezionati nei quali risiedere a seguito di catastrofi o ai rifugi autocostruiti dagli sfollati con i propri mezzi; la scala dell’intervento, se si tratta di intere città effimere o se di piccole dimensioni come quella di un silos convertito in abitazione. É evidente quanto questi tre fattori concorrano nella formulazione del progetto, in ogni ambito e luogo. Per poter proseguire e prendere facilmente in analisi alcuni casi di queste costruzioni, sono state raccolte sommariamente le seguenti tipologie: costruzioni d’emergenza: tipologie create in risposta a catastrofi naturali, sociali o guerre; padiglioni e sperimentazioni: dalle strutture fatte di materiali inconsueti ed innovativi alle costruzioni parassite; habitat culturale: racchiude al suo interno quei modi di abitare e vivere nomade, come ad esempio quello del mondo del circo e dello spettacolo o i campi effimeri dei Rom e Sinti.

Sviluppi dell’architettura effimera

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Questa distinzione in raggruppamenti non è da considerarsi come categorizzazioni a compartimenti stagni in quanto l’intento è prettamente quello di raccogliere indicativamente varie esperienze e costruzioni “simili” secondo la loro inclinazione facendone emergere le somiglianze, le differenze e le tendenze che riconfigurano continuamente la branca delle costruzioni temporanee.

3.1.2.1 Costruzioni d’emergenza

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Durante il Novecento, le ricerche sulle strutture nomadi si sono spesso concentrate sulle abitazioni d’emergenza: catastrofi naturali e guerre sono state le cause principali dello sviluppo di numerosi prototipi. L’ingegno di molteplici architetti e costruttori ha promosso lo sviluppo di quei moduli abitativi che hanno permesso la risoluzione di problematiche di ogni genere in maniera immediata. Uno degli ambiti che ha visto un notevole incremento di tecniche costruttive e di ricerche forse é proprio quello degli accampamenti militari; uno dei primi esempi é la Dymaxion deployment unit del 1940 dell’architetto statunitense Richard B. Fuller che venne monopolizzata dalle necessità militari della Seconda guerra mondiale. Parallelamente all’ambito bellico si é dovuto affermare quello di accoglienza, basti pensare al Padiglione 6x6 progettato dall’architetto Jean Prouvé nel 1944 a sostegno dei rifugiati della Lorena, montabile in una sola giornata grazie a un rigoroso processo di assemblaggio. Sono soprattutto le questioni teoriche ed esistenziali poste dagli innovatori di allora a essere ancora oggi al centro delle riflessioni: la piccola dimensione, i limiti dello spazio, l’appartenenza a molteplici luoghi e non più a uno solo, il carattere ripetitivo del processo costruttivo, l’apparente precarietà, sono tutti elementi condivisi dagli architetti di oggi. Tra queste vi é anche la scelta dei materiali da impiegare, la cui gamma ormai si Costruzioni d’emergenza

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estende senza intralci grazie alle ricerche scientifiche più avanzate, ma anche a un uso diverso dei materiali da quello abituale per il quale sono stati costruiti. Un esempio significativo é l’ideazione nel 1995 della Paper Log House ad opera dell’architetto giapponese Shigeru Ban. Per aiutare le persone rimaste senza casa a causa del terremoto di Kobe, l’architetto ha progettato un’abitazione minima di 16 m2 che utilizza la paper tube structure, cioè una struttura portante costituita da tubi in carta che poggia su un quadrato di cassette di birra rinforzate da sacchi di sabbia, mentre il soffitto è coperto da un tetto di tela. Queste costruzioni progettate in risposta al bisogno essenziale di abitare con un comfort ridotto al minimo, hanno conosciuto una notevole fortuna critica e sono state installate oltre che a Kobe anche in Ruanda e in Turchia per il terremoto di Ankara (1999-2000). É interessante riconoscere come le abitazioni d’emergenza si sono declinate secondo filoni che prevedono una progettazione a priori minuziosa e l’impiego di materiali e moduli standardizzati, assemblabili o già pronti all’uso. Parallelamente però ci sono anche altre correnti che, sebbene il progetto e il metodo costruttivo siano già in parte premeditati, prevedono un maggiore margine di autonomia, come nella scelta dei materiali, della morfologia o di coinvolgere i futuri abitanti nella costruzione. Ben lontano dal caso dei classici container residenziali é ad esempio il sistema di costruzione superadobe progettato dall’architetto iraniano Nader Khalili. Sensibile ai problemi abi-

↓ superadobe, Nader Khalili

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Costruzioni d’emergenza

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tativi delle persone sfollate a causa di guerre e di catastrofi naturali, egli ha condotto ricerche approfondite sui metodi delle costruzioni tradizionali in terra (ambito sul quale si é pure soffermato l’architetto Hassan Fathy). La sua conoscenza dei principi costruttivi degli archi, delle cupole e, in generale, delle coperture gli ha permesso di reinterpretarli grazie ai materiali scelti e di progettare strutture che permettono di ottenere il massimo dello spazio utilizzando il minimo del materiale, prevalentemente reperito sul posto. Khalili ha intelligentemente mischiato terra e sacchi, con una tecnica che ha chiamato superadobe, per realizzare nel 1995 l’Emergency sand-bag shelter. Alcuni tubi fatti con tela di sacco e riempiti di terra sono sovrapposti gli uni sugli altri, come per costruire un igloo. Per dare coesione ai muri, le file dei sacchi sono tenute insieme da filo spinato; le porte e le finestre sono ricavate mediante aperture. Il processo costruttivo è semplice, rapido e necessita solo di tre o quattro persone. Le caratteristiche del materiale e del sistema di costruzione rendono queste strutture resistenti ai terremoti, alle inondazioni e ad altre calamità; la terra offre inoltre un isolamento termico e acustico naturale. Il progetto può prevedere la presenza di più cupole, in modo da offrire superfici variabili, rispondenti ai bisogni di famiglie di dimensioni diverse. Il sistema può servire a costruire anche edifici non residenziali, come scuole e ospedali, e persino strade o ponti: tali costruzioni presentano infatti il vantaggio, nel lungo periodo, di essere biodegradabili. Gli edifici effimeri hanno rappresentato un notevole aiuto dopo il terremoto che

ha colpito il Pakistan nel 2005 e Haiti nel 2010, specialmente riuscendo a coinvolgere gli abitanti locali al processo costruttivo, permettendo loro una partecipazione volta a caratterizzare le abitazioni con quelle decorazioni, con quei tratti tipici delle costruzioni del luogo. A differenza delle opere progettate da Ban, gli shelters di Khalili sono più effimeri che nomadi: condividono con il nomadismo l’assenza di radicamento al suolo e la possibilità di reimpiegare alcuni materiali in altri luoghi.

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Molto spesso, in risposta alle emergenze causate da catastrofi naturali o guerre, si ha unicamente l’intervento massiccio da parte delle istituzioni e degli architetti ma nei casi di catastrofi sociali la risposta alle esigenze dell’abitare risulta essere più articolata. A quelle soluzioni prescritte che intendono l’abitazione come un prodotto confezionato, se ne affiancano altre che vedono l’intervento e la partecipazione diretta della popolazione coinvolta cosí nella formulazione del proprio abitare. I problemi legati alla concentrazione urbana, all’impoverimento di alcune classi sociali e alle migrazioni, determinano il sorgere di costruzioni precarie imposte da catastrofi sociali. Posta il più delle volte sotto il segno dell’urgenza e della penuria, l’autocostruzione costituisce innanzitutto, ai giorni nostri, una soluzione di sopravvivenza corrente nei paesi in cui una grande parte della popolazione, vittima dell’oppressione dei regimi in carica, vegeta nella miseria e nell’abbandono. Senza dubbio l’habitat di fortuna che le serve da riparo, se non da residenza, è il Costruzioni d’emergenza

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frutto dell’arrangiarsi, ovvero una inventiva dettata dalla necessità. La Terra oggi ospita 19 megalopoli con oltre 10 milioni di abitanti, 22 comprese tra 5 e 10 milioni, 370 centri urbani di 5 milioni e sono 433 le città che arrivano a un milione di abitanti. Metà della popolazione mondiale abita in città più o meno grandi e fra vent’anni la percentuale salirà al 60%, scontato constatare che non c’é spazio per una casa dignitosa per tutti. Sempre più persone vivranno in situazioni marginali, un trend già in atto da molti anni nelle città africane, latine o asiatiche, un fenomeno destinato all’aumento anche nelle città nord americane ed europee. Roma, come molte altre metropoli occidentali, ha visto la nascita di numerose aree occupate provvisoriamente da costruzioni, sorte principalmente per due motivi: l’arrivo di persone in cerca di lavoro e senza possibilità economiche che non riescono ad accedere al mercato legale delle case e la crisi economica che ha colpito da ormai più di dieci anni USA e Europa. La stima delle persone che vivono negli slums delle città europee e degli altri paesi sviluppati secondo il rapporto The challenge of slums é di circa 54 milioni di persone, una piccola percentuale se confrontata ai circa 850 milioni di persone che, nei paesi in via di sviluppo, fuori dall’Occidente, vive negli slums. Nel 2001 in tutto il mondo 924 milioni di persone vivono negli slums, il 31.6% di tutta la popolazione mondiale; in particolare nei paesi in via di sviluppo sono il 43% della popolazione, in quelli sviluppati il 6%. Secondo i dati, i numeri di residenti negli insediamenti

informali continueranno a crescere. Queste abitazioni di fortuna sono la manifestazione simbolica e spaziale della povertà e della iniquità urbana. Tuttavia é da tenere a mente che gli slums non accolgono tutta la povertà urbana, così come i residenti di queste dimore informali non sono tutte persone povere. Nell’Asia centro-sud e nell’Africa sub-sahariana la popolazione che risiede negli slums supera perfino quella che non vi risiede. Nessuna di queste costruzioni in realtà é realizzata da architetti, perché per la maggior parte sono dovute ad autocostruttori. Possono deteriorarsi velocemente e riformularsi nello stesso luogo secondo altre formulazioni, in certi casi essere spostate con tutti i loro materiali (per lo più di recupero) a seconda dei mutamenti politici ed economici e la loro collocazione può variare in funzione degli spazi residui disponibili. Si stabilizzano in aree interstiziali quando si trovano in un ambiente urbano densamente costruito, nei terreni incolti ai margini delle città sotto forma di accampamenti più o meno stabili o in zone di frontiera e di passaggio, luoghi abitati soprattutto dai migranti del nuovo millennio. Questi ambienti sono il riflesso degli immensi squilibri provocati dalla globalizzazione e si possono definire habitat di emergenza o di sopravvivenza. Molte delle abitazioni autocostruite sono accomunate da procedimenti costruttivi che si ispirano a tipologie come quella della baracca o della tenda che richiede poche risorse, l’impiego di materiali poveri reperiti in loco e capacità costruttive poco complesse; al tempo stesso però permettono di flettersi in altre forme costruttive Costruzioni d’emergenza

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↑ Haiti slums

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ed essere facilmente spostate. I costruttori hanno spesso poca competenza e ridotta disponibilità di scarti e strumenti giungendo anche a soluzioni abitative con condizioni estreme come nel caso del ghetto nei pressi di Foggia dove i materassi all’interno della baracca, uno a fianco all’altro, rappresentano lo spazio abitativo pro capite. Principalmente il ricorso all’autocostruzione é dovuta all’insita autonomia che ne consegue e alla rapidità della risposta – seppur precaria e in certi casi a rischio sgomberi – che l’abitare richiede in assenza di adeguati alloggi d’accoglienza. Oltre a domandarsi se il vivere in questi termini sia stata una scelta o una costrizione dovuta alla povertà, bisognerebbe riflettere sulla natura degli interventi e su i ruoli e responsabilità delle parti coinvolte e non. É da tenere presente che le politiche nazionali nei confronti degli insediamenti informali sono mutate: da un’iniziale atteggiamento repressivo e di rifiuto degli insediamenti informali, che conduceva a sfratti forzati o a reinsediamenti involontari, siamo passati ad approcci più positivi come l’autosoccorso, l’upgrading in situ e politiche abilitanti basate sui diritti. Tuttavia queste politiche integrative non sono state condotte in tutti i paesi: in alcuni purtroppo – Italia compresa – i miglioramenti risultano essere ancora distanti, se non addirittura ostacolati. Ciò che sarebbe necessario forse é cambiare la prospettiva con cui osservare gli insediamenti informali, riconoscendoli come luoghi di opportunità, come “baraccopoli di speranza” piuttosto che “quartieri poveri di disperazione”. Costruzioni d’emergenza

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3.1.2.2 Padiglioni e sperimentazioni Un'altro ambito nel quale si ha uno sviluppo consistente di costruzioni temporanee, destinate a spostarsi da un luogo ad un altro per ospitare visitatori per un breve periodo sono i padiglioni delle esposizioni. La semplicità costruttiva e la facilità di spostamento hanno denotato da sempre queste costruzioni ma recentemente si sono sempre più estese ricerche volte anche a reinterpretarne la natura: mezzi di trasporto, vestiti o singoli oggetti ripetuti sono diventati padiglioni artistici e strutture sotto forma di spazio mobile abitabile. Le esposizioni universali, effimere per definizione, a volte più che favorire le sperimentazioni le legittimano. Viene sollecitata la ricerca alternativa verso l'impiego di materiali e forme consone alla creazione di costruzioni prive di fondamenta, spostabili velocemente. Ad esempio le cupole geodetiche, il cui procedimento costruttivo conferisce loro un carattere nomade, hanno esercitato, a partire da Fuller in poi, una sorta di fascinazione nei riguardi di artisti e architetti. Lo studio d'architettura LIN nel 2007 ha impiegato un radome (una cupola geodetica ideata per ospitare i radar) per il loro progetto Alvéole 14 a Saint-Nazaire in Francia. La cupola ha avuto una prima vita all’aeroporto Tempelhof di Berlino, dove ospitava un radar della NATO; avrebbe terminato lì la sua carriera se lo studio non l’avesse trovata sul suo cammino. Alla ricerca di una soluzione conforme alle linee guida del progetto

per la ex base per sottomarini di Saint-Nazaire, una colossale massa di cemento da trasformare in centro d’arte (LIFE, Lieu International des Formes Emergentes), hanno ottenuto in regalo la cupola dal Ministero della difesa tedesco. Struttura fragile e complessa, si è trasformata in un segno, in un faro sul mostro di cemento, simbolo della profonda conflittualità tra il nomade e il più che sedentario cemento armato, reputato fino a oggi indistruttibile.

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Oltre alla ricerca di strutture con forme più idonee, la progettazione dei padiglioni ha scoperto le potenzialità che offre l'impiego di un solo materiale – anche non da costruzione – usato ripetutamente secondo una precisa successione che condiziona la forma finale dell'edificio. Sono presenti numerosi padiglioni del genere, ma emblematico é il caso del Pavillon du bonheur ad opera dello studio belga V+ costruito nel 2008. Essi hanno scelto come materiale preferito la cassetta di birra: unendo 33.000 di questi contenitori la costruzione rivela pienamente la sua natura temporanea e riciclabile: l’altezza interna, degna di una cattedrale, annichilisce il visitatore con la sua intensa fonte di luce, data dall’abile disposizione e dalla perforazione delle cassette. La povertà del materiale passa in secondo piano sotto le volte di un nuovo ordine e se ne dimentica la trivialità: le cassette di birra, oggetti nomadi per eccellenza, si sono viste concedere un inaspettato prestigio.

Padiglioni e sperimentazioni

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Mobile Linear City, Vito Acconci, 1991 ↓

L’Hôtel Everland, concepito e progettato nel 2002 per Swiss Expo dagli artisti svizzeri Sabina Lang e Daniel Baumann, appartiene alla categoria in continuo sviluppo degli edifici parassiti, escrescenze destinate a far mutare, più o meno percettibilmente, gli edifici ospitanti. Questo condensato di hotel prima di arrivare sul tetto del Palais de Tokyo a Parigi nel 2007-08, era stato installato anche sulla sommità della Galerie für Zeitgenössische Kunst di Lipsia (2006-07). Per quanto riguarda le tipologie su gomma sono da menzionare, ad opera dell'architetto Mario Bellini, la concept car Kar-a-sutra del 1972 e la Mobile Linear City di Vito Acconci del 1991. Questi due prototipi a quattro ruote si interrogano su quale possa essere lo spettro d'utilizzo di un mezzo di trasporto, se essere solamente un mezzo di spostamento o un luogo di incontro volto ad ospitare su comodi cuscini chiunque si incontri lungo la strada o, se una volta posteggiato il furgone, estrarne la casa 'telescopica' fatta di lamiera. D'altronde queste opere sono solo una parte di tutta quell'ampia tendenza che fin dai tempi delle carovane ha permesso all'uomo di spostarsi in mezzi sempre più evoluti giungendo ai camper e alle roulotte. L'identificazione della casa con il mezzo di trasporto é stata una costante nella nostra storia che in certi casi si é circoscritta ad un uso più saltuario come casa-vacanza-itinera nte, ed in altri come condizione stessa di vita nomade, come nel caso dei Wagenplatz tedeschi (in seguito descritti) o delle Tiny Houses, abitazioni su superfici minime, molto spesso costruite su dei rimorchi rendendole spostabili all'occorrenza. Padiglioni e sperimentazioni

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Lo spettro di ricerca ha interessato anche ciò che non era mai stato concepito come casa, scardinando i codici dell'abitare riconosciuto come egemone e corretto, sfidando ciò che é considerato inabitabile. Emblematico é il progetto paraSITE di Michael Rakowitz che a partire dal 1998 ha costruito dei rifugi con solo sacchi di plastica, ganci, tubi di polietilene e nastro adesivo. Una volta assemblate le buste tra di loro, tramite l'influsso di aria, queste si gonfiano isolando termicamente l'interno dall'esterno. Essendo costruzioni amorfe, autocostruibili e di basso costo, vogliono essere una risposta sperimentale – per quanto precaria – alle necessità abitative dei senza fissa dimora. Queste infatti posso essere facilmente spostate e necessitano solo di attaccarsi a cappe esterne di ventilazione per il loro gonfiaggio. Una volta sgonfiato il riparo, basta appallottolare le buste e portarle con se in un qualche zaino o borsa: il radicamento al suolo é ormai solo un lontano ricordo. Un altro progetto che ha varcato le soglie dell'impensabile é il progetto Refuge wears dell'artista inglese Lucy Orta. Lavorando allo stesso tempo sulle fibre tessili e sulle relazioni tra gli esseri umani, Orta agisce nel campo della sopravvivenza, dove la funzione artistica è parte non del superfluo ma dell’indispensabile. Le sue ricerche sulle fibre sperimentali l’hanno gradualmente portata a ideare una sorta di armatura, un’architettura corporale in cui l’abito diventa architettura ridotta alla più semplice espressione spaziale: protezione e legame con la collettività, serve da ultimo rifugio, da unica abitazione per quelli che

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↓ paraSITE, Michael Rakowitz

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Padiglioni e sperimentazioni

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non possono accedere ad alcun altro tipo di alloggio. Queste persone sono il segno precursore della recente trasformazione indotta nelle nostre società: secondo l’urbanista Paul Virilio, attraverso i suoi abiti-rifugio, questa artista indica il ritorno degli uomini alla muta. L’economia del risparmio risulta totale nei vestiti-habitat, che sono adatti a ogni tipo di attività urbana e nello stesso tempo isolano dai fenomeni meteorologici, assicurando a ognuno il proprio clima interno. In questi ambiti di sperimentazione alternativa, nei quali il riparo del nomade é svincolato dall'ortodossia del costruire ordinario, l’architettura non è nomade solo per il cambiamento di luogo a cui può essere sottoposta: è nomade nella sua forma, spazialmente e temporalmente. Giunti a questo punto sorge spontaneo domandarsi, quelle tre pelli che l'architetto austriaco Friedensreich Hundertwasser riconosce esser possedute dall'uomo – la propria, gli abiti e la dimora – come possono convivere con la sua condizione di erranza?

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Refuge wears, Lucy Orta ↓ Padiglioni e sperimentazioni

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3.1.2.3 Habitat culturale Oltre alle strutture d’emergenza, i padiglioni e le sperimentazioni d’avanguardia, esiste un’architettura nomade che si allaccia a quelle tendenze culturali, sia sedimentate nei secoli che di origine recente, appartenenti a popoli e comunità nomadi. Non é necessario dilungarsi a riportare tutte le esperienze che ci sono state e che ci sono tutt’ora, é sufficiente cercare di delineare le peculiarità di alcuni casi per offrire una breve panoramica su come si sia declinata differentemente l’architettura in relazione ai luoghi, ai mezzi e soprattutto alle persone. Nell’immaginario collettivo, il nomadismo è facilmente associato al circo, arte da fiera per eccellenza. Tuttavia va constatato che dalla fine del 18° sec. il circo fu spesso ospitato in costruzioni stabili, prima in Inghilterra e poi nel resto d’Europa. Dalla fine del 19° sec. è stato utilizzato negli Stati Uniti lo chapiteau, il grande tendone da circo, che poi é arrivato in Europa trovando imitatori che sostituirono a poco a poco le costruzioni stabili con i villaggi di tela. Il circo è un’arte che in quest’inizio di 21° secolo, a seguito del cambiamento fondamentale dei meccanismi di trasmissione dell’arte circense – alle dinastie familiari si stanno sovrapponendo e progressivamente sostituendo giovani formati nelle scuole e motivati dalla passione – è in piena effervescenza costruttiva. I nuovi edifici circensi comprendono tut-

te le antiche tipologie, dallo stabile all’effimero, da strutture che sembrano imprese high-tech, come alcune costruzioni per il Cirque du soleil a Montréal, alle realizzazioni dell’architetto francese Patrick Bouchain in cui le caratteristiche del nomadismo sono al centro del meccanismo architettonico. Le nuove costruzioni sono differenti per la loro natura dagli edifici tradizionali: ai confini tra permanente ed effimero, smontabili e trasportabili, sfuggono alle classificazioni, sia per la concezione sia per i materiali impiegati. In passato gli ambulanti, come gli artisti del circo, erano relegati in aree degradate, fuori dai centri delle città. Con l’espansione urbana, le zone a essi destinate sono diventate aree di sviluppo: il loro lavoro, prima considerato marginale, ora favorisce una serie di attività sociali nei quartieri che sono in via di trasformazione. La candidatura (poi decaduta) di Parigi a ospitare i giochi olimpici del 2012, ha portato Bouchain a concepire a La Plaine un’installazione semifissa smontabile, cioè un edificio che, qualora sopraggiungessero misure amministrative diverse, permetterebbe rapidamente e senza clamori di lasciare libera l’area per essere ricostruito in un luogo più accogliente. Il complesso degli edifici segue un criterio fondamentale, quello dell’architettura da fiera, cioè di un’architettura in piano. Ogni edificio è ‘specializzato’ – sala per spettacoli, sala prove, spazio per allenamenti, spazio per la formazione – e risponde a regole diverse a seconda della sua destinazione d’uso.

Habitat culturale

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Per Bouchain: La seconda idea che fa sì che un edificio appaia come costruzione da fiera ed effimera è di non raggruppare le cose, e di lasciare un vuoto tra le funzioni. Ammettiamo che si realizzino la sala e il palcoscenico in un edificio, e che gli alloggi e i sanitari non siano a essi integrati ma si trovino in una diversa costruzione; al momento del deposito dei permessi di costruzione, la regolamentazione che si applicherà a ogni edificio sarà autonoma e in rapporto alla sua destinazione d’uso specifica. Il fatto di distribuire in questo modo gli oggetti con le loro funzioni nello spazio pubblico e di collegarli con la città è proprio del sistema di fiera. L’apparenza formale degli edifici manifesta in modo evidente le loro funzioni ottenendo un compromesso tra il tradizionale chapiteau circolare e una costruzione dalle escrescenze multiple, senza un orientamento privilegiato. L’edificio diviene così un nuovo monumento che occupa il paesaggio e che, nonostante le imponenti dimensioni, può esser pronto in ogni momento a “levare l’ancora”. Molto spesso l’architettura circense prevede strutture profondamente originali che, non cadendo nella standardizzazione dei materiali o nell’omologazione delle forme, sviluppano un linguaggio dell’effimero e dell’itinerante ed adottano forme che nascono da una necessità artistica ispirata dal progetto del committente. Ad esempio gli chapiteaux possono assumere anche altri volumi, come la forma di una ‘bolla’ che mette in rapporto diretto spettatori e acrobati. Questo è il

caso del circo Les arts sauts, dove una semisfera di plastica gonfiabile bianca, creata nel 1993 dall’architetto tedesco Hans-Walter Müller, è ancorata a terra da alcuni cilindri riempiti d’acqua, e occupa temporaneamente il paesaggio senza violarlo, ma segnandolo con la sua forte presenza. Ricorrere ad architetti e a ingegneri per produrre una parte del “sogno progettuale” diventa un atto militante da parte delle compagnie del circo contemporaneo; insieme reinventano un contesto nomade che fa un tutt’uno con gli spettacoli e con lo spirito delle compagnie.

↑ Pourtois, 2002

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Se in molte parti del pianeta numerose popolazioni vivono fin dall’antichità con carovane e tende, spostandosi da una regione all’altra in territori “abituati” alla loro presenza errante, dove cioé la cultura nomade é riconosciuta, in altre parti il nomadismo e le esperienze effimere vengono ostacolate se non perfino vietate. Ad esempio i popoli delle steppe che vivono nelle loro yurta e i nomadi delle aree desertiche sahariane, la cui mobilità é legata solitamente alla loro forma di economia o a motivi di tradizione storica e culturale, non incorrono a problematiche quali l’accettazione. In Occidente quelle minoranze etniche che scelgono di errare con o senza la propria abitazione, evitando un domicilio regolarizzato e disciplinato, spesso si trovano ad essere intralciate, non riconosciute, senza terreno disponibile nel quale soffermarsi più o meno a lungo. Un esempio é il caso dei wagenplatz tedeschi, comunità che, con i propri mezzi convertiti in abitazioni (pulmini scolastici, vecchi mezzi dei Habitat culturale

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pompieri, furgoni o camion modificati), si sono spostate in maniera itinerante per l’Europa creando accampamenti effimeri in luoghi spontanei. Per la maggior parte questi si sono poi stabilizzati con i loro mezzi generando villaggi informali “su ruote”, molti dei quali illegali in quanto su terreno pubblico o privato; solo alcuni di questi negli anni sono stati legalizzati, come ad esempio nel caso del Wagenburg di Lohmühnstrasse a Berlino. Queste realtà, un incrocio tra una comune e un accampamento abusivo metropolitano, si sono sviluppate con altri nomi anche in Francia e Spagna ma sebbene si cerchi di cambiare la legge, vivere nei carrozzoni, in Occidente, resta tuttavia vietato.

