ISMO 50_abecedario sulle soglie del futuro

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ABECEDARIO sulle soglie del futuro

premessa

di Vito Volpe e Silvia Roà

1.

“Parole, parole, parole; parole, parole, parole; parole, parole, parole soltanto parole…parole tra noi”. Chi appartiene alla mia generazione e dintorni ricorda il ritornello della canzone, cantata da una Mina evidentemente infastidita, circuita da un Alberto Lupo seduttore poco efficace che la inondava di “parole”, tentando inutilmente di arrivare al cuore della dama. Ma la dama, annoiata, trovava quelle parole scontate, retoriche, spuntate, poco convincenti, poco attive, “solo parole”, appunto.

Era il 1972, 50 anni fa, l’anno di fondazione dell’ISMO.

Al di là delle questioni di cuore dei due protagonisti la canzone metteva-mette in guardia rispetto ai rischi delle parole che conosciamo bene. Rischi che corrono le parole degli uomini, le nostre parole, le mie parole.

Parole che possono essere ambigue: vere e false, oneste e ingannatrici, generative e mortificanti, mobilitanti e bloccanti, vive e morte, finestre e muri ...

Parole potenti nella capacità di generare mondi e costruire relazioni. Parole impotenti quando perdono coscienza e consistenza, decadendo in puro suono vuoto (“bla bla bla…”), chiacchiera a vanvera, inconsistenti miraggi, finzioni di finzioni, vuota retorica, inganno seduttivo.

In questo testo-contesto abbiamo tutti insieme voluto selezionare le parole “buone” che ci piacciono e amiamo, certo, ma soprattutto “parole operative”, valide perché impegnate nel mettere in atto un intento, dotate di un nerbo forte, fiere e consistenti, formulate per diventare pratica, per funzionare sul serio, per eseguire, tradurre in pratica, fedeli a sé stesse e coerenti. Parole che possiamo testimoniare onestamente essere presenti nella nostra esperienza quotidiana come

professionisti e come colleghi. Umilmente forti, non testarde, ma determinate, responsabili. Queste le “parole operative” che abbiamo raccolto, accolto, raccontato. Insomma, non “parole, parole, parole…soltanto parole” come nella canzone nostra coeva.

2.

Ne ho dette tante di parole in 50 anni di attività professionale e tante ne ho scritte. Le ho affidate a pagine di libri, riviste, documenti di progetto, report, documenti interni, appunti. Credo di non averle più rilette tutte neanche io; certo non so quanti le abbiano lette, e come le abbiano intese ed utilizzate.

Ma so che ci sono e rimangono e, credo, rimarranno non solo su di una pagina, ma soprattutto nelle menti, nei cuori, nelle membra di coloro a cui le ho rivolte e di chi continuerà ad usarle per renderle orientamento dell’azione nel sociale, nelle organizzazioni, nei gruppi, nel lavoro.

Le ho scritte con cura, con attenzione, anche con puntiglio; talvolta perché richieste, talvolta perché emergevano dalla mia esperienza e dovevo dirle; talvolta per fare chiarezza, per mettere ordine, attraverso la sintassi e la grammatica, ai miei vissuti.

Le ho scritte lungo 50 anni e altre ne scriverò. Alcuni colleghi di età anagrafica e professionale diversa nell’ambito dei festeggiamenti per i 50 anni hanno con cura e dedizione, di cui li ringrazio, riletto molti dei miei testi attraverso il filtro di una questione che mi è stata, ci è stata sempre a cuore nell’azione professionale: il benessere. Questo lavoro è per me importante perché: • emerge da una catena generazionale che con sollecitudine, competenza e attenzione ha rovistato su più di 50 anni di

scritti (il primo del 1969) per estrarne brani, espressioni che dicessero qualcosa di importante e significativo ancora oggi e fossero testimonianza, impronta, traccia di 50 anni di lavoro nelle organizzazioni; • è stata guidata dal tema del benessere importante perché se non lavoriamo per questo, in fondo, che cosa lavoriamo a fare? Non basta l’efficacia e l’efficienza di cui ci riempiamo talvolta la bocca per dare senso alle nostre vocazioni professionali, alle vocazioni di tutti coloro che lavorano ogni giorno, tutti i giorni. Così come non basta il profitto per dare conto di quelle magnifiche storie umane collettive che sono le imprese (checché ne dicano le retoriche di un liberismo ideologico ben distante dalla nostra tradizione filosofia ed economica)

Riporto volentieri qui quanto i miei più giovani colleghi hanno colto, ringraziandoli per il lavoro fatto e contento se queste parole riescono ancora a parlare ai loro cuori e alle loro menti.

3. Rileggendo questi estratti e lavorando su di essi oggi due cose in particolare mi colpiscono. Innanzitutto, alcune parole emergono e attivano la mia attenzione come se fossero in rilievo; sono molto presenti, nel doppio significato di ricorrenti e attuali. Sono forse anche molto impegnative, ma rappresentano in sintesi il filo conduttore che dà senso a tutta la trama del mio/ nostro cammino professionale. Sono parole che 50 anni fa emergevano e che oggi, mi pare, indicano una urgenza non rimandabile e si sono diffuse, moltiplicate, hanno generato. In secondo luogo, sono collocate all’interno di un discorso sempre positivo: discorsi che non eludono i problemi, non si conformano allo status quo, non evitano la critica del presente…ma sfuggono alle urla violente e sguaiate, alla critica anche feroce

quanto facile, a quelli che oggi sarebbero i “graffi da leoni da tastiera” tanto facili quanto volgari. Come ci ricordava sempre il nostro maestro Enzo Spaltro cogliere la bruttezza è facile per tutti, saper cogliere la bellezza è più difficile, richiede occhi e palati più attenti e sofisticati. C’è molta speranza, proposta, invito ad andare oltre, disincagliandosi rispetto alle miserie e alle difficoltà che si incontrano nelle relazioni organizzative, senza lasciarsi sopraffare dalla negatività; incoraggiamento a trovare gli interstizi in cui è possibile muoversi se pure dentro le contraddizioni e le difficoltà, ad esempio dentro spazi di committenza anche parziali, ambigui, ma comunque sufficienti per portare un contributo Queste sono le parole: uomo, incompletezza, trascendenza, espatrio, cambiamento, trasformazione, apprendimento, felicità, amore, relazione, partecipazione.

Uomo/uomini/umano: siamo artigiani delle discipline umanistiche (dalla economia alla filosofia, passando attraverso la sociologia, la psicologia, la pedagogia); il nostro campo di studio e di azione (azione che poi si è molto articolata e diversificata in questi 50 anni di lavoro con l’evolvere della domanda e del bisogno) è la dimensione umana delle organizzazioni, gli impatti sull’uomo delle scelte strategiche, organizzative, tecnologiche. Oggi molti dichiarano di porre la persona al centro (“parole, parole, parole”?!), qualche volta faccio fatica a comprendere come concretamente questo si declina nella prassi, nelle forme organizzative, nel management…Noi abbiamo provato concretamente a farlo a fianco del management delle più prestigiose imprese ed enti, attraverso metodologie esperienziali e riflessive.

Incompletezza/trascendenza/ inconcludenza: termini necessari. Dichiarano una premessa non scontata, ma basilare per la nostra vocazione professionale: c’è sempre altro altrove che ciascuno di noi colleghi, ciascuno delle persone con le quali abbiamo lavorato e lavoriamo (committenti, partecipanti, partner…) può

tendere ad essere e divenire. Nulla è fermo e definitivo e classificabile e concluso: una posizione epistemologica che richiede l’apertura all’evento possibile anche al di là dei progetti e dei programmi.

Trasformazione/espatrio/cambiamento/apprendimento: se c’è un oltre verso il quale muoversi sapendo che non si raggiungerà mai, nostro lavoro è accompagnare e sostenere, in grande umiltà, questo movimento di trasformazione e sviluppo, inteso come eliminazione dei “viluppi” che impediscono la libertà di movimento nelle relazioni organizzative. Accompagnare lo sviluppo senza pretendere di determinarne la direzione, da esperti di espatri e non di destini, come spesso ho detto e scritto.

Relazione/partecipazione: la terra, il mondo, la società, le organizzazioni… sono sistemi di relazione, intrecci di interdipendenze. Noi ci prendiamo cura dei sistemi di relazione orizzontali, verticali, all’interno e verso l’esterno dell’organizzazione. Noi coltiviamo le relazioni gruppali andando in una direzione precisa e convinta verso la creazione delle condizioni che rendono possibile la partecipazione, la contribuzione di ciascuno e di tutti. Nella convinzione che efficacia, efficienza, benessere delle organizzazioni siano direttamente proporzionali alla quantità e qualità della partecipazione attiva nel costruire mondo e non solo nell’abitarlo.

