R. Antonelli, Ricordo di Alberto Varvaro

Bullettino

DELL’ISTITUTO STORICO ITALIANO DELL’ISTITUTO STORICO ITALIANO PER IL IL MEDIO PER MEDIO EVO EVO

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ROMA

NELLA SEDE DELL’ISTITUTO PALAZZO BORROMINI ___ 2015

La Redazione valuta il valore scientifico dei contributi ricevuti e la loro coerenza con la tradizione del Bullettino. I saggi vengono poi sottoposti ad una doppia lettura al buio da parte di specialisti scelti nell’ambito del Comitato di lettura o individuati in base alle competenze necessarie. L’autore viene informato del giudizio sul contributo in modo riservato. Gli autori debbono tener conto, ai fini della pubblicazione, degli interventi integrativi o correttivi suggeriti dal Comitato di lettura.

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Comitato scientifico François Bougard, Franco Cardini, Tommaso di Carpegna Falconieri, Errico Cuozzo, Maria Consiglia De Matteis, Giacomo Ferraù, Salvatore Fodale, James Hankins, Giorgio Inglese, Paulino Iradiel, Umberto Longo, Isa Lori Sanfilippo, Werner Maleczek, Gherardo Ortalli, Giuseppe Petralia, Gabriella Piccinni, Antonio Rigon, Giuseppe Sergi, Salvatore Settis, Marino Zabbia Segretaria: Anna Maria Oliva

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Ricordo di Alberto Varvaro

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Ho aderito all’invito del presidente Miglio con molta renitenza interiore, malgrado la stima, l’amicizia e l’affetto che mi legavano ad Alberto Varvaro. Anzi proprio per questo: troppo recente la sua scomparsa per controllare le emozioni, e, come dirò, anche per una piena valutazione storico-critica adeguata al personaggio.

Alberto è stato attivissimo, fin troppo per la sua salute, fino agli ultimi giorni; in particolare, troppo per il tempo dedicato alla correzione delle bozze del Vocabolario Etimologico Siciliano in un’estate intera condotta a ritmi di lavoro sostenutissimi, mantenendo nel contempo intatta la sua attenzione agli aspetti istituzionali, scientifici e politico culturali del suo lavoro, anche dal punto di vista organizzativo, sia ai Lincei sia nella comunità scientifica largamente intesa. Era infatti nel Comitato di programma per l’organizzazione del Congresso del 2016 di Linguistica e Filologia romanza a Roma ed era stato anzi un felice corto circuito intellettuale ed amicale che ci aveva portato a immaginare all’unisono di tenere quell’evento coinvolgendo anche i Lincei; nella stessa occasione mi aveva comunicato la sua intenzione, poi andata a buon fine, di proporre l’assegnazione del maggior premio linceo di quest’anno al Comune di Lampedusa per la solidarietà e l’impegno profuso a favore dei migranti. Due esempi fra i tanti, ma sono lieto che proprio questa settimana sia prevista l’assegnazione ufficiale del premio nel corso dell’inaugurazione dell’anno accademico dell’Accademia dei Lincei: è un’occasione per sentirlo ancora più vicino a noi tutti. Fra poco, inoltre, uscirà il completamento della gigantesca edizione delle Chroniques di Jean Froissart, un vero e immediato elemento di congiunzione fra filologia e storia medievale, un aspetto ben caratteristico della sua attività scientifica.

Alberto apparteneva a quelle persone che nella routine quotidiana siamo portati a credere non soggette alle leggi della morte, anche quando sofferenti per problemi di salute. Un particolare, che forse © ISIME - Tutti i diritti sono riservati È vietata la riproduzione

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spiegherà meglio la mia emozione e quanto ho appena detto circa la sua attività e vitalità: ho ricevuto i due ponderosi e veramente straordinari volumi del Vocabolario Etimologico Siciliano (VES), frutto di un lavoro quarantennale, condotto con l’aiuto di Rosanna Sornicola, mentre ero sulla soglia di casa, in partenza per i funerali che si sarebbero svolti a Napoli nel pomeriggio. È stato inevitabile pensare a quanto dovesse tenere Alberto alla conclusione di un lavoro in cui si compendiava la sua enorme sapienza di linguista, filologo, ormai cittadino del mondo ma mai dimentico della sua nascita palermitana; ed è stato inevitabile pensare a come forse in qualche modo temesse di non riuscire a portare a termine un’impresa di cui si avvertiva la grave mancanza e che invece ora onora la filologia e la cultura italiana.