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Wagenburg, Bern ↓

Molto spesso sedentarietà e nomadismo sono strategie messe in campo in modo alternativo a seconda delle contingenze storiche. Momenti di mobilità sul territorio possono essere accompagnati da momenti di stabilità, con una turnazione stagionale, annuale o pluriennale a seconda della congiuntura economica. La condizione delle comunità romanés, il cui arrivo in Europa é riscontrato dal 1400 d.C., ne é un esempio. Giunti da lontano con carovane (case mobili di legno con ruote trainate da cavalli) sono stati vittime fin da subito di diffuse discriminazioni dovute al rifiuto della cultura e identità romaní. Nell’arco di oltre sei secoli, la politica d’accoglienza non é affatto cambiata. La repressione di questo popolo, che raggiunge 16 milioni di persone sparse nel mondo, di cui 11 milioni solo in Europa, si é tradotta spesso in una “caccia allo zingaro” e questo Habitat culturale

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é sicuramente uno dei fattori che ha reso queste comunità particolarmente nomadi. Anche se avessero voluto, questi non avrebbero potuto insediarsi stabilmente in nessun luogo e sarebbero state costrette alla fuga. Spinte a spostarsi per violenze e misure repressive, sono state obbligate a vivere ai margini, in una perenne situazione di disagio e di emarginazione. Storicamente le comunità romanés hanno vissuto in spazi all’aperto, nei boschi in modo particolare o nelle periferie lontano dal centro. Dopo secoli di vita nomade all’aperto molti gruppi vivono ancora in roulotte o camper ma molti altri si sono stabiliti in villaggi con valide case autocostruite, come ad esempio nel villaggio Le rose vicino Milano. Questi due casi sopra riportati – e ce ne sarebbero molti altri da poter riportare – testimoniano come anche nei paesi Occidentali, dove il vivere nomade non é quello egemone e che quindi incontra difficoltà ed attrito, riescono a sopravvivere comunità erranti ed esperienze effimere. Queste, scardinando i codici dell’abitare consueto ed evitando determinate forme architettoniche prescritte, sperimentano un abitare in trasformazione, dove il concetto stesso di casa é in divenire. É interessante osservare che se per certi aspetti l’abitare errante, anche di piccole comunità, viene discriminato ed incriminato, al contrario la formazione di abnormi insediamenti temporanei, per via di raduni o manifestazioni culturali o religiosi, riesce a superare gli ostacoli dell’ac-

cettazione. É come se il riconoscimento collettivo (e soprattutto istituzionale) di queste parentesi temporanee di festività legittimasse la loro massiccia presenza mentre il rifiuto del vivere errante di quei pochi nomadi condannasse loro ad una condizione di illegalità. In alcuni luoghi, per diverse ragioni, le esperienze effimere sono accolte e riescono ad imporsi con una presenza significativa, ad occupare del suolo coinvolgendo non un esiguo numero di carovane o tende, ma insediamenti che vanno a formare intere città. É sufficiente pensare a grandi manifestazioni come le Olimpiadi o il Super Bowl negli Stati Uniti: la città ospitante trasforma il suo aspetto e rompe i paradigmi delle sue dinamiche quotidiane. Una città “effimera” s’insinua nel tessuto urbano, con strutture provvisorie costruite sia nell’area attorno allo stadio e alle strutture – cuore pulsante dell’evento – sia nelle vie cittadine. Com’è facile aspettarsi, una miriade di padiglioni televisivi e infrastrutture accessorie, sempre più ampie e complesse, fanno poi da cornice alle articolate operazioni della manifestazione sportiva, creando un terreno fertile anche per attività d’intrattenimento. Dietro le quinte di queste esperienze d’intrattenimento “nomade”, c’è un processo rigoroso di progettazione e gestione studiata mesi od anni prima nei minimi dettagli. Sia i vincoli contestuali stringenti sia la pressione delle tempistiche spingono le fasi progettuali e costruttive a unirsi in una catena di scelte immediate. I materiali e i componenti prefabbricati vengono trasportati in loco, impiegando poi la manodopera e le risorse locali per realizzare queste costruzioni in breve Habitat culturale

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Burning Man ↓

↓ www.burningman.org

tempo. Questi interventi si insediano solitamente all’interno di città già esistenti, ma come potrebbero declinarsi su territori disabitati? A tal proposito due fenomeni calzanti sono il Kumbh Mela in India e il Burning Man nello stato del Nevada, cioé quelle che possono esser riconosciute come vere e proprie città temporanee.

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Dal 1986, in una radura del deserto Black Rock, ha luogo il Burning Man, un festival di otto giorni che ospitando quasi 70.000 partecipanti (il limite stabilito per necessità dalle autorità é 68.000) vede la creazione di uno sconfinato insediamento, la Black Rock City. Questo evento, ritenuto dagli organizzatore come «un esperimento annuale di creazione di una comunità temporanea, dedicato alla radicale espressione di sé, e ad una forma radicale di autosufficienza», permette ad ogni partecipante di organizzare liberamente esibizioni, mostre d’arte, performance, workshop e giochi e segnalarli, oppure no, all’organizzazione del festival. Sebbene ci sia un biglietto d’ingresso da pagare, non ci sono concerti con grandi nomi, non ci sono esibizioni pubblicizzate, i cellulari non funzionano e niente fotografie. Oltre a potersi verificare alcune tempeste di sabbia improvvise, di giorno le temperature superano i 40 °C e la notte possono abbassarsi di diverse decine di gradi, per questo motivo la maggior parte degli eventi si svolge dopo il tramonto. In questa città bizzarra, ogni partecipante deve portare attrezzatura da campeggio, generatori di elettricità, cibo e acqua per la propria sopravvivenza e le uniche cose in vendita nella Habitat culturale

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città temporanea sono ghiaccio e caffè; il baratto e il dono sono le uniche forme ammesse di passaggio di proprietà di beni, cibo ed acqua. Tuttavia chi va al festival non si può accampare dove vuole, ma deve rispettare la griglia tracciata nei giorni precedenti dagli organizzatori, suddividendo le aree secondo le necessità, predisponendo pure spazi per sole tende e parcheggi. La pianta della città, disegnata nel 1998 dall’urbanista Rod Garret, è uguale ogni anno: cerchi concentrici circondano un grande spazio vuoto al centro. I partecipanti si possono accampare solo su 2/3 della circonferenza; lo spicchio vuoto, come lo spazio centrale, viene utilizzato per installazioni artistiche ed esibizioni. Per quanto riguarda il Kumbh Mela, sebbene anch’essa sia una città temporanea, é di ben altra natura. Innanzitutto la sua nascita é conseguenza dell’omonimo pellegrinaggio Hindu nel quale si ha l’abluzione del fedele in un fiume sacro; ha una ricorrenza più frequente ed una durata più estesa. Si celebra principalmente in quattro luoghi a rotazione secondo ricorrenze annuali e date precise stabilite in base alla posizione di Sole, Luna e Giove. Prendendo in analisi l’ultima Kumbh Mela svoltasi nel 2013 a Allahabad, dove si ha l’incontro del fiume Gange e Yamuna, la città effimera di 23 chilometri quadrati, sorta in simbiosi con le cicliche piene del fiume, ha visto la partecipazione di circa 70 milioni di fedeli. Un numero elevatissimo se si considera che é durata solamente poche settimane (dal 14 Gennaio al 10 Marzo) su di una gri-

↓ Kumbh Mela

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Habitat culturale

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glia che ha richiesto la presenza di linee elettriche e fognarie, piani di distribuzione di cibo, acqua e vaccinazioni, ospedali, polizia e vigili del fuoco. La più popolosa delle città temporanee è stata disegnata, montata, amministrata e smontata tra il 2012 e il 2014 (prima che il Gange si riprendesse la terra per renderla terreno agricolo fertile) e risorgerà nuovamente nel 2024 coinvolgendo soggetti statali e locali per gestire non solo la spazialità ma anche la temporalità della città. Lungo la scala temporale questa distesa di tende, templi, baracche si trasforma; deve poter ospitare nei 6 giorni di picco ondate di 10-20 milioni di fedeli che giungono per l’abluzione e sapersi coordinare con tutte le parti che la compongono, sia in termini di servizi che di infrastrutture ed edifici. Gran parte delle costruzioni – tende, templi, bagni, sale per riunioni e rituali – richiedono pochi lavoratori e sono costituite da materiali poveri quali bastoni di bambú, superfici di lamiera ondulata e teloni ricombinati per creare differenti tipologie abitative e permetterne eventuali spostamenti o implementazioni. Una volta collocati i materiali sul luogo, sono sufficienti chiodi e legature per unire i componenti, richiedono un’economica manodopera e offrono ampia flessibilità costruttiva e riutilizzo. Le necessità abitative vengono così soddisfatte ricorrendo a soluzioni, per quanto povere, esaustive; allo stesso tempo l’urbanistica e la logistica devono garantire l’efficacia e la coordinazione di ogni parte, tracciare griglie e settori, strade e ponti galleggianti, ospitare multipli e sottomultipli di tende e strutture tramite un meticoloso lavoro su di un terreno che

muta ad ogni piena stagionale del fiume. Sorge naturale domandarsi, come può funzionare una città così articolata ed effimera richiedendo gli stessi servizi presenti in una città permanente?

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3.2 I margini abbandonati come penisole sperimentali

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3.2.1 Rivalutazione dei margini secondo la lettura di Gilles Clément

↓ F. Capra, The web of Life, 1996

Tutto lo spazio é già occupato dal nemico che ha addomesticato a suo uso persino le regole elementari di questo spazio (oltre la giurisdizione: la geometria). Il momento di apparizione dell'urbanistico autentico consisterà nel creare in certe zone, il vuoto da questa occupazione. Quello che noi chiamiamo costruzione comincia lì Può comprendersi con l'aiuto del concetto di “buco positivo”, forgiato dalla fisica moderna. Materializzare la libertà, é anzitutto sottrarre a un pianeta addomestico alcune particelle della sua superficie. ↑ AA.VV. Internazionale Situazionista, n. 1, 1958-1969

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Per leggere ed interpretare le forme e le declinazioni della presenza umana sul territorio possiamo far uso di numerose teorie, stabilite tramite specifiche variabili e strumenti d'indagine. Dobbiamo tuttavia ricordarci che «non ci sono strutture che esistano oggettivamente; non c’è alcun territorio predeterminato di cui possiamo tracciare una mappa; è l’azione stessa del tracciare una mappa che genera le caratteristiche del territorio». Tenendo ciò a mente, una modalità di lettura innovativa é stata quella condotta dal paesaggista Gilles Clément che riporta nel suo libro Manifesto del Terzo Paesaggio. Secondo la sua prospettiva il concetto di territorio marginale abbandonato – che secondo la logica consueta solitamente viene assimilato all'idea di degrado e sterilità – assume valore ed importanza per la sua fertilità, specialmente dal punto di vista biologico. Fondamentalmente Clément attua una distinzione netta tra territorio organizzato secondo la volontà umana e non. Quelle aree dove non si manifesta la sua presenza sono quelle da lui avvalorate e si ritrovano in tutto il globo in quanto «ogni organizzazione razionale del territorio produce un residuo» che può anche derivare «dall'abbandoRivalutazione dei margini secondo la lettura di Gilles Clément

3.2.1


no di un terreno precedentemente sfruttato. La sua origine é molteplice: agricola, industriale, urbana, turistica ecc». Cambiando gli strumenti e i fattori di lettura del territorio, relativizzando cioé il dispiegamento delle attività umane distinte secondo lo sfruttamento funzionale e soffermandosi invece sul dispiegamento del “non-umano”, emergono delle “isole nella mappa”:

La porosità del territorio custodisce quindi al suo interno un paesaggio disomogeneo, costituito da quei vuoti incastonati nel paesaggio funzionale definito dall'uomo. Costui, sottoponendo l'intero territorio a mutamenti continui, ha reso il carattere dei vuoti marginali instabile, sia spazialmente che temporalmente. «Le operazioni di trasformazione del territorio che accompagnano lo sviluppo portano a un'organizzazione per maglie» e quindi, fintanto che ad esempio un sito industriale resta abbandonato, cioé che «non esprime né potere, né sottomissione al potere», questo non rientra in alcuna maglia strutturata ma si pone nell'interstizio presente tra queste. Per ambienti di questo genere, Clément sostiene che «le ragioni del disinteresse stanno nello sguardo rivolto dall'istituzione su una categoria del proprio territorio», inteso come:

Se si smette di guardare il paesaggio come l'oggetto di un'attività umana subito si scopre (sarà una dimenticanza del cartografo, una negligenza del politico?) una quantità di spazi indecisi, privi di funzione sui quali é difficile posare un nome. Quest'insieme non appartiene né al territorio dell'ombra né a quello della luce. Si situa ai margini. Dove i boschi si sfrangiano, lungo le strade e i fiumi, nei recessi dimenticati dalle coltivazioni, là dove le macchine non passano. Copre superfici di dimensioni modeste, disperse, come gli angoli perduti di un campo; vaste e unitarie, come le torbiere, le lande e certe aree abbandonate in seguito a una dismissione recente. Secondo questa interpretazione rientrano quindi anche una vasta area come quella di un ex impianto industriale, o i pendii abbandonati di una cava, i tralicci e le antenne dismesse lungo i crinali o i silos ricoperti dall'edera e dal muschio. «In ambito urbano corrispondono a terreni in attesa di una destinazione o in attesa dell'esecuzione di progetti sospesi per ragioni finanziare o per decisione politica», aree “non pensate”, prive di sfruttamento da parte dell'uomo, che costi-

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tuiscono quindi il negativo della città costruita: sono i luoghi delle memorie rimosse e del divenire inconscio dei sistemi urbani.

sfruttamento impossibile o irrazionale sfruttamento non redditizio spazio non strutturato, scomodo, impraticabile spazio di risulta, di scarto, di margine spazio d'insicurezza spazio non rivendicabile, senza speranza. ↕ Clément, 2016

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A questo punto, esaminata la distinzione del paesaggio secondo aree organizzate “di significato” e vuoti interstiziali, Clément sostiene tuttavia che quest'ultime abbiano del proprio valore; Rivalutazione dei margini secondo la lettura di Gilles Clément

3.2.1


la ricchezza biologica in esse presente «é spesso superiore a quella degli ambienti che separano», in quanto spazi del confronto e della contaminazione tra organico e inorganico, tra natura e artificio. Data la dinamica indipendente interna, il carattere disomogeneo senza misura e stabilità, non vi é «tra questi frammenti di paesaggio, nessuna somiglianza di forma. Un solo punto in comune: tutti costituiscono un territorio di rifugio per la diversità. Ovunque, altrove, questa é scacciata». La vocazione di questi margini é quindi quella di ospitare ciò che viene respinto dal territorio organizzato permettendone una sua manifestazione. Nella Teoria delle parti sciolte, Simon Nicholson sostiene che «in qualsiasi ambiente, tanto il grado di creatività e di inventiva quanto le possibilità di scoperta sono direttamente proporzionali al numero e ai tipi di variabili in esso presenti». La declinazione di questa ricchezza aumenta e si articola ancor di più considerando quante interazione possano stabilirsi tra il vuoto marginale e l'esterno. Come le maglie del territorio organizzato comunicano tra loro, allo stesso modo possono crearsi dei varchi di dialogo tra l'interstizio e le aree “di significato” adiacenti. Adottando questa chiave di lettura, la concezione del luogo abbandonato come ambiente degradato viene completamente rovesciata, intravedendone invece le opportunità latenti presenti. I frammenti di paesaggio, sfuggiti all'organizzazione ed apparentemente privo di significato, in realtà si presentano come «il territorio

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dell'invenzione biologica» facendo quindi parte di un sistema biologico libero, il quale obbedisce a un’evoluzione incostante che procede per adattamenti «verso un paesaggio secondario». Tuttavia questi frammenti marginali risultano difficilmente intelligibili, e quindi progettabili, perché privi di una collocazione stabile nel presente, e quindi estranei ai linguaggi del contemporaneo. La loro conoscenza può avvenire in maniera più completa per esperienza diretta ed essere quindi testimoniati piuttosto che rappresentati. Il terzo paesaggio, secondo il suo autore, é dunque uno spazio naturale, sacro che va salvaguardato e proposto come modello nel quale l'intervento da parte del progettista viene escluso.

↑ Ward, 2016, p. 24

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Rivalutazione dei margini secondo la lettura di Gilles Clément

3.2.1


3.2.2 Il reperto abbandonato secondo l’archeologia industriale Per quanto riguarda la lettura del paesaggio marginale, possiamo soffermarci ad esaminare quelle aree che hanno accolto precedentemente la presenza umana. Con il trascorrere degli anni infatti le maglie del territorio sono mutate: distese di campi e boschi hanno lasciato spazio a strade e costruzioni, aree portuali hanno trasformato le rive dei fiumi ecc., tutto ciò cambiando continuamente la destinazione d’uso e l’aspetto del paesaggio. Non sempre queste zone sono riuscite a riacquisire significati; costruzioni non demolite e aree non sfruttate sono diventate marginali. Tra le tipologie degli insediamenti abbandonati spiccano quelli industriali. Molte di queste aree e strutture vengono dismesse e abbandonate, a causa anche dell’evoluzione tecnologica dei processi produttivi che rende inadeguate le costruzioni preesistenti: ove possibile vengono adattate, altrimenti abbandonate per costruirne di nuove. Con l’aumentare di questi ruderi disseminati nel territorio, molti dei quali risalenti anche ai tempi della Rivoluzione Industriale, si é consolidata la disciplina dell’archeologia industriale. Il contributo di questo campo di studio é fondamentale per comprendere l’importanza e avvalorare queste strutture decadute ed abbandonate.

73 ↓ Negri M., Che cos’è l’archeologia industriale, 1989) ↓ Mainini G., Rosa G., Sajeva A., Archeologia industriale, 1981

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Il termine archeologia industriale viene utilizzato per la prima volta nel saggio di Micheal Rix del 1955 intitolato The Archeology of the Industrial Revolution, in un’epoca in cui, terminato il secondo conflitto mondiale, molte nazioni europee erano coinvolte in un’attività di ricostruzione delle cittadine distrutte dai bombardamenti. Questi avevano causato anche una perdita del patrimonio risalente al periodo della Rivoluzione Industriale che proprio in Inghilterra aveva preso avvio. Pochi anni più tardi il Council for British Archeology definirà “monumento industriale” ogni «costruzione o struttura fissa di altro genere, appartenente specialmente al periodo della rivoluzione industriale che, da sola o insieme ad altri impianti o attrezzature essenziali, illustri la nascita e lo sviluppo di processi industriali o tecnici». Con il passare del tempo però, la definizione di archeologia industriale ha mutato il suo significato allargando non solo l’orizzonte temporale ma anche il repertorio sul quale questa disciplina indaga, indipendentemente dalle valenze formali e dal periodo cui appartengono. Secondo Buchanan, «l’archeologia industriale è un campo di studi che si occupa di indagare rilevare e registrare e, in alcuni casi conservare, i monumenti industriali», mentre lo studioso Massimo Negri aggiunge che essa è «un’archeologia del presente […] giacché la produzione industriale è ancora fatto dominante della vita contemporanea e, per il suo incessante rinnovarsi, lascia di continuo tracce molto concrete della sua storia». Il reperto abbandonato secondo l’archeologia industriale

3.2.2


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Il graduale superamento dei limiti crono-tipologici ha condotto a considerare anche come manufatti non più solamente quelli circoscritti a opere eccellenti, ma anche insediamenti di minor valore, emarginati dal tessuto nel quale si inseriscono o appartenenti a fasi più recenti che arrivano a ricongiungersi quasi con la contemporaneità. La finalità di questa disciplina é quella di scoprire, catalogare e conservare non solo le componenti materiali tangibili del mondo industriale, come l’insediamento, gli utensili, i macchinari, ma anche quelle immateriali che si intrecciano con la memoria scritta e orale, la tradizione, le forme del sapere tecnico e i saperi del luogo. Ciò avviene perché questi manufatti industriali, e di per sé il semplice momento del fare produttivo, in tutte le sue varie declinazioni, sono riconosciuti come un bene culturale da voler tutelare e valorizzare in quanto testimonianza fisica, segno emblematico della rivoluzione e civiltà industriale. Il valore di questa tipologia di bene é infatti la capacità di attivare un processo di identificazione da parte della collettività, superando il concetto di bene culturale come oggetto meritevole di tutela in base esclusivamente al suo valore estetico e formale. Il recupero di una fabbrica diviene così il recupero di un intero contesto ambientale e sociale in ogni singolo elemento che li connota, con un’impostazione che, oltre a considerare i criteri architettonici, artistici o storici, tiene di conto ed avvalora pure la motivazione di tipo sociale.

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Dal punto di vista dell’archeologia industriale, questi manufatti, riconosciuti come monumenti (e quindi come beni), necessitano di essere censiti e valorizzarli tramite interventi, in linea di massima, volti a conservare il complesso o, in casi significativi, a musealizzarlo. Al tempo stesso però la necessità di un loro recupero é avvalorato anche da altre motivazioni molto più stringenti e pratiche, specialmente in considerazione della relazione tra il vuoto dell’area industriale e il territorio organizzato in cui si inserisce. Oltre il semplice fatto che risulta molto problematico e dispendioso lo smaltimento di questi massivi complessi industriali, é interessante considerare come, sul piano urbanistico, queste aree si configurino come un vuoto interstiziale nella maglia urbana, come uno spazio indeciso senza sviluppo nel tessuto urbano in espansione, che in certi casi ha modificato la zona adiacente da marginale a strategica. In questi termini la scelta di riutilizzare il manufatto industriale non solo é teoricamente vantaggiosa in termini economici, ma si accompagna alla possibilità di avviare un processo di rinnovamento che restituisce valore a quell’interstizio rimasto dimenticato. Per quanto riguarda la conservazione di questi manufatti é da riconoscere come ciascuno necessiti di un approccio “fatto su misura”; possiamo racchiudere tipologie di recupero sotto macro categorie, da quelle delicate con restauri e consolidamenti rigorosi, a quelle più invasive che modificano notevolmente la preesistenza. Tuttavia ogni costruzione e sito presenta dei tratti che, Il reperto abbandonato secondo l’archeologia industriale

3.2.2


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secondo la sensibilità di ciascun progetto, possono essere valorizzati, demoliti o sostituiti. Oltre a capire e discernere cosa sia meritevole conservare, é indispensabile individuare quale nuova destinazione d’uso assegnare all’area interstiziale in relazione alle possibilità che il sito industriale presenta in potenza e ai bisogni che la maglia limitrofe richiede esser soddisfatti. La scelta di una conservazione totale di tutte questi stabilimenti allo stato originario, volta unicamente a testimoniare la storia passata tramite la musealizazzione, può risultare obsoleta: andrebbe attuata solo nei casi significativi in quanto una musealizzazione indistinta si configurerebbe come inutile, appiattendo le doti di quelle più eccelse, e molto più dispendiosa che la ruderizzazione di questi resti. Nei casi non significativi, l’intervento potrebbe quindi adeguare l’organismo edilizio ad una nuova funzione diversa da quella produttiva originaria e dalla musealizzazione. Intervento però rispettoso di quel complesso di significati che il sito industriale rappresenta: da quello storico sociale in quanto testimonianza di cambiamento radicale dello stile di vita, a quello architettonico-artistico che documenta l’affermarsi di un’architettura decisamente diversa da quella tradizionale. Il capovolgimento di queste costruzioni, come ad esempio una loro parziale demolizione, é perseguibile in quanto, consultando in archivio i dati dei reperti raccolti precedentemente, é reso possibile ricomporre e riproporre, in un secondo momento, il disegno complessivo iniziale del sito. A seconda dell’esito finale dell’intervento

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condotto nell’area marginale e sul reperto abbandonato, ne viene tuttavia riconosciuta un’identità ed un valore fino ad allora perduti. La riesumazione del “rudere industriale” può quindi trasformare l’interstizio decaduto in un nuovo paesaggio declinato dallo scenario dell’intervento.

Il reperto abbandonato secondo l’archeologia industriale

3.2.2


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3.2.3 Casi di recupero dei margini abbandonati Una volta osservato il territorio secondo la prospettiva del Terzo Paesaggio e, più in dettaglio, il reperto abbandonato secondo l’archeologia industriale, esaminiamo una serie di ripristini di questo paesaggio marginale; per facilitarne la lettura vengono distinti in due raggruppamenti. Il primo riporta interventi attuati in qualsiasi genere di vuoto interstiziale (infrastrutture, aree portuali, superfici di scarto nella maglia urbana ecc.), evidenziando le eccellenti capacità di rilettura del sito. Il secondo si concentra su episodi condotti nelle aree industriali, sia sulle costruzioni stesse che nell’ambiente circostante in cui si inseriscono.