Felicità/amore: c’è una bussola nella navigazione, si muove verso la felicità, non un benessere di quarta mano, fatto di “trastulli” e distrazioni, come qualche volta mi sembra di vedere nell’offerta di benessere organizzativo di quarta mano, da discount dozzinale. Felicità come quella “cosa” che è difficile da definire, ma che sappiamo benissimo cosa è e quando è. Un po’ come “l’io” che non sappiamo bene cosa sia, se proviamo a descriverlo in termini concettuali e scientifici, ma che ciascuno sente come assolutamente vero e ovvio. E c’è amore, parola ingombrante, bandita per lo più dai luoghi seriosi più che seri in cui si dibatte di questioni economiche, di impresa, di organizzazione, di lavoro…ma che invece tanto produce, spinge, motiva, lega e collega (non solo nel bene, intendiamoci) sulle scene in cui per 50 anni ho lavorato insieme con tanti colleghi. Alla fine è tutto quello che conta: ne ho dato tanto e tanto ne ho ricevuto. Ne ho ancora tanto da dare e da ricevere attraverso l’esperienza professionale. Parolone esagerate? Fuori taglia? Fuori luogo? Impegnative? Sì, certo. A me piace ricordare con il cuore e rammentare con la mente, ciò che abbiamo imparato e capito dall’esperienza di tutti i giorni, dalle vicissitudini che abbiamo affrontato. 50 anni sono molti e sono un grande apprendimento di cui possiamo essere fieri. 50 anni di esperienza come singoli e come gruppo. Sì, perché siamo sempre stati tanti singoli e in gruppo con una doppia identità con una sua identità

personale e collettiva. 50 anni di parole inventate, scambiate, confrontate.

50 anni di partecipazione, di ricerca di senso e di scoperte. 50 anni di amicizia, di amore, di nostalgie e di passioni. 50 anni in cui è successo di tutto e di tutto siamo stati testimoni. 50 anni che non dimenticheremo mai.

agilità /a·dʒi·li·tà/

Quel venerdì era programmata una riunione. Due chiacchere con i colleghi, quando qualcuno dice: “avete sentito che c’è il primo caso in Italia...”. Iniziamo a pensare a ciò che potrebbe accadere. In poche ore siamo ad interrogarci attoniti se sia in discussione un lavoro che passa dalla relazione, dal dialogo, dal contatto. Cosa fare? Il rischio della paralisi va evitato in tutti i modi. Iniziamo così a pianificare una call tutte le mattine, dalla durata indefinita e dall’agenda aperta: idee, domande, emozioni. Ci diamo una strategia consapevoli che la cambieremo cento volte, ma non importa, dobbiamo dare senso e prospettiva all’ISMO.

E’ un brain storming permanente. Ascoltiamo i clienti e proviamo a decifrarne i bisogni. Iniziamo a sperimentare: pillole on line, virtual classroom, webinar, nuovi format, la contabilità è remotizzata, “Lavori in corso” diventa “Open Talks”, … e poi pensiamo al master, un pilastro che ci ha dato fiducia.

Un fermento contagioso ed emozionante: rivediamo i nostri processi, già flessibili e snelli; stravolgiamo i ruoli delle staff e inventiamo altri mestieri tra i consulenti; digitalizziamo il modo di operare, di comunicare e dialogare e soprattutto di erogare il nostro lavoro; non esistono più barriere, neanche quelle generazionali.

Non abbiamo stravolto la mission ed i valori dell’ISMO, ma abbiamo valorizzato la capacità di reagire, ascoltare, immaginare, progettare, costruire. Abbiamo sperimentato dentro, come in epoche passate, quanto proponiamo fuori come idea di organizzazione e di comunità: la agilità.

appartenenza

Sentirsi “parte” di una comunità è una di quelle bellissime sensazioni che coinvolgono la dimensione della reciprocità. La comunità è parte di me, e io sono parte di essa. Questa reciprocità implica una relazione forte, difficilmente attaccabile da fattori esterni; una “cortina di ferro” che identifica un confine, separa un terreno da un altro. La bellezza della comunità ISMO sta nella flessibilità di questa cortina, nella tendenza all’accoglienza e non all’esclusione, nella valorizzazione dei suoi membri e non nel discredito di essi, nella capacità di prenderli per mano e accompagnarli lungo un viaggio che mette al centro il tragitto, non la meta.

Appartenenza ed erranza: l’intreccio e la convivenza di questi poli opposti stanno alla base del concetto di appartenenza a cui la nostra comunità si è sempre ispirata: la tendenza all’identificazione a un gruppo e la tendenza al desiderio di vivere nuove esperienze, a delle separazioni indefinite e quasi mai definitive. Questo perché il concetto di comunità implica la dimensione di casa, di famiglia, dove è possibile tornare tutte le volte che nel nostro percorso errante sorgono dubbi se la direzione intrapresa sia quella desiderata, sia per noi che per la comunità a cui sentiamo di appartenere. Questo legame familiare e domiciliare, è ciò che rende possibile l’allontanarsi, inteso come l’accettazione e la valorizzazione del concetto di differenza rispetto al concetto di omogeneità.

Senza questa dimensione credo che la nostra storia non sarebbe potuta essere cosi come l’abbiamo vissuta e costruita…

/ap:ar·te·nèn·dza/

ascolto

/a·skól·to/

L’espressione femminile di accogliere le parole, lo scambio e la situazione che sta avvenendo rimanendo presenti con la totalità dell’esperienza.

L’ascolto è un’importante qualità dell’essere, comunemente incompresa nella nostra società che premia invece l’essere attivi, il sapere sempre cosa fare, come aggiustare, come rispondere immediatamente.

In un progetto ISMO la fase di ascolto (o diagnosi) concede il tempo e lo spazio di esplorare e analizzare i diversi punti di vista e le plurime percezioni della complessità della situazione su cui programmare un intervento. Soprattutto, lascia spazio al non-sapere, all’incontro oltre il preconcetto, alla curiosità di conoscere qualcosa e accoglierla senza etichettarla precocemente, permettendogli di essere ciò che è così com’è, e dunque potersi aprire ad un processo realmente creativo e trasformativo.

L’aspettativa di saper rispondere, preclude la possibilità di rallentare l’interazione per permetterle di atterrare senza nominarla, senza sapere che cosa dire. L’ascolto (empatico, profondo, consapevole) significa rimanere con il non sapere e imbattersi nel mistero.

Siamo costantemente circondati (se non investiti) da stimoli, sia esterni che interni, l’ascolto consapevole permette di discernere ciò che veramente merita e necessita della nostra attenzione in quel momento.

bellezza

Sarò sincera, amico lettore, volevo lasciare una pagina completamente bianca.

Per esprimere la mia idea di bellezza avevo pensato proprio a questo…tutto iniziò durante la mia personale ricerca sul concetto di bellezza: mi sono dovuta misurare con la vastità e potenza evocativa che questo termine occupa nelle nostre vite. Come de-cidere?

Un principio di risposta cominciò a insinuarsi nel momento in cui sospesi il giudizio e ritornai sui miei passi… …vastità e potenza evocativa…questi due concetti si rincorrevano nella mia mente, mentre osservavo la pagina bianca davanti a me.

E fu in quel momento che accadde tutto: fissando quello spazio vuoto, infinito come lo spazio che riempie l’universo, mi sono resa conto che lo spazio non è vuoto…nello spazio c’è tutto…come potrebbe essere diversamente?

Nel vuoto dello spazio c’è tutto ciò che è stato che è e che sarà. Ecco lettore, questo voleva essere il mio regalo…un foglio bianco da riempire da zero…in cui si nascondono tutti i colori, tutte le parole, le storie di questo mondo… forse anche la tua… Come nella cosmicomica calviniana, tutto l’universo è compresso in quel punto, in quella pagina. Ricorda due cose, due verità con le quali dovrai imparare a misurarti…primo, se tutto è già scritto, non creerai niente, svelerai ‘solo’ ciò che già c’è…e secondo…dove è la bellezza se non vi è nessuno a goderne? Nessuno a narrarne le gesta? Quindi mi raccomando, ricordati di condividere, perché la bellezza, una volta svelata, può solo essere raccontata.

Le neuroscienze e gli studi sempre più raffinati sul funzionamento del cervello/mente confermano che siamo fatti per cambiare, per reagire ad eventi nuovi ed imprevisti ma anche per agire e costruire nuovi mondi per noi abitabili. Il nostro sviluppo fisico, mentale, sociale è un grande flusso di esperienze consapevoli ed inconsapevoli che costantemente ci modificano. Il nostro DNA non offre uno stampo fisso di esistenza, è solo la prima tessera di un domino che dà il via allo spettacolo e lo spettacolo è il continuo scorrere e trasformarsi. Il nostro cervello è estremamente plastico si riorganizza in funzione degli input che riceve abbastanza rapidamente. La ripetizione di situazioni note e prevedibili ci rassicura ma ci annoia terribilmente fino a renderci apatici e indifferenti: la foresta del nostro cervello ha bisogno di dissonanze, di novità per rimanere efficiente, creativa, mobile: siamo equilibristi sul bordo del caos. Eppure sembra così difficile cambiare. Perché innalziamo scudi protettivi ed indossiamo corazze. Forse la risposta ci viene dalla memoria inconscia della specie. Sappiamo (!?) che cambiamenti troppo rapidi e discontinui non permettono un efficace adattamento/apprendimento. Per questo l’umanità ha costruito una seconda pelle, la cultura e le sue consuetudini che sono per definizione “conservatrici”. Ma la cultura cambia grazie agli innovatori. Ci siamo dunque scavati una nicchia tra consuetudine e novità, tra ripetizione e innovazione. Il tempo attuale scompagina le carte proponendo un moto perpetuo: ciò che spaventa è la mancanza di ritmo, di diastole e sistole, di inspirazione ed espirazione. Forse dovemmo considerare che l’andare e lo stare devono tenersi fra loro in tensione, che l’apprendimento individuale e collettivo richiede pause evolutive. Cambiare non è una corsa ma una danza.

cambiamento

condivisione /con·di·vi·ṣió·ne/

Ho tentato un percorso inverso (ma forse percorso inverso è un ossimoro) da una suggestione recente a ISMO, alla mia storia dentro/durante ISMO, a qualcosa che lo (e mi) rappresenti, tra i chiaroscuri. Una parola. Condivisione.