Dunque appare, malgrado tutto, ancora appena credibile la sua scomparsa per la vitalità, l’intelligenza, la cultura e l’ironia che sprigionava. Vorrei sottolineare: capacità di essere insieme acuto ed essenziale, ma anche ironico, di quell’ironia possibile solo a chi è capace di guardare e guardarsi, senza cedere a narcisismi così frequenti fra accademici, anche grandi, e alla tentazione di porsi anche negli atteggiamenti esterni come Maestro-vate, dal momento che Maestro lo era veramente, di Filologia romanza e di cultura in generale. E la sua ironia e il suo spirito – un vero tratto identitario – non lo rendevano solo simpatico, ma comunicavano anche in profondità la verità e profondità del suo magistero, non affidato soltanto alla qualità e varietà dei suoi lavori, ma anche a una grande presenza umana.

Tutto ciò rende difficile tracciare in pochi minuti in un ritratto compiuto l’ampiezza delle sue ricerche, ricca di interventi che appartengono ormai non solo ai capisaldi della linguistica e della filologia romanza del secolo, ma anche della cultura e della ricerca umanistica in genere, poiché investono spesso problemi teorici o metodologici di portata generale. Dovrò quindi essere oggi molto sintetico, poiché il lavoro di Varvaro merita ben altri approfondimenti e riflessioni che solo il tempo ci potrà consentire.

Non ripercorrerò analiticamente in questa sede neppure le tappe della sua formazione (dalla Normale di Pisa ai più importanti centri di ricerca italiani ed europei), né la sua carriera scientifica e il suo cursus honorum, se non per ricordare almeno alcuni approdi fondamentali: la cattedra, giovanissimo, a Napoli, dove insegna, ricoprendo importanti incarichi, dal 1963 al 2008, la nomina a socio dell’Accademia Nazionale dei Lincei, dell’Académie des Inscriptions et Belles Lettres, e di nu© ISIME - Tutti i diritti sono riservati È vietata la riproduzione

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merosissime altre Accademie e istituzioni di alta cultura italiane e straniere, fra le quali non si può non menzionare almeno il Centro di Studi filologici e linguistici siciliani, l’istituzione cui forse era più affezionato e cui aveva dedicato tante attenzioni e cure e cui, da Antonino Pagliaro e Salvatore Battaglia fino a Giuseppe Cusimano e Giovanni Ruffino, erano collegate anche alcune delle sue più salde amicizie, oltre che alcuni dei suoi interessi scientifici più cari.

Vorrei però tentare di tracciare una minima interpretazione del suo percorso scientifico e della sua rilevanza come studioso e intellettuale nel senso più ampio del termine, premettendo però che della filologia, e della filologia romanza in particolare, Varvaro ha offerto una rappresentazione totale, come veramente della scienza che si occupa – come sintetizzava Niccolò Tommaseo – della «Scienza della parola rispetto alle idee e a’ fatti. E dunque più che sapienza del linguaggio; ma accenna all’alto senso del Logos e così il Vico l’intese degnamente»; Tommaseo si riferiva probabilmente a un passo vichiano in cui la filologia era definita come «la dottrina di tutte le cose le quali dipendono dall’umano arbitrio, come sono tutte le storie delle lingue, de’ costumi e de’ fatti così della pace come della guerra de’ popoli [...]». Non sembri una esagerazione o un qualche volo retorico, incurante per di più proprio delle riflessioni che Varvaro ha dedicato alla storia della linguistica romanza e ai suoi sviluppi più recenti, superando le visioni romantiche della disciplina. Varvaro appartiene infatti a una straordinaria e quasi mitica – non solo per noi loro allievi – generazione di grandi filologi romanzi di livello internazionale, da Gianfranco Contini ad Aurelio Roncaglia, a Gianfranco Folena, al suo maestro Salvatore Battaglia, ai più giovani D’Arco Silvio Avalle e Cesare Segre, per fare solo taluni nomi. Vi appartiene non per età, poiché era più giovane di tutti: sei anni lo separavano dal solo Segre, circa un decennio da Avalle e molti anni in più dagli altri; vi appartiene per formazione e ampiezza e profondità di interessi, ovvero ciò che oggi è impossibile o quasi impossibile trovare riuniti in un solo studioso, per l’estremo sviluppo specialistico delle varie branche di una disciplina così estesa spazialmente e diacronicamente come la Filologia Romanza. E vi appartiene infine poiché anch’egli è vissuto per larga parte della sua vita nel terribile Novecento, secolo lunghissimo, non “breve”, che ha segnato la crisi dell’Europa, della sua cultura e in particolare delle discipline e dei metodi, che più avevano incarnato l’egemonia culturale e politica dell’Europa, e in particolare della Filologia romanza che con l’idea © ISIME - Tutti i diritti sono riservati È vietata la riproduzione