3.2.3.1 Aree interstiziali generiche

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Un esempio emblematico di recupero di un’area abbandonata sono Le Gallerie di Piedicastello facenti parte della tangenziale ovest di Trento. Questi due tunnel stradali non sono più stati utilizzati dal 2007 a seguito della costruzione di altri due nuovi verso i quali é stato convogliato il traffico; il loro inutilizzo ha sollecitato la creatività di qualcuno... Cosa fare di oltre 6.000 metri quadrati disponibili in un luogo così particolare, come sfruttare 300 metri di gallerie di un’autostrada? Ebbene a seguito del progetto dell’architetto Elisabetta Terragni queste sono diventate uno spazio museale, dedicato principalmente alla storia e alla memoria. Le due gallerie, disposte una affianco all’altra e gestite dal Museo Storico del Trentino, sono una di colore bianco che oltre a spazi espositivi offre anche spazi per eventi, incontri ed esibizioni temporanee, ed una di colore nero, un lungo ambiente ininterrotto per le installazioni. Certamente questo museo non tradizionale testimonia come, azzardando un poco, sia possibile intravedere in due tunnel abbandonati le affinità per un nuovo riuso. Dove vi era un’autostrada, ora c’é un museo: l’interstizio diventa così un laboratorio che restituisce valore anche al tessuto adiacente, senza costruire nulla di nuovo. Quello del riuso di infrastrutture della mobilità dismesse e quindi il recupero dei “vuoti urbani” é un’opportunità per farne nuovi luoghi per la collettività. Aree interstiziali generiche

3.2.3.1


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Un caso meno collettivo ma altrettanto interessante di uso sperimentale dei luoghi marginali é il progetto del designer Fernando Abellanas che si é autocostruito uno studio sotto un ponte stradale a Valencia. Di preciso più che sotto, posto a terra, la costruzione é proprio aggrappato alla struttura del ponte, riformulando completamente la lettura dello spazio. La piattaforma mobile in metallo e legno é appesa alle travi e può scorrere lungo queste usandole come binari; al pilone opposto sono stati fissati elementi ed oggetti da poter utilizzare una volta posizionata a fianco la piattaforma. «Quasi nessuno se ne accorge quando ci passa vicino», sostiene Abellanas, «ormai siamo abituati a pensare a questi angoli di città come inutili e vuoti»; finché saranno considerati in tal modo, abbandonati resteranno. Questa costruzione appesa al ponte invece scardina l’interpretazione consueta di cosa sia ospitale o non, di cosa possa esser sfruttato o meno. Probabilmente per realizzare questo scenario surreale di riuso é necessaria una comprensione attenta della “natura” del margine per notare e sviluppare le sue potenzialità nascoste. Altro episodio di come possa essere valorizzato e “riempito” un vuoto interstiziale é il progetto Bathing Culture, sviluppato in Svezia nel 2014 e vincitore del SAVG Architecture Award 2015 (Swedish Association of Architects Gothenburg Region). In particolare é stato apprezzata la sauna, la cui costruzione ricorda un “container incagliato” in quanto posta su una piccola piattafor-

↓ Fernando Abellanas

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Aree interstiziali generiche

3.2.3.1


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↑ Bathing Culture

ma preesistente in calcestruzzo lungo un bacino portuale. La collocazione é infatti piuttosto inusuale: all’interno dell’area portuale della città di Gotheburg il suo carattere si é andato ad affievolire in uno stato attuale di transizione. Le tracce dei suoi usi precedenti e gli enormi spazi indefiniti insieme rendono l’area marginale molto attraente per la creazione e l’attuazione di diversi tipi di attività culturali. Il punto di partenza é stato quindi la sistemazione della sponda e delle banchine abbandonate e stabilire il bagno in questo ambiente aspro e ostile è, soprattutto, un modo per cambiare la percezione di esso. Lo studio Raumlabor si é occupato della progettazione e della costruzione dei bagni, sia degli spogliatoi posti a terra sia della torre-sauna posta sulla piattaforma, visti come uno spazio sociale per incontrare persone e trascorrere del tempo insieme. L’approccio con cui lo studio sviluppa i suoi progetti é quello di scoprire e utilizzare ciò che trovano nelle condizioni del sito, non a caso il rivestimento esterno della sauna é ottenuto con porzioni di lamiera ondulata reperita in loco. Al tempo stesso però cercano di mantenere un carattere flessibile al intervento attraverso la progettazione attiva e la ricerca di nuovi metodi che siano aperti all’appropriazione e all’aggiornamento dei metodi esistenti.

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Aree interstiziali generiche

3.2.3.1


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3.2.3.2 Aree interstiziali industriali Potremmo riportare molti esempi di rivitalizzazione di aree industriali abbandonate, spaziando dalle costruzioni più recenti a quelle più antiche, da quelle con una morfologia elementare a quelle complesse, dagli interventi più invasivi a quelli più delicati. In termini di conformazione spaziale alcuni manufatti presentano degli ambienti consoni ad ospitare nuove funzioni, altri invece ne presentano in numero esiguo e concedono solo interventi parziali volti a riconfigurare porzioni circoscritte, lasciando inalterate, demolite o in disuso quelle ritenute impraticabili. Non é un caso se certe tipologie di fabbriche sono state fin da subito riconvertite senza troppe esitazioni o difficoltà, altre però hanno incontrato una rinascita in tempi successivi più lenta ed incerta; altre ancora non sono quasi mai state recuperate, come nel caso delle industrie siderurgiche. La mancanza d’interesse verso quest’ultime é dovuta non solo a causa dell’apparente scomodità, complessità o non proficuità, ma anche dell’incapacità di intravedere, nella morfologia dei manufatti e del sito etichettata come inospitale, una vocazione informale verso altre tipologie di recupero. Di seguito sono proposti una serie di interventi condotti su degli ex complessi industriali, offrendo quindi scenari di come si declini differentemente l’intervento a seconda dell’organismo edilizio e dell’area nella quale si colloca. Il punto

in comune é di far diventare le rovine della città industriale punti nevralgici per il rinnovamento. Un progetto visionario di rigenerazione architettonica é La Fabrica ad opera dell’architetto Ricardo Bofill a Barcellona. Costui nel 1973 ha scelto un vecchio cementificio abbandonato di grandi dimensioni per potervici attuare nuove destinazioni d’uso. La fabbrica era un vasto complesso con più di 30 silos, locali enormi contenenti macchinari, 4 chilometri di gallerie sotterranee, potenti strutture in cemento armato che non sostenevano più nulla e scale sospese che non conducevano più da nessuna parte. Un luogo senza tempo preciso e ormai senza scopo, ma ricco di quel fascino surreale che ha le potenzialità per trasformarsi in qualsiasi cosa. Lo stabilimento presenta un insieme di superfetazioni che Bofill ha cercato di rielaborare per ritrovare una superiore armonia, scavando nel cemento come si fa quando si scolpisce per far emergere una forma. Il progetto del verde mitiga i toni del bruttassimo proprio delle originali strutture in cemento e l’inserimento degli elementi propri del linguaggio architettonico come porte, finestre, affacci, ha creato percorsi e prospettive che hanno accolto un atelier, ambienti per mostre, sale per concerti e la sua residenza privata. La Fabbrica, sostiene l’architetto, mi ha dato la possibilità di trasformare una rovina nel mio studio e nella mia casa e di dimostrare che “la forma non segue necessariamente la funzione”. Tutto ciò richiede però un’attenta opera di smantellamento e costruzione per poter mantenere l’atmosfera surreale del sito fino ad allora abbandonato. Aree interstiziali industriali

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3.2.3.2


↑ La Fabrica, Ricardo Bofill

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Un’idea geniale per il riutilizzo dei silos granari é crearvi una palestra di arrampicata. La Rocktown Climbing Gym ne é un perfetto esempio: le numerose vie sfruttano le pareti slanciate e ricurve dei silos per tutta la loro altezza, sia internamente che esternamente. Gran parte di questi recuperi – emblematici sono anche quelli del Zeitz MOCAA condotto da Heaterwick Studio, del Gasometer A progettato da Jean Nouvel e tanti altri – hanno mutato completamente la percezione e la funzione del sito. Tuttavia esistono interventi singolari che senza modificare la destinazione d’uso ne hanno capovolto la percezione e l’inserimento nel territorio. Da menzionare sono quelli condotti dall’architetto ed ecologista Friedensreich Hundertwasser su l’inceneritore di Spittelau a Vienna e su quello di Maishima su un’isola nella baia di Osaka. Nell’impianto di Vienna l’aspetto esteriore é stato completamente ridisegnato dall’architetto a seguito di un incendio avvenuto nel 1987: lo stile della nuova “pelle” lo ha perfino reso un’attrazione turistica della località. Stessa fortunata sorte é toccata all’inceneritore di Osaka, da lui progettato. La volumetria discontinua e ondulata, le suggestive facciate colorate e gli ornamenti onirici sono riusciti a scrollar via l’immagine cruda ed ostile dell’impianto conferendogli invece un’inaspettato apprezzamento. Queste operazioni non hanno cambiato la destinazione d’uso del complesso e dell’area circostante ma ne hanno solo emancipato la presenza rendendola piacevole e giocosa. Aree interstiziali industriali

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3.2.3.2


↑ Spittelau

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Ci sono alcuni esempi di recupero insoliti che vedono interessati complessi industriali più particolari come il caso delle estese e compresse aree industriali estrattive e metallurgiche. La morfologia e la reciproca disposizione degli edifici, delle infrastrutture, dei mezzi e degli elementi presenti é unicamente definita da una scelta progettuale di carattere funzionale e, di conseguenza, risulta assai complesso riconfigurare il sito nell’ottica di una differente utilizzazione. Gli ostacoli che questa tipologia di sito presenta per un eventuale intervento sono di vario genere, da quelli prettamente di carattere spaziale/volumetrico a quelli di bonifica e messa in sicurezza degli ambienti, da quello dei costi e consumi a quello di proficui. Tuttavia qualche raro intervento di questo tipo é stato realizzato; uno dei più rilevanti che ha funzionato da precursore per gli altri pochi episodi, é quello dell’IBA Emscher Park, un vasto programma con circa 120 progetti di recupero dell’ex area industriale nella regione della Rhur in Germania. A seguito del progressivo spegnimento degli altoforni e del conseguente abbandono che il distretto avrebbe subito, la scelta della pubblica amministrazione fu in controtendenza alla consuetudine: destinare l’area alla fruizione dei residenti di questa zona degradata e densamente popolata, destinandola a parco piuttosto che “investirla” con un piano di edificazione. Nel 1989 venne indetta una competizione internazionale per scegliere a chi spettasse progettare e nel frattempo le commissioni stilarono Aree interstiziali industriali

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3.2.3.2


l’analisi costi-benefici: in molti dei casi era più dispendioso demolire che preservare. La realizzazione del parco regionale dell’Emscher park é il simbolo della completa trasformazione di un luogo, una totale inversione di marcia di una regione che passa dall’eccellenza nell’estrazione del carbone e lavorazione dell’acciaio a una delle aree più innovative in ambito di rigenerazione, tanto da entrare, nel 2001, nelle liste del patrimonio mondiale dell’Unesco. Il progetto si fonda sulla riconsiderazione del paesaggio post-industriale in qualità di patrimonio storico contemporaneo e si propone come occasione per sperimentare nuove idee e nuove tecniche per la riconversione di grandi aree produttive dismesse, sostenibile in termini ecologici, economici e sociali. Al tempo stesso si é cercato però di conservare quanto più possibile le strutture ancora esistenti conferendo a queste una nuova dignità e accreditandole come testimonianza in linea con i principi dell’archeologia industriale. Lo studio Latz+Partners, responsabile del progetto, ha scelto di strutturare l’area attraverso un masterplan generale, all’interno del quale coordinare diversi progetti esecutivi focalizzati su aree specifiche e circoscritte. L’estensione dell’area (circa 230 ettari) e la dimensione delle strutture industriali costituisce contemporaneamente il maggiore stimolo compositivo e la principale difficoltà, volendo rendere ospitale il “gigantismo” tipico degli impianti industriali, armonizzandolo al rapporto con la dimensione umana. Il problema iniziale fu il possibile riutilizzo dei resti delle numero-

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↓ Emscher park

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Aree interstiziali industriali

3.2.3.2


se strutture degli impianti industriali come: edifici ed officine, depositi, ciminiere, fornaci, ponti, gru, rotaie ecc. L’area si presentava fortemente frammentata e spazialmente discontinua quindi l’atteggiamento progettuale di Latz e del suo team fu quella di ricercare nuove interpretazioni delle strutture esistenti, cambiando la loro funzione ed il contesto. I diversi livelli che compongono il parco anche se mantengono una certa indipendenza sono saldamenti connessi l’uno con l’altro a volte attraverso elementi più fisici come rampe, scale, terrazze ecc. oppure attraverso un legame funzionale o puramente simbolico. Emscher Park si configura, quindi, come una molteplicità di parchi indipendenti, la cui personalità è definita dagli elementi artificiali preesistenti: il parco lineare della ferrovia, il parco delle vasche d’acqua, Sinterpark, un grande spazio dedicato agli eventi culturali, i giardini segreti dei magazzini di stoccaggio, il parco-osservatorio degli altiforni, eccetera. Solo su questi si sono concentrati i trattamenti intensivi, lasciando la vasta area verde che li lega meno imbrigliata e strutturata, limitandosi ad un trattamento leggero di semplice manutenzione ordinaria. Di particolare interesse é l’area dell’ex miniera Zollverein, un bellissimo esempio di architettura industriale degli anni ‘30 del secolo scorso, che diventa oggetto di riqualificazione ad opera dello studio OMA. La proposta é un masterplan di riassetto dell’intera area dismessa prevedendo la sua trasformazione in parco culturale. L’edificio recuperato diviene uno dei punti di forza del parco ospitando il museo della Rhur, ma la caratte-

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↓ Zollverein

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Aree interstiziali industriali

3.2.3.2


ristica principale é l’intero parco, che recupera e integra la vegetazione spontaneamente nata tra le vecchie rotaie e a ridosso delle grandi strutture in ferro, trasformando un paesaggio industriale dismesso in un ambiente ricco di una vasta gamma di biotipi, quali aree umide, specchi d’acqua e boschi. L’intreccio di attrazioni che questo complesso offre spazia al punto da ospitare pure ristoranti, spazi espositivi e nella stagione invernale, tra le ciminiere, passerelle e capannoni, una pista da pattinaggio su ghiaccio lunga 150 metri che attrae bambini ed adulti della zona e giocatori di curling. L’Emsher Park é un nuovo modo di intendere il concetto di parco e di recupero poiché ingloba laicamente il paesaggio preesistente, ricercando invertitori di tendenza in grado di ridefinire uno scenario storico e paesaggistico unico, mettendo in risalto le sue potenzialità.

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3.3 Autonomia nel costruire: il riscatto del destinatario

↓ F. Hundertwasser, Il medico dell’architettura, manifesto, 1990

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Da quando ci sono urbanisti indottrinati e architetti standardizzati, le nostre case sono malate. Non si ammalano, sono già concepite e costruite come case malate. Tolleriamo migliaia di questi edifici, privi di sentimento ed emozioni, dittatoriali, spietati, aggressivi, sacrileghi, piatti, sterili, disadorni, freddi, non romantici, anonimi, il vuoto assoluto. Danno l’illusione della funzionalità. Sono talmente deprimenti che si ammalano sia gli abitanti sia i passanti. […] Ogni casa però, per quanto brutta e malata, può guarire.

Autonomia nel costruire: il riscatto del destinatario

3.3


3.3.1 Criticità della modalità egemone

costruita e finanziariamente redditizia sia costituita da un «tessuto a grana grossa» nella quale gli interventi – dettati da questi codici – ne hanno modificato irrimediabilmente il funzionamento, anche economico.

É necessario adesso procedere domandandosi come si stabilisce la relazione tra il sito marginale, gli utenti finali e le altre parti solitamente coinvolte (il progettista/costruttore, la popolazione locale, le istituzioni...); una relazione articolata che ingloba una moltitudine di individui con propri interessi – spesso divergenti –sottoposti a reciproche influenze. Delineare una linea comune che riesca ad abbracciare ed accordare le varie parti é un cammino – tanto necessario quanto inevitabile – che permette la risoluzione delle problematiche in considerazione delle peculiarità e necessità reclamate da ciascun componente nel contesto. La forma della città sviluppatasi nel corso del XX, e ora all’inizio del XXI secolo, è governata da una pianificazione su larga scala e di tipo centralizzato. Senza alcuna connessione con l’architettura degli edifici, i pianificatori dopo la seconda guerra mondiale utilizzarono concetti formalisti che vedevano “la città come una macchina”, definendo codici urbani per garantire la trasformazione modernista del tessuto urbano. Queste progressivamente si sono basate sui concetti di distanze, spazio, velocità, in modo accondiscendente verso le necessità delle macchine e dell’industria. L’architetto Colin Ward ritiene che la città ri-

Tutta quella serie di attività di piccola scala, che offriva una gamma incredibile di commerci, competenze e mestieri e che era la ragione principale per cui inizialmente le città si erano aggregate, inevitabilmente scompare. Perché gli alti affitti dei nuovi edifici non possono essere sostenuti dal giro d’affari delle piccole attività un tempo localizzare nelle zone centrali, fondate necessariamente su costi generali molto bassi e sul particolare valore di certi mestieri o competenze. Per il consumatore ordinario ciò significa che spariscono riparatori di ombrelli, tiralinee per registri contabili, manutentori di macchine da cucire, corniciai, pasticceri, confezionatori di scarpe da ballo. Niente più callisti, organizzazioni di volontariato e piccoli editori. Solo imprese di grandi dimensioni, con grandi capitali, alti fatturati e grandi profitti, sono ammesse. […] Lentamente, con la concentrazione delle proprietà e l’ingrandirsi della scala industriale, governi centrali e locali, politici ed economisti, hanno sempre più ignorato la presenza della piccola impresa nelle città, che spesso é stata semplicemente spazzata via vista come una miserabile seccatura, qualcosa che riguardava «usi non conformi alla norma di immobili sottodimensionati». Nelle ristrutturazioni urbane, i funzionari del governo centrale e di quelli locali, educati a pensare in

↓ Ward, 2016, p. 137

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Criticità della modalità egemone

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3.3.1


termini di industrie a grande scala, non si sono neppure accorti della quantità di posti di lavoro alimentati dalla molteplicità di queste piccole attività a grana fine, basate sulla disponibilità di spazi a basso costo e sulla possibilità di contenere le spese generali, capaci di dare lavoro e autonomia di scelta agli abitanti di quelle zone della città. La morte della città a grana fine riguarda anche chi é senza casa. «La graduale scomparsa di alloggi affittati a buon mercato, pensioni, ostelli, letti di fortuna per passare la notte, implica che non c’é alcun posto dove il povero o il senza casa possano andare ad appoggiare la testa su un cuscino. […] In alcune città ci sono ancora case da pochi soldi, squallide e decrepite, dove gente di qualsiasi livello di povertà può trovare posto». Ma non nella città ristrutturata dai piani di sviluppo centralizzati, “mordi e fuggi”, che sono orientati solo verso la sfrenata speculazione, creando ampi e costosi complessi residenziali ma coinvolgendo poco o nulla i futuri abitanti, con danni conseguenti ben evidenti. L’urbanistica ha deliberatamente eliminato gli spazi comuni e condivisi, dato che gli spazi aperti che circondano gli isolati edifici modernisti, tendono a essere amorfi, ostili e poco fruibili. Spazi pubblici con qualche attrattiva si presentano qualche volta come spazi privati, controllati, all’interno di centri commerciali. In tal modo, si sono privatizzati, confezionati e rivenduti quegli spazi pubblici che sono essenziali per favorire i rapporti tra i cittadini.

↑ Ward, 2016, p. 137

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Luoghi o edifici costruiti in modo centralizzato e dirigista spesso vengono progettati rigidamente “sulla carta” e poi realizzati in base alle specifiche così predefinite, senza alcun margine di adattamento o coinvolgimento da parte degli utenti finali. In tal senso, gli esempi peggiori sono quelli risultanti dalle speculazioni edilizie, che di certo non hanno alcun fine di adattamento all’ambiente, interagendoci invece in maniera traumatica. Grattacieli con molta metratura vendibile ma devastanti per il tessuto urbano, abitazioni simili una all’altra ma che in realtà non soddisfano i bisogni di alcuno, zone destinate a uffici distanti dai luoghi in cui i lavoratori in realtà vivono, centri storici delle città sventrati e gli abitanti deportati in palazzoni simili a prigioni. Fino ad oggi, gli utenti finali non hanno avuto la possibilità di operare – legalmente – alcuna correzione o di imporre un qualche “segno” nei progetti di architettura, neppure negli squallidi quartieri residenziali in cui sono costretti a risiedere per motivi economici. Questo più di qualsiasi altra cosa conduce all’alienazione nello spazio urbano: l’alienazione del progettista, del costruttore, del prodotto e del consumatore. Sono proprio quei progetti architettonici e urbanistici più alla moda (gli stessi che vincono premi e incarichi) che annientano e distruggono completamente la città esistente a dimensione umana, imponendo forme gigantesche imposte dall’alto. Tali progetti preconfezionati, scandalosamente costosi, vengono premiati non da chi vi risiede ma dai “piani alti”, la cui principale preoccupazione è quella dell’impatto visivo del prodotto finito e del profitto. Da questa proCriticità della modalità egemone

3.3.1


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spettiva le “archistar” sono state i maggiori “riferimenti morali” per l’architettura e l’urbanistica: progettisti universalmente noti per le caratteristiche estetiche dei loro lavori, tanto da dominare pesantemente il mercato proprio a causa del loro stile “modaiolo”. L’attrattività di tali progetti è legata esclusivamente a un’immagine superficiale, a cui non corrisponde né una partecipazione degli abitanti né un adattamento alla dimensione umana. Le costruzioni così realizzate spesso non soddisfano le necessità di chi poi ne fa uso e a proposito di ciò é esemplare il caso Pruitt-Igoe, di seguito riportato con le parole di Tom Wolfe contenute nel suo libro Maledetti Architetti. Nel 1955 un vasto villaggio di case operaie denominato Pruitt-Igoe venne inaugurato a Saint Louis. Il progetto, dovuto a Minoru Yamasaki, architetto del World Trade Center, vinse un premio da parte dell’American Institute of Architects. Yamasaki si era attenuto ai dettami di Corbu [Le Corbusier], suo maestro: enormi alveari di acciaio, vetro e cemento separati da aperti spazi di prato verde. Gli operai di Saint Louis, naturalmente, non correvano il rischio di venir incastrati a Pruitt-Igoe. Erano già migrati in sobborghi come Spanish Lake e Crestwood. Quindi Pruitt-Igoe si riempì di immigrati dal Sud rurale. Questi campagnoli inurbati provenivano da zone assai poco densamente popolate – una decina d’abitanti per chilometro quadrato – dove raramente si saliva a più di tre metri sul livello del mare a meno che non ci si arrampicasse su un

↓ Pruitt-Igoe

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Criticità della modalità egemone

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albero: ed eccoli alloggiati in casermoni di quattordici piani, a Pruitt-Igoe. A ciascun piano c’erano ballatoi coperti, in obbedienza al concetto di Corbu delle “strade per aria”. Siccome non v’era, nell’agglomerato, alcun altro luogo ove peccare in pubblico, tutto ciò che d’ordinario sarebbe avvenuto nelle bettole, nei bordelli, nei caffè, nelle sale da biliardo, al luna park, all’emporio, nei campi di gran turco, nei pagliai, nelle stalle o nei granai, aveva luogo in quelle “strade per aria”. In confronto a quei boulevard di Corbu, la Gin Lane (o vico dei Beoni) di Hogarth sarebbe sembrata una strada tranquilla. Le persone rispettabili se n’andavano, anche a costo di finire sul lastrico. Milioni di dollari si spesero e si tennero riunioni su riunioni, in municipio, per cercare qualche rimedio e rendere Pruitt-Igoe abitabile. Nel 1971 tutti gli inquilini furono convocati in assemblea plenaria. Fu chiesto loro cosa suggerissero. Si trattò di un avvenimento storico per due motivi. Uno: per la prima volta, nella storia cinquantennale degli alloggi operai, si chiedeva un parere ai clienti. Due: la vox populi. La vox populi attaccò subito a intonare in coro: “Blow it...up! Blow it...Up! Fatelo saltare per aria! Buttatelo giù! Blow it...up! Blow it...Up!” Le autorità ci pensarono su. Quei poveri cristi avevano ragione. Era l’unica soluzione. Nel luglio 1972, i tre caseggiati centrali di Pruitt-Igoe vennero demoliti con la dinamite. Con questo caso emblematico, sorge spontaneo dubitare sull’efficacia della progettazione “calata dall’alto”, dalla scala dell’abitazione a quella della città; é giunto il momento di domandarci,

con le parole di Ward, «come realizzare quartieri ad alta densità urbana che possiedano quel tipo di amenità, intimità e senso di riparo che le persone insistono ad associare con la parola casa»? Le forme architettoniche offerte nella costruzione preconfezionata dagli architetti, più che soddisfare le necessità degli abitanti, danno sfogo al loro estro da «dittatore estetico». Basti pensare a tutte quelle tendenze – che Tom Wolfe definisce conventicole d’arte (art compound) – sviluppate a partire dalle avanguardie del Novecento. Queste avevano «la naturale tendenza ad essere esoteriche, a generare teorie e forme che sbigottissero», la cui fonte d’autorità era unicamente la creatività, definita nei manifesti d’arte, mai esistiti prima di allora. Le conventicole, ciascuna con proprie teorie sullo stile da adottare, non permettevano di apportare modifiche, far richieste speciali o protestare: «il cliente era tenuto ad applaudire» davanti ai progetti ed il concetto di architetto senza compromessi divenne fortemente contagioso fino a protrarsi al giorno d’oggi.

↓ Ward, 2016, p.90, p.21

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Un altro caso rappresentativo di quanto suddetto é il progetto del quartiere Weissenhof Werkbund a Stoccarda del 1927 nel quale gli alloggi operai costruiti divennero una “vetrina” internazionale del Movimento Moderno. Ventuno edifici progettati da 16 architetti europei, costruiti in soli cinque mesi tramite elementi prefabbricati, con un’incredibile coerenza progettuale. L’uniformità stilistica dell’insediamento era dovuta alla fedeltà dei “confratelli” alla teoria del convento, la quale Criticità della modalità egemone

3.3.1


L’appiattimento condotto dal Modernismo e dalla città moderna ha al tempo stesso annichilito molte delle alternative; «nel mondo odierno l’idea che spesso è venuta in luce, ma che non è mai stata discussa, è il concetto di pluralismo e di diversità», sostiene l’architetto Rahul Mehrotra. All’interno di una città «tutti i dibattiti fino a oggi hanno riguardato l’infrastruttura fisica, non abbiamo parlato dell’infrastruttura sociale. E l’infrastruttura sociale poi porta alla questione dell’estetica, perché è attraverso l’infrastruttura sociale che si raggiunge l’espressione architettonica». Dall’America giunse una delle prime voci di dissenso contro il Modernismo: era il 1966 e l’architetto Robert Venturi espresse apertamente la sua apostasia dalle teorie moderniste. Costui riprese il famoso aforisma di Mies Van Der Rohe, less is more (il meno é più) e lo capovolse affermando: less is a bore (il meno é una noia). Nei decenni prima solo pochi architetti riuscirono a

tenersi alla larga da quella progettazione così razionale e distaccata che veniva acclamata come l’unica valida; raramente progetti di altro tipo e sensibilità riuscivano a superare la soglia di concorsi e commissioni. Solo dal secondo dopoguerra le acque iniziarono a muoversi sempre di più in tutto il mondo, a manifestare la necessità di un’architettura differente, ormai evidente il segno traumatico dell’approccio modernista. Iniziò così a consolidarsi progressivamente in tutto il mondo l’idea che fosse giunto il momento «di sottrarre l’architettura alle élite universitarie – ai conventi – e renderla di nuovo familiare, comoda, accogliente, intima e attraente per la gente comune; di sottrarla alla sfera della teoria e riportarla sul piano della vita reale (su un terreno, per quanto accidentato, molto ricco)».