De Aardappeleters - Van Gogh Museum, Amsterdam (via Google Art Project)

consapevolezza

/kont·sa·pe·vo·lét:sa/

Risuona con la parola completezza. Nel pronunciarle, entrambe le parole riempiono la bocca di una certa sazietà raggiunta dal vivere pienamente e profondamente un’esperienza, dallo sperimentare la vita oltre la superficie e la superficialità, dall’esplorarla a fondo e permetterle di manifestarsi nella sua infinita e incomprensibile magnificenza.

È uno spazio sospeso nel momento presente che si apre e si lascia conquistare dall’emergere dell’energia invisibile e intangibile della vita senza confinare l’accaduto nel conosciuto, nel preconcetto e nel giudizio, ma si espande nel sentire e nel confondersi tra ciò che è dentro e fuori noi stessi attingendo all’interconnessione dell’interezza della vita.

Ci permette di prendere atto delle situazioni, del modo in cui ci influenzano e di come noi le influenziamo e trasformiamo attraverso la nostra mera presenza e attenzione. Ma la consapevolezza non è uno strumento o un metodo da acquisire ad hoc: è un atteggiamento verso la vita, un modo di essere nel mondo che predispone ad affrontare le situazioni con apertura, e ad essere presenti con ciò che accade intorno e dentro di noi senza giudizio. È una facoltà che va oltre la mente, ma è possibile esercitare la mente a mettersi da parte, silenziarsi per lasciare che la consapevolezza fluisca attraverso il silenzio.

Il coraggio, cor habeo, altro non è se non vivere mettendoci il cuore. Andare oltre il proprio Ego. Non senza paura, anzi, della paura facendone sapiente alleata. Al coraggio rinuncia chi vive solo di testa o di impulsi, chi si sottrae alle responsabilità del con-vivere, chi pratica l’indifferenza, chi si nega alla relazione, all’impegno, all’altro. Chi non si dà. Chi scompare in una vita qualunque, pur di sopravvivere. Chi si rintana dedicandosi solo al proprio benessere, dimenticando che benessere è un singolare che vale solo al plurale.

E allora, come consulenti, quali coraggi nutrire?

Coraggio di esprimere il proprio unicum. Niente di più, di meno, di diverso.

Coraggio di essere umani. Di esistere, non solo di funzionare. Di errare senza sentirsi errori. Di sperimentare. Di fidarsi del proprio intuito e del proprio sentire.

Coraggio di stare nelle cose, così come sono. Allo stesso tempo, di agire provando a cambiare ciò che riteniamo non “giusto”. Di essere partigiani, prendere posizione ed esporsi. Di non piacere, se serve ad essere utili. Di rimanere soggettiterzi, liberi, al servizio e mai servi.

Coraggio di accompagnare, senza dirigere.

Coraggio di coltivare capacità negativa, tollerando l’incertezza, il non sapere, il non ancora. Sapendo attendere.

Coraggio di amare se stessi così radicalmente da sapersi tradire, per incontrare l’altro.

Coraggio di amare l’altro, collega o cliente che sia, cercandone la bellezza.

Coraggio di esserci. Con pienezza, autenticità e ampie quote di gratuità. E di non smettere mai di lavorare su di sé.

Coraggio di non perdere mai la fiducia. Di cercare la poesia. Sempre. E dove non è, mettercela.

coraggio /ko·ràd:ʒo/

crescere

/kre·ʃ:e·re/

Crescere è significato per me saper coltivare dei buoni rapporti, acquisire nuovi punti di vista, aiutare gli altri a crescere, maturare e continuare a creare sé stessi senza fine. Era il mese di marzo 1999, quando entrai per la prima volta nella storica sede di ISMO in Piazza Sant’Ambrogio 16. Dovevo sostenere un colloquio con il presidente di ISMO Vito Volpe. Arrivai in anticipo e la segretaria mi chiese di attendere la chiamata del presidente. Nascosi l’ansia dell’attesa mostrandomi interessato alle locandine dei Master presenti sulla parete. Incrociai lo sguardo di persone che uscivano per andare a pranzare e all’improvviso, arrivò il silenzio negli uffici. Erano passati 50 minuti ma nessuno mi cercava. Vidi rientrare alcune delle persone uscite in precedenza. Un minuto dopo la segretaria mi chiamò: “il presidente l’attende nel suo ufficio”. Raggiunsi la stanza, alla scrivania vidi seduto una delle persone appena rientrate. Ho pensato: allora l’attesa era un test. Fu così che conobbi Vito Volpe.

ISMO ha saputo accogliermi, formarmi e permesso di crescere. Sono arrivato come individuo sono cresciuto come uomo. Crescere non è mai stato un punto di arrivo, si tratta di un percorso graduale, nel quale avvengono errori e sviluppi esperienze, crescere richiede tempo. Questa parola implica la capacità che essere migliori è sempre possibile. Grazie Vito, auguri ISMO.

desiderare

/de·si·dé·ra·re/

Desidera, apri, scopri, cresci, lento veloce lento, cambia, muoviti, conosci, desidera.

Dia-logos = dialogo, etimologicamente significa la parola che sa attraversare (dia) e quindi creare ponti di senso tra persone diverse, gruppi, sistemi differenti. Perché vi sia dialogo generativo/costruttivo è necessaria una postura psico-logica capace di vedere l’altro/i nella sua specificità, nei suoi interessi particolari senza viverlo come “nemico” o come minaccia alla propria identità (personale, sociale, professionale).

I presupposti per un buon dialogo sono quindi:

• Accettazione delle differenze nella considerazione della legittimità dell’altro e della sua posizione

• Consapevolezza di sé, senza eccessi narcisistici, che apre alle ragioni dell’altro senza timore di “perdersi”, di essere sopraffatti

• Curiosità a scoprire l’altro e a lasciarsi scoprire dall’altro

• Visione sistemica per trovare punti d’incontro possibili in funzione di ragioni che trascendono la parzialità di ciascuno (non confondere la parte con il tutto)

• Capacità diagnostica e critica (intesa come saper discernere) ma non aprioristicamente giudicante.

È altresì utile costruire un linguaggio/codice condiviso che permetta di contenere inevitabili malintesi propri di qualsiasi processo comunicativo. Ad esempio: cosa intendiamo per accordo? E per compromesso? [accordo – sentire con – le armonie possibili = accordare gli strumenti; compromesso –promesse scambiate (cum)].

Ritornare al significato originario dalle parole che usiamo non è un vetero esercizio filologico ma una tappa importante per costruire discorsi “udibili” dai diversi interlocutori.

/djà·lo·go/
dialogo

dignità

/di·ɲ:·tà/ diɲ:ita

“E’ con il lavoro che si paga la propria dignità umana”. Lo affermava nella seconda metà del VI sec. a.C. il poeta greco Focilide di Mileto. Più recentemente nel Luglio del 2022 il Presidente Mattarella ha caratterizzato il suo secondo settennato proprio sul tema della Dignità, citandola ben 18 volte nel suo discorso di re-insediamento. Ed ISMO? Nel nostro piccolo anche noi da 50 anni coniughiamo accanto alla dimensione sociale della dignità anche la sua profonda valenza etica e culturale strettamente connessa al valore delle persone come individui e come soggetti protagonisti nelle Organizzazioni del lavoro. Riaffermare il primato dei fattori umani e sociali in ogni situazione organizzativa ed istituzionale, alimentare e proporre processi partecipativi, multidisciplinari e di sintesi che superino l’individualismo e favoriscano invece lo sviluppo di patrimoni comuni a disposizione di tutti i soggetti del mondo dell’impresa: questo affermavamo nelle nostre dieci tesi fondative e questa continua ad essere ancora oggi la strada maestra del nostro agire nelle Organizzazioni, accompagnando le persone nei processi di cambiamento e di crescita. La dignità deve essere “la pietra angolare del nostro impegno” ha affermato il Presidente Mattarella: farlo concretamente con l’ambizione di contribuire al rinnovamento civile e democratico, favorendo anche un incontro dialettico che superi steccati ideologici e politico-sociali nel mondo del lavoro è un impegno per noi costante e quotidiano. Far crescere l’intera società proponendo soluzioni concrete ponendo il criterio della Dignità come faro ed indicatore primario di intervento. Dignità: molto più che una parola.

esperienza

L’esperienza è un racconto. L’uomo si porta in spalla la gerla dove ripone in modo continuo, conoscenze, situazioni, fatti belli e brutti, successi e disfatte, problemi risolti e quelli sospesi, incontri, amori e lutti, gioie e fatiche..

La gerla è in ogni momento piena di esperienza: un tesoro Unico, Personale, Irripetibile a qualsiasi età. Uomini e donne sono presi dall’esperire, dal provare e riprovarci, dall’arrivare alle mete, dall’andare avanti, in altre parole dal fare esperienza. Così presi, da non ricordare di avere quel tesoro, memoria dei passi fatti per costruire il proprio cammino. Quel tesoro torna alla vita quando trova un racconto in cui presentarsi, un volto attento a cui mostrarsi.

felicità /fe·li·tʃi·tà/

Nella mia vita ho incontrato spesso la felicità, come una Signora che si diverte a nascondersi dietro a qualcosa o qualcuno di ignoto.