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d’Europa era nata e si era sviluppata. Una situazione che richiedeva una visione complessiva della funzione della propria disciplina e della propria collocazione in essa e in generale nella cultura e nella società.

In questo quadro ciò che a mio avviso ha distinto Varvaro è stata la pratica di una filologia che di fronte alla crisi dispiegava al massimo grado l’articolazione di tutti i suoi strumenti interpretativi, non limitandosi al solo versante letterario, ma estendendo l’indagine su tutto lo spessore storico in cui testi e documenti di lingua si inquadrano, partendo dalla parola e dalla lingua e intorno a questa ricomponendo tutta la storia della cultura e della letteratura europea, “alta” e “bassa”, compresa quindi e anzi in parte privilegiando quella orale, non solo nella fase formativa medievale. In questa prospettiva, fra l’altro, esaminando analiticamente una amplissima gamma di storie della lingua prodotte nell’Otto e nel Novecento, Varvaro superava la consueta dicotomia fra storia esterna e storia interna della lingua e quindi fra linguistica storica e linguistica strutturale, valorizzando la scoperta della non omogeneità linguistica come fattore determinante e sostenendo quindi come «compito della storia della lingua sia lo studio dei modi, dei tempi e degli spazi dell’organizzarsi di sistemi coesistenti, il che significa che al centro della problematica della storia della lingua si pone il concetto della coesistenza di sistemi linguistici molteplici nell’ambito di una stessa comunità» e quindi la funzione della lingua nella storia. Il che gli permetteva – vorrei aggiungere come omaggio alla sede in cui ci troviamo – di proporre un ruolo della stessa storia della lingua nell’ambito degli studi storici largamente intesi: «Non ho dubbi sul fatto che il linguista, lo storico della lingua, abbia moltissimo da imparare dalla metodologia dello storico e dai risultati che egli ha raggiunto o può raggiungere. Ma vorrei anche dire che lo storico può ottenere molto da una considerazione meno diffidente della lingua: non dall’esame di dati linguistici specifici, come la toponomastica o l’antroponomastica, ma proprio dall’uso globale della lingua come fonte».

Varvaro ovviamente ha coltivato innanzitutto il versante romanzo, in quanto luogo di nascita di tutte le culture e letterature europee moderne, ma non ha mai dimenticato, proprio e innanzitutto in quanto linguista, quanto le lingue e le culture neolatine siano strettamente intrecciate sin dalle origini con le lingue e le culture germaniche, celtiche, arabe, ebraiche e slave e quanto con ogni evidenza ogni manifestazione linguistica e letteraria della nuova Europa affondasse le sue radici nelle vicissitudini sociali e storiche di un continente in cui non © ISIME - Tutti i diritti sono riservati È vietata la riproduzione

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era possibile stralciare una parte dall’altra: il Nord Europa dal Sud Europa, l’Ovest dall’Est. Non saprei dire quanto di ciò derivasse dall’osservazione di quella ricchissima e variegata sua Sicilia e del meridione nel suo complesso, al cui studio linguistico, storico, letterario e antropologico, tanto ha dedicato, fino appunto alla sua ultima impresa. Rimane però difficile non notare come in Sicilia si ritrovino diacronicamente tutti i territori linguistici e filologici da lui frequentati, dal francese al normanno, all’arabo ed ebraico, allo spagnolo, al catalano e come la Sicilia da Pitrè in poi sia stata sempre attenta al proprio patrimonio folclorico e popolare, che Varvaro in un bellissimo libro, Apparizioni fantastiche. Tradizioni folcloriche e letteratura nel medioevo, del 1994, individua come uno degli elementi portanti della costruzione identitaria e sociale delle regioni e delle nazioni europee dal Medio Evo all’epoca moderna. In Sicilia ma anche nell’Inghilterra celtica e normanna e nella Francia del XII secolo (Apparizioni fantastiche, pp. 211-212). Una sorta di micro-rappresentazione dell’intera Europa e quindi dell’intera Filologia romanza, che dalla Sicilia sembra si sia proiettata sugli interessi scientifici predominanti di Varvaro per abbracciare l’intera storia linguistica e letteraria europea, privilegiando nelle proprie indagini quei paesi e quelle lingue e culture che nella storia siciliana medievale e moderna hanno svolto un ruolo fondamentale.