105

↓ Wolfe, 2017, p. 103

condusse allo sviluppo dello Stile Internazionale. Questo di fatti fondamentalmente era uno stile industriale e globalizzato, presente ovunque nel XX secolo, che favorì l’industria pesante a spese delle maestranze locali e delle comunità di autocostruzione. ignorando l’adattamento alla cultura locale e alle tecniche tradizionali. In fatto di gusti, gli architetti del Weissenhof Werkbund «si comportarono come i benefattori culturali degli operai. Non serviva a nulla consultarli direttamente, poiché, come Gropius aveva osservato, essi erano ancora “culturalmente sottosviluppati”».

↑ Mehrotra, 2016 ↑ Wolfe, 2017, p. 35

104

Criticità della modalità egemone

3.3.1


3.3.2.1 Ridimensionare il ruolo dell’architetto

Se assumessimo un punto di vista ed una prospettiva differente, scrutando il basso e non solo l’alto, l’architettura e il paesaggio acquisirebbero altri significati. I costruttori di grattacieli non sarebbero piú valutati come prima: le loro pratiche spaziali risulterebbero insipide e fuorvianti. Ció che resta indispensabile è quella architettura che promuove la convivialitá, che é condotta con tali modalitá e finalitá. C’è stato un tempo in cui ogni generazione dava per scontato di poter lasciare il suo segno sul patrimonio costruito ma oggi giorno vengono erette costruzioni stabilite secondo dinamiche estranee e a noi distanti, segno della degenerazione del costruire come mezzo di espressione di chi lo utilizza. Habraken ci ricorda, nel suo libro tradotto come Supports: An Alternative to Mass Housing che:

Dopo un secolo di progettazione modernista, caratterizzata da decisioni imposte dall’alto e da realizzazioni energivore, dal dominio della pratica e della ragione di elitari e ben radicati architetti e imprese, è evidente come le persone non ne sopportino più l’egemonia. A partire dagli anni ‘60 un atteggiamento sempre più diffuso, inizialmente forse inconsapevole, ha voluto ridefinire il ruolo dell’architetto, interpretato fino ad allora come «produttore e realizzatore di progetti ad ogni costo». Perduti i connotati tradizionali legati ai vizi d’origine, liberato da un passato legato ad un dibattito ormai superato, se ne é potuto riscoprire il ruolo ed i campi disciplinari in cui opera. Sebbene l’idea popolare del mestiere di architetto molto spesso sia quella di «un mucchio di primedonne che se la spassano con lavori di lusso, oppure di schiavi della speculazione privata o della burocrazia pubblica», tuttavia é presente anche un approccio minoritario e dissidente che vede l’architettura come «una diffusa attività sociale, nella quale l’architetto é un propiziatore, o un riparatore», che quindi scardina il ruolo stereotipato dell’opinione comune. D’altronde il processo di costruzione di tipo centralizzato che pone l’architetto a capo del progetto non é sempre esistito; al contrario la figura stessa dell’architetto

«Non possiamo, oltretutto, trarre la conclusione che l’iniziativa di costruire, migliorare o trasformare qualcosa debba riguardare solo i membri piú facoltosi della societá. Basta osservare i cortili sul retro delle case nei quartieri piú poveri di una quarantina di anni fa. La quantitá di ampliamenti, balconi, piccionaie, capanni, serre e terrazze sono, per il loro carattere caotico, un sollievo per l’osservatore che preferisce vedere le persone piuttosto che le pietre».

↓ Ward, 2016, p. 90

3.3.2 Rivalutazione delle tendenze marginali

↑ Ward, 2016, p. 91

106

Ridimensionare il ruolo dell’architetto

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3.3.2.1


L’architetto (a differenza del suo equivalente borghese moderno) proveniva dalle impalcature, non dalle università. Tra di essi c’era così poca coscienza di essere «artisti» quanta ce n’é oggi tra gli ingegneri. L’unica differenza tra un ingegnere moderno e un costruttore medievale é che il secondo coordinava squadre di essere umani al lavoro, molti dei quali condividevano il suo entusiasmo e comprendevano le sue idee (poiché egli proveniva dalle loro file), nessuno dei quali era del tutto privo di responsabilità intellettuali, mentre il primo non é un lavoratore manuale ma un calcolatore matematico e le sue costruzioni (per quanto grandiosi e utili) sono il prodotto del lavoro di uomini ridotti a una condizione subumana di schiavitú intellettuale. Se esaminiamo con attenzione la cattedrale di Chartres, scopriamo che il suo progetto «non é un’entità ben controllata e armoniosa, […] più avviciniamo il nostro sguardo e più il pasticcio si

↓ Ward, 2016, p. 88 ↓ Kropotkin, Il mutuo appoggio, 1902

– come oggi l’intendiamo – spesso in passato era assente ed operava solo in ambiti circoscritti: fin dall’antichità un’abitazione, se non voluta da un ricco aristocratico, veniva autocostruita. Anche la progettazione di costruzioni complesse non era stabilita a priori dalla voce indiscutibile dell’architetto, piuttosto era un processo di continue modifiche sostenute in un dialogo orizzontale tra quella figura “assimilabile” all’architetto e le altre figure professionali. Eric Gill sosteneva perfino che i progettisti delle cattedrali gotiche fossero gli stessi lavoratori che le avevano costruite:

↑ Ward, 2016, p. 83

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fa evidente». La costruzione presenta infatti innumerevoli differenze e contraddizioni e se ne é compreso il perché solo tramite gli studi “pietra per pietra” condotti da John James. L’analisi delle pietre ha permesso di stabilire ad esempio il susseguirsi di 30 “campagne” nella costruzione della chiesa guidate da nove squadre di scalpellini che hanno lavorato a più riprese. Tra i mastri scalpellini si riconosce quanto alcuni fossero più meticolosi di altri e come alcuni imponessero un grado maggiore di uniformità ai propri artigiani nel lasciare il loro inconsapevole marchio di fabbrica sulle parti a cui stavano lavorando. L’intreccio delle manovalanze guidate dai maestri di ciascun mestiere che vi hanno partecipato, condussero James a sostenere che «non é stata progettata da tre, cinque o sei architetti. Non c’é stato nessun architetto, nell’accezione moderna di questa parola, ma solo costruttori diretti da uomini con una profonda conoscenza dei più sottili aspetti della loro arte». Dello stesso parere era anche Petr Kropotkin, il quale sosteneva che «una costruzione medievale non ci appare come lo sforzo solitario nel quale migliaia di schiavi svolgevano il compito assegnatoli dall’immaginazione di un solo uomo: tutta la città vi contribuiva» e ogni monumento, come anche la cattedrale di Chartres, era il «risultato di un’esperienza collettiva, accumulata in ogni “mistero” e in ogni mestiere».

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Prima del XX secolo l’arte del costruire non era stabilita e posseduta unicamente dall’architetto, ma al contrario era intesa come «un’attività comunitaria in cui la distanza tra progettista e Ridimensionare il ruolo dell’architetto

3.3.2.1


D’altronde questa capacità umana di saper colonizzare un luogo e riformularlo liberamente é già riscontrabile, anche se in stato embrionale, nel comportamento dei bambini. All’inizio degli anni Settanta, l’architetto Riccardo Dalisi ne ha avuto riscontro direttamente tramite dei lavori condotti assieme a dei bambini del quartiere napoletano Traiano. Assieme ai bambini Dalisi realizzó, in “atelier” di strada, delle esperienze di didattica spontanea di gruppo, offrendo loro delle strutture da assemblare per costruire oggetti e spazi. Tramite questi ebbe modo di «sperimentare sul terreno una creatività collettiva liberata, senza cercare di orientarla verso la formulazione di un nuovo linguaggio estetico». I manufatti realizzati assieme ai bambini risultano come «dei “proto- oggetti”, né forme né prototipi, che si collocano in un luogo intermedio ancorato nel vissuto», «nell’esperienza dello spazio, in una crisi dell’oggetto in cui con-

ta solo l’appropriazione». L’appropriazione degli oggetti da parte dei bambini comporta una rivisitazione creativa degli stessi che si può estendere a quella dell’ambiente. A riguardo di ciò Ward ci rammenta un altro aspetto contenuto nella tesi di Geoffrey Haslam che indaga sull’indole dei bambini nel costruire le tane ed i fortini:

↕ Utopie Radicali, 2017 ↓ Ward, 2016, p. 92

costruttore si riduce», dove il costruttore poteva perfino essere il progettista o anche l’utente finale, permettendosi quindi di agire liberamente nella trasformazione dello spazio. Le capacità costruttive insite negli individui sono sufficienti a permettere la progettazione e la costruzione di edifici, per quanto semplici, idonei alle necessità da soddisfare; é sufficiente pensare a quell’architettura vernacolare diffusa in ogni angolo remoto del pianeta che cerca di sopravvivere, o a tutta quella «senza nome, spontanea, espressione culturale dell’esigenza umana di avere non solo un riparo, bensì una posizione, un’identità, dei piaceri».

↑ Ratti C., Architettura open source. Verso una progettazione aperta, 2014

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Egli ricordava le sue tane, i suoi nascondigli e gli accampamenti, costruiti con qualsiasi materiale fosse a portata di mano. Quindi ha selezionato un gruppo di persone che riteneva fossero state eccezionalmente creative nella vita adulta e li ha intervistati a proposito della loro infanzia. Ha così scoperto che erano stati tutti costruttori di tane e ha riflettuto sulle attività legate alla costruzione praticate dai ragazzini tra i sette e i quattordici anni: “considerato come già a questa età possano ottenere così tanto, senza nessuna assistenza o guida, appare strano che poi così pochi adulti si dedichino a costruire strutture anche molto più semplici. A un certo punto della loro crescita, devono aver perso capacità, fiducia e motivazione a costruire. O forse l’innata capacità creativa é andata perduta perché siamo impossibilitati a costruire con le nostre mani? Le tematiche fino ad ora riportate rimarcano in vario modo come la progettazione abbia sempre coinvolto singoli e comunità, senza essere detenuta unicamente dalla figura dell’architetto. Le capacità di progettazione e costruzione sono insite nelle persone comuni, tuttavia la legittimità di provvedere da sé all’iRidimensionare il ruolo dell’architetto

3.3.2.1


deazione e realizzazione della propria abitazione e del circostante é stata ostacolata: adesso é consentito solo ad alcune élite di professionisti. La voce del destinatario – se non in rari casi – resta inascoltata. Il famoso aforisma di Giancarlo De Carlo recitava che «l’architettura é troppo importante per essere lasciata agli architetti», forse é giunto il momento che tutti riprendano gli strumenti in mano e le capacità per plasmare il proprio spazio: collaborando sarebbe possibile realizzare per lo meno semplici abitazioni, ma con una buona sinergia di competenze, anche molto altro. La dimostrazione più semplice e concreta di ciò é rappresentata dall’architettura vernacolare, diffusa e attuata ovunque nel passato, solo in qualche rara regione ancora oggi. Nei paesi sviluppati l’architettura vernacolare é morta, benché venga omaggiata occasionalmente dagli edifici neo-vernacolari, tipo case in stile ranch, e così via. Ma al di fuori di questi tipi la maggior parte non é il risultato del lavoro di architetti di professione, ma di un sapere popolare dell’arte del costruire trasmesso nei secoli. «Ovunque, la gente costruisce da sé, impiegando i materiali reperibili sul posto così come riesce a reperirli...» sostiene Colin Ward, «... l’architettura vernacolare non é mai stata omogeneizzata e non può essere un linguaggio internazionale, perché é radicata nei luoghi, nei materiali e modi di vivere indigeni». Inoltre, secondo la visione di Ward, ciò che può portare allo sviluppo di un nuovo tipo di tradizione vernacolare anche nei paesi sviluppati é ad esempio la crisi dell’energia e delle risorse. Sebbene di questi tempi la tendenza sia di minimizzare i con-

sumi, il modo di costruire contemporaneo é ancora caratterizzato da un fabbisogno energetico esagerato, a livello dei cicli produttivi dei materiali edilizi, della potenza impiegata durante la costruzione e della grande quantità di energia consumata durante il periodo di esercizio degli edifici. I costi crescenti dell’energia e delle materie prime tenderanno sempre più a mostrare i vantaggi degli edifici con un fabbisogno minore, riscontrabile nelle costruzioni vernacolari.

↑ Ward, 2016, p. 20

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Prima di procedere ad esaminare alcune delle declinazioni dell’architettura partecipata e dell’autocostruzione, é opportuno domandarsi cosa possa significare “progettare l’architettura”, quale sia l’approccio da adottare per la sua realizzazione. Rivoluzionaria é stata la concezione della progettazione architettonica manifestata dai gruppi radicali fiorentini: Archizoom, Buti, 9999, Pettena, Superstudio, Ufo e Zziggurat. Per certi aspetti, la prospettiva e l’approccio da loro adottato offre degli ulteriori strumenti per comprendere i connotati della partecipazione, “anticamera” dell’autocostruzione. I gruppi fiorentini, definiti radicali in quanto volti a rimuovere «tutti i parametri, non solo formali, che impedivano di realizzarsi compiutamente in ambito disciplinare», cercarono di recuperare nell’architettura una dimensione non alienata, di indipendenza e dunque di invenzione. La loro, più che una negazione del ruolo dell’architetto, era stata una riscoperta di questo, un’inversione di termini, una «rifondazione concettuale del campo disciplinare» in cui opera. Ridimensionare il ruolo dell’architetto

3.3.2.1


Per questi studi e collettivi il progetto architettonico doveva «allargarsi a comprendere fenomenologie di carattere sociale […] che non coincideva più con il semplice valore del segno o dell’oggetto finito ma piuttosto con una sequenza di azioni ed esperienze, una serie di frammenti che acquistavano unità e coerenza attraverso l’uso». In risposta alla modalità preconfezionata del progettare modernista ritenevano necessario scardinare meccanismi e linguaggi del progetto razionale, proclamando così la “fine dell’architettura” come strumento di alienazione politica e come sistema di rappresentazione. Il rifiuto costruttivo da loro promosso sosteneva infatti che «una nuova architettura non può nascere da un semplice atto di progettazione, ma dalla modificazione d’uso che l’individuo può fare del proprio ambiente». Viene così intesa come un’esperienza diretta dell’ambiente in costante riconfigurazione, inscritto nell’attimo, un modo di confrontarsi con l’eterogeneità del reale, che rende inoperante ogni sistematica progettazione a priori nel quale tutto é già prestabilito. Dalla scala domestica a quella urbana, l’architettura promossa dai gruppi radicali non si poneva più come mero oggetto costruito e circoscriveva gli strumenti di rappresentazione a beneficio invece dell’attività partecipativa, dell’azione nel tempo presente. Esclusa la dimensione programmatica, viene riposizionata in una dimensione antropologica di riappropriazione dell’ambiente sociopolitico, espressa nell’immediatezza del gesto. Riccardo Dalisi dichiarando che «tutto può diventare strumento di partecipazione: la costru-

zione, la progettazione», promuove un’architettura dell’imprevedibilità, aperta, data dalla relazione fra l’individuo e la collettività, fra il manufatto e il suo ambiente culturale.

↕ Utopie Radicali, 2017

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Questa differente visione dell’architettura e della progettazione sollecita a dare maggiore rilievo all’utente finale, a porlo in una posizione centrale dove spetta a lui inizia a muoversi, scegliere ed agire in maniera più o meno assistita. Il coinvolgimento diretto del destinatario garantisce un intervento bilanciato in relazione al territorio nel quale si inserisce, soppesando la sua presenza nel gioco di equilibrio del tessuto. A seconda del progetto, differenti saranno le reazioni della maglia alla quale si lega e risulta quindi imprescindibile realizzare quel delicato dialogo tra l’innestato e il preesistente ospitante, cercando di stabilirne una soglia labile di adeguamento. Una buona riuscita dell’inserimento é perseguibile tramite il coinvolgimento dell’utente finale: la sua partecipazione può manifestarsi in modo “parziale”, delegando cioé a terzi la gestione e la costruzione secondo vari gradi, oppure in modo “completo”, partecipando a tutti i processi che conducono alla realizzazione della costruzione, comprendendo quindi anche l’autocostruzione. Gli interventi indipendenti, nei quali i destinatari operano, liberamente ed autonomamente, in tutte le fasi dall’ideazione alla realizzazione, hanno ben altro carattere rispetto a quelli assistiti, che affiancano all’utente una serie di organi e figure professionali. Concorrono al divario tra le due modalità nuRidimensionare il ruolo dell’architetto

3.3.2.1


3.3.2.2 Indipendenza organizzativa, progettuale e costruttiva

merosi fattori, quali ad esempio in primis la competenza delle persone, il rispetto delle regole e i costi; tra questi approcci non ne esiste uno solo garante. Per esempio una capanna ideata e realizzata con le proprie mani potrebbe avere la stessa qualità di una casetta prefabbricata... dipende solo da quali criteri di giudizio si tengono in considerazione. Tuttavia forse dovremmo domandarci se, più che il rispetto delle regole, siano gli interessi delle parti coinvolte – che implicano determinate scelte progettuali – ad incide sulla “riuscita” del progetto.

↓ Ward, 2016, p. 44

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La partecipazione dei destinatari nell’ambito architettonico può dar vita ad una singola abitazione, come ad nuovo luogo d’aggregazione; molto spesso però «ciò che inizia con un insediamento abusivo, in quindici anni può trasformarsi, attraverso la propria energia autonoma, in una comunità ben funzionante di proprietà pienamente servite». Questa capacità organizzativa “dal basso” si verifica in numerose parti del mondo, basta pensare alle baraccopoli dei paesi non sviluppati; tra questi molto singolare é stato l’episodio della Torre David. Il Centro Financiero Confinanzas, detto anche Torre David, é un grattacielo di 45 piani che sorge nella città di Caracas, capitale del Venezuela. La sua costruzione, cominciata nel 1990, a causa della crisi finanziaria é rimasta incompleta e nel 2007 gli enormi problemi abitativi hanno spinto oltre 200 famiglie ad occupare l’edificio. La popolazione è cresciuta fino a 750 famiglie per un totale di oltre 2.500 residenti nella torre nel 2011, hanno in cui é stata registrata una carenza di 400.000 case a Caracas. Sebbene fossero assenti ascensori, parti di murature, finestre, impianti elettrici ed acqua corrente, gli occupanti sono riusciti a rendere abitabile il grattacielo fino al ventottesimo piano: i primi dieci percorribili tramite motocicletta, Indipendenza organizzativa, progettuale e costruttiva

3.3.2.2


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i rimanenti livelli tramite le scale. All’interno sono state create abitazioni, servizi di base con acqua corrente e perfino negozi, barbieri, saloni di bellezza, palestre e uno studio dentistico. L’insolita comunità residenziale, del tutto abusiva, é riuscita a raggiungere un equilibrio interno, sia nella gestione degli spazi che delle interazioni sociali, dando vita al primo caso di “slum verticale”. La volontà di costruire in questi luoghi con i propri mezzi risponde a quell’inadeguatezza di offerta che la macchina statale predispone; ad oggi é considerato l’edificio occupato più grande al mondo e solo nel 2015, a seguito del progetto del governo Great Housing Mission, ha visto il trasferimento dei suoi residenti in nuove case e strutture – alcune delle quali però già impossessate da altri occupanti. Nell’episodio della Torre David, e più in generale negli insediamenti informali del mondo, é da riconoscere il potenziale per l’innovazione e la sperimentazione. «Il futuro dello sviluppo urbano», sostengono i membri di Urban-Think Tank, che hanno presentato il caso alla Biennale di Venezia del 2012, «sarà determinato dalla collaborazione tra gli architetti, le imprese private, e la popolazione globale degli abitanti delle baraccopoli». Il problema delle abitazioni nel mondo forse può essere risolto canalizzando quelle stesse forze che danno vita agli insediamenti informali. Le forze dal basso derivano da un bisogno naturale di utilizzare materiali locali disponibili e sanno progettare ambienti fisicamente e spiritualmente confortevoli, a misura umana. Per di più il poten-

↓ Torre David

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Indipendenza organizzativa, progettuale e costruttiva

3.3.2.2


ziale di quest’informalità diventa una possibilità di riscatto, specialmente psicologico, rendendosi artigiani del proprio circostante. Fathy sosteneva che quando «un uomo acquisisce la solida maestria di un mestiere cresce in autostima e statura morale. Quando i contadini costruiscono da sé il proprio villaggio, la trasformazione che ciò produce nelle loro personalità é ancora più importante che la trasformazione delle loro condizioni materiali». É poi da tenere a mente, nell’ambito dell’emergenza abitativa che colpisce gli “ultimi”, che i poveri di un paese povero in una città efficientemente amministrata non sono stati deprivati dell’ultimo straccio di autonomia personale e dignità umana. Non sono imprigionati nella “cultura della povertà” quanto invece lo sono i poveri di una ricca e ben amministrata città a cui viene inibita l’iniziativa. I poveri delle città del Terzo mondo – con alcune eccezioni – hanno una libertà che i poveri delle città ricche hanno perso: tre tipi di libertà, secondo John F. Turner: «la libertà di autoselezione della comunità, la libertà di provvedere alle proprie risorse e la libertà di dare forma al proprio ambiente». Nel mondo ricco di queste scelte si é impadronito il potere statale, con il suo dispiegamento di forze dell’ordine e con il suo welfare istituzionalizzato: qui, come dice Habraken, «l’uomo non provvede da sé al proprio alloggio, ma viene alloggiato». L’autogestione territoriale può essere condotta non solo per ragioni quali le necessità abitative, ma anche per altri fini come quelli ricreativi.

↑ Ward, 2016, p. 94 ↑ Ward, 2016, p. 52

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L’appropriazione di uno spazio e la sua destinazione d’uso non può aver miglior accettazione se non nell’essere stabilita dai suoi fruitori. Di episodi del genere ce ne sono parecchi (Mutonia a Santarcangelo di Romagna, Teepee Land a Berlino, Christiania a Copenaghen ecc.) e che, per quanto piccoli e minacciati, riescono a resistere, a gestirsi e ad esprimersi liberamente. Il caso di Skatopia é piuttosto singolare ma rappresentativo poiché, esistente da più di 20 anni, ha continuato a coinvolgere e crescere in quanto il mantenimento della sua esistenza non dipende da esperti ma unicamente da una coscienza collettiva. Skatopia non é solo uno “skatepark” di 88 acri, situato vicino Rutland nello stato dell’Ohio, ma una vera enclave di svago. Fondato nel 1995 da parte del pro skater Brewce Martin, proprietario del sito, al suo fianco un gruppo di 50 amici – riuniti come CIA (Citizens Instigating Anarchy) – hanno collaborato e fatto cassa comune per sostenerne le spese. Progressivamente qui si é radunata quella che può esser interpretata come un’utopica società di skaters che hanno conferito un’atmosfera anarchica ed indipendente al luogo. L’autocostruzione condotta dai frequentatori del posto ha permesso la realizzazione di varie rampe, pool ed edifici; ancora oggi ne vengono aggiunte continuamente di nuove, grazie al sostegno di chi temporaneamente vi risiede e alle competenze progettuali che si sono assodate nel tempo tramite l’esperienza diretta. In questi 88 acri sono state condotte numerose iniziative, é presente un museo contenente Indipendenza organizzativa, progettuale e costruttiva

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3.3.2.2


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Skatopia ↓

↓ Friedman, 2016, p. 13

oltre 1800 skateboard, piccole abitazioni e un’anfiteatro nel quale annualmente si svolgono i festival musicali Bowl Bash e Backwoods Blowout. Con il passare del tempo questa singolare realtà, organizzata secondo la propria dinamica – al quanto caotica – , é stata oggetto di film, documentari e scenografie, fino a diventare una meta di pellegrinaggio per curiosi e skaters.

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Queste formule di autogestione nascono dalla necessità delle persone di sopperire ai propri bisogni, in maniera efficace e diretta, seppur certe volte rudimentale, precaria e illegale. Molto spesso infatti ricorrere ai metodi ortodossi può risultare oneroso, senza fine o certezze di realizzazione; come può trovare sistemazione una persona in difficoltà, restare in attesa di un alloggio popolare conoscendo le dinamiche interminabili o forse provare a costruirsi da sé un riparo? Ponendosi queste domande trovare risposta é difficile, ricordando pure quanto l’ago della “realizzazione” umana nel territorio, sia essa di sopravvivenza o ricreativa, oscilli tra legalità e legittimità. Non a caso, come Friedman sostiene, per non screditarsi: Quando la folla dei governati, sentendosi abbandonata, comincia a pensare alla propria sopravvivenza sotto forma di piccole comunità in grado di bastare a se stesse e di assicurare i propri servizi pubblici, i governi, più attenti alle necessità di scena e alla “simulazione” che ad assicurare il buon funzionamento di servizi pubblici disfunzionanti, qualificano tali tentativi come “movimenti marginali”. Indipendenza organizzativa, progettuale e costruttiva

3.3.2.2


Tuttavia queste piccole comunità autonome – che potremmo riconoscere secondo l’ottica di Friedman come “gruppo critico” – sono le sole a garantire la “riuscita” di un progetto, essendo loro stesse ideatrici, realizzatrici e destinatarie. Se consideriamo l’organizzazione consueta dietro ad un progetto o un’iniziativa – che prevede una mole sconfinata di professionisti, tecnici, aziende, burocrati, finanziatori, normative a cui sottostare – e gli interessi di chi vi collabora, é evidente come poi i risultati finali e l’appagamento si allontanino dal soddisfare chi ne usufruisce. Turner scrive infatti che «quanto più grande diventa l’organizzazione, tanto più sarà centralizzata la gestione e di conseguenza tanto più frequenti e profonde saranno inevitabilmente le disarmonie». L’esistenza di queste numerose piccole realtà, siano esse abitative o ricreative, invece dimostra che alternative sono possibili e che gli ostacoli principali non sono prettamente tecnici, estetici o finanziari, ma sono fondamentalmente le restrizioni imposte dai regolamenti. Rientrare in maniera indiscussa nelle leggi e nelle normative, che controllano la gestione di un territorio e il costruirvi sopra, molto spesso inibisce l’iniziativa del singolo e collettiva. Circoscriversi in quei parametri per certi aspetti limita l’attuazione degli interventi e dei suoi protagonisti che invece potrebbero, con opportune deroghe, manifestarsi spontaneamente secondo la propria inerzia. Per far fronte all’esigenza abitativa ad esempio potrebbe essere auspicabile «... un allentamento dei regolamenti edilizi in modo che la gente possa sperimentare tecniche alternative di costruzione e approvvigio-

namento delle case e possibilità di utilizzare le abitazioni anche in condizioni un po’ rudimentali, nel corso di un graduale completamento».