In realtà non l’ho mai cercata nella sua essenza (troppo complicato per una che corre sempre come me), ma nella sua percezione più sublime (a parere mio): la serenità. Questo ha complicato tutto perché la serenità è una rappresentazione delle felicità complessa, fuggevole, di difficile connotazione per i tanti e diversa per ciascuno. La serenità è spesso un’utopia per chi cerca nel mondo e in sé stesso un ordine che non esiste sulla terra. L’ho incontrata spesso negli altri, negli occhi degli altri…altri di cui mi sono perdutamente innamorata, anche solo per un istante perché in quell’istante ho sentito l’anima placarsi e la serenità inondare il mio essere. Ognuno di loro mi ha regalato un mattoncino di felicità, come un atomo che mi appartiene per sempre, si muove in me, mi decostruisce e costruisce di nuovo, continuamente.

La felicità è anche spazio. ISMO per me è uno spazio di felicità, è un luogo dove posso essere libera di sentirla questa felicità o di sprofondare negli abissi della mia mente in una disperazione che sembra non aver fine. ISMO è stata una delle belle notizie della mia vita: “Hai vinto la borsa di studio, abbiamo scelto te…”; era il 2002, mi sentii dire quelle parole, ero più giovane, più speranzosa, più idealista, più illusa, più sorridente, sembravo, forse, più felice. Dopo 20 anni con ISMO (dentro e fuori) sono qui a raccontare cosa è per me la felicità, nella speranza, Caro Lettore, che non ti assalga mai la disperazione più bieca in nessuna circostanza, perché, ricorda, se alzi lo sguardo e cerchi gli occhi dell’altro, vivrai, anche solo per un istante, un amore “umano” che ti ricorderà che la felicità spesso è un attimo, ma anche quell’attimo diventerà parte di te, per sempre.

formazione /for·ma·t:sjó·ne/

La formazione è darsi una forma utile per la vita, è dedicare un tempo ad apprendere, o meglio ancora a trasformare l’esperienza in apprendimento. Si apprende in ogni momento, è come respirare. Non se ne può fare a meno.

La formazione vitale aiuta a riconoscersi nel contesto e a trovare il proprio esito; è un movimento che anima la creazione di forme utili e benestanti per vivere nelle situazioni. Forme nuove, uniche, diverse le une dalle altre, modificate dal e nel tempo.

La formazione alimenta la destabilizzazione, il rinnovare, il ritrovare, e ancora l’interrogare e l’interrogarsi. È un percorso lungo quanto la vita, inteso quanto il desiderio di vivere, unico come ogni persona è.

fragilità

Spazi di fragilità Momenti di apertura al mondo, Con il coraggio di esporsi esattamente per come si è. Rompersi e fare della rottura occasione di ricostruzione, restando in ascolto dei propri bisogni, mettendosi nuovamente e ripetutamente in gioco. Sostare nell’impeto della sofferenza e allo stesso tempo, trovare la forza di resistere mostrando agilità verso l’ignoto. Non soccombere alla paura del rumore delle proprie emozioni e dei propri pensieri ma imparare ad accudirli con gentilezza e cautela. Riconoscersi e conoscersi come costituiti e formati da molti angoli, curve, prospettive e sfumature differenti. Accettarsi e legittimarsi la possibilità di stare nel “fra”. Combattere vergogna e giudizi verso il proprio sé, amandosi incondizionatamente.

generatività

/dʒe·ne·ra·tì·vi·tà/

Generativo, genitore, generale, gens, genere, tutte parole che ci mandano direttamente al concetto di mettere al mondo, venire alla luce e quindi alla possibilità e responsabilità di dare vita e inizio a cio che non è ancora.

Il primo ingrediente della generatività è uno spostamento mentale e psichico dalla autocentratura alle eterocentratura. Non si genera da soli, né ci si autogenera: siamo sempre più figli di qualcuno sia in senso biologico che psicologico.

La gratitudine è il sentimento che accompagna la generatività: gratitudine per la vita, per le generazioni che ci hanno preceduto. Dare un nuovo inizio, essere “giusti e eredi” non significa sentirsi padroni dell’origine.

Il secondo ingrediente è quindi uno sguardo ampio, verso il prima, verso il cielo ed il cosmo, verso l’oltre… con le sue possibilità, sorprese e rischi. È accettare la vita di cui si è parte, forse piccola ma non insignificante, per orientarla all’azione.

Il terzo ingrediente e assumersi la responsabilità del proprio destino e del proprio progetto da proporre e da co-costruire con altri per un mondo più accogliente dalle mote unicità.

Il quarto ingrediente e la cura dei contesti e delle relazioni che possono sostenere azioni generative cioè capaci di lasciare un segno, un testimone arricchito a chi seguirà. Sostenibilità e Generosità sono strettamente intrecciate all’azione generativa.

La generatività è la postura che contrasta il narcisismo, autocrazia, l’autocompiacimento, l’utilitarismo ed il materialismo miope. È la sorgente del vivere aperto, incerto e democratico.

I gesti e gli atteggiamenti che mettiamo in atto nella vita quotidiana formano la vera essenza della nostra vita, molto più di grandi imprese e di risultati raggiunti. La gentilezza è uno stato d’animo che si coltiva nei confronti di noi stessi, degli altri e del mondo intero, che nutre lo spirito, che ammorbidisce lo sguardo, che cura quanto (se non più) di una medicina.

Nella cultura Indigena prima di eseguire un rituale in uno spazio, costruire una capanna, abbattere un albero, cacciare un animale o pescare un pesce, si chiede il permesso allo spazio stesso, ai materiali, all’albero o all’animale. Si porta consapevolezza all’interconnessione della vita e che non importa così tanto il “cosa si fa”, ma il “come” e che qualunque pensiero o azione è sempre rivolto verso noi stessi.

Non si tratta quindi di attuare una superficiale cortesia, e neanche di mostrarsi servili, ma vuol dire attingere a una forza interiore che esprime sicurezza di sé, empatia e fiducia negli altri, disimparando i comportamenti e le abitudini ostili e di indifferenza che creano i muri e conseguentemente ci fanno sentire più soli.

“Troppo spesso sottovalutiamo il potere di un tocco, un sorriso, una parola gentile, un orecchio in ascolto, un complimento sincero, o il più piccolo atto di cura, che hanno tutti il potenziale per trasformare una vita intorno.”

/dʒen·ti·let:sa/
gentilezza

gruppo /grùp:o/

Insieme che è più della somma delle sue parti. È il più uno di ogni sistema qualunque sia il fine, il quando e il dove.

La sua funzione è flessibile, a volte spinge verso gli obiettivi, a volte invita alla lentezza per riflettere e ripensare altre ancora sostiene quando c’è da affrontare il nuovo o la fatica della complessità e dei limiti. E ancora amplifica le gioie di ciascuno e contiene il dolore. Il gruppo c’è anche quando non è cercato o voluto. È presente.

È un bel dono.

Narra la “fabula” di Igino, scrittore romano del I secolo a.C, che Cura, mentre attraversava un corso d’acqua scorse del fango cretoso e cominciò a dargli forma (era un’artista). Giove la vide e la raggiunse sul posto di lavoro. Cura, Pigmalione ante litteram, gli chiese di infondere lo spirito a quella forma e quando si presentò il problema di dare un nome a quella creatura iniziò una disputa fra i due perché ciascuno voleva dare il proprio nome rivendicandone la paternità/maternità e si intromise anche Terra sostenendo i propri diritti visto che l’essere creato era fatto di fango. Come arbitro della disputa fu chiamato Saturno (dio del tempo) che così sciolse i nodi “tu Giove, poiché hai dato lo spirito, alla morte riceverai lo spirito; tu Terra, poiché hai dato il corpo riceverai il corpo. Ma poiché fu Cura che per prima diede forma a questo essere, fintanto che esso vivrà lo possiederà. Poiché però la controversia riguarda il suo nome, si chiami homo, poiché è fatto di humus.”