E si badi che se uno dei primi lavori di Varvaro era dedicato a un grande siciliano, Pirandello (Liolà di Luigi Pirandello fra il dialetto e la lingua, nel 1957, ristampato appena lo scorso anno), era stato per lui elemento di constatazione e quasi di sorpresa in un discorso improvvisato fra amici (se non ricordo male, in occasione delle celebrazioni per il suo ottantesimo compleanno) notare come la massima gloria linguistica e letteraria medievale della Sicilia, la Scuola poetica siciliana, non era stata mai fra i suoi terreni d’indagine (malgrado – vorrei ricordare – proprio alle sue attenzioni sia dovuta la prima edizione critica commentata dell’intera Scuola, nel 2008). E, a ben vedere, lo stesso interesse per la lingua siciliana aveva tardato ad assumere per Varvaro il ruolo centrale che poi rivestirà dagli anni Settanta in poi. Io credo vi sia una ragione profonda per questa apparente incongruenza con ciò che ho appena sostenuto, specie se notiamo come anche l’ambito italiano, dopo il primo lavoro dedicato, nello stesso 1957, all’edizione critica del libro di Antonio Pucci (Antonio Pucci e le fonti del Libro di varie storie), non sia stato praticamente mai ripreso e coltivato, all’interno di una © ISIME - Tutti i diritti sono riservati È vietata la riproduzione

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pur sterminata bibliografia, salvo misuratissime e rarissime occasioni, se escludiamo le pur numerose recensioni, che testimoniano di quanto anche l’area “nazionale” italiana gli fosse presente.

A Varvaro non interessava evidentemente in modo immediato la relazione fra Sicilia e Italia, quale rappresentazione di un progressivo percorso “nazionale”, come consegnato alle storie letterarie da De Sanctis in poi. Interessava l’interrelazione complessiva fra Sicilia e tutto quel mondo romanzo ed europeo del quale l’Italia era una parte, non l’intero. È sempre difficile presumere di poter interpretare a posteriori, al di là di esplicite dichiarazioni e affermazioni, il senso di una storia e quindi anche di uno studioso, per di più molto schivo e attento a non slanciarsi in proclami teoretici e metodologici generali, ma sembra difficile non vedere come nelle sue scelte e soprattutto nei risultati della sua ricerca si configuri il tentativo, molto ben riuscito, di proiettare l’identità (un altro suo tema preferito) e la storia culturale siciliana nel contesto europeo, mostrandone l’intima interrelazione, e peraltro integrando anche la necessaria controparte complementare, proiettando l’intera storia linguistica e culturale europea su quella siciliana. Il Mediterraneo nell’Europa del Nord e il Nord Europa nel Mediterraneo, un problema oggi più che mai vitale per l’Europa e per tutti noi.

Tale relazione fra Sicilia ed Europa gli interessava del resto e con ogni evidenza in profondità, non a partire dai soli documenti letterari, ma da quella realtà più profonda, linguistica e profondamente storica, di cui il documento letterario è una parte, partendo da un’idea, anzi, meglio, da una definizione di cultura mutuata da un dizionario, quello del suo maestro Battaglia, così vicina a quella da noi evocata all’inizio di questo discorso: «Non bisogna credere infatti – diceva (Letterature romanze del Medioevo, p. 79) – che sia cultura soltanto quella letteraria in senso stretto: è anche cultura, in senso sociologico, “il complesso delle strutture di organizzazione sociale, dei modi di vita, delle attività spirituali, delle conoscenze, delle concezioni, dei valori che si ritrovano, in forma e a livelli diversissimi, in ogni società e in ogni periodo storico.”»