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↑ Ward, 2016, p. 54 ↑ Staid, 2017, p. 35

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Indipendenza organizzativa, progettuale e costruttiva

3.3.2.2


3.3.2.3 Emancipazione assistita del destinatario Dopo decenni di progettazione centralizzata che ignora le condizione al contorno e le esigenze complesse degli utenti finali, e che cerca di limitare al massimo gli spazi comuni per ragioni economiche, é andata perduta quella comune conoscenza che permetteva la costruzione di ambienti a scala umana anche senza l’ausilio di una formale progettazione a priori. Per l’accesso all’edilizia pubblica e ai servizi realizzati dallo stato si è sempre agito con un approccio centralizzato, imponendo così la suddivisione del potere all’interno dell’arena urbana. Quella deplorevole disarmonia che ne consegue potrebbe invece lasciare spazio a quel costruire collettivo che avvicina in modo tangibile chi vive il luogo e l’intervento da attuare delineandone la sua identità, sia concettuale che progettuale. Riformulare quindi il ruolo delle parti per ristabilirne un equo equilibrio, farebbe giovare specialmente quelle più sofferenti e tenute in disparte: gli utenti finali e l’ambiente. Chiaramente trasferire potere e conoscenza dalla corrente professione nell’architettura alle persone comuni può non coincidere con gli interessi economici a breve termine da parte di chi possiede un tale potere. Tuttavia, come Colin Ward sostiene:

C’é una scuola di pensiero tra gli architetti che ricerca un’architettura degli usi alternativi definibile come conviviale, se si ricorre al linguaggio di Ivan Illich, in quanto offre a ognuno «le più ampie opportunità di arricchire l’ambiente con i frutti delle proprie scelte», all’opposto di quegli ambienti che negano questa possibilità a coloro che li utilizzano e in cui, come dice Illich, «sono i progettisti a determinare i significati e le aspettative altrui».

↓ Ward, 2016, p. 23

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Un esempio di un approccio progettuale sensibile, che cerca di armonizzare tutte le parti coinvolte, é quello condotto dall’architetto Patrick Bouchain. La maggior parte dei suoi progetti inizia con la creazione di una rete di persone interessate, collaboratori, residenti, funzionari del governo locale, gruppi di quartiere, eccetera. Una volta attivata questa rete, il sito viene attivato socialmente, di solito aprendo un piccolo spazio che funziona come ristorante, ufficio del sito e area di consultazione dove i passanti e le persone interessate possono scoprire il progetto, dare il loro punto di vista o semplicemente guardare un film. Questa fase iniziale crea relazioni tra architetti, costruttori e persone locali, facilitando così la comprensione di quale siano gli usi richiesti per il sito prima che venga creato qualcosa di permanente. Attraverso un tale approccio i progetti di Bouchain sono sostenibili nel vero senso della parola, assicurando che ciò che è finalmente costruito sia appropriato e utile per il sito e faccia buon uso delle risorse. Emancipazione assistita del destinatario

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Un altro studio che opera con una metodologia simile é l’Atelier d’architecture autogérée fondato nel 2001 con sede a Parigi. L’atelier funge da piattaforma per la ricerca collaborativa e l’azione sulla città e molto del loro lavoro viene svolto con altri specialisti, artisti, ricercatori e partner istituzionali come università, organizzazioni artistiche e ONG, nonché con utenti dei loro spazi. I progetti dall’atelier sono esperimenti nel riutilizzo temporaneo dello spazio urbano avanzato attraverso la creazione di un’infrastruttura che viene lentamente rilevata dai residenti locali e trasformata in spazi autogestiti. Il loro progetto più recente, Passage 56, è la trasformazione di un passaggio in disuso, situato in un quartiere parigino noto per la sua densità e diversità culturale, in un giardino produttivo che riduce al minimo la sua impronta ecologica attraverso il riciclaggio, il compostaggio e l’uso di pannelli solari. Attraverso un processo partecipativo continuo, il progetto è stato elaborato e realizzato con il minimo costo, utilizzando materiali riciclati raccolti dagli stessi residenti. Al progetto ha collaborato pure un’organizzazione locale che gestisce programmi di formazione per i giovani in eco-costruzione ed è stato in parte commissionato dal governo locale, soddisfacendo uno degli obiettivi dichiarati da aaa di influenzare la politica locale verso il riutilizzo e lo sviluppo degli spazi rimasti nella città. Il progetto Passage 56 rafforza l’idea che lo spazio pubblico non debba culminare nell’idea della costruzione fisica di un oggetto progettato, ma viene continuamente sviluppato come una produzione so-

ciale, culturale e politica. Qui, il cliente non precede l’intervento ma emerge gradualmente nel gruppo di persone che lo gestiscono, offrendo la prova che la pratica ecologica quotidiana può trasformare le attuali relazioni spaziali e sociali in una metropoli densa e culturalmente diversa.

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Risalendo alle radici di queste modalità conviviale é fondamentale la figura dell’architetto John Habraken che, tramite la sua stimolante ricerca ed insegnamento, ha permesso a partire dagli anni ‘60 lo sviluppo della strategia Open Building. Con il suo impegno ha portato a molte applicazioni di tale metodo e alla creazione di una rete globale di esperti sul tema che si incontrano annualmente durante il CIB Congress W104 “Open Building Implementation”. L’Open Building è una strategia basata sulla visione che la progettazione sia un processo che richiede la partecipazione di diverse professionalità, in particolare dei destinatari che hanno un ruolo cardine nelle scelte del layout dei propri spazi, e che concede all’ambiente costruito, interpretato come in costante mutamento, una riformulazione continua attuata tramite livelli distinti d’intervento. L’architetto Frans van der Werf, determinante promotore di questo metodo, sostiene che ci sono tre livelli a seconda della scala: “Urban Tissue” é l’intervento che si occupa della progettazione degli spazi pubblici intrecciati – ad esempio strade, cortili e piazze – e quindi di conferire armoniosa interezza alla struttura morfologica del quartiere, caratterizzandone l’identità tramite le scelte degli abitanti. “Support” intende permetEmancipazione assistita del destinatario

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tere di modellare lo spazio collettivo all’interno di un edificio di base suddivisibili in diversi moduli, decidendone il layout interno (scale, corridoi, androni) e l’aggiunta di eventuali altre funzioni come negozi, atelier, ristoranti. “Infill” é la progettazione interna dell’unità, come un’abitazione, un negozio, soddisfacendo le priorità e le esigenze dell’utente nel suo spazio privato, mediante il libero assemblaggio di componenti come per esempio partizioni, porte, finestre. Quest’ultimo, rispetto al ”Support” nel quale si inseriscono, muta più frequentemente e quindi necessita di diversi livelli di processo decisionale. I tre livelli, sebbene operino in modo indipendente, risultano correlati in un ambiente ampio e coerente dove si sviluppa una ricca diversità secondo la sua formula “la diversità nell’interezza”. L’identità della sfera pubblica, collettiva e privata viene definita in maniera progressiva da coloro che risiedono in quel determinato spazio permettendone quindi un graduale riconoscimento di appartenenza: più intimo é il luogo, meno partecipanti sono coinvolti. Un metodo di cui si avvale la strategia Open Building é quella della “charette”, ovvero di far discutere e decidere i partecipanti esaminando varie domande guida in studi di casi correlati e ricorrendo il meno possibile alla figura dell’architetto. A seconda della scala e tipologia d’intervento corrispondono differenti destinatari e domande precise volte a stimolare lo sviluppo del progetto. Il coinvolgimento degli utenti nelle scelte di base, sebbene a volte si realizzi in modo superficiale, può non risolversi in un banale sondaggio

d’opinione. Se però una charette é ben impostata può definirsi al contrario un processo didattico privo di dogmi, un dialogo alla pari tra varie figure decisionali che si conclude con un accordo finale. Il risultato finale per ogni partecipante si può sintetizzare con un aumento di conoscenza rispetto all’inizio del processo.

↑ www.vdwerf.nl

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Dello stesso metodo si avvale anche la corrente del new urbanism sviluppata negli Stati Uniti come alternativa, a dimensione umana, alla pianificazione modernista delle città che non soddisfaceva a sufficienza le diverse richieste degli abitanti. Ufficialmente il movimento nacque nel 1993 con la creazione del Congress for the New Urbanism per promuovere la zonizzazione mista realizzata attraverso edifici inseriti nel contesto alla giusta scala e che si rifanno in modo evidente a forme e tecniche tradizionali. In Europa un simile movimento viene definito “urbanistica tradizionale” ed entrambi condividono la volontà di coinvolgere la comunità nella progettazione del proprio quartiere. Le modalità esistenti di finanziamento nel mondo delle costruzioni tendono a favorire solo progetti di sviluppo a grande scala e per questo motivo le strategie operative di questi movimenti si presentano ancora come pianificazioni definite centralmente e realizzate a larga scala, riuscendo solo occasionalmente ad affidare le scelte operative nella costruzione agli utenti finali. Tuttavia recentemente sono stati creati con successo molti spazi, nuovi e ristrutturati, adeguati ai bisogni umani, demolendo mostruosi conEmancipazione assistita del destinatario

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glomerati abitativi e sostituendoli con tessuti urbani a misura d’uomo e progettati da gruppi locali. I teorici di questa corrente hanno tentato di promuovere processi di sviluppo decentrati, principalmente attraverso la pubblicazione di numerosi codici (a titolo gratuito) che possono essere agevolmente tradotti in regole di edificazione, in sostituzione dei codici modernisti sviluppatesi nel dopoguerra, ormai utilizzati in pratica in quasi tutti i paesi industrializzati che continuano ad ignorarne una revisione. Il codice Smart Code DPZ di Duany, Plater e Zyberk ad esempio é offerto in formula opensource, in quanto richiede un successivo adattamento alla caratteristiche del luogo in cui è applicato. L’uso dei codici per favorire la partecipazione dei destinatari é stata anticipata nel 1977 dall’architetto Christopher Alexander, nel suo libro A Pattern Language. Assieme ai co-autori, Alexander ha fortemente sostenuto il diritto dei cittadini di avere voce in capitolo nelle scelte progettuali, e per tale motivo ha proposto anche lui una metodologia opensource nella quale i pattern non rappresentano strumenti per giungere ad una definizione ultima del progetto; piuttosto sono dispositivi di lavoro che vanno integrati ed adattati alle esigenze specifiche della comunità e del luogo, in base ad analisi ben precise. Questi pattern diventano quindi strumenti di diagnosi, per valutare se un progetto – realizzato o semplicemente proposto – è idoneo alle esigenze umane, e strumenti di lavoro che combinati a metodi di progettazione adattativa, contribuiscono a produrre un risultato finale idoneo per gli interessati.

Recentemente è emersa l’urbanistica peer-to-peer (P2P), movimento che si è sviluppato tra progettisti e urbanisti che per anni hanno lavorato in modo indipendente, senza rendersi conto che sforzi simili erano portati avanti in altre regioni del mondo o anche vicino a loro.

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L’urbanistica P2P può essere intesa come quella raccolta di interventi urbani realizzata in cooperazione tra abitanti, professionisti, ONG, agenzie pubbliche, ricercatori, attivisti, artisti, sociologi e scienziati urbani pensati per studiare, costruire e riparare la città in modo che chiunque può scegliere, partecipare, condividere e modificare teorie, metodi e implementare tecnologie in qualsiasi momento.

↓ www.p2purbanism.blogspot.com

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Questo processo di carattere partecipativo bottom-up si struttura come la rete informatica P2P. Secondo la logica di questa rete peer-to-peer, i nodi non sono gerarchizzati unicamente sotto forma di client (clienti) o server fissi (serventi), ma sono sotto forma di nodi equivalenti o ‘paritari’ (peer). Mediante questa configurazione, qualsiasi nodo equivalente è in grado di avviare o completare una transazione, permettendo quindi una maggiore indipendenza e velocità di condivisione dell’informazione. Questa struttura applicata nell’ambito della progettazione urbanistica, in particolare nella diffusione delle conoscenze riguardo i metodi di progettazione e costruzione, comporta profonde implicazioni, non solo riguardo strettamente la disciplina, ma anche sulla società e sulla politica. Emancipazione assistita del destinatario

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In parallelo al movimento per il software libero e opensource, la progettazione tanto di una città quanto del proprio ambiente di vita e lavoro dovrebbe fondarsi su regole progettuali liberamente disponibili, e non su norme “segrete” individuate e custodite da una qualche autorità. L’intento dell’urbanistica P2P é quella di permettere a chiunque di progettare e costruire il proprio ambiente con l’utilizzo di tecniche e informazioni liberamente condivise. Il risultato é un processo adattativo a dimensione umana, una ricerca di qualità e obiettivi universalmente condivisibili e accettabili dalla “gente comune” senza l’affidamento a un progettista completamente estraneo. Il processo di progettazione passo-passo permette di ricalibrarsi in tempo reale sulla base delle esigenze e bisogni umani: qualcosa di impensabile da ottenere attraverso un progetto preconfezionato o solo formale: chi può conoscere meglio le carenze e necessità di un luogo se non chi lo abita? L’urbanistica P2P è definibile come modalità scientifica ma informale per la costruzione di edifici: si tratta di partire dalle conoscenze rese pubbliche, migliorandole, rendendole quindi di nuovo pubbliche in modo che altri possano a loro volta migliorarle. Si tratta di una progettazione che è giustificabile attraverso un sempre crescente numero di esperimenti scientifici in grado di interpretare gli effetti positivi o negativi che l’ambiente costruito ha sulla psicologia umana e il benessere. I possibili settori di influenza includono infatti l’architettura vernacolare e sostenibile, la permacultura (che progetta ecosistemi per

portare gli esseri umani alla vita in armonia con piante e animali) – realizzata da chi ha una concreta e profonda comprensione della biofilia (la predilezione per ambienti vitali) – , oltre alle varie comunità indipendenti o alternative che desiderano preservarsi dall’omologazione. Un suo punto di partenza sta ad esempio nell’incoraggiare la richiesta di una maggiore quantità di spazi pubblici nell’ambiente urbano da parte dei cittadini. Alcuni fautori dell’urbanistica P2P percepiscono che tra le tante possibilità della metodologia vi é anche quella di poter dare voce agli emarginati, consentendo loro di modificare l’ambiente in cui vivono. Un tale processo aiuterebbe a canalizzare e amalgamare tra loro, con finalità pratiche e verso un obiettivo comune le minoranze o gli emarginati che riceveranno una formidabile forza dalla capacità di costruire il proprio ambiente anche senza impegno economico. Inoltre con l’urbanistica P2P si dispone di uno strumento per integrare con successo due modalità operative: una è quella che parte dalla pianificazione su larga scala, la sola in grado di provvedere alle infrastrutture necessarie per una città sana; l’altra è la modalità dell’autocostruzione informale che nei paesi in via di sviluppo si sviluppa in modo incontrollato. Per gli emarginati, possiamo intuire conseguenze simili a quanto avvenuto nei paesi del terzo mondo dopo l’introduzione del software libero o opensource: si creano esperti del luogo, ne consegue un’economia locale, l’intera nazione ne è arricchita e in grado di iniziare ad affrontare i propri problemi. Emancipazione assistita del destinatario

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inutili”, […] facendo emergere una nuova politica dalle esperienze, dalle esitazioni, dalle resistenze quotidiane, dalle esitazioni, dai “mormorii”».

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↓ Clément, 2016, p. 111

Per concludere, sebbene sia «recuperata quale diritto ma solo a giochi fatti, tollerata per realizzazioni economicamente deboli e temporanee, dettata per legge e spesso praticata in forma di burocrazia, il senso della partecipazione sembra essere ancora distante». Le modalità dominanti, che prescrivono determinate forme architettoniche in maniera centralizzata, sono ancora vigenti e la partecipazione sembra ancora essere non riconosciuta, “anormale” ed eccezione al regolare procedere. «In sostanza, la società non si è appropriata dell’architettura, come invece dovrebbe. Non perché tutti debbano essere tecnicamente architetti, ma culturalmente tesi verso l’arte dello spazio, questo sì». Non é cruciale se i metodi perseguiti sono ancora quelle del “dittatore estetico”, dovremmo piuttosto assicurarci che quelli non siano gli unici concessi e riconosciuti. Quelle modalità minoritarie ed informali – assistite o indipendenti che siano – dovrebbero essere legittimate come diretta espressione degli utenti finali nel far fronte alle proprie necessità, offrendo così loro la possibilità di un riscatto. Forse «dobbiamo cambiare il ruolo delle amministrazioni da quello di fornitori a quello di facilitatori. Dobbiamo cambiare il ruolo dei cittadini da destinatari a partecipanti, in modo che abbiano anch’essi una parte attiva in quello che l’architetto William Lethaby chiamava il grande gioco della costruzione della città». L’attuazione e il mantenimento di ciò però non può dipendere solamente da esperti ma soprattutto da una coscienza collettiva, «non può che nascere dal tempo vagante dei “perdigiorno”e dei “presunti

↑ Ward, 2016, p. 57

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Emancipazione assistita del destinatario

3.3.2.3


3.4 La sinergia creatività-riuso nel costruire Sottraendo gli oggetti abbandonati o fuori uso al loro destino di smaltimento, e a volte agli stessi processi di riciclo industriale che possono essere impegnativi e dispendiosi, si risparmiano materie prime e si prolunga l’esistenza dei beni immessi sul mercato. E si percorre una strada che si riannoda idealmente ai comportamenti virtuosi dei nostri antenati quando, con minori mezzi ma altrettanta fantasia, ricavavano stracci da una camicia logora o uno scalpello da una lima spuntata. Considerando lo sviluppo dell’insediamento in risposta anche alle disponibilità economiche dei fruitori e ai bisogni di salvaguardia ambientale, l’uso degli scarti, altrimenti destinati all’abbandono, rientra coerentemente nella logica dell’approccio. Di conseguenza la configurazione dei progetti é data dalla sinergia tra l’ambiente e i rifiuti abbandonati e l’ingegno del costruttore nel saperli ricombinare assieme. Il progettista-costruttore quindi non ricorre necessariamente ad un metodo progettuale sistematico e prestabilito in quanto potrebbe risultare inadeguato e perfino oneroso nella riuscita di tale intervento.

↑ Q. Protopapa, G. Corbetta, La seconda occasione per dare nuova vita ai rifiuti, edizioni ambiente, 2012

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3.4.1 L’approccio progettuale capovolto: il componente é il punto di partenza

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L’uso dei rifiuti, degli scarti o di qualsiasi componente come materiali da costruzione induce ad una riformulazione della progettazione tramite una prospettiva capovolta ed una liaison che riconnette le persone ai materiali. Il processo secondo l’ordine “progetto stabilito → ricerco i componenti” é invertito: sono i materiali a suggerire il progetto ed il suo design, ad essere il punto di partenza. Il processo, divenuto “componenti in possesso → cosa ci progetto e come li combino?”, comporta uno sviluppo progressivo del progetto e ne consegue una maggiore imprevedibilità del risultato finale. L’autorecupero dei materiali esausti da utilizzare per le costruzioni nasce dalla cattiva abitudine dell’architetto contemporaneo, il quale parte spesso dal progetto e non dai materiali a sua disposizione. Tuttavia questa progettazione alternativa richiede un’attenta capacità di lettura dei componenti presenti: il manufatto si struttura in base all’impiego di materiali che é possibile trovare come già realizzati, senza ricorrere all’uso di nuovi, da dover far continuamente produrre; quel che é necessario é già presente. Molto spesso é solamente una questioni di sguardi che induce allo scarto o al recupero di un rifiuto, a non riconoscere in esso un percorso concluso ma a L’approccio progettuale capovolto: il componente é il punto di partenza

3.4.1


É interessante osservare come l’impiego di oggetti ed elementi recuperati ed adottati in maniera non sistematica conduce ad un’architettura libera in termini compositivi ed espressivi, a formulare un; estetica nella quale «il pasticcio diventa virtù». L’indeterminatezza del processo – interpretata quindi come qualità e non come difetto – é dovuta alla declinazione che assume la composizione a seconda del luogo nel quale si sviluppa, in base ai materiali che offre il territorio e alla combinazione graduale di questi condotta dal progettista-costruttore. Il progetto definito in funzione di ciò che capita sotto mano al progettista evita di circoscriversi alle previsioni basate secondo la logica dell’edilizia ordinaria che limita in principio le declinazioni del processo costruttivo. É proprio grazie all’interazione tra i rifiuti (di ogni genere e provenienza) e l’ingegno che é possibile restituire significato a ciò che é abbandonato. Il riuso e la combinazione dei materiali, delle risorse e dei sistemi si concretizzano in un manufatto frutto della sinergia tra la capa-

cità creativa e le possibilità latenti insite in essi. Svincolata dalla consueta associazione che lega un materiale edilizio alla sua – solitamente unica – funzione prestabilita, questa progettazione alternativa scardina i metodi di costruzione dominanti ed egemoni favorendo invece la «vitalità pasticciona».

↓ Wolfe, 2017, p. 101

riaprirne scenari d’altro uso, ad assumerlo come risorsa. Questa modalità d’approccio comporta esiti progettuali rilevanti: é possibile riconsiderare – e quindi immaginare – come l’ideazione e realizzazione del manufatto possa dotarsi di una varietà e spontaneità inusuale, di un linguaggio ed estetica fino ad allora svalutati – se non addirittura derisi – che di fatti possiedono concrete opportunità da saper scorgere.

↑ Ward, 2016, p. 85

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Nelle varie declinazioni che il riuso nell’ambito architettonico può assumere, é interessante osservare come un oggetto, assunto un nuovo ruolo, muta di significato secondo il capriccio del progettista-costruttore. Al contempo questo offre anche un linguaggio del tutto innovativo, sperimentandone l’impatto una volta oltrepassata l’ortodossia dell’originaria funzione e cimentandosi in una sua reinterpretazione. Ben evidente é il caso della Gallery of Forniture realizzata a Brno da Chybik + Krištof Associated. Nella trasformazione funzionale di un edificio monopiano privo di qualità estetiche, i progettisti si sono concentrati sulla creazione di una nuova facciata composta di 900 sedili di plastica nera, fissati a una struttura di profili d’acciaio, fissati a loro volta alla parete. La percezione della costruzione viene così scandita da un’inusuale texture astratta che, riformulando il concetto della seduta, esprime un linguaggio nuovo. Non a caso il progetto della galleria ha ricevuto il Czech Grand Prix Award 2017 e il Czech Architecture Award. Il riuso dei rifiuti non vede coinvolti solamente oggetti di piccola dimensione ma anche, in maniera sempre più diffusa, elementi di notevoli L’approccio progettuale capovolto: il componente é il punto di partenza

3.4.1


dimensioni; alcuni di questi originariamente usati come “contenitori”. Silos abbandonati, condutture in calcestruzzo, cassoni da cantiere... tutti componenti che, per la loro fattezza e dimensione, fungono da antefatto strutturale volto a contenere vite umane al loro interno. Un caso emblematico di elemento “contenitore” é il parco giochi Wikado a Rotterdam, realizzato dal team Superuse studios nel 2009. In questo progetto il committente richiedeva la costruzione di un luogo di svago dove i bambini potessero trascorrerci del tempo. Lo studio, interrogandosi su quale materiale di scarto usare per garantire la “riuscita” del progetto, ha ricorso all’uso, per quanto poco ortodosso, di cinque pale eoliche dismesse. Per quanto questi elementi possano sembrare “fuori luogo” ed inadatti, il team é riuscito a intravedere in esse le potenzialità latenti ed esprimerle: le linee slanciate hanno suggerito una loro reinterpretazione come torri e tunnel all’interno delle quali nascondersi o salire. L’aspetto bizzarro di questo parco giochi per bambini lo ha reso vincitore nello stesso anno dell’European Environmental Design Award. Un altro esempio calzante di contenitore che diviene contenuto é il progetto Silo City sviluppato dallo studio ReFunc a seguito del recupero di un vecchio silos per lo stoccaggio del grano. Questo prototipo prevede il riutilizzo dei silos in disuso per trasformarsi in una vera e propria abitazione di 13 metri quadrati di superficie, divenendo quindi un esempio di soluzione abitativa minima, low-cost e con minimo impatto ambientale. Il reimpiego del silos in vetroresina, con l’in-

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↓ Wikado

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L’approccio progettuale capovolto: il componente é il punto di partenza

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↕ Silo City, Refunc

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L’approccio progettuale capovolto: il componente é il punto di partenza

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Hortus Hermitage ↓

↓ Ward, 2016, p. 112

tegrazione all’interno e all’esterno di altri elementi anch’essi di scarto, é stato condotto anche su un altri silos come nella costruzione Horus Hermitage e, anche se con dimensioni più contenute, il Lemon Loft Tiny Tea House. Questa “costruzione”, di soli 3 metri quadri, può ospitare fino a dieci persone sedute in cerchio in un ambiente dalla forte espressione spaziale. Il prototipo sperimentale può essere facilmente spostato: é stato esposto al Bauhaus Archive di Berlino e in numerose altri luoghi.