I miti e le fiabe parlano sempre di noi anche al presente. La morale mi sembra possa essere racchiusa in poche parole essenziali:

• l’umiltà come consapevolezza del proprio limite è la vera forza dell’umano: da lì scaturisce il coraggio di andare oltre;

• la cura, la gentilezza reciproca, l’attenzione e l’ascolto sono l’autentica forma di progresso;

• il tempo della vita sarà pienamente vissuto se la Cura ne farà parte.

humus-homo

identità

Pensando al mio percorso personale e professionale in ISMO questa parola mi chiama: identità. Ho imparato molto dai colleghi e da alcuni maestri e, credo, di aver insegnato a mia volta ciò che avevo imparato. Ciò che ho ricevuto dai clienti è stato altrettanto importante. Una frase però mi ha sempre riempito di orgoglio e cioè quando dicevano: “Voi dell’ISMO siete proprio bravi, siete tutti molto diversi ma si sente che avete un approccio simile, molto riconoscibile”. Una identità collettiva forte e riconoscibile. Creata attraverso scambi, discussioni, lavoro insieme, nottate di staff, tanti conflitti, divertimento e risate, studio e confronto. Vedo che anche nei più giovani, pur nelle diversità di valori e approccio al lavoro rispetto ai consulenti più maturi, questa forza identitaria attrae e fornisce senso al loro impegno quotidiano. Impegno che è fatto di ricerca, di viaggi di scoperta nelle complessità delle organizzazioni con cui collaboriamo, di apertura all’ incontro con uomini e donne che accompagniamo nei loro percorsi di apprendimento. Il cliente non è mai territorio di conquista ma un partner con cui dialogare e confrontarsi per costruire progetti significativi e utili. Credo che sia questo che possiamo portare ai clienti. Un’identità forte che possa aiutare a costruire e/o a ritrovare in loro una identità attraverso ascolto, competenza e generosità nel confronto.

intelligenza /in·tel:i·dʒèn·dza/

L’intelligenza non è una cosa ben fatta, non è una cosa certa e sicura per sempre. L’intelligenza non sta solo nella testa c’è quella del corpo, la senti nei piedi, nelle mani e nel cuore Intelligenza è piuttosto un plurale, più la curi, più prolifica e cresce: tante cose. Intelligenze, che incontrano il mondo in tutti i suoi colori, suoni e forme legano, collegano, contano, scrivono, suonano contengono, comprendono, osservano, risolvono sentendo, amando, giocando, pensando…

ispirazione

/i·spi·rat:sjó·ne/

Ero già in ISMO da qualche mese, Vito Volpe inizia il Master Formazione Formatori con una domanda: “…perché volete fare il formatore? Qual è il sogno che vi ha portato qui?”. Vi lascio immaginare la varietà di risposte che vennero fuori… (qualcuno rispose che si guadagnava molto e che si aveva molto successo con le donne… ) poi tra lui, Giovanna, Luigi e altri… ci hanno trasmesso, ciascuno a modo suo, nel corso dei diversi appuntamenti del master (allora molti di più di oggi) quale fosse il “dream” di ISMO, il perché ISMO fa quello che fa e come lo fa. Me lo ricordo molto bene… il cosa ed il come venivano dopo e, spesso, non erano nemmeno tanto chiari, ma il perché si! Era forte ed era chiarissimo! Nonostante i miei ben 45 colloqui di lavoro fatti nell’arco di quei primi mesi (uscivo dalla Bocconi che allora era una garanzia per trovare un posto di lavoro) ho scelto di provare ad aderire a quel “dream”. E non l’ho fatto perché dovevo ma perché volevo farlo. L’ho fatto per me stesso. Quale motivazione più forte di questa?

lavoro

Il lavoro, come diceva Luigi Volpe, è un’attività “utile a terzi”. L’output del lavoratore è la prestazione, il risultato, il prodotto, il semilavorato, il servizio, il documento… che deve soddisfare il cliente/utente. Noi, quindi, lavoriamo per altri, per ottenere un riconoscimento remunerativo, innanzitutto, di soddisfazione, gratificazione, rinforzo della nostra identità professionale e personale. Nell’era moderna il lavoro è regolato da leggi, contratti collettivi, accordi, è sancito da un contratto individuale, sinallagmatico, tra datore di lavoro e lavoratore. Il senso del lavoro chiede anche un contratto psicologico con l’istituzione datoriale e ciò determina la presenza di principi e valori personali che generano il senso di appartenenza all’organizzazione.

Noi di ISMO riteniamo il lavoro centrale nella vita delle persone, non unico obiettivo, che consenta possibilmente una continua ricerca di nuove conoscenze, competenze, sensibilità e abilità, in armonia con i vari interlocutori - colleghi, management, clienti, utenti, fornitori - per favorire anche un contributo qualificato alla società.

La continua motivazione all’apprendimento l’attitudine all’innovazione e la fiducia nelle potenzialità delle persone rappresentano un approccio valoriale che auspichiamo possa realizzarsi concretamente per i vecchi e i nuovi lavoratori.

La leadership: il vero antidoto alla follia delle folle o, peggio, delle masse; la capacità di utilizzare le grandi possibilità del presente per lo sviluppo delle facoltà umane. Un potenziamento della specificità dell’uomo nel contesto delle nuove relazioni che comprendono gli algoritmi e le macchine intelligenti.

Allenarsi all’esercizio di una leadership saggia o alla saggezza nell’uso della propria leadership comporta la fatica di non sottrarsi alle relazioni, con tutte le difficoltà e ambivalenze e l’impossibilità di un controllo dell’altro.

Se l’altro è un ‘tu’, sia esso prossimo o assente, non sarà possibile descriverlo, selezionarlo o profilarlo per poterlo manipolare. L’altro eccede sempre il mio possesso, non è riducibile alla mia volontà, non può essere il mio specchio o il mio doppio. La relazione è sempre un’esperienza non solo di ascolto, ma di attenzione e di accettazione dell’alterità.

È anche correre il rischio - e accettare la possibilità - di una mia trasformazione e non solo dell’altro, che mi può alterare, può far emergere lati di me che non sempre vorrei vedere; può produrre e, se la relazione è autentica, spesso produce destabilizzazioni identitarie.

Il vero rischio della relazione non è il conflitto e neppure lo sperimentare sentimenti forti di attrazione o repulsione. “Colui che odia con immediatezza è più vicino alla relazione di colui che è senza amore e senza odio” (Martin Buber).

Il vero nemico della relazione è l’indifferenza. Stare nella relazione di fronte all’altro, dunque, è fatica e timore, è affrontare la difficoltà dei propri limiti e della propria potenza.

/’li:də·ʃip/
leadership

libertà

/li·ber·tà/

Libertà è tutta una questione di preposizione... Libertà non è una emozione come quella di volare leggeri nell’aria. Né una condizione che si ha o che si deve ricevere… Libertà è una caratteristica della relazione fra ogni persona e il mondo, quello grande e quello più piccolo che gli sta intorno. Quello che fa la differenza è che preposizione ogni persona si gioca al momento…

LIBERTÀ DA... condizioni impedimenti pensieri ...

LIBERARSI emancipazione

LIBERTÀ DI... consapevolezza sentimento progettualità ...

LIBERTÀ PER... senso/direzione pienezza responsabilità ...

LIBERARE energie idee risorse ...

TRASFORMARE PARTECIPARE VIVERE LA CITTADINANZA

é il gioco per la vita. La vita propria e del mondo nel presente e nel futuro. È il gioco dell’incontro. Non giocare sempre la stessa preposizione…

linguaggio

Il linguaggio costituisce lo strumento più efficace al fine di partecipare attivamente alla società, contribuendo, attraverso la libera espressione delle proprie idee e convinzioni (come sancito dalla Carta costituzionale stessa ai sensi dell’articolo 21), al progresso del tessuto sociale contemporaneo.

Queste le parole utilizzate dalla saggista, linguista e accademica italiana Alma Sabatini all’interno del celebre saggio “Il sessismo nella lingua italiana” pubblicato nel lontano 1987: “L’uso di un termine anziché di un altro comporta una modificazione nel pensiero e nell’atteggiamento di chi lo pronuncia e quindi di chi lo ascolta. La parola è una materializzazione, un’azione vera e propria”.

Le parole sono necessarie, vive.

È noto come la comunicazione umana avvenga e funzioni attraverso le parole, linguaggio in grado di plasmare la realtà sociale, rappresentandone l’identità culturale. Le parole servono a tutti ed è alla luce di tali premesse che, in una società contraddistinta dal progresso tecnologico e digitale, ove “un’immagine vale più di mille parole”, ISMO ha saputo cogliere il forte bisogno di tornare a riflettere sul linguaggio ponendolo tra i motori necessari nei processi di cambiamento. Una vera e propria sfida culturale dalla quale ISMO ha deciso di non sottrarsi, carpendone invece l’innato ed intrinseco potere espressivo in grado di esprimere i valori, le tradizioni e abitudini (individuali e collettive) che da 50 anni contraddistinguono la dimensione professionale aziendale.

/lin·gwad:ʒo/

“ Il pensiero fiorisce solo al di là delle questioni da sbrigare” -Immanuel Kant-

Seguendo la pista tracciata da Kant possiamo affermare che lo spazio ludico, l’isola del gioco sono la matrice della creatività, dell’innovazione, della riorganizzazione delle energie, della vitalità. Per continuare ad apprendere ed evolvere è necessario giocare in modo. Entrare nello spazio ludico e del gioco è attraversare, in andata e ritorno, la soglia del “come se”. È lo spazio del teatro, della danza, del canto ed anche del sacro; si crea un contesto nel quale è possibile sperimentarsi in nuovi ruoli, dove vengono sospese le regole del consueto per crearne di nuove e dove anche i comportamenti quotidiani possono assumere nuovi significati. In questa cornice il gioco è libertà ed invenzione che al contempo richiede disciplina e rigore. Se si infrangono le regole il gioco si interrompe aprendo lo spazio al caos. Libertà all’interno di regole, creatività e ripetizione si dialettizzano nello spazio/tempo ludico.

I giochi sono molti e come in una piattaforma girevole (Roger Caillois) permettono di agire e sperimentare la vita. Il gioco è agon, agonismo, tensione ad una meta; il gioco contiene sempre una quota di alea, di indeterminato, di sottomesso ai colpi della fortuna; il gioco è mimesi, il mascheramento, il travestimento, il mettersi nei panni di altro, un altro; il gioco è ilinx, vertigine, andare oltre le frontiere, osare, rischiare. Il gioco, se ben giocato, è sempre ludus, mettere alla prova se stessi con animo leggero, divertito e disponibile alla sorpresa, a ciò che “avviene”, all’apprendimento.

