Concetti chiave di museologia

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questa sistematica oggettivazione delle cose permette di studiarle un po’ meglio di quanto si potrebbe fare se restassero nel loro contesto d’origine (terreno etnografico, collezione privata o galleria), ma può anche manifestare una tendenza feticista: una maschera rituale, un costume cerimoniale, un attrezzo per l’aratura ecc., cambiano bruscamente di status entrando nel museo. Artifici quali la vetrina o i sistemi di appensione, servendo da separatori tra il mondo reale e il mondo immaginario del museo, non sono che dei garanti di un’oggettività che serve a mantenere la distanza e a segnalarci che ciò che ci viene presentato non appartiene più alla vita, ma al mondo chiuso degli oggetti. Per esempio, non abbiamo il diritto di sederci su una sedia in un museo di arti decorative, il che presuppone la distinzione convenzionale tra la sedia funzionale e la sedia oggetto. Tali oggetti sono de-funzionalizzati e de-contestualizzati, il che significa che ormai non servono più a ciò per cui erano stati destinati, ma entrano in un ordine simbolico che conferisce loro un nuovo significato (Krzysztof Pomian li ha chiamati “portatori di significato”, semiofori) e che attribuisce loro un nuovo valore innanzitutto puramente museale, ma che può anche diventare un valore economico. Diventano così testimoni (con)sacrati della cultura. 4. Il mondo dell’esposizione riflette tali scelte. Per i semiologi come Jean Davallon, “i musealia non vanno

considerati tanto come delle cose (dal punto di vista della loro realtà fisica) quanto delle entità linguistiche (sono definiti, riconosciuti come degni di essere conservati e presentati) e dei supporti di pratiche sociali (sono collezionati, catalogati, esposti ecc.)”. (Davallon, 1992). Se presentati in un’esposizione, gli oggetti possono dunque essere utilizzati come segni, allo stesso titolo delle parole in un discorso. Ma gli oggetti non sono solo dei segni poiché, con la loro sola presenza, possono essere direttamente percepiti dai sensi. È per questa ragione che, per designare l’oggetto del museo esibito per il suo potere di “presenza autentica”, si utilizza spesso il termine anglosassone di real thing, tradotto in francese vraie chose [in italiano cosa “vera”], vale a dire “cose che noi presentiamo tali e quali sono e non come modelli, immagini o rappresentazioni di qualcosa d’altro” (Cameron, 1968), il che suppone, per varie ragioni (sentimentali, estetiche ecc.), una relazione intuitiva con quanto è esposto. Il termine expôt [corrispondente all’italiano ‘esposto’] designa sì le cose vere esposte, ma anche tutti gli elementi esponibili (un documento sonoro, fotografico o cinematografico, un ologramma, una riproduzione, un modello, un’installazione o un modello concettuale) (vedi Esposizione). 5. Vi è tensione nell’opposizione fra la cosa vera e il suo sostituto. Conviene rimarcare, a questo riguardo, che per alcuni l’oggetto semioforo non appare come porta73


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