Si noti del resto la scelta già di quei due primi lavori appena citati; in entrambi i casi è evidente l’attenzione al versante letterario non aulico: popolare nel caso di Pucci e dialettale nel caso di Pirandello. Vi si manifesta precocemente quell’interesse sociolinguistico e culturale che abbiamo appena sottolineato e che lo accompagnerà tutta la vita, con importanti approfondimenti metodologici sia sul versante linguistico © ISIME - Tutti i diritti sono riservati È vietata la riproduzione

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che su quello letterario e culturale (si consideri soltanto l’attenzione dedicata alla sociolinguistica – anche insegnata, per qualche tempo, a Napoli –, ai dialetti e alla loro importanza in uno dei problemi-chiave della linguistica romanza, la formazione delle lingue romanze).

Anche alla provenzalistica, per la verità, Varvaro dedicò la dovuta giovanile attenzione, con l’edizione critica di Rigaut de Barbezieux, che rimarrà un modello nel genere e anche una bandiera del lachmannismo, poiché lo stemma codicum fissato da Varvaro coincideva sostanzialmente, pur operando con metodologie diverse, con quello proposto dall’altro contemporaneo editore, Mauro Braccini. L’edizione critica di un trovatore era peraltro considerata allora l’apprendistato necessario sul quale si soppesavano le qualità degli aspiranti filologi, tenuti ad almeno un’edizione critica lachmanniana per adire alla carriera scientifica, con lacrimevole e spesso sostanzialmente inutile moltiplicazione, anche diacronica, di edizioni degli stessi autori e col pericolo per un giovane, da Varvaro brillantemente superato, di multiple e contemporanee edizioni, come avvenne proprio nel caso di Rigaut. Come per l’italianistica però, l’edizione di Rigaut rimane evento unico: sarà affiancato solo da un saggio di precisazione e da una prefazione a una ristampa anastatica. Se dovessimo pensare a una volontà di rappresentare l’intera gamma dei territori romanzi, sarebbe evento strano questa solitudine di titoli provenzali per uno studioso così curioso e onnivoro come Varvaro, che dai suoi orizzonti ha quasi completamente escluso solo la lusitanistica e del tutto la rumenistica. Molto meno strano, però, se guardiamo alle sue aree d’interesse principali e all’incrocio in cui queste si collocano rispetto alla sua idea della filologia romanza e della cultura europea: se guardiamo insomma a quella che si configura come una progettualità di lungo e alto respiro.

La sua produzione si collocherà dunque dal punto di vista geografico quasi esclusivamente in area francese, spagnola (castigliana e catalana) e siciliana, privilegiando però al suo interno innanzitutto l’approccio linguistico (con la pubblicazione di manuali oltre che di studi linguistici particolari, poi parzialmente raccolti nel 2004 in un ponderoso volume, dal titolo certo non casuale, rispetto a quanto dicevamo, di Identità linguistiche e letterarie nell’Europa romanza), accanto e intorno al quale sono affrontati in particolare alcuni generi letterari e alcune opere fondamentali del canone letterario medievale: l’epica, il romanzo antico e cavalleresco, il ciclo di Tristano, la storiografia volgare fino alle grandi edizioni di Froissart, con esclusione pressoché totale della © ISIME - Tutti i diritti sono riservati È vietata la riproduzione

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lirica, ma con attenzione particolare all’immaginario medievale, al rapporto fra mito, verità e racconto e alla figura storico-sociale dell’autore, in volumi che hanno aperto strade storiografiche nuove, spesso preceduti da dispense e corsi universitari, come si usava una volta. Cito per tutti, di nuovo, Letterature romanze del medioevo, 1985 e Apparizioni fantastiche. Tradizioni folcloriche e letteratura nel Medioevo, 1994, dove troviamo una dichiarazione molto netta ed esplicita della sua posizione rispetto alla letteratura e al suo rapporto con la società medievale.