Il gioco diviene tragica dipendenza quando i confini si bloccano e si diviene prigionieri dei propri avatar, delle proprie maschere e dei propri sintomi. Se giochiamo bene arricchiamo la vita come suggerisce Calvino “la vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario di oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili”.

ludico

MA è tra qui e qui. Spazio vuoto in cui esitare. Intervallo da scandire. MA, termine-concetto che mutuiamo dalla cultura giapponese e applichiamo all’ambito dello sviluppo dell’umano e delle organizzazioni, può essere tante cose e avere tante manifestazioni.

Lo spazio tra le foglie di un bosco attraverso cui cola la luce del sole. La giusta distanza tra un edificio e un altro per consentire all’aria di circolare bene. L’intervallo esatto tra una nota e un’altra perché si generino ritmo e armonia. Il silenzio tra le parole da cui può emergere il non detto e si può ascoltare il non dicibile.

Il tempo del riposo in cui non fare ma sostare, non dire ma ascoltare, non parlare ma dialogare, non ragionare ma pensare, non giudicare ma riflettere, non aspettarsi ma desiderare. Una stanza mentale, a volte anche fisica, che interrompe le nostre frenesie e le nostre coazioni. Ci consente di prendere le distanze dalle cose e dalle persone e di contemplarle. Di vederle, non solo di guardarle. Una radura spaziale e temporale, non da riempire ma da abitare. In cui poter incontrare l’inedito, il non ancora, l’originale. In cui discernere, e intessere più lucidamente i fili della propria esistenza. O, più semplicemente, in cui elaborare la domanda di qualcuno prima di rispondervi. Un “tra” che consente di stare “con”. Se stessi, l’altro, la vita. Mai troppo aderenti. Rimanendo sempre liberi. MA è lo spazio vuoto necessario affinché la vita respiri e il senso si generi. E testimonia che non c’è pezzo di mondo che abbia valore a sé e in sé. Valore, senso, bellezza sono prodotti della relazione e delle distanze tra …

ma しかし

“…Chi si accontenta gode… così così…” Dice una famosa canzone…

Questa frase mi fa associare la motivazione all’amore. Spesso l’amore viene confuso con la passione, il desiderio, le emozioni forti… e per assecondarle si continua a correre dietro a nuove situazioni che ci facciano provare tutte queste cose ancora e ancora e ancora… una frenesia quasi “senza pace”. Quando apprendiamo ad amare le cose che abbiamo, il lavoro che facciamo, le persone con cui stiamo… allora le cose cambiano e ci… “plachiamo”. Non perché ci accontentiamo di ciò che abbiamo o di dove stiamo o delle persone che frequentiamo. Al contrario… stiamo lì perché amiamo profondamente tutto ciò e proviamo a cambiare noi stessi… per riuscire a “…non muoverci di lì...”. In altri termini…. È chi riesce a godere di ciò che ha che si accontenta. Tutt’altro che una rinuncia ma un costante impegno per mantenere “vivo” quello stato di cose perché tutto intorno il mondo continua a evolvere e cambiare. E occorre continuare ad evolvere e cambiare per continuare a godere di quello che si ha. Occorre una fortissima motivazione personale. Più forte di qualunque incentivo o premio perché lo faremo per noi stessi… per continuare a godere delle cose e delle situazioni Quanta strada da fare nell’affrontare questo tema dentro le organizzazioni di lavoro… Quanta strada per ciascuno di noi...

motivazione /mo·ti·va·t:sjó·ne/

Pomeriggio di luglio, sono in casa e sto preparando le slide con gli andamenti economici del semestre da presentare al seminario estivo di ISMO.

Mia figlia piccola si avvicina e mi chiede: “Papà cosa fai? Disegni con il computer?”

Scherzosamente le rispondo: “No, sto preparando i numeri che darò al seminario” Incuriosita chiede: “ Ma tu come lavoro dai i numeri?”

In effetti ha ragione. Da anni è mio compito in ISMO presentare gli andamenti economici durate le riunioni, ma scherzosamente, quando i colleghi mi passano la parola dicono: “Enrico ci dai i numeri?” Dopo una risata per la sua ingenua affermazione le rispondo: ”Certo Gaia, io lavoro con i numeri e speriamo che questi numeri siano belli perché ai miei colleghi non piacciono i numeri brutti”

Lei mi guarda stupita e replica: “Ma la mia maestra di asilo mi ha detto che i numeri possono essere grandi o piccoli ma non belli e brutti. Quali sono i numeri belli?” “Bella domanda!” ho risposto “Hai ragione, i numeri ci servono per tante cose: contare, fare operazioni, identificare oggetti, misurare, ecc. possiamo dire che un numero è bello o brutto solo se lo mettiamo in relazione con qualche cosa”

50 è per noi di ISMO un numero bello e importante. Ci ricorda quanta strada abbiamo fatto in questi anni e racconta alle persone e aziende che ci conoscono, o conosceranno, la nostra esperienza, competenza e unicità.

numeri /nù·me·ri/

Termine complesso e multi significato. Etimologicamente significa volgersi a Oriente, là dove sorge il sole. Per noi che viviamo ad Occidente, qui dove il sole tramonta, è un invito a guardare sempre oltre, là dove non si è. Oriente è anche il luogo simbolico del mistero, il mistero delle origini, il mistero dell’ignoto, dell’inattingibile, dell’abisso.

Orientarsi significa anche stabilire la propria posizione rispetto ai punti cardinali, capire dove si è per stabilire il proprio cammino. È, in senso figurato, riorganizzare le idee, ritrovarsi. Implica, perciò, fare una pausa, uno stare e sostare lungo il cammino della vita per raccogliersi in se stessi, non per fuggire dal mondo ma per intraprendere un possibile nuovo cammino più sicuro, più armonico, equilibrato ed in sintonia con il mondo stesso.

Orientare può significare anche guidare, dirigere nel senso proprio di indicare, far vedere una stella polare verso cui sia possibile incamminarsi. Chi orienta non prescrive ma immagina un fine che dia “senso” all’esistenza individuale e collettiva, offre una bussola che consenta ad ognuno di tracciare i propri sentieri, che dia la libertà di perdersi e di ritrovarsi, purché non si rinunci a quella pausa di riflessione che favorisce “lo schiarirsi delle idee”: per i Greci orientarsi è perseguire la felicità, eudemonia, sinonimo di vita buona, condotta virtuosamente in armonia con il proprio daimon e cioè in pace con se stessi, gli altri ed il mondo.

Secondo Spinoza per orientare una vita buona e gioiosa occorre fortitudo, cioè coraggio e generosità: il coraggio è la forza con cui ciascuno si sottopone ad esame secondo onestà e rigore intellettuale emendando l’intelletto dalle passioni tristi quali odio, invidia, rancore, generosità è l’emozione che ci avvicina agli altri, unendoli a noi con il vincolo dell’amicizia.

Parole antiche che meritano di essere meditate al presente.

orientare /o·rjen·tà·re/

Questa è una storia normale, è la storia di una famiglia. Parla di me, di te, parla di semplice quotidianità. “Buongiorno bambini!” Una dolce voce entra dalla porta semi aperta della camera “forza, pronti per una nuova giornata? Coraggio, è ora di svegliarsi”. Colazione, fette calde e tostate con marmellata, una fetta di ciambellone fatto in casa. Vestiti pronti, una mano a lavarsi e pettinarsi. Ancora qualche scambio prima di andare: si ride, si scherza e si ripetono i programmi della giornata. “Oggi andrò a prenderli io a scuola, grida dal bagno una voce squillante, abbiamo appuntamento dal pediatra per Sara e poi a lezione di chitarra”.

“Ok, tesoro e io andrò con Matteo al ricevimento scolastico… dobbiamo preoccuparci? Sorride dolcemente al figlio”. Poi, pensa tra sé e sé, un po’ di tempo per me… “stasera io andrò al corso di pittura, chissà il maestro cosa avrà in mente per la lezione di oggi”. “Bene bambini, facciamo un grande in bocca al lupo alla mamma per l’importante colloquio di promozione”. Un grande abbraccio, “In bocca al lupo mamma, e via… “andiamo papà che la scuola ci aspetta!”

Nonostante questa storia possa apparire banale, il cammino per giungere alla parità di genere è ancora lungo: è necessaria una politica sociale più giusta e moderna, ma anche una mentalità nuova nelle famiglie, nell’educazione dei giovani. In Italia la ripartizione stereotipata dei ruoli è purtroppo ancora una realtà, le donne che svolgono ruoli dirigenziali nelle grandi società sono una percentuale minima rispetto agli uomini. La cultura per le pari opportunità deve fare ancora tanti passi avanti.