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La selezione dei rifiuti da riutilizzare é in funzione delle proprietà che essi possiedono e dell’ingegno del costruttore di trasformarle da potenza in atto, anche in considerazione della reciproca combinazione con altri componenti. Tenendo a mente che il progetto impiega principalmente elementi, risorse e sistemi già esistenti ed in disuso, verranno coinvolti residui di ogni dimensione e provenienza per sopperire alle necessità che la costruzione richiede. Un singolo componente può infatti diventare morfologicamente una parte di tutta la costruzione o esso stesso il tutto, la costruzione. Il panorama d’impiego risulta così talmente ampio che é difficilmente classificabile, al tempo stesso permette però di seguire l’idea di Ray Garner secondo cui: La libertà é l’abolizione del dovere di rispettare le regole della maestria e dell’estetica. Può “andare bene” qualunque cosa. Questo distacco da un sistema meccanico e dalle regole, insieme al bisogno di innovazione, é la forza che apre la strada alla creatività e all’espressione dell’inconscio. L’approccio progettuale capovolto: il componente é il punto di partenza

3.4.1


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3.4.2 Il riuso in risposta alle problematiche ambientali Questa modalità d'approccio qui riportata, oltre a reclamare l'importanza della “materia prima” nella progettazione, in quanto induce una maggiore creatività ed autonomia costruttiva, per certi aspetti persegue anche le politiche attinenti la sostenibilità ambientale. Ogni organismo vivente, ogni organizzazione che comprenda degli esseri viventi, sussiste grazie a una selezione dei componenti utili alla sua sopravvivenza. La parte di componenti utili é estremamente ridotta rispetto alla totalità di componenti che l'ambiente mette a disposizione delle nostre organizzazioni; i nostri organismi o organizzazioni rifiutano quindi una quantità di componenti assai più grande di quella utilizzata. Ovvero un essere vivente é una fabbrica di rifiuti. Se i rifiuti sono riciclabili non possono però esserlo senza limiti di quantità. Superata una certa quantità di rifiuti, comincia l'inquinamento (l'accumulazione di rifiuti). Si tratta cioé di una quantità critica di rifiuti, quantità che viene determinata in funzione della struttura dell'organismo o dell'organizzazione che opera la selezione da cui deriva la produzione dei rifiuti, e in funzione dei suoi collegamenti con gli altri organismi o organizzazioni. Il problema della sovrapproduzione di rifiuti deriva perciò dall'operazione di selezione dei

↕ Friedman, 2016, p. 93

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componenti utili. Ai nostri giorni, con le modalità di selezione attuali, l'umanità finisce col produrre in massima parte rifiuti: circa il 70% dell'energia umana vi é destinata. […] É chiaro che i rifiuti sono tali in conseguenza di un'operazione prestabilita di selezione dei componenti utili. Si potrebbe quindi semplicemente ridurre la sovrapproduzione di rifiuti trasformando le modalità d'uso di alcuni oggetti, ossia trasformando l'operazione fondamentale: la selezione. Per spiegare quest'idea vorrei ricorrere a un esempio storico, o meglio preistorico. Mi riferisco al periodo eroico dell'agricoltura. In un primo tempo i coltivatori eliminavano dai terreni la vegetazione originaria per procedere alla semina, poi, di stagione in stagione, rimuovevano le pietre dai campi. Il prodotto del diboscamento e della spietratura era un residuo dell'agricoltura: legna e pietre. Una delle prima invenzioni dell'agricoltore primitivo fu quella di riciclare questi rifiuti dando loro forma di costruzioni. Questo tipo di riciclaggio non implica alcuna trasformazione dei materiali residui né l'invenzione di nuove tecnologie: consiste in un nuovo atteggiamento dell'uomo nei confronti dei rifiuti che si vanno accumulando al di là della quantità critica. L'uomo preistorico ha cioé evitato una forma di inquinamento assumendo semplicemente un atteggiamento nuovo. […] In altri termini, la quantità critica é caratteristica di una determinata specie di oggetti e dell'organizzazione che l'uomo impone a quegli oggetti. Una volta oltre passata la quantità critica, potrebbe essere proprio l'organizzazione a cambiare. Il riuso in risposta alle problematiche ambientali

3.4.2


Con queste parole l'architetto Yona Friedman ci restituisce la condizione nella quale sia immersi. La situazione ambientale é in peggioramento e la quantità critica di rifiuti, che alimenta l'inquinamento, deve essere gestita. Friedman ci fornisce due opzioni: un mutamento dei criteri di selezione che etichetta un componente come “rifiuto” e una differente sensibilità d'approccio dell'organizzazione. Chiaramente questi due fattori si influenzano reciprocamente e inducono a non considerare un materiale o elemento usato necessariamente da dover scartare in quanto inutile: la sua qualità e prestazione potrebbero non esser compromesse e trovar ancora impiego secondo la logica «nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma» di Antoine-Laurent de Lavoisier. Applicare questa forma di pensiero al circostante, sia esso un oggetto rotto o un elemento di scarto di qualsiasi materiali e dimensione, é molto semplice; é sufficiente domandarsi quali componenti abbiano ancora utilità secondo le loro caratteristiche e intravederne scenari di riuso. Ad esempio nel caso in cui fosse necessaria la rimozione degli infissi da una scuola in quanto, sebbene ancora funzionanti, non più conformi alle nuove normative adottate, questi tuttavia potrebbero trovare nuovamente impiego in altre costruzioni invece di essere demoliti. Il settore dell'edilizia é il maggiore responsabile del consumo energetico e del consumo di materie prime; ciò genera grandi quantità di rifiuti e per tanto risulta necessario ricorrere a strategie più sensibili volte a minimizzare l'impatto ambientale dell'architettura in tutte le sue fasi.

↓ Clément, 2016, p. 109

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Data la sconcertante produzione di rifiuti é indispensabile porre particolare attenzione alla scelta dei materiali e delle modalità di costruzione, oltre che a perseguire una politica volta a minimizzare i consumi e il fabbisogno energetico della costruzione. Ad oggi queste dovrebbero essere le priorità nelle scelte progettuali date le condizioni di emergenza ambientale. L'introduzione dei rifiuti come parte attiva dell'intero processo di ideazione, progettazione e costruzione del manufatto, attribuisce ad esso una dignità ed una responsabilità proponendosi come strumento integrativo in termini economici ed ecologici. La scelta del suo impiego si oppone cioé a quella «economia di mercato che […] punta a mantenere inalterato un rapporto uomo/natura fondato sulle logiche del dominio, del profitto e dello sfruttamento delle risorse»; di queste logiche sono esempi immediati i prodotti usa e getta o la strategia dell'obsolescenza programmata adottata per alcuni prodotti. Il riuso dei componenti (rifiuti di ogni genere, materiali e scarti in eccesso, oggetti rotti, eccetera) permette un “rallentamento” del loro ciclo di vita, ritardandone lo stoccaggio in discarica e limitandone la produzione di altri, assecondando quindi la logica dell'economia circolare. In termini economici il loro utilizzo come materiali da costruzione, specialmente di quelli reperibili in loco, permette di mantenere i costi contenuti, evitando l'acquisto dei nuovi che comporta il costo energetico della loro produzione e del trasporto. A tal proposito l'architetto Jan Körbes, che da anni opera assieme al suo studio su Il riuso in risposta alle problematiche ambientali

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3.4.2


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queste politiche ambientali, sostiene che tale approccio possa migliorare e strutturarsi. Nel tempo abbiamo creato una sorta di sistema periodico dei materiali e delle funzioni in modo tale che non solo la prima funzione sia nota, ma lo siano anche le seconda, la terza e così via. L’obiettivo è creare un uso infinito dei materiali attraverso il cambiamento delle funzioni. Il prossimo passo è inventare una sorta di “passaporto dei materiali” per conoscere in anticipo la loro riutilizzabilità e la loro funzione futura.

In questo ambito la ricerca sperimentale degli ultimi anni ha investigato, oltre a quale elemento o materiale impiegare, quale debba essere l'“identità” di questa costruzione da formulare secondo i suoi componenti. Molto curioso per quanto riguarda il carattere biodegradabile – e quindi impermanente – della costruzione é il progetto d'avanguardia Shell Mycelium sviluppato da parte di un team di architetti e di ricercatori e presentato nel 2018 al MAP Project Space Festival di Berlino. Il loro intento é quello di utilizzare il micelio dei funghi per costruire oggetti d’architettura biodegradabile, andando cioé a sviluppare una modalità responsabile che, opponendosi all'uso massiccio

↓ Shell Mycelium

Facendo uso delle altre possibilità d'impiego – nascoste ma insite – dei materiali viene data una risposta immediata a criticità che molto spesso non trovano risposta tramite modalità articolate e dispendiose che restano non concluse o con risultati esigui.

↑ intervista su Abitare

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Il riuso in risposta alle problematiche ambientali

3.4.2


del cemento, predilige un'intreccio fertile tra biologia ed architettura. Il team, oltre a realizzare il prototipo, ha messo per iscritto propositi e capisaldi nel Degradation Movement Manifesto:

ture temporanee a basso costo, non inquinante ed eccezionalmente ecologica. Come il team sostiene, «every living thing should go through a lifecycle and this goes for our shelters as well. the degradation movement in architecture upholds the bio-logic, the logic for a degradable need».

Architecture is a permanent sign in any territory. During major events like the Olympic games, expos, FIFA world cups, multiple structures are constructed. In most of the cases, the structures constructed are permanent, making use of heavy construction material. This approach leads to many practical difficulties in demolition and disposal. Many of the structures are erected as a sign of the prosperity and strength of a nation’s economy and the cities unconsciously pay the price. At the end of the event, after the entire world has danced and celebrated, the city remains a scarred body, devoid of life. The city is ravaged and the ghost town that is left behind takes decades to metabolize. We criticize these unconscious political choices, with living buildings that arise from nature and return to nature, as though they never existed. Si tratta di un’installazione che parte dalla costruzione di una sorta di intelaiatura in legno, coperta di compensato, e cosparsa di micelio che, crescendo in tempo rapido, genera una struttura spessa, solida e resistente. Questa costruzione costituita da funghi cresce assieme ai visitatori del padiglione e si autoestingue alla fine della mostra: ciò che rimane é solo l'esperienza e conoscenza sviluppata al suo interno. Questo approccio sarebbe una soluzione ideale per le strut-

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↑ www.degradationmovement.org

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Il riuso in risposta alle problematiche ambientali

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3.4.3 Metodi di recupero, distribuzione e formazione Nella scelta di praticare il riuso nell’ambito architettonico é da ricordare se questa é condotta perché é una libera scelta tra le tante possibili o l’unica in assenza di altre, e quindi dovuta ad una necessità. Di conseguenza mutano notevolmente anche i connotati di tale esercizio. É sufficiente pensare ad un’amministrazione che sceglie di utilizzare asfalto composto di materiale riciclato invece che di catrame e bitume o ad un contadino che usa i cocci delle tegole come piastrelle per l’aia, ad un cliente che sceglie per la propria abitazione dei feltri isolanti derivati dal riciclo di bottiglie in PET, come ad un senzatetto che ricorre al riuso del cartone come isolante per la sua dimora. Sebbene il riuso é condotto da tutte queste figure, ben diversi sono i modi nei quali avviene. Tra le varie forme di riciclo una sostanziale differenza é che una prevede la lavorazione del rifiuto di partenza per ricavarne un prodotto finale differente – ed in questo ambito la tecnologia ha permesso numerosi progressi – mentre l’altra non comporta una lavorazione ma unicamente un suo diretto reimpiego, suggerito dalle caratteristiche e potenzialità latenti del manufatto allo stato originale. Negli ultimi decenni si é consolidata la pratica del riciclo tramite lavorazione e dell’ottimizzazione dei materiali da costruzione con elevate presta-

zioni, bassi costi di produzione e minore impatto ambientale. Tuttavia parallelamente é continuata a protrarsi quella forma di recupero fai-da-te condotta in maniera diretta, senza ricorrere all’intermediazione di terzi che ne stabiliscono l’utilizzo. Oltre a questa, vi é un’altra differenza: da chi viene svolta tale pratica e quindi come ricorre al recupero effettivo degli scarti. Nella costruzione delle baraccopoli, degli squat, o delle catapecchie poste a fianco degli orti di tutto il mondo, sono solitamente utilizzati rifiuti e componenti di uso quotidiano reperiti nell’immediato circostante. Questi scarti di stessa origine vengono differentemente reinterpretati: uno stesso oggetto assume una varietà di destinazioni in funzione dell’ingegno del costruttore e del contesto in cui viene applicato. Per quanto riguarda la reperibilità dei rifiuti é necessario riconoscere come ci siano differenti tipologie di residui e come questi possono essere ottenuti. Possiamo infatti fare delle distinzioni tra gli scarti occasionali, intendendo quelli trovati in differenti luoghi, “lungo la strada”, senza garanzie sugli stessi, e quelli invece provenienti da depositi o a seguito di demolizioni. Altri ancora possono essere direttamente acquistati da rivenditori, con indicazioni complete riguardo le future applicazioni e proprietà; a questi molto spesso ricorrono figure quali enti pubblici e studi d’architettura.

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C’é una miriade di organizzazioni e di progetti interessanti che portano avanti l’iniziativa di riutilizzare ciò che é erroneamente considerato come inutile ancora prima di essere mandato in discaMetodi di recupero, distribuzione e formazione

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rica o, molto spesso, abbandonato. Come? Occupandosi di facilitare e rendere accessibile tale pratica. Alcuni di questi operano per semplificare l’acquisizione e distribuzione degli scarti e dei rifiuti tramite dei magazzini di stoccaggio ed evitando di reperirli “per strada”. Ad esempio in questo ambito in Italia vi é il progetto Re-biennale che si propone di evitare l’ingente spreco dato dalla demolizione dei padiglioni della Biennale di Venezia recuperandone i materiali al fine di poter reimpiegare gli stessi per sostenere altre iniziative. La produzione di materiale edile di alta qualità impiegato solo per un periodo limitato di tempo, senza prevederne lo smaltimento, vanifica, almeno sul piano concettuale, la sostenibilità dell’evento stesso; la logica, ancora una volta, è solo economica e ha come obiettivo quello di minimizzare i costi massimizzando i profitti e producendo quindi un’enorme quantità di scarti ormai inutilizzabili. L’azione promossa da Re-biennale si occupa invece di stoccare materiale edile di scarto per la progettazione di cantieri sociali, attraverso il coinvolgimento di quante più persone possibili. Tra le varie iniziative sono da ricordare la costruzione di arredo urbano in un giardino pubblico abbandonato, la realizzazione di un padiglione usando gli scarti di quello dell’edizione precedente, workshop e laboratori con università e scuole dell’infanzia. Inoltre, il British Council, gestore nel 2010 del Padiglione Gran Bretagna, ha altresì permesso di partecipare alla progettazione del padiglione stesso, così da applicare concretamente il paradigma della sostenibilità: il risultato, puramente tecnico, ha permes-

so fin dalla fase di progettazione di pianificare lo smontaggio e quindi lo smaltimento differenziato dei materiali edili. Per quanto riguarda altri metodi di stoccaggio e distribuzione di componenti di recupero vi sono compagnie come Rotor DC, Bauschutt ed altre. Veramente innovativa é la piattaforma web opensource Harvestmap sviluppata nel 2013 nei Paesi Bassi dall’architetto Cesar Peeren di Superuse Studios. Questa individua, mappa e mette a disposizione di architetti, designer, artigiani e creativi materiali da costruzione provenienti da demolizioni, prodotti giunti a fine vita, giacenze e stock invenduti, componenti recuperati da dismissioni di edifici, residui della produzione industriale. Harvestmap, basata sui principi della sostenibilità e dell’economia circolare, offre tramite le aziende informazioni, materiali e componenti di ogni genere, in piccole o grandi quantità; tramite una mappa é possibile individuare l’annuncio migliore nelle vicinanze, riducendo quindi le distanze per il trasporto. In questa maniera si cerca anche di arginare alla radice quel processo che, spesso molto rapidamente e senza troppe esitazioni, conduce un elemento a finire in discarica permettendo invece ad esso un nuovo impiego.

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Allo stesso tempo vi sono altri team che si occupano di insegnare a “leggere” le potenzialità degli scarti e saperli “ricombinare”, fornendo quindi strumenti conoscitivi per praticare in miglior modo il riuso. In questi anni la regola delle 3R (riduzione, riuso e riciclo) é ormai una formula insegnata ed appresa fin dalle scuole elementari, Metodi di recupero, distribuzione e formazione

3.4.3


tuttavia nell’ambito delle costruzioni si sta diffondendo una corrente più attenta alle problematiche ambientali e all’inquinamento che propone il loro reimpiego in ambito architettonico. Oltre ai numerosi laboratorio e dibattiti condotti per sensibilizzare ogni figura professionale e non alla sostenibilità cui deve vertere l’architettura, sono aumentate le esperienze di scuola-cantiere. Questi seminari formativi sono sostenuti da numerosi professionisti e collettivi (Critical Concrete in Portogallo, Basurama in Spagna, Refunc e Raumlabor in Germania e tanti altri) con l’intento di insegnare le capacità di saper coniugare costruzione e componente recuperato. Fondamentale é il contributo dell’architetto Michael Reynolds che ha sviluppato una nuova tipologia di abitazione, le Earthship, e che tramite seminari di autocostruzione permettendo la loro costruzione, diffusione. L’insegnamento di queste tecniche costruttive é davvero innovativo in quanto queste particolari abitazioni sono interamente autocostruite, fatte di rifiuti ed indipendenti in quanto non necessitano di alcuna utenza. Richiedono una spesa di costruzione molto contenuta poiché fanno impiego solamente di rifiuti ben precisi e facilmente reperibili (lattine d’alluminio, bottiglie di vetro, pneumatici consumati, terreno, lamiere di vecchie lavatrici eccetera) da riassemblare secondo formule e tecniche assodate dopo decenni di pratica. Altrettanto formativa é stata l’esperienza della Floating University condotta dallo studio Raumlabor. Questa università galleggiante ha avuto luogo nel periodo maggio-settembre 2018

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↓ Earthship

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Metodi di recupero, distribuzione e formazione

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in un location inusuale: l’insieme delle strutture é sviluppato in un bacino per la raccolta piovana, vicino l’aeroporto di Tempelhof nel tessuto urbano berlinese. Qui studenti e professionisti, provenienti da oltre venti università internazionali hanno partecipato alla costruzione delle strutture e creandovi all’interno laboratori transdisciplinari attinenti tematiche quali sostenibilità nella dimensione privata e collettiva, formule di riciclo e recupero nell’ambito della casa e della città. Questa esperienza ha permesso quindi la costruzione e il dispiegamento di concerti, workshop ed altre attività coinvolgendo non solo persone inerenti all’ambito dell’architettura ma a tutti i cittadini essendo aperta al pubblico gratuitamente. Per concludere di seguito é riportata una parte del Manifesto per il boicottaggio dell’architettura scritto dall’architetto F. Hundertwasser nel 1968:

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Floating University ↓

Collaborate affinché siano abrogate le leggi criminali che reprimono l’architettura libera e creativa! La gente ancora non sa che è un suo diritto decidere dell’aspetto tanto degli abiti che porta quanto delle case in cui abita, all’interno e all’esterno. Il singolo architetto costruttore non può assumersi la responsabilità di interi caseggiati, e neppure di una singola casa dove abitano diverse famiglie. È una responsabilità che deve essere lasciata ai singoli, che siano architetti o meno. Devono essere aboliti tutti i divieti previsti dalle norme del genio civile, dai contratti di locazione, ecc. che proibiscono o limitano le modifiche individuali alle abitazioni. Anzi è dovere dello Stato appoggiare e Metodi di recupero, distribuzione e formazione

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sostenere finanziariamente il cittadino che voglia apportare modifiche all’interno e all’esterno della sua casa. L’individuo ha un particolare diritto alla propria “epidermide” architettonica, a una sola condizione: i vicini e la stabilità dell’edificio non devono soffrirne. Ma appunto per questo esistono i tecnici che sanno calcolare tutto così bene.

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Architettura dell’abbandono


La zona è forse un sistema molto complesso di insidie... non so cosa succede qui in assenza dell’uomo, ma non appena arriva qualcuno tutto comincia a muoversi... la zona in ogni momento è proprio come l’abbiamo creata noi, come il nostro stato d’animo...ma quello che succede, non dipende dalla zona, dipende da noi. A questo punto della ricerca, esaminate le quattro tematiche e messe in luce le loro qualità non sempre esplicite, immaginiamo per un momento di poterle considerare assieme, mescolare e vedere cosa ne può venire fuori. I quattro aspetti approfonditi nell’ambito dell’architettura sono: il connotato temporale, il connotato spaziale, le persone e i materiali coinvolti, Il taglio di lettura adoperato ha fatto però emergere non tanto quelli predominanti e consueti, quanto più quelli sperimentali, informali e minoritari. Invece del carattere stabile e sedentario dell’uomo e dell’architettura abbiamo messo in luce quello effimero e nomadico, invece del territorio organizzato secondo maglie e zone funzionali abbiamo osservato i suoi vuoti interstiziali, gli spazi di risulta marginali. Allo stesso modo tra le figure coinvolte nel processo di ideazione e realizzazione del progetto abbiamo soppesato i vari ruoli avvalorando quello del destinatario, così come nella costruzione l’impiego dei rifiuti, dei componenti di scarto e di una loro “riformulazione” libera. Vi é un comune denominatore tra questi aspetti, il fatto di essere marginali, inconsueti, svalutati e quindi anche abbandonati. Questi Ab-

↑ Andrej Tarkovskij, Stalker, 1979

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bandonati tuttavia, come dimostrato nei capitoli precedenti, esistono, hanno valore, ma solo sotto forma di tendenze circoscritte ed informali per il momento. La loro manifestazione sopravvive nel silenzio, invisibile agli occhi di molti, alle modalità egemoni e dominanti. Pare strano il fatto che queste esperienze brillino così poco, sebbene abbiano luce propria; sorge spontaneo domandarsi se la loro luce giunga debole così di per sé o perché offuscata. Per un momento supponiamo che gli Abbandonati, mantenendo la loro radicale alterità, possano rafforzarsi ed esprimersi liberamente; immaginiamo una condizione nella quale venga conferita loro la dignità e rilevanza che meritano, apprezzandone il differente spettro luminoso. Come potrebbe declinarsi l’architettura se ciò che é abbandonato diventasse il protagonista della manifestazione, permettendone quindi un proprio libero divenire? Immaginiamo allora un futuro in ciò avviene, in cui si verifichi un’architettura dell’abbandono del consueto, dell’ortodosso, del predominante, porgendo invece lo sguardo e l’attenzione a favore degli Abbandonati. Per adesso possiamo procedere solo tramite supposizioni e scenari, in quanto non é ancora giunto il momento di tale libera manifestazione. Possiamo partire dalle prime due tematiche, intrecciando il carattere dinamico ed effimero del vivere umano e delle costruzioni nelle quali risiede con il carattere instabile ed impreciso delle aree marginali. La loro interazione a cosa potrebbe dar luogo? Architettura dell’abbandono

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Immaginiamo una rete, una rete costituita di interstizi vuoti nei quali risiede temporaneamente l’uomo, sia esso da solo o con una comunità. Essendo questi luoghi spazi di risulta, la loro presenza é mutevole poiché in relazione ed opposizione al territorio organizzato: laddove oggi vi é un’area interstiziale dismessa un domani può ricadere all’interno di una maglia territoriale, così come dove domani vi é una zona adibita ad una funzione prestabilita, dopodomani può esser abbandonata lasciandovi un “vuoto di significato”. Questi frammenti instabili possono ospitare formule dell’abitare e del risiedere ad essi affini. L’inclinazione caratteriale dei margini accoglie quindi l’attitudine nomadica ed effimera della permanenza umana, il quale vi risiede per un determinato periodo, portandosi dietro la propria costruzione o realizzandone una in loco. L’interstizio muta continuamente morfologia: si crea, estende fino ad un suo massimo, rimpicciolisce e scompare; allo stesso modo ciò avviene per i lembi-ponte che si creano tra i vari spazi interstiziali e che vanno a formare la rete. I vuoti di cui é costituita questa rete vengono colmati temporaneamente, ma in cosa possono declinarsi? E soprattutto ad opera di chi? Per procedere aggiungiamo all’intreccio delle due tematiche anche la terza, quella secondo cui é l’utente finale a plasmare l’ambiente nel quale risiede. La mutazione morfologica degli interstizi, e quindi anche della rete, é accompagnata anche da quella della sua identità in base alla tipologia di persone che vi risiedono. Essendo però la condizione dell’uomo nomadica e l’esistenza dell’area

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marginale anch’essa effimera, la manifestazione che si può declinare al suo interno presenta necessariamente un dispiegamento temporale e spaziale circoscritto. In particolare la sua manifestazione é influenzata dalle trasformazioni dell’interstizio (condizionato a sua volta dalla maglia territoriale) e dalla permanenza dell’uomo. Tuttavia possiamo riconoscere una condizione della manifestazione nell’interstizio caratterizzata da un inizio, una sequenza non prevedibile di crescita, condizione di “travaglio”, picco, decrescita che si conclude poi con una sua fine. L’iter evolutivo di queste “esperienze-picco” non é mai prevedibile in modo preciso in quanto le variabili insite nell’interstizio e di chi lo popola sono sempre differenti. Semplificando, gli episodi effimeri dell’ “espressione umana” nelle aree marginali presentano un inizio, un culmine ed una fine; stabilire però la loro durata ed il mutamento progressivo in maniera più dettagliata non é possibile e generalizzabile: ogni caso é a sé. L’inizio e la fine della manifestazione sono dovuti alla natura stessa del margine e della presenza umana, mentre per culmine (o picco) intendiamo il momento nel quale l’episodio raggiunge la sua massima realizzazione ed espressione. La massima estensione dell’area interstiziale o presenza delle persone in esso non corrisponde necessariamente con il picco d’intensità: questo potrebbe aver luogo anche in una condizione di estensione e densità esigua. Il culmine si verifica semplicemente quando l’identità – e quindi anche lo scopo – della manifestazione raggiunge la massima realizzazione ed é perciò condizionata sopratutto dalla sinergia Architettura dell’abbandono

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tra le parti che la costituiscono. É necessario adesso precisare non tanto quale sia l’identità che assume il vuoto interstiziale colmato, quanto più come essa si possa generare. Come dicevamo siamo all’interno di una rete costituita da vuoti interstiziali, situata tra le maglie del territorio organizzato; fra interstizio ed interstizio si creano e dissolvono i lembi che intessono la rete e che fungono da canali di comunicazione. Con il frammento marginale si instaurano due tipologie di connessione e scambio: una tramite induzione con le maglie ad esso adiacenti, l’altra attraverso i lembi che lo connettono agli altri frammenti. Per mezzo di questi ponti di interazione avviene uno spostamento continuo di persone, manufatti, materiali (ecc.) e dunque anche di conoscenza. L’identità del margine é conferita dall’affluire in esso di questi elementi che, interagendo tra loro, declinano quel “vuoto” secondo un proprio divenire: si struttura dunque per mezzo delle contaminazioni spontanee che in esso si verificano. A seconda di cosa giunge nell’interstizio, sia esso proveniente dal territorio organizzato o da altre aree interstiziali, questo diviene un polo attrattivo per elementi ad essi affini. Il sommarsi spontaneamente di questi al margine può potenzialmente entrare a far parte del suo processo di rigenerazione, delineando in maniere sempre più nitida quale sia la vocazione della manifestazione. Essendo la permanenza di ciò che colma il vuoto di natura effimera, consegue che il suo carattere identitario mantenga una flessibilità adattiva per potersi aggiornare secondo ciò che i ca-

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nali vi conducono: diviene un susseguire di equilibri provvisori. Inoltre in uno stesso frammento impreciso, possono aver luogo la coesistenza di più esperienze, cioè il verificarsi di picchi di diversa identità nello stesso arco temporale. La convivenza e l’intreccio di queste manifestazioni dipende dalla loro reciproca affinità, dalla mutevole simbiosi che si instaura. Il vuoto “di significato” assume quindi un connotato identitario temporaneo, per poi presto o tardi mutare o terminare, riportando perciò il margine nella condizione originaria di abbandono, instabilità ed attesa. La dinamica dell’interstizio percorre un divenire evolutivo autonomo. Per quanto vi sia una continua interazione con il territorio adiacente e con gli interstizi ad essi legato, la realizzazione dell’ “esperienza-picco” necessita di una sua libera declinazione. Solo ciò che “appartiene” al margine riesce a riconoscere in cosa realizzarsi, prendere forma e carattere. É quindi indispensabile che questo mantenga una propria indipendenza organizzativa, che ascolti la sua tensione potenziale e che la faccia convogliare in un’identità definita. Il grado di autonomia deve potersi applicare in ogni scala ed ambito: solamente in questo modo riesce a raggiungere il proprio culmine. A seconda delle persone e dei manufatti che vi giungono per attrazione progressiva, si delinea il metodo progettuale e costruttivo più affine ad essi da poter adottare: la decisione non é stabilita dal territorio organizzato esterno, proviene unicamente dall’area interstiziale. Il ricorso ad un’eventuale assistenza, sia essa organizzativa, progettuale o costruttiva, può avArchitettura dell’abbandono

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venire nel caso venisse richiesta; tuttavia il suo intervento é mantenuto distante dalla tensione decisionale propria del margine. L’iter evolutivo della manifestazione non é intaccata da infiltrazioni non desiderate. Il divenire indipendente della manifestazione si estende quindi anche alla quarta tematica, quella secondo cui ogni tipologia di scarto nella costruzione può essere riuso secondo una sua libera declinazione funzionale. É evidente come l’architettura che così prende forma presenti una propria identità nella quale convogliano gli elementi che “ricadono” all’interno del margine e l’ingegno di chi prende parte alla sua realizzazione combinandoli assieme. Con il mutare dell’interstizio mutano di conseguenza i soggetti ed il costruito in esso presente: l’estetica del margine é quindi espressione dell’identità verso cui é incline. Lo scenario sopra ipotizzato, che propone la realizzazione della “rete” degli Abbandonati, é uno tra i tanti formulabili, in quanto l’entropia di variabili insita in queste dinamiche é elevata e difficilmente prevedibile. Tuttavia qui questa peculiare dinamica degli Abbandonati viene «elevata fino ad ottenere dignità politica», ne viene valorizzata quell’inclinazione nell’essere imprevedibile ed autonoma, la stessa recriminata dal tessuto del territorio organizzato. Emancipati e raggiunta una condizione di rispetto ed accettazione, la manifestazione degli Abbandonati si esprime in «un’area di tempo, di terra, di immaginazione e poi si dissolve per riformarsi in un altro dove, in un altro tempo», dive-

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nendo cioé delle enclavi di libertà temporanee pronte a «saturarsi con il proprio divenire».