Varvaro parte da una domanda «che è stata posta spesso negli ultimi anni: è lecito parlare di una cultura bassa contrapposta a una cultura alta? e, in caso positivo, che direzione prendono i loro rapporti? Forse non è inutile premettere che qui cultura ha naturalmente il senso antropologico ma include, per ambedue i livelli (alto e basso), il versante letterario e in particolare la narrativa. Meglio sarebbe parlare, almeno per il secolo XII [individuato giustamente come il secolo di una grande trasformazione nella cultura europea e francese in particolare], di un complesso articolato di culture che, piuttosto che contrapporsi globalmente, si qualificano reciprocamente in base a tratti come “clericale” vs “non clericale”, “alfabeta” vs “non alfabeta”, “latina” vs “volgare”, “rurale” vs “cittadino”, e così via. [...] In una società così articolata, la permeabilità culturale poteva realizzarsi in tutte le direzioni. I livelli bassi erano in teoria esposti ad una costante opera di acculturazione, quanto meno per ciò che toccava le credenze religiose e i comportamenti morali. Ma un movimento dal basso verso l’alto è tutt’altro che impossibile, malgrado l’avversione pregiudiziale della cultura alta» (Apparizioni fantastiche, p. 213).

Sono tendenze e metodi che troviamo confermati anche per l’ampia produzione riservata alla letteratura spagnola, dove ad alcune opere canoniche (dal Libro de buen amor al Tirant lo Blanch, a Juan de Mena), è affiancato (accanto a una storia della letteratura spagnola in collaborazione col grande amico Carmelo Samonà), un manuale che sin dal 1965, in varie edizioni e forme, ha educato alla filologia spagnola generazioni di studenti (Filologia spagnola medievale. I: Linguistica, II: Letteratura, III: Antologia, Napoli 1965; Manuale di filologia spagnola medievale, II: Letteratura, Napoli 1969, pp. 314; Manuale di filologia spagnola medievale, II: Antologia, Napoli 1971, pp. 414).

Per la Sicilia e l’Italia meridionale le ricerche di Varvaro sono concentrate, oltre che su grandi aspetti ed opere della storia siciliana (esemplari proprio per apertura e analisi storico-culturale i capitoli © ISIME - Tutti i diritti sono riservati È vietata la riproduzione

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sulla cultura della Sicilia federiciana e sull’Italia meridonale per la Letteratura italiana Einaudi o la ricostruzione della vera storia della baronessa di Carini, narrata in un poemetto di tradizione popolare), soprattutto sul versante linguistico, solo in parte preparatorie al Vocabolario Etimologico Siciliano. Sono strettamente intrecciate agli altri numerosissimi lavori di linguistica romanza e generale, tutti collegati da un’attenzione, allora metodologicamente inedita negli studi romanzi, ai fatti dialettali e sociologici, tanto da proporre nella linguistica romanza italiana un vero e proprio paradigma, meno prono a concessioni e metodologie formali e sempre attento invece al rapporto con la storia, di cui la lingua è espressione e rivelazione. Sono l’applicazione pratica di quanto notava nel 1984, raccogliendo alcuni saggi linguistici nel volume La parola nel tempo, dal sottotitolo ben chiaro: Lingua, società e storia.

Varvaro in quell’occasione rilevava quanto i linguisti storici italiani fossero stati refrattari ad aprirsi alla linguistica sincronica (ovvero saussuriana e strutturalista), finendo col «rimanere al margine dell’evoluzione linguistica» e quanto d’altra parte «studiosi di impostazione generativistica avessero utilizzato [...] senza aggiornamento e soprattutto senza spirito critico, un certo numero di dati diacronici per trasferirli in una loro linguistica storica generativa, i cui presupposti teorici sono quanto mai sommari ed i cui risultati risultano ovviamente fragilissimi». Il problema non era però quello di convincere gli uni e gli altri a maggiori reciproche aperture: «Il problema vero era di ripensare i presupposti stessi della linguistica storica tenendo conto di quanto si faceva o andava maturando altrove» (La parola nel tempo, p. 6).

Anche per questi aspetti non tenterò di fornire ulteriori elenchi dei contributi di Varvaro. Ricorderò soltanto come a ogni indagine linguistica e testuale si accompagnino spessissimo, per non dire sempre, una riflessione metodologica e un collegamento stretto con interpretazioni critiche, poi confluite in ampie sintesi storiografiche, come quelle già ricordate, cui sul versante propriamente linguistico va aggiunta Storia, problemi e metodi della linguistica romanza, 1966, un testo che ha nutrito gli anni giovanili miei e di molti altri. Anche per quanto riguarda il versante letterario, alla pubblicazione di testi o all’analisi testuale si sono spesso accompagnate, mai facendo precedere l’istanza teoretica a quella esegetica, proposte di metodo e interpretazioni divenute modellizzanti. Anche qui ricorderò a titolo d’esempio solo alcuni passaggi fondamentali: la relazione napoletana dedicata alla Critica dei testi classica e romanza. Problemi comuni ed esperienze diverse, in «Rendiconti © ISIME - Tutti i diritti sono riservati È vietata la riproduzione