/pa·ri·tà/
parità

parola /pa·rò·la/

Piccola cosa la parola. Può sembrare solo un suono, un segno o un insieme di segni (lettere o ideogrammi), un gesto (strutturato come LIS o anche solo un semplice cenno del capo). Ma è dalle parole che nascono le lingue e i linguaggi. E dalla scelta della singola parola, dalle sfumature che essa implica, si creano (o si sgretolano) legami e relazioni fra individui. Quindi lavorare con le parole significa entrare in un mondo fatto di persone reali che interagiscono in modi e forme variegate, a seconda della loro cultura, età e tradizioni. Le persone cambiano, crescono, evolvono… E con loro anche le parole e le lingue. Aiutare a trovare (o inventare) un linguaggio comune all’interno di un gruppo, di una comunità, di un’organizzazione è un aspetto importante del nostro lavoro. Utilizzare le stesse parole, certi di dar loro lo stesso significato, rafforza il senso di appartenenza (dalla torre di Babele all’Esperanto) e crea fiducia. Quindi a chi mi dice che in ISMO «lavoriamo con le parole», rispondo che sì, è vero, lavoriamo con le parole, e con le persone che le utilizzano, le vivono e le riempiono di emozioni, sogni, ambizioni, paure, desideri, incertezze… e tanto altro ancora.

partecipazione

/par·te·ʃi·pa·t:sjó·ne/

Governance e partecipazione sono spesso utilizzate in modo indifferenziato in quanto rappresentano entrambi degli stili direzionali per la conduzione di una impresa. Ma osservando meglio troviamo importanti differenze fra di esse. Innanzitutto, sul piano emotivo, il termine partecipazione è inscrivibile (devo questo concetto a Vito Volpe) alla cosiddetta “catena del caldo” mentre il temine governance appartiene alla cosiddetta “catena del freddo” (la governance, infatti, anche se ben congegnata, tende ad “escludere”dando potere a pochi - mentre la partecipazione tende ad “includere” tentando di rendere protagonisti tutti).

Per la nostra concezione delle relazioni di lavoro il nostro sforzo è volto nella direzione della partecipazione avendo sempre presente che una buona progettazione organizzativa aiuta il benessere di chi in azienda lavora ogni giorno.

Per farlo è necessario però lavorare in almeno tre direzioni:

• Quella delle parti sociali: gli imprenditori dovrebbero ripensare il concetto di “prerogative imprenditoriali e manageriali” e i sindacati dovrebbero sviluppare un passaggio da una cultura “ripartitoria” ad una “generativa”.

• Quella dei lavoratori che devono cercare di sentirsi “imprenditori” nella propria realtà lavorativa.

• Quella della consapevolezza che la partecipazione ha bisogno di un “terzo metodologico” esterno all’impresa che trova la sua legittimità non nelle relazioni di potere ma nelle sue competenze tecniche.

In conclusione, la partecipazione è intrisa di elementi culturali tra cui spiccano fiducia, ascolto e attenuazione della gerarchia.

qui e ora

Sto scrivendo sdraiato in terra al centro del salotto di casa mia. Non sono comodissimo. Sento fastidio al fianco destro e al collo. Sul balcone la luce del sole che ha appena diradato la prima nebbia di questo ottobre. Mi bruciano gli occhi, sento la barba troppo lunga e la testa che fatica a concentrarsi. Squilla un cellulare nell’altra stanza. Dalla strada arriva rumore di auto. Tante, troppe. Per un attimo mi attraversa il ricordo del silenzio delle colline marchigiane. Ho desiderio di scrivere questa pagina, temo di non riuscire a rispettare la scadenza per la consegna del pezzo, sono nervoso e preoccupato per la problematica di salute di mia figlia. Al telefono è proprio la dottoressa che ci sta seguendo, Marta le sta raccontando le evoluzioni. La sua voce è squillante, fiduciosa. Da settimane non la sentivo più così, e ne ricavo sollievo sul petto. Qui accanto la tazzina del caffè, fumante. Bevo il primo sorso, mi scalda. E da qui penso a te che ora stai leggendo… Qui ed ora. Passato, presente, futuro condensati in uno stesso spazio che ci colloca al di fuori del tempo, in una dimensione a-storica in cui possiamo sentire e godere della vita in tutte le sue pieghe: quelle luminose e quelle buie, quelle infinitamente piccole e quelle infinitamente grandi. Quanta ricchezza. Di cos’altro abbiamo bisogno per essere felici? E per curarci, per apprendere, per evolvere? Di nulla. Qui ed ora non è il “tempo presente”. Piuttosto è il presentarsi all’appuntamento con la vita. E’ tutto ciò che abbiamo. Il resto del tempo, senza un primario radicamento nel qui ed ora, è illusione, trappola o meccanico funzionamento. Essere qui ed ora è tornare a casa, alle nostre origini più profonde. Casa costantemente mutevole, sempre disponibile, in cui trovare stabilità e centratura. Dissolversi come individui e ricollegarsi agli altri, al cosmo, riconsegnandosi alla rete della vita. Solo attraverso il “qui ed ora” possiamo decostruirci a questo livello e così curarci, apprendere, evolvere in nuove forme.

Nel comune di Cavareno (TN) ogni estate si rievoca la Charta della Regola, un antico statuto in cui venivano definite le regole della vita contadina: il taglio del fieno e del legname, le modalità del pascolo, l’organizzazione sociale, le cariche elettive e le modalità di nomina.

Il precetto fu formulato con un processo di astrazione dalla tradizione, attraverso un percorso di apprendimento collettivo. L’aneddoto evidenzia come la “regola” sia connaturata al concetto di organizzazione per condurre le energie dei singoli verso un obiettivo comune: pianificazione, meccanismi di coordinamento, decisione e comunicazione, compiti, processi, procedure, ... Nel riconoscere il valore di queste dimensioni, prendiamo atto di come esse producano oggi una sensazione di già visto, obsoleto. Guardiamo alle regole organizzative con ambivalenza: da un lato favoriscono qualità, efficienza, precisione, sinergia, ... dall’altro rischiano di frenare la creatività, la flessibilità, l’innovazione, ... caratteristiche critiche per un’organizzazione chiamata ad essere agile in un contesto incerto e dinamico.

Le organizzazioni moderne vivono sull’orlo del caos, in equilibrio dinamico tra ordine e disordine. Si tratta di un territorio generativo, aperto alla novità e all’esplorazione, ma dove è necessario tenere la rotta.

L’organizzazione agile trova qui il proprio habitat naturale: deve essere in grado di darsi regole certe, chiare e coerenti e al tempo stesso essere capace di metterle in discussione e interpretarle con spirito critico, ricercandone e ricostruendone il senso, favorendone un’evoluzione continua.

regole /rè·go·le/

relazione

/re·lat:sjó·ne/

Uno più Uno non fa due

Nel paese dei numeri Uno di felice non c’era nessuno. Il tempo scorreva lento, perché da solo nessuno è contento.

Da piccoli si impara ad aver cura, ma poi crescendo innalziamo alte mura. Un giorno, però, Uno disse ad Un altro: “Facciamo qualcosa di scaltro!”

“Per abbattere le distanze, apriamo le porte delle stanze! Costruiamo una nuova città e chiamiamola Comunità!”.

Ogni Uno, si sa, ha la sua peculiarità. Nessuno nel mucchio scompare e nell’insieme migliore appare.

Ci si arricchisce a vicenda, è questo il fulcro della faccenda. Gli Uni con gli altri intrecciati, si raggiungono incredibili risultati!

Ora la rima sta a te: Uno più Uno... fa tre!

rischio /ri·skjo/

sensibilità

L’abilità di sentire.

Alda Merini con grande delicatezza racconta l’esperienza del sentire nella sua poesia “Mi piace il verbo sentire…” suggerendo come l’attivazione dei sensi sia un modo per vivere la pienezza del mondo.

Mi piace il verbo sentire… Sentire il rumore del mare, sentirne l’odore. Sentire il suono della pioggia che ti bagna le labbra, sentire una penna che traccia sentimenti su un foglio bianco.

Sentire l’odore di chi ami, sentirne la voce e sentirlo col cuore. Sentire è il verbo delle emozioni, ci si sdraia sulla schiena del mondo e si sente…

È la facoltà di un ascolto attivo interiore. Qualunque cosa con cui entriamo in contatto crea una risonanza interiore, una sensazione, un movimento, uno stimolo sensoriale. Molto spesso siamo così catturati dai nostri pensieri che non percepiamo questi leggerissimi movimenti. È la capacità di lasciarsi smuovere, di entrare in relazione, partendo dalla connessione e l’ascolto di noi stessi. È un entrare in contatto con l’altro attraverso la connessione con noi stessi.

Se portiamo attenzione a questo, ogni stimolo sensoriale diventa un’opportunità per approfondire la conoscenza di sè.

/sen·tsi·bi·li·tà/

serendipità /se·ren·di·pi·tà/

Si dice che molte scoperte siano state inventate per caso. Perfino quella che ha portato Watson e Crick il 28 febbraio 1953 a riconoscere la struttura del DNA. Per caso o per errore? Forse la risposta sta nella serendipità: quell’evento, quell’occasione, quella non intenzione capace di trasformare il caso in una forma di senso, di bellezza, di valore. La serendipità si incontra spesso con alcune compagne per giocare insieme: sono la curiosità, lo stupore, la sorpresa. Pensandoci bene, queste compagne, nei loro movimenti, hanno bisogno di un “campo di gioco”, che è quello tracciato dalla contemplazione.