↑ Clément, 2016, p. 61 ↕ Bey, 2007, P. 35

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Architettura dell’abbandono

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5 Il progetto-pilota di un centro siderurgico abbandonato



I vuoti interstiziali, nei quali si manifestano le “esperienze-picco”, sono di varia natura (aree abbandonate, spazi di risulta, edifici in disuso ecc.) e si ripresentano in maniera simile o analoga in ogni parte del globo a seconda delle caratteristiche possedute. L’approccio presentato può essere applicato in tutte le categorie di aree interstiziali, da quelle prive di costruzioni a quelle edificate. Per procedere nello sviluppo dello scenario é stata approfondita la tipologia industriale del centro siderurgico nel caso in cui questo fosse in uno stato di abbandono. Destando raccapriccio e discostandosi dall’interesse comune di architetti, burocrati ed amministrazioni, il centro é abbandonato al solo destino di restare un rudere, senza essergli permessa alcuna possibilità di rinascita. E se invece questo venisse recuperato secondo la dinamica indipendente degli Abbandonati? La scelta di prendere in esame il centro siderurgico, con i suoi elementi e strutture tra i più discutibili al fine di ospitare altre funzioni se non prettamente quella di estrazione e lavorazione dei metalli, é quella di esaminare un caso estremo e scoprire come possa esser riconvertito: «evocando cioè qualche prototipo, potremmo essere capa-

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ci di misurare il calibro potenziale del complesso». La morfologia e la distribuzione dei componenti dei complesso (altoforni, capannoni, parchi materiali, depositi, serbatoi, ciminiere ecc.) risultano molto articolati, complessi e molto spesso con un’immagine priva di veste storica e formalismo di superficie: la necessità di rappresentatività é qui soppiantata da una forma dell’edificio che risponde unicamente ai fini utilitaristico-funzionali. Da queste audaci strutture, che con la loro volumetria occupano il territorio e che con le loro altezze misurano il paesaggio, si sviluppano gli scenari di ripristino seguendo un autonomo divenire volto ad ospitare l’effimera presenza umana.

↓ Bey, 2007, p.11

Fare architettura sarà farla scomparire, fare architettura sarà pensare, correre, parlare, comunicare un’idea e così uccidere del tutto una formulazione sbagliata e ritrovare l’architettura e farla forse ancora, perché no. Certamente a quel punto essa non sarà più riconoscibile, sarà scomparsa per riapparire da un’altra parte, sotto altre formulazioni.

↑ Bey, 2007, p.34 ↑ G. Pettena, Architettura da strada o design pigro, inedito, primi anni Settanta

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Per facilitare la comprensione della dinamica di queste manifestazioni possiamo ricorrere alla costruzione di una “storia” che rappresenta uno scenario-tipo meno teorico. A seguito di ciò l’intento é quello di studiare la tipologia industriale del centro siderurgico ed individuare come possa articolarsi assieme questa “storia”, ricavandone cioè l’esempio di progetto-pilota. Chiaramente la declinazione di questo é una tra le tante possibili ed é perciò da intendere a titolo esemplificativo, come un prototipo che non ha nulla di definitivo e che può essere modificato e costantemente migliorato dopo essere “testato” dagli utenti. Questo progetto-pilota funge quindi da antesignano per le manifestazioni attuabili negli altri interstizi, per alimentare la «proliferazione decentralizzata di esperimenti del vivere» all’interno della rete degli Abbandonati. Il progetto-pilota di un centro siderurgico abbandonato

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5.1 Scenario d’attuazione PRIMO EPISODIO In una certa località i giovani del paese erano ormai stanchi della solita routine e dei pochi spazi a loro dedicati. L’assenza di luoghi di svago, dove andare a ballare o semplicemente potersi incontrare o allenare, li spinse a cercare un ambiente nel quale esprimersi. Poco distante dal paesino c’era un enorme complesso industriale abbandonato che fece subito incuriosire i giovani: era un centro siderurgico. Addentrati, iniziarono a fantasticare su come sarebbe stato crearci uno pista in cui allenarsi o ammirare il panorama dalla cima della ciminiera. Una volta imparato dai nonni come fare il cemento alcuni ragazzi cominciarono a costruire delle rampe per lo skatepark mentre altri sistemarono il capannone da trasformare in un club in cui imparare a ballare; per il momento il panorama era solo visibile dalla cima dell’altoforno. Un giorno una carovana di circensi, attratta dal quelle ciminiere e dal via vai degli skater, aveva fatto sosta. Essendo in anticipo con le tappe ed in simpatia con i giovani restarono un po’ ad aiutarli. Assieme recuperarono le ciminiere per costruirci un parco-avventura ed osservare il paesaggio.

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L’habitat giocoso di quel centro era ormai un punto di ritrovo per tutta la comunità locale, ospitando anche concerti e competizioni. Dopo qualche anno però, quei giovani cresciuti sentivano il bisogno di dedicarsi ad altro e l’esperienza perse vigore fino a lasciare la fabbrica in uno stato di abbandono. SECONDO EPISODIO Arrivarono gli anni della crisi e molti abitanti del luogo, non riuscendo a fronteggiare la situazione, finirono sul lastrico, abbandonati ed in cerca di un riparo. Alcuni di loro sostarono nel raccapricciante centro siderurgico e, senza capacità costruttive, improvvisarono delle dimore. Altri senzatetto giunsero dai paraggi e le disordinate baracche, fatte per lo più di rifiuti, iniziarono a prender forma anche all’interno dei serbatoi o di capannoni. Per fortuna proprio lì fecero tappa dei migranti diretti verso la frontiera. Costoro, abili costruttori e ricchi di inventiva, insegnarono ai senzatetto le loro tecniche tradizionali: le dimore divennero più sicure ed accoglienti, sebbene sorgessero appese alle capriate o dentro l’altoforno. Il lavoro collettivo fece crescere un senso di comunità con i migranti che decisero però di proseguire oltre. I senzatetto, ormai vicini di “quartiere”, per aiutarsi reciprocamente iniziarono dei corsi di autocostruzione, diffondendo le tecniche apprese Scenario d’attuazione

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e trasformarono le sale macchine in degli spazi espositivi. Tramite l’autofinanziamento migliorarono così piano piano la loro condizione. Non appena si concluse la crisi economica, dal lastrico le persone riuscirono a risollevarsi completamente e tornare alla quotidianità, lasciando inabitato quel quartiere spontaneo. Tornato abbandonato, chissà quali altre iniziative il centro siderurgico sarà pronto ad accogliere.

5.2 Il centro siderurgico: descrizione del sito

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Individuate così quali possano essere le possibilità latenti di questi enormi complessi industriali bisogno comprendere quale siano le parti che li costituiscono, la loro reciproca disposizione ed il funzionamento. Il centro siderurgico è un centro di lavorazione dove il minerale di ferro viene trasformato in ghisa e successivamente in acciaio. Questi stabilimenti vengono detti a ciclo integrale quando le fasi del ciclo produttivo sono in continuità, partendo dal minerale grezzo e giungendo al prodotto finale. Si definisce invece a cicli separati quando le fasi di lavorazione sono suddivise in diverse fabbriche, trasformando progressivamente il prodotto in altri luoghi e momenti. Solitamente la produzione è continua ed ininterrotta su tempi lunghi: la durata del ciclo integrale è di circa 20 anni e l’altoforno sta in funzione per 7 anni ininterrottamente. Solo dopo questo periodo viene spento per poter effettuare lavori di manutenzione, rinnovando le pareti in acciaio e il materiale refrattario presente all’interno dell’altoforno. Con il passare degli anni sono stati introdotti nuovi procedimenti di lavorazione e strumentazioni più efficienti, anche al fine di ottenere un minore impatto ambientale, come ad esempio il processo Corex che non richiede l’utilizzo del coke, la cui produzione é fortemente Il centro siderurgico: descrizione del sito

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inquinante. Ad oggi in Italia, come nel resto del mondo, non vengono più realizzati nuovi altiforni a causa del passaggio da ciclo integrale a ciclo rottame, che fa invece impiego del forno elettrico ad arco. La progressiva e radicale evoluzione impiantistica e tecnologica dei centri siderurgici ha reso discutibile se non addirittura obsoleta la tipologia di stabilimento con l’altoforno; tuttavia é proprio questa ad essere presa in analisi in quanto ancora la più tipica e diffusa. Le principali fasi per la produzione dell’acciaio possono essere così suddivise: Preparazione dei materiali e produzione della ghisa nell’altoforno; Trasformazione della ghisa in acciaio; Produzione dei semilavorati (bramme, blumi, billette) e dei prodotti finiti laminati.

Il centro siderurgico: descrizione del sito

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5.2.1 Preparazione dei materiali e produzione della ghisa nell’altoforno

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I minerali necessari per la produzione di ghisa madre nell’alto forno sono il fondente, il carbone ed il minerale di ferro. Questi sono depositati nei parchi materiali, ovvero vaste superfici all’aperto o coperte destinate allo stoccaggio, solitamente poste al ridosso di porti o scali ferroviari dove giungono in grandi quantità le materie prime. Da qui vengono trasportate per lunghe distanze tramite nastri trasportatori e carri tramoggia verso l’altoforno. Prima di preparare le cariche da inserire all’interno é necessario trasformare il carbone in carbon coke all’interno della cokeria, un’impianto con dei forni in cui avviene la raffinazione, e preparare le materie prime tramite vari trattamenti (frantumazione, arricchimento, frantumazione e arrostimento). Le cariche di minerali, fondente e coke, tramite dei carrelli trasportatori, vengono introdotte, a strati alterni e ad intervalli regolari, nelle tramogge della bocca di carico dell’altoforno. Con un sistema a doppia campana la carica viene inserita all’interno dove si autosostiene sulla precedente; impiega circa 8 ore per uscire dal crogiolo alla base sotto forma di ghisa liquida.

Preparazione dei materiali e produzione della ghisa nell’altoforno

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L’altoforno é un forno a tino, la cui forma è cost ituita da due tratti troncoconici uniti in corrispondenza della loro base maggiore: il “tino” costituisce il cono superiore, la “sacca” il cono inferiore e nel centro una sezione cilindrica detta “ventre” li unisce. Alla sommità vi é poi la bocca per l’ingresso delle cariche e l’uscita dei fumi mentre alla base abbiamo il crogiolo dove si deposita il bagno di fusione. L’altezza complessiva del corpo (vano) del forno va da 8 metri a 40 metri, mentre l’altezza complessiva di tutta la sovrastruttura di servizio attorno va da 50 metri a 100 metri, altezza massima raggiunta dai tubi di captazione e convogliamento dei fumi d’altoforno. La struttura del forno è costituita esternamente da una corazza di acciaio speciale, rivestita internamente da mattoni refrattari su un sostrato di cemento refrattario. Le pareti più sollecitate termicamente sono raffreddate internamente da scambiatori di rame raffreddati, a loro volta, da acqua che li percorre internamente. Per raggiungere la temperatura di fusione la combustione nell’altoforno é alimentata per mezzo del “vento caldo”, cioè insufflando aria calda continua alla quale può essere addizionato ossigeno, attraverso una corona di tubi ed ugelli in corrispondenza della sacca del forno. Qui si ha ferro puro a contatto del carbonio e, per mezzo della carburazione, si ha gocciolamento di ghisa liquida nel crogiolo. Oltre a questa sul bagno di fusione si ottengono anche delle scorie dette “loppe” che si separano dalla ghisa restando “a galla” a causa della diversa massa volumica. In modo intermittente ad intervalli regolari dal crogiolo vengono spillate, attraverso Preparazione dei materiali e produzione della ghisa nell’altoforno

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delle aperture a differente altezza, la loppa e la ghisa fusa. Una parte minore può essere fatta colare negli stampi per produrre i cosiddetti pani di ghisa e costituisce la ghisa di prima fusione destinata alle fonderie. Occasionalmente sono ricavati semiprodotti di ghisa tramite sistemi di colata continua ma di norma la maggior parte viene subito trasportata fusa all’acciaierie.

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L’altoforno ha come scopo la produzione della ghisa madre ma produce anche due sottoprodotti: il gas povero e le loppe. Si tratta di un gas combustibile e di un materiale entrambi piuttosto poveri, ma le grandissime quantità prodotte inducono molto spesso al loro recupero e utilizzo. Il gas povero, tramite i tubi di captazione posti sulla sommità dell’altoforno, viene indirizzato verso depuratori con sistemi di vario tipo che ne rimuovono i fanghi e le polveri, successivamente raccolte con le altre scorie. Una volta filtrato, il gas combustibile viene rimesso in circolo all’interno del centro siderurgico, utilizzandolo principalmente nei ricuperatori Cowper per il riscaldamento del “vento caldo” da immettere nell’altoforno o verso altre destinazioni (centrale termica dello stabilimento per produrre vapore o energia, forni di riscaldo di cokeria o del laminatoio). I ricuperatori (o torri) di Cowper sono degli scambiatori di calore che permettono di recuperare una parte del gas in uscita dall’altoforno che, addizionato di altri gas provenienti dalla cokeria o dall’acciaieria, viene bruciato per cedere il calore ai mattoni refrattari presenti all’interno della torre durante la fase di riscaldamento. Il gas esausto, Preparazione dei materiali e produzione della ghisa nell’altoforno

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ormai privo del calore rilasciato ai mattoni, viene indirizzato verso la ciminiera per l’espulsione. Una volta raggiunta la temperatura voluta all’interno del ricuperatore, il ciclo viene invertito e l’impilaggio rilascia quindi il calore all’aria introdotta per essere poi insufflata nell’altoforno. I ricuperatori si usano almeno a gruppi di tre, in quanto la fase di riscaldamento dura 60 minuti e la fase di raffreddamento 20 minuti; avvicendando le tre torri si può ricavare un riscaldamento costante dell’aria. I ricuperatori hanno forma cilindrica, sono alti più di 20 metri e larghi più di 5, sono chiusi da una cupola semisferica sulla sommità e da un basamento in calcestruzzo. La struttura, rivestita all’esterno di lamiera, presenta all’interno due camere verticali a pozzo connesse, di cui una é riempita di speciali refrattari con la massima superficie di contatto ai gas in transito e nell’altra adiacente avviene la combustione dei gas. Dalle torri di Cowper e dagli altri impianti provengono degli aeriformi di scarto che sono da rilasciare nell’ambiente tramite dei camini particolari: le ciminiere. Queste sono elementi verticali molto alti che, per “effetto camino” disperdono in lontananza gli scarichi aeriformi. La struttura cilindrica si rastrema verso la sommità mentre il diametro varia secondo la portata dei fumi; l’altezza può raggiungere le centinaia di metri. Il numero di ciminiere presenti in uno stabilimento dipende dalle necessità dell’impianto e possono essere costruite in elementi d’acciaio o in mattoni; presentano inoltre scalette e ballatoi esterni per la manutenzione. Preparazione dei materiali e produzione della ghisa nell’altoforno

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Solitamente all’uscita dell’altoforno le loppe vengono trasformate in granuli raffreddandole bruscamente tramite un getto d’acqua. Successivamente, insieme alle altre scorie dell’impianto, vengono inviate in fabbriche dislocate per ottenere diversi prodotti tra cui il cosiddetto cemento d’altoforno o cemento Portland. Per il funzionamento degli impianti e delle fasi di lavorazione sono quindi necessari anche delle condutture e dei serbatoi per la circolazione di liquidi, quali l’acqua ad esempio. I serbatoi sono impiegati negli impianti di approvvigionamento e di distribuzione con funzione di compenso, per sopperire alle variazioni di richiesta della rete, oppure di riserva quando venga interrotto l’afflusso dalle condotte adduttrici di alimentazione. La forma puó essere parallelepipeda o cilindrica, sono costruiti in ferro, in muratura o in cemento armato; possono essere aperti, interrati o pensili a seconda anche del dimensionamento e del liquido contenuto.

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Per essere trasportate, la loppa e le altre scorie che si formano in tutti i processi di trattamenti delle leghe ferrose allo stato liquido, sono raccolte nelle siviere, ovvero in particolari recipienti, e spostate tramite dei carro-ponte all’interno dei capannoni o nel caso di lunghe distanze su dei binari nei carro-siviera o carri-siluro. Le scorie non riutilizzabili vengono raffreddate prima in degli stampi o direttamente colate in delle discariche a cielo aperto facendo uso dei carri siviera, paiole o di particolari macchine su gomma. Il centro siderurgico quindi, oltre ad ospitare Preparazione dei materiali e produzione della ghisa nell’altoforno

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altiforni, torri di ogni genere e depositi di materiali, necessita di numerose strutture per il trasporto dei prodotti, come le condutture il cui diametro varia secondo la portata dei fumi contenuti, carri-ponte all’interno dei capannoni, binari per il trasporto tramite carri ferroviari, e di strutture in muratura o capannoni per proseguire le lavorazioni ospitando all’interno i macchinari ed impianti necessari al funzionamento.

Preparazione dei materiali e produzione della ghisa nell’altoforno

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5.2.2 Trasformazione della ghisa in acciaio

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La ghisa fusa viene spillata dall’altoforno in unità definite dalla capienza dei carri-siluro per essere trasportata, tramite questi, su lunghe distanze attraverso un trasferimento su binari, fino all’acciaieria. Questa tipologia di carro ha la forma simile ad un ellissoide, al centro ha una stretta apertura che permette il versamento e di mantenere lo stato fluido evitando la dispersione di temperatura. La cavità presenta mattoni refrattari disposti all’interno del guscio di lamiera d’acciaio. É montato su carrelli ferroviari solamente alle due estremità lungo l’asse orizzontale tramite perni che ne permettono la rotazione. Una volta arrivata all’acciaierie, la ghisa fusa viene travasata dal carro-siluro in una siviera che è a sua volta trasferita al convertitore con carroponti a doppio argano per permetterne il rovesciamento. La siviera é un recipiente che serve per raccogliere il metallo fuso, spostarlo e versarlo da una fase di lavorazione alla successiva, ha la forma di una grande secchia e può aver diverse dimensioni. Nei centri siderurgici sono capaci di trasportare sino a 400 tonnellate di metallo e vengono movimentate e manovrate tramite carroponte o con appositi carri. Le più piccole raccolgono il metallo spillato dal cubilotto, il forno fusorio utilizzato nelle piccole fonderie, e si manovrano a mano tramite lunghe aste che fungono Trasformazione della ghisa in acciaio

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da manici. É costituita da un involucro di robusta lamiera rivestito internamente da materiale refrattario ed il travaso del metallo contenuto avviene attraverso un becco posto sul bordo superiore o, meglio, tramite uno scaricatore che apre un foro di efflusso posto sul fondo. Il refrattario delle siviere, come quello dell’altoforno o del convertitore, è soggetto a fenomeni di usura ed attacco chimico da parte delle scorie. Consta di uno strato di sicurezza e di uno strato di lavoro, che deve essere frequentemente controllato e riparato. All’interno dell’acciaieria, costituita da uno o più capannoni affiancati, disposti ad assi longitudinali paralleli e liberi da ostruzioni, il flusso dei materiali per la fabbricazione dell’acciaio liquido e la sua successiva colata si svolge trasversalmente ai vari capannoni. É necessaria quindi la presenza di siviere in grado di spostarsi orizzontalmente da una campata o da un capannone all’altro, in genere su linea ferrata, e verticalmente nell’interno di una stessa campata per mezzo di carriponte. Questo é un tipo di gru a portale, costituito da un sistema a trave (lunga quanto la campata se all’interno del capannone) che scorre su due binari posti in quota (movimento longitudinale); sul ponte scorre un carrello (movimento trasversale), munito dell’argano che permette il terzo movimento, lo spostamento in verticale della siviera contenente il metallo fuso. La campata dei convertitori si sviluppa in altezza per la presenza a diverse quote di elementi, cappe ed impianti mentre al disotto dei convertitori vi è una rete di binari trasversale, sulla quale

si muove il carro che porta la paiola destinata a ricevere le scorie e un altro carro destinato a ricevere e trasferire la siviera di colata dalla zona sottostante il convertitore sino alla campata per il colaggio dell’acciaio. I procedimenti di fabbricazione dell’acciaio sono tutti essenzialmente discontinui, trattano quantità più o meno grandi, ma sempre limitate in ciascun ciclo, in ciò differenziandosi dal processo dell’altoforno. La fabbricazione dell’acciaio liquido si svolge nei convertitori o nei forni di acciaieria secondo diversi procedimenti, come ad esempio il forno elettrico ad arco; solitamente vedono l’apporto alla ghisa liquida anche di rottame o di ghisa solida. Alla fine di tali operazioni la quantità di acciaio e la scoria prodotta viene colata tutta in una volta in una siviera per le successive lavorazioni. Dopo un’eventuale rapida riparazione di quelle parti del rivestimento refrattario che lo richiedono si iniziano le operazioni per la fabbricazione della colata successiva. Ci sono varie tipologie di convertitori, tra cui il Martin-Siemens, Bessemer, Thomas-Linz Donawitz (L.D.). Molti di questi sono un recipiente quasi cilindrico di grandi dimensioni, formato da un involucro in lamiera d’acciaio e rivestito interamente da mattoni refrattari, il cui svuotamento é permesso dalla rotazione su due perni. La dimensione varia a seconda del tipo e della capienza: nel caso Bessemer ad esempio la forma é a pera ed ha un’altezza di 4-6 metri ed un diametro di 3-4 metri. I convertitori L.D. sono i più impiegati in quanto permette un basso costo e un procedimento abbastanza rapido; l’altezza del recipiente Trasformazione della ghisa in acciaio

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va dai 6 ai 12 metri con un diametro fino agli 8 metri ed é aperto in alto per consentire di immettere, tramite una lancia, un getto di ossigeno. Questo legandosi con il carbonio, si trasforma in anidride carbonica ed essendo diminuita la concentrazione di carbonio presente nel bagno la ghisa diventa acciaio. Sia la ghisa che l’acciaio sono infatti leghe formate da ferro e carbonio. Nella ghisa però la percentuale di carbonio è superiore al 2,06, fino al 6,67%, mentre nell’acciaio varia dallo 0,1% all’1,9%. Una volta ottenuto l’acciaio liquido questo viene colato dal convertitore all’interno delle siviere per essere condotto verso altre aree per le successive fasi di lavorazione e l’ottenimento dei sottoprodotti. La ghisa spillata dall’altoforno non utilizzata in acciaieria viene fatta solidificare in pani e venduta alle fonderie dove la sua applicazione primaria è la colata di getti di dimensioni da pochi kg fino a varie tonnellate. Le fonderie, molto diverse per dimensioni e per specializzazione, devono provvedere alla fusione del metallo, alla sua messa a punto compositiva ed al trasferimento del fuso alla linea di colata. I forni di fusione sono di vario tipo ma rientrano in due categorie: quelli elettrici e quello a carbone detti cubilotto o forno a manica. Questo è strutturalmente simile ad un altoforno ma di dimensioni ridotte che non superano i 10 metri d’altezza; inoltre il funzionamento differisce solo per pochi aspetti, tra cui il fatto di essere discontinuo, con cicli di riscaldamento del forno, immissione e fusione della carica e spegnimento nell’arco di una giornata. La carica é costituita da ghisa in pani, rottami, ferroleghe, fondenti e car-

bon coke e una volta raccolta la ghisa fusa nel crogiolo del cubilotto, viene separata dalla scoria e trasferita in siviera per il colaggio nelle forme.