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dell’Accademia di Archeologia, Lettere e Belle Arti di Napoli», 45 (1970), e le successive Critica del testo e linguistica, del 1977, oltre alle riflessioni, in più occasioni, sul metodo e la prassi del grande avversario di Lachmann, Bédier, uno dei nodi fondamentali della filologia romanza, con risultati ormai definitivi. Si veda almeno Per la storia e la metodologia della critica testuale: Bédier editore di Tommaso, Messina 1994, ove, con procedura caratteristicamente sua, scendeva dall’astrazione della proposta metodologica bédieriana alla sua concreta applicazione nello stesso Bédier, mostrando se non il lachmannismo certo il comportamento contradditorio del maestro francese.

Il tutto accompagnato da una riflessione sulla storia e i fini della disciplina, dall’Ottocento ad oggi, dai ritratti di alcuni grandi maestri e amici e da misurate polemiche talora e giustamente taglienti verso pretese nuove filologie, in particolare contro la cosiddetta “New Philology” americana e contro la mouvance ecdotica di Cerquiglini, in magistrali recensioni. Quello delle recensioni potrebbe essere in realtà un capitolo autonomo, costituendo nel loro complesso quasi una vera e propria storia in presa diretta della filologia e romanza e della cultura e storiografia medievale. Intorno a ogni saggio ma anche per ogni pubblicazione che muovesse qualcosa nell’orizzonte filologico romanzo o più generalmente storico-culturale, cresceva una continua serie di recensioni: è impressionante l’elenco di lavori dedicati a libri poi divenuti veri e propri classici, da Jauss a Köhler, a Kristeller, Duby, ecc., molti dei quali introdotti in Italia da una sua traduzione, cura editoriale o introduzione. Un metodo di lavoro e una presenza autorevole che ha segnato per decenni il dibattito filologico internazionale e ha creato una grande scuola filologica, presente autorevolmente a Napoli e in Europa. Lo si potrebbe intuire, già al primo sguardo, da un elemento apparentemente banale e irrituale, ossia dalle citazioni delle riviste cui ha collaborato, in Italia e nel mondo: sono oltre 50, fra le quali le più importanti della filologia, linguistica e letterature romanze: francesi, belghe, svizzere, tedesche, castigliane, catalane, inglesi, rumene, statunitensi, slovene, colombiane, ecc. ecc.

Vorrei infine ricordare, ultimo ma non ultimo, il suo impegno sul versante accademico e politico-culturale, con interventi puntuali ogni volta che per la scuola e l’università si prospettassero pretese riforme e falsi movimenti. Ha fondato e diretto a lungo con cura esemplare la rivista «Medioevo romanzo» (1974-2007) e la collana di studi «Romanica neapolitana». Ha organizzato innumerevoli congressi, a partire da © ISIME - Tutti i diritti sono riservati È vietata la riproduzione

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quello internazionale di Linguistica e filologia romanza a Napoli nel 1974. Un intellettuale a tutto campo, dagli interventi nel dibattito culturale all’organizzazione di istituzioni ed incontri scientifici (come la scuola estiva di filologia romanza di Procida), severo difensore del meglio della cultura accademica, rispettoso e prudente – con la consueta ironia –, ma mai pavido o timoroso di esprimersi con nettezza.

Un grande esponente della tradizione filologica italiana, cui appartiene non solo per la sua fedeltà a grandi valori scientifici ed etici, ma anche per capacità innovative, sia interne alla tradizione della Filologia romanza, che ha coltivato certo con attento rigore, ma anche per così dire “esterne”, con acuta storicizzazione dei processi e quindi delle obsolescenze e dei ritardi, richiamando l’attenzione di tutti a tutto ciò che di nuovo maturava fuori della disciplina.

Una presenza che ci manca e mancherà a linguisti, filologi, storici della letteratura e storici nel senso più generale della parola, come dimostra questa occasione, la prima, credo, dedicata in sede accademica al nostro amico e collega e per la quale siamo tutti grati a Massimo Miglio.

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13 novembre 2014

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