Trasformazione della ghisa in acciaio

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5.2.3 Produzione dei semilavorati (bramme, blumi, billette) e dei prodotti finiti laminati Sempre all’interno del capannone dell’acciaieria, ma adiacente e parallela alla campata di carica ed a quella dei convertitori, si sviluppa la campata di colata. Questa é servita da carroponti per la colata dell’acciaio nelle lingottiere, nelle macchine di colata continua, o nelle forme, nel caso che l’acciaio sia destinato alla produzione di getti. S’impartisce così all’acciaio all’atto della solidificazione, la forma più opportuna per gli ulteriori impieghi e lavorazioni cui è destinato. Se l’obiettivo finale è la produzione di un semilavorato, la solidificazione avviene con tre tecnologie: colata continua colata in lingotti colata in getti Attualmente si sono completamente affermati i procedimenti di colata continua che consentono il diretto ottenimento di semiprodotti da destinare ai treni di laminazione, in sostituzione al colaggio tradizionale dei lingotti. I processi di colata continua restituiscono in parte continuità all’intero processo, potendosi assommare due o più colate in un unico semiprodotto. Il sistema del colaggio in colata continua si

basa sul principio di colare con continuità e senza interruzioni fino al completo svuotamento della siviera, tutto l’acciaio liquido, trasformandolo nel corso della solidificazione in semilavorati di sezione appropriata, tali da poter essere destinate direttamente ai treni di laminazione finitori. Una paniera, rivestita in refrattario con una capacità compresa tra le 10 e 80 tonnellate, riceve il getto di acciaio che cade dalla sovrastante siviera e mantiene un deflusso regolare e controllabile dell’acciaio liquido alla sottostante lingottiera. Nel caso di macchine a più linee disposte in parallelo ha anche il compito di ripartire l’acciaio fra le diverse linee. A seguito di raffreddamenti progressivi la barra estratta per gravità, dopo meno di un minuto dalla lingottiera, viene opportunamente sostenuta e guidata per lo più da un sistema di rulli di appoggio. Seguono quindi i cilindri motorizzati per il raddrizzamento e per spingere la barra nei dispositivi per il taglio e per l’evacuazione dei pezzi, pronti per il successivo raffreddamento dell’anima interna. La linea di colata continua alimenta così il laminatoio a valle con una portata che è condizionata dalla difficoltà di aumentare la velocità di raffreddamento. Per quanto riguarda la colata in lingotti questa si ottiene versando l’acciaio allo stato liquido in una lingottiera, una matrice di forma genericamente a tronco di piramide o di cono ad asse verticale. Le dimensioni dei lingotti ottenuti e la forma della sezione orizzontale sono determinate principalmente dal tipo, dalle dimensioni e dalla potenza degli impianti di laminazione o di fucinatura in cui essi vanno lavorati, variando da pochi Produzione dei semilavorati e dei prodotti finiti laminati

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chili a più di dieci tonnellate. Dopo la solidificazione del lingotto, questo viene estratto dalla lingottiera (slingottamento) ed avviato alle successive lavorazioni come la fucinatura, o lo sbozzato che segue poi la linea dei prodotti di colata continua. Come nel caso della ghisa liquida, anche l’acciaio liquido vede una sua parte, quantitativamente modesta, destinata alla fabbricazione dei getti in acciaio che opera direttamente sul passaggio liquido/solido ed è localizzata nelle fonderie, stabilimenti siderurgici dedicati in genere dislocati e non a valle di un ciclo produttivo integrale. Le fonderie di acciaio sono caratterizzate da lavorazioni in piccola o in piccolissima serie, di pezzi anche di grandi dimensioni ed a causa degli elevati costi per la realizzazione delle forme e della difficoltà di colaggio dell’acciaio rispetto alla ghisa, la produzione è limitata ad alcune applicazioni caratteristiche. I semilavorati sono caratterizzati da sezioni rette di vario tipo, ma di dimensioni costanti e possono essere fabbricati da lingotto, con successive lavorazioni per deformazione plastica a caldo, o direttamente dal metallo liquido, cioè per colata continua. Indipendentemente dal tipo di acciaio utilizzato si ottengono i seguenti semilavorati: billette e blumi per la fabbricazione dei prodotti lunghi, profilati e travi, bramme per la fabbricazione delle lamiere e dei lamierini sottili in rotoli, ciascuno di questi categorizzati secondo precise forme e dimensioni. Una volta ottenuto il semiprodotto questo può ricevere differenti lavorazioni, come la fu-

cinatura o la laminazione a caldo, a seconda di quale sia il prodotto finale voluto. Questi sono caratterizzati da sezioni rette costanti, forme e dimensioni con tolleranze ben definite, superfici tecnicamente lisce. Solitamente prima di sottoporre i prodotti semilavorati a lavorazioni per deformazione plastica é necessario riscaldarli nello stabilimento tramite varie tipologie di forni, ad esempio a pozzo, a spinta a suola mobile. Dopodiché vengono trasformati in lamiere, tubi, o profilati all’interno del laminatoio. Questo é formato dal treno di laminazione, cioè un’insieme di gabbie dove ciascuna presenta una coppia di cilindri rotanti equidistanti, rotanti successivamente sempre a maggiore velocità, mano a mano che il manufatto si assottiglia e si allunga. La gabbia ne permette il moto rotatorio, gli aggiustamenti sulle luci e garantisce lo scarico delle sollecitazioni che dal pezzo sono esercitate sui cilindri. Altri laminatoi producono anche tubi secondo due metodi: se di grosse dimensioni sono ottenuti piegando le lamiere e saldandole, se di piccole dimensioni sono ottenuti forando delle barre tonde. La forgiatura o fucinatura prevede la trasformazione per deformazione plastica di pezzi metallici a sezione varia, solitamente portati ad una temperatura tale da ottenere condizioni di maggiore plasticità e lavorati quindi con ripetuti colpi di un maglio o una pressa. Progressivamente viene mutata permanentemente la forma del pezzo, senza ricorrere alla fusione e senza portarlo a rottura. Il materiale di partenza è, di solito, un lingotto o una billetta ed il pezzo finito deve avere in genere un’ulteriore lavorazione, tipicamente Produzione dei semilavorati e dei prodotti finiti laminati

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alle macchine utensili, per ottenere una buona finitura superficiale. A seguito quindi delle lavorazioni plastiche sopra riportate si ottengono prodotti finali di vario genere come nastri coils, lamiere, lamierini, travi, profilati, tubi o tondini. Ciascuno di questi é frutto di tutte quelle lavorazioni che partendo dai parchi delle materie prime, passando nell’altoforno e nell’acciaierie, ha preso forma tramite i getti o le lavorazioni plastiche.

Produzione dei semilavorati e dei prodotti finiti laminati

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5.3 Abaco di recupero secondo lo scenario-tipo Una volta proposto uno scenario-tipo di dinamica dell’interstizio nel caso di un centro siderurgico dismesso ed analizzate le componenti di questo ultimo, vediamone una diretta applicazione. Innanzitutto il sito campione preso in esame é il centro Sloss Furnaces, situato a Birmingham, nello stato dell’Alabama (U.S.A.), riconosciuto come landmark storico-nazionale. Sebbene in questo momento il complesso risulta esser stato musealizzato e ospitare funzioni a scopo didattico, lo consideriamo in una condizione antecedente a tale ripristino, quando é ancora dismesso ed in uno stato di abbandono. La collocazione, la valenza storica e la situazione odierna in cui esso si presenta non ha rilevanza ai fini di questa ricerca in quanto serve unicamente a rappresentare un centro siderurgico “generico” nel quale applicare lo scenario. É stato scelto lo Sloss Furnaces poiché é uno dei rari centri con un dettagliato archivio disponibile: la documentazione grafica, fotografica e testuale (antecedente agli odierni interventi) é stata reperita tramite il sito ufficiale del centro e il sito della Library of Congress. Inoltre questo complesso industriale é costituito di gran parte dei componenti descritti nel capitolo precedente (5.2) e risulta quindi idoneo per svilupparne un progetto-pilota. Anche se di seguito sono sta-

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bilite delle funzioni specifiche per ciascun componente del sito, é da tenere a mente che tali destinazioni d’uso rispondono all’applicazione di questo scenario-tipo (5.1); potrebbero infatti declinarsi liberamente secondo altri usi: l’imprecisione e l’instabilità é proprio ciò che caratterizza gli Abbandonati. I principali componenti presenti nel centro Sloss Furnaces sono i seguenti, così raggruppati: A) Componenti con sviluppo verticale: due altoforni; dodici ricuperatori Cowper; dieci ciminiere per i fumi esausti; depuratori gas raccogli polveri verticali; serbatoi per l’acqua; sei caldaie; B) Componenti voluminosi “a scatola”: capannoni per la colata; sala macchine con macchine soffianti; sala macchine con generatori di corrente; sala tecnica per umidificazione aria; torri di raffreddamento; edifici di stoccaggio; C) Componenti estesi all’aperto: parco materiali con binari e tunnel per preparazione carica; due depositi scorie; bacino di decantazione; vasche di raffreddamento;

Abaco di recupero secondo lo scenario-tipo

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D) Componenti macchinari: depuratori gas orizzontali; carrelli di caricamento della carica; nastri trasportatori; condutture; carro-siluro (portata 125 tonnellate); due macchinari con tramogge per modellamento scorie; macchine per trasporto scorie; scavatore per movimentazione scorie; Analizziamo di seguito, categoria dopo categoria, solo quelli più esemplari e utili per l’applicazione dello scenario-tipo. A seguito di una breve descrizione di ogni componente se ne ipotizza le sue declinazioni distinguendole nei due episodi: il primo di carattere ludico-ricreativo, il secondo più di carattere “abitativo”.

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CATEGORIA A ALTOFORNO L’altoforno é costituito da due tratti troncoconici uniti per la base maggiore; presenta un’apertura sulla sommità e due piccole “bocche” alla base per l’uscita della ghisa fusa e delle scorie. In questo sito l’altezza massima del vano interno é di 25 metri mentre quella complessiva esterna, comprendente la sovrastruttura, di 40 metri; la larghezza massima in prossimità del ventre raggiunge circa gli 8 metri. Le pareti del forno sono rivestite esternamente da lamiera d’acciaio mentre l’interno da mattoni refrattari; condutture e ballatoi si sviluppano esternamente al forno mentre su di un lato é posta la pista dei carrelli trasportatori. Destinazione di riuso secondo lo scenario-tipo: → Primo episodio L’altoforno può essere vissuto sia internamente che esternamente. Per potervi accedere é necessario creare un varco d’ingresso alla base allargando una delle “bocche” e alla sommità da dove solitamente entra la carica. All’interno la superficie più ampia é in prossimità del ventre: qui può esservi creata una pavimentazione per accogliere un maggior numero di persone. Sulle pareti possono essere rimossi porzioni di materiale refrattario e lamiera per crearvi delle finestre. In questo spazio può esservi installato l’ “angolo-bar” del Abaco di recupero secondo lo scenario-tipo

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club, oppure possono essere installate luci e impianto stereo per crearvi una piccola pista da ballo e, dato lo slancio verticale del forno, ospitare anche esibizioni di acrobati con i tessuti aerei. Questi vi accedono provenendo anche dalla sommità: esternamente sono presenti, oltre alle scalette e ai ballatoi addossati alle pareti, anche i carrelli per le cariche che, opportunamente convertiti, possono accogliere le persone e far raggiungere la cima direttamente dal livello del terreno. Qui vi é un ampio ballatoio, ottimo per farvi una terrazza panoramico in cui fare dichiarazioni o semplicemente gustarsi un aperitivo. → Secondo episodio Essendo la pianta dell’altoforno circolare, all’interno può esservi creata una “sala riunioni” per raccogliere in assemblea coloro che risiedono temporaneamente nel centro. Vi ci accede da un’apertura della sacca mentre il ripiano dove sedersi in cerchio a discutere é all’altezza del ventre dell’altoforno. Qualora i partecipanti fossero numerosi questi trovano posto a sedere sui ballatoi costruiti sulle pareti interne del tino. RICUPERATORI COWPER I ricuperatori sono degli scambiatori di calore che si usano almeno a gruppi di tre. Hanno forma a torre cilindrica, chiusa sulla sommità da una cupola emisferica e solitamente sono

alti 25 metri e larghi 6. La struttura esterna é in lamiera d’acciaio mentre all’interno vi sono due camere verticali a pozzo connesso, di cui quella più ampia riempita di mattoni refrattari. Destinazione di riuso secondo lo scenario-tipo:

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→ Primo episodio Essendovi dodici ricuperatori nel sito, ciascuno di questi può ospitare differenti funzioni. Innanzitutto é da aprire un varco alla base e alla sommità, modificare l’assetto delle due camere per potervi o mantenere uno spazio ininterrotto fino alla cupola o crearvi vari piani all’interno. Sulle pareti possono essere create aperture e ballatoi, oltre che a scalette per raggiungere la cima o la base. Una parte di questi ricuperatore potrebbe diventare una differente pista da ballo con decorazioni, atmosfere e musica secondo il genere musicale della serata; inoltre data la loro collocazione potrebbero essere comunicanti tramite le passerelle esterne. Altri potrebbero invece esser privi dei ripiani interni per permettere una maggiore flessibilità, diventando cioè luoghi idonei per crearvi una palestra di arrampicata indoor oppure un luogo di allenamento per giocolieri, atleti ed acrobati. → Secondo episodio Questi grandi “cilindri” possono essere convertiti in abitazioni: una volta rimossi gli ostacoli interni possono esser suddivisi Abaco di recupero secondo lo scenario-tipo

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in più piani su cui sviluppare ciascun nucleo. Inoltre ciascun ripiano può estendersi anche sulle pareti esterne creando balconi ed “escrescenze” abitabili. Nel sito vi sono dodici ricuperatori e dato che ciascuno di questi riesce ad ospitare almeno 4 nuclei, si possono considerare come delle residenze verticali affiancate. Tra queste si possono sviluppare un intreccio di passerelle, scalette, ponticelli e terrazzi per favorire l’ incontro e il dialogo tra i “condomini”. DEPURATORI GAS VERTICALI Vi sono varie tipologie a seconda del sistema di depurazione; solitamente ci sono prima quelli verticali per i fanghi e per le polveri. Il corpo di questi ha forma cilindrica, si restringe alla base e alla sommità ed é rialzato da terra tramite una struttura a pilastri; le dimensioni possono raggiungere anche i 6 metri di diametro e 10 di altezza. Presenta aperture per l’ingresso e l’uscita dei gas in cima e per le scorie sul fondo. Le pareti sono in lamiera e possono presentare esternamente ballatoi e passerelle per eventuali manutenzioni. Destinazione di riuso secondo lo scenario-tipo: → Primo episodio Data la dimensione più contenuta di questi contenitori, all’interno possono risiedervi poche persone: tramite un’apertura sul fianco vi si può accedere e, rimossi gli intralci, arredarlo per crearvi un’area chillout. All’interno di un caotico club con piste

da ballo affollate é necessario una zona tranquilla in cui riposarsi.

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→ Secondo episodio Avendo questi una forma più ostica all’interno possono esservi arrangiate delle dimore nelle quali pernottare. Tuttavia con opportune rielaborazioni anche questi possono trasformarsi in ripari accoglienti dal carattere singolare. CIMINIERE Le ciminiere sono elementi verticali cilindrici che si rastremano verso la sommità, il diametro varia secondo la portata dei fumi mentre l’altezza può raggiungere le centinaia di metri. Il numero di ciminiere dipende dalle necessità dell’impianto e possono essere costruite in elementi d’acciaio o in mattoni; presentano scalette e ballatoi esterni per la manutenzione. Destinazione di riuso secondo lo scenario-tipo: → Primo episodio Essendovi numerose ciminiere nel sito con differenti altezze queste risultano il luogo idoneo da convertire in un parco-avventura: scalette e ballatoi appesi alle pareti permettono di accedervi fino alla sommità mentre carrucole, passerelle e percorsi ad ostacoli le collegano reciprocamente. Inoltre queste torri slanciate possono essere il luogo ideale per funamboli, arrampicatori e per ammirare il panorama dalla terrazza posta all’estremità della ciminiera. Abaco di recupero secondo lo scenario-tipo

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→ Secondo episodio Dato il forte sviluppo verticale, per costruirvi delle dimore sono da adottare particolari accorgimenti, soprattutto per accedervi: risulterebbe ideale porre all’interno le scale mentre sulle pareti esterne addossarvi le dimore. Mano a mano che si sale in quota le costruzioni diventano più leggere e compatte. Anche in questo caso, essendovi dieci ciminiere, tra queste si creano dei collegamenti (ponti tibetani, carrucole, passerelle ecc.) che permettono una rapida connessione nucleo-nucleo e terra-tetto.

dei bagni e ai piani superiori dei camerini.

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→ Secondo episodio In questi recipienti possono essere contenuti i beni di coloro che risiedono temporaneamente nel sito senza avervi costruito un proprio riparo. Gli ospiti possono usufruire di questo magazzino per depositarvi i propri oggetti di valore nel momento in cui fossero impossibilitati a portarli con sé. All’interno vi sono una serie di “armadietti” di varie dimensioni sovrapposti e disposti in maniera concentrica: ciascuno custodisce i tesori dei senza fissa dimora.

SERBATOI I serbatoi sono recipienti la cui dimensione e forma dipende dalla tipologia di liquido (o gas o altri materiali) e dalla quantità che deve contenere. La forma può essere parallelepipeda o cilindrica, sono costruiti in ferro, in muratura o in cemento armato; possono essere aperti, interrati o pensili, cioè con il fondo alla quota del terreno, più bassa o rialzata. Il fondo è sistemato con pendenze tali da permettere lo svuotamento verso gli scarichi. Destinazione di riuso secondo lo scenario-tipo: → Primo episodio La destinazione d’uso di questi potrebbe esser quello di servizi igienici e spogliatoi, sia per il club nel quale si balla sia per lo skatepark o le altre attività. La loro forma permette di predisporre al piano terreno Abaco di recupero secondo lo scenario-tipo

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CATEGORIA B CAPANNONI I capannoni nei centri siderurgici sono costruzioni di grandi dimensioni disposti ad assi longitudinali paralleli, con ampie campate e liberi da ostruzioni. La tipologia di copertura, solitamente una struttura a capriate sostenuta da pilastri ripetuta come un modulo, permette di minimizzare gli ingombri interni. Questi presentano sotto la copertura i sono carriponte e al suolo linee ferrate per il trasporto dei materiali tra le varie campate. Destinazione di riuso secondo lo scenario-tipo: → Primo episodio Essendovi due capannoni in questo sito, questi possono ospitare differenti funzioni per il tempo libero. In uno, sfruttando l’assenza di intralci, costruirci uno skatepark al coperto nel quale allenarsi in ogni stagione, nell’altro creare una grande pista da ballo, con illuminazioni e impianti stereo appesi al soffitto per mantenere la pista il più libera possibile. Essendovi pure un cabina sospesa questa potrebbe essere usata come palco dinamico per dj. → Secondo episodio Un capannone é destinato ad ospitare dimore temporanee di ogni genere: ospitate sul suolo all’interno di “piazzole” coperte dal tetto o direttamente aggregate alla copertura, ai pilastri e alle travi uti-

lizzate come antefatto strutturale. Secondo diversa formulazione, in base a chi vi si sofferma, si declina l’aspetto dell’ostello-capannone. L’altro invece mantiene un carattere più indefinito, essendo usato principalmente come luogo d’incontro collettivo, per mercatini, raduni, attività di laboratorio, o anche ospitare qui effimere costruzioni in caso di emergenze abitative.

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SALA MACCHINE Questi edifici tecnici sono costruzioni “a scatola” di varie dimensioni, più massicce, con finestre alle pareti. La loro funzione é quella di ospitare e proteggere all’interno macchinari ed impianti (turbine, pompe, motori, quadri elettrici ecc.) necessari per il funzionamento del centro. La loro conformazione e disposizione dipende quindi dagli ingombri che devono contenere. Destinazione di riuso secondo lo scenario-tipo: → Primo episodio In alcuni di questi edifici vi sono gli spazi dedicati alle esposizioni: sale suggestive che ospitano tra i reperti e i macchinari del centro siderurgico le opere di artisti. Alcuni vani di altri edifici sono invece dedicati a spazi collettivi al coperto, come ad esempio una cucina e una sala da pranzo.

Abaco di recupero secondo lo scenario-tipo

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CATEGORIA C PARCO MATERIALI I parchi materiali sono vaste aree di stoccaggio di materie prime che possono essere raccolte in cumuli a cielo aperto o protette con sistemi di copertura. Per mantenere i componenti separati possono esservi dei divisori e, tramite macchine operatrici, carri tramoggia e nastri trasportatori, vengono condotti verso l’altoforno. Destinazione di riuso secondo lo scenario-tipo:

→ Secondo episodio Anche in questo caso come in quello dei capannoni il deposito affiancato all’ostello-capannone é destinato ad ospitare dimore temporanee di ogni genere, comprese tende ed abitazioni su gomma, con la sola differenza di essere all’aperto senza riparo e antefatti strutturali con cui interagire. L’altro deposito scorie invece accoglie attività di vario genere che si svolgono all’aria aperta, divenendo quindi un luogo di incontro mutevole.

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→ Primo episodio Sviluppandosi in una posizione seminterrata e con una forma allungata quest’area risulta idonea per costruirvi un half-pipe ed altri percorsi per skaters. DEPOSITO SCORIE Il deposito scorie é un’area nella quale vengono riversate le scorie dell’impianto e che vanno a creare cumuli o distese, queste possono esser poi spostate tramite macchine operatrici. Destinazione di riuso secondo lo scenario-tipo: → Primo episodio Queste vaste distese sono adiacenti ai capannoni ed é perciò ideale costruirvi in uno uno skatepark con delle pool sfruttando i dislivelli esistenti mentre l’altro mantenerlo come arena per concerti all’aria aperta.

Abaco di recupero secondo lo scenario-tipo

5.3


224

CATEGORIA D CONDUTTURE, CARRELLI E NASTRI TRASPORTATORI Condutture per il trasporto di liquidi ed aeriformi percorrono tutto il sito. Quelli di maggiore dimensione sono i tubi di captazione dell’altoforno che raggiungo anche diversi metri di diametro e che presentano scalette per un’eventuale manutenzione. Per lo spostamento di materiale solito vi sono invece i nastri trasportatori che possono percorrere anche lunghe distanze. Questi sistemi di trasporto sono sostenuti tramite strutture reticolari e disposti dove vi é necessità. Tuttavia strutture reticolari sono presenti in maniera diffusa in tutto il sito per sostenere anche altri elementi. Destinazione di riuso secondo lo scenario-tipo: → Primo episodio Questi elementi possono essere utilizzati e reinterpretati per il parco-avventura, utilizzandoli come scivoli, percorsi ad ostacoli o mezzi di spostamento. → Secondo episodio Tutti questi elementi possono essere utilizzati come antefatti strutturali per costruirvi delle dimore. In particolare vi sono numerose condutture di ampio diametro all’interno delle quali si può costruire un riparo tenendo anche conto di un loro possibile assemblaggio. Inoltre le dimore possono sfruttare questo intreccio di tu-

bature, travi e pilastri come sostegni sui quali aggregarvi le costruzioni.

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SIVIERE E TRAMOGGE Per siviera si intende quel recipiente che serve a contenere il metallo fuso e la loppa e a spostarlo dove necessario. Può raggiungere diverse dimensioni con portate fino a 400 tonnellate; le spesse pareti sono rivestite esternamente da lamiera d’acciaio e all’interno da refrattario. La siviera viene condotta verso le successive fasi di lavorazione tramite carroponte, su carri ferroviari per le loppe o in carri-siluro per il metallo. La tramoggia é un ampio contenitore a forma tronco piramidale capovolto con apertura sul fondo; il motivo di tale sagoma é convogliare per gravità il contenuto, come le cariche di materie prima, verso la bocca di scarico e farlo fuoriuscire. Destinazione di riuso secondo lo scenario-tipo: → Secondo episodio La morfologia di questi elementi favorisce la loro conversione in ripari inconsueti: é sufficiente immaginare la forma bizzarra di una siviera per la loppa oppure la silhouette del carro-siluro, così come anche la piramide rovesciata della tramoggia. All’interno di questi la dimora non ha regole: si declina secondo le capacità di ha voglia di sperimentare.

Abaco di recupero secondo lo scenario-tipo

5.3


6

Tutti i componenti presenti all’interno di un centro siderurgico si ripresentano in ciascun sito secondo diverse dimensioni, numero e collocazioni. Anche se in linea di massima si presentano come sopra descritti (vedi 5.2) tuttavia é presente un margine di variazione delle caratteristiche e quindi anche della propria destinazione di riuso. Questo progetto-pilota é unico e irripetibile in quanto ogni volta mutano l’interstizio e chi/ cosa vi “ricade”; se pensiamo «al margine come a un territorio di ricerca sulle ricchezze che nascono dall’incontro di ambienti differenti» chissà cos’altro ne può venir fuori.

↑ Clément, 2016, p. 64

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Conclusioni


↓ Clément, 2016, p. 66

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L’appello per il riconoscimento delle pratiche spaziali riportate all’interno di questa tesi mira a stimolare un dibattito su come l’architettura – e non solo – potrebbe rispondere alla domanda “progettare ai margini”? Per avvicinarsi a delle eventuali risposte é indispensabile, prima di tutto, osservare e comprendere con attenzione la dinamica di un luogo e di chi lo popola, tenendo a mente che possono esservi anche dei margini di inconoscibilità. Riconoscerne le fragilità, le contraddizioni e le qualità é il modo più adeguato per approcciarcisi col fine di proteggere e restituire dignità al marginale e all’abbandonato. In certi casi forse la cosa migliore da fare é riporre la pretesa di intervenire, permettendo a quel che é delicato e unico di declinarsi liberamente, di protendersi verso ciò che gli é affine e che lo salvaguarda. La precarietà, minorità ed alterità di queste manifestazioni e delle loro relazioni non é da recriminare ed ostacolare; non vi é legittimità nel far ciò non essendo una minaccia. É qui che si colloca quella soglia instabile oltre la quale può avvenire l’accettazione e la tutela dell’Abbandonato; é una questione di saperne intendere i significati, permettendosi di saper perdere ogni tanto pure l’equilibrio. Con questa ricerca spero di aver incuriosito qualcuno a queste dinamiche, che possa aver anche solo per un attimo destabilizzato e fatto riflettere, che ognuno possa averci riconosciuto qualcosa di prezioso. Personalmente io continuo con piacere ad interpretarlo «come un territorio indispensabile per l’errare dello spirito». Conclusioni

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Ringraziamenti


Desidero innanzitutto ringraziare sentitamente il Professor Raffaele Paloscia per aver accolto la mia proposta di tesi e per averci da subito creduto; con il suo aiuto ho imparato a interpretare meglio i segnali e a non uscir “fuori strada”. Vorrei ringraziare Colin Ward, Jan Körbes e Ferdinand Schmelzer per avermi indicato a quale architettura conduce ciascuna direzione, verso quale persona. Un grande ringraziamento va ad Arianna Camellato e Giacomo Equizi per avermi aiutato a decifrare la mappa lungo l’itinerario. Da non dimenticare sono Pescina e Berlino, le terre ispiratrici da percorrere in lungo e largo, anche dove la strada finisce. Infine ho desiderio di ringraziare con grande affetto le mie Famiglie e i miei Amici, quel carburante emotivo che non lascia mai a secco, quei fari che mettono luce dove non riesco più a vedere. Un ultimo grazie va alla mia curiosità, che mi spinge ad andare avanti, a scoprire qualcos’altro.




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