Perché la serendipità è un gioco anche di sottrazione, che richiama lo svelamento, e per attivare questo gesto c’è bisogno di pazienza, di abitare un vuoto, di alleggerire un carico (anche dei propri saperi) con la speranza e la fiducia che qualcosa avverrà. Ciò richiede di vivere e attraversare lo spaesamento: oggi dichiarare a se stessi “so di non sapere” ma anche “non so di non sapere” è l’ostacolo più grande da superare. Perchè evoca un procedere in un orizzonte vago, per venire a contatto con il sentimento della nostra ulteriorità. L’interesse e l’emozione cresce perché sappiamo che abbiamo la possibilità di andare oltre noi stessi. Così nel presente, lentamente ma inesorabilmente, il futuro prende sempre più forma. E allora dove l’apprendimento continuo (una delle competenze più importanti per affrontare il futuro) è abitato dalla serendipità, vi potrà esserci un territorio di libertà e innovazione.

Come consulenti, all’estrema essenza, cos’altro siamo se non architetti e costruttori di setting, custodi di frontiere, attivatori e guardiani di processi di sviluppo. Corniciai.

Disegniamo cornici capaci di offrire contenimento a qualunque cosa accada, consentirne l’elaborazione rispetto ad obiettivi definiti, e la traduzione in valore, sia questo apprendimento, significato, consapevolezza, trasformazione, cura.

Cornici chiare, porose, plastiche. Mai dogmatiche né ideologiche o autoreferenziali. Capaci di istituire un luogo con un’identità precisa, distinto dallo spazio circostante, abitabile, definito in termini di ruoli, responsabilità, finalità. Un luogo sicuro. Creativo. Fisico, ma soprattutto mentale e simbolico. In tensione grazie al contenimento e alla dialettica tra le differenze tracciate dai bordi.

Un ecosistema, così ben delimitato da essere infinitamente vasto in termini di potenzialità generative. Mai completamente chiuso, sempre in dialogo con il sistema più ampio di cui è parte.

Un patto su più livelli: psicologico, relazionale, metodologico. Rigoroso, ma non rigido. Co-costruito, trasparente, sostenibile. Tutela di parità, equità e libertà per chiunque vi partecipi, pur nelle asimmetrie di ruolo spesso presenti. E noi consulenti, professionisti del confine e al confine, siamo i primi garanti del setting con la nostra piena consapevolezza, in ogni istante, di cosa stiamo facendo e del perché lo stiamo facendo. Consapevolezza del ruolo peculiare che stiamo giocando, delle nostre responsabilità, competenze e limiti, di quanto istituiamo con la nostra postura e dell’impatto generato su oggetti e soggetti coinvolti. A noi, insomma, preparare la nave e tenere la rotta, il resto lo faranno il viaggio, le stelle e le persone.

setting /set:ing/

sguardo /ṣgwàr·do/

È forse uno dei più grandi insegnamenti che ho appreso in ISMO e che provo a non dimenticare mai oggi nella mia professione. Lo sguardo. Lo sguardo è fondamentale nelle relazioni e nei pensieri… guardare l’altro nella sua interezza, provare ad accogliere, guardare senza giudizio ma in modo cristallino, guardare con la curiosità di chi ha fame di conoscere sempre altro del mondo, aprirsi nei pensieri, avere uno sguardo che sostiene nei momenti di difficoltà e che non si abbassa davanti al potere, ai clienti.

Uno sguardo che guarda allo stesso modo i disoccupati che incontriamo nei progetti di accompagnamento al lavoro e gli Amministratori Delegati di aziende da centinaia di milioni di euro di fatturato e migliaia di dipendenti.

Uno sguardo che non ha sempre le soluzioni pronte ma che si interroga sulle questioni del mondo e delle organizzazioni e che accompagna l’altro nel dubbio.

Uno sguardo vivo, che trasmette energia e vivacità intellettuale, uno sguardo che non ha paura del futuro ma che è proiettato al futuro.

silenzio

Dopo tre giorni di inferno lavorativo, sai di essere in ritardo, chiudi una call, leggi un’ultima email e poi entri…ti ritrovi immersa in una stanza piena di persone, tutte sedute in cerchio, immerse in un imbarazzante silenzio in cui nessuno sa cosa fare e cosa dire…passano i minuti, cresce l’imbarazzo, qualcuno prova a rompere il ghiaccio ma dopo ritorna quel silenzio…passano le ore e le “unità” e andando avanti a volte si ripresenta quel silenzio; ti rendi conto che cambia forma, che le emozioni che circolano sono sempre diverse, che lo stare con altri in silenzio diventa quasi “normale”, un silenzio che si fa sempre più consapevole e profondo…arrivi ad un punto in cui quasi per magia diventa piacevole “stare” e anzi ne vorresti di più, in cui alcune parole ti sembrano superflue rispetto alla bellezza del potersi perdere in quel mare emotivo. Un silenzio che ti permette di ascoltare e ascoltarti come non facevi da tempo, un silenzio che ha fasi diverse ma che non è mai figlio di banalità…un silenzio tuo, pieno, immersivo…un silenzio di gruppo che ti permette di recuperare uno sguardo profondo sugli altri (non mediato da schermi), l’attenzione ai dettagli, ai respiri, agli sguardi, alla postura, ai colori…sta per finire e sei combattuta tra la voglia (e l’ansia) di tornare al quotidiano e la paura di perderti la bellezza di questo “svuotamento”. Hai paura di non poter più godere quella intensa connessione emotiva con sé stessi e poi la paura di perdere la “magia” che ti ha permesso di riaccendere lo sguardo profondo sull’altro che negli ultimi anni è stato oscurato da progetti, dati, numeri… ed è solo tua la responsabilità di trovare modi, spazi e tempi da dedicare a quest’arte così antica e distante dalla “società dell’iperinformazione”.

/si·lèn·tsjo/

sogno /só·ɲ:o/

Quando gli orologi della mezzanotte elargiranno un tempo generoso, andrò più lontano dei rematori di Ulisse nella regione del sogno, inaccessibile alla memoria umana. Da quella regione sommersa recupero residui che ancora non comprendo; erbe di botanica elementare, animali un po’ diversi, dialoghi coi morti, volti che in realtà sono maschere, parole di lingue molto antiche e talora un orrore non comparabile a quello che può darci il giorno. Sarò tutti o nessuno. Sarò l’altro che ignoro d’essere, colui che ha contemplato quell’altro sogno, la mia veglia. La giudica, rassegnato e sorridente.

La storia del sogno e del sognare non ha mai smesso di affascinare l’essere umano da sempre impegnato nello studio dell’interpretazione di un’attività così intrigante e ancora poco conosciuta. Il sogno costruisce racconti imprevedibili che rappresentano la nostra vita misteriosa, depositata nel tempo profondo dell’individuo e della specie. Il sogno rappresenta un varco, una possibilità per esplorare i nostri desideri. Da sempre, infatti, la nostra mente sogna e il nostro mondo onirico ha ispirato la produzione artistica e letteraria. Siamo instancabili sognatori che osservano, creano, trasformano, inventano, scoprono nuovi mondi. Affascinanti e indefiniti i sogni descrivono i nostri sentimenti ambivalenti: le paure, le speranze, gli echi di realtà, lasciando che l’inconscio crei una grande varietà di immagini, emozioni e sensazioni e ci trasporti in una dimensione altra, tra passato e futuro. Abbiamo immaginato il nostro tempo e orientato le nostre direzioni verso la realizzazione dei nostri obiettivi rivelando le nostre speranze più intime. Il sogno ci ha permesso di creare legami, trovare connessioni e liberare/generare nuovi pensieri.

tempo /tèm·po/

“Prenditi tempo per vivere” è l’ultimo verso della poesia di Pablo Neruda ed è il monito più attuale contro la dispersione del tempo, la sua frammentazione in eventi che sfuggono rapidi come la sabbia tra le dita o gli imbuti nella clessidra.

Il tempo è la vita a cui riusciamo a dare senso, è la vita in cui ogni istante è in sé passato e futuro, in cui ogni ritorno non è mai identico al passato ma lo richiama e ne fa memoria; è la vita con le sue gioie i suoi dolori, con le nascite e di lutti che la rendono ricca se ci diamo il tempo per sentirli, gustarli, soffrirli, pensarli; è l’attimo felice che riusciamo a cogliere ed assaporare; è lo sguardo che coglie ad un tempo la siepe e l’orizzonte, il finito e l’infinito.

Impossibile definire il tempo perché il tempo sono io che vivo la mia vita, ad ognuno scegliere come viverla.

Il tempo è un fiume che mi trascina, ma sono io quel fiume; è una tigre che mi divora, è un fuoco che mi consuma, ma io sono quel fuoco. Il mondo, disgraziatamente è reale; io, disgraziatamente sono Borges.

ubbidire

Parola non di moda, anzi forse dimenticata o da mettere nell’inceneritore. Evoca sottomissione, dipendenza, conformismo al potere ed alle sue volontà. Ma siamo certi che questo sia il suo universo, unica possibilità di significazione?

Ubbidire o obbedire, dal latino ob (verso) audire (ascoltare) significa prestare ascolto, tendere l’orecchio, protendersi verso qualcuno o qualcosa. Allora ubbidire è raffinare l’ascolto uscendo da se stessi e dalla propria gabbia.

Prestare orecchio al proprio daimon, essere fedeli a se stessi ed al proprio desiderio, prestare orecchio alla voce dell’altro, al suo grido ma anche al suo sussurrare, ed al suo silenzio.

Come accadde al profeta Elia, la voce di Dio non si manifestò nel tuono o nel rombo del mare ma in un lieve soffio di vento.

Protendersi verso il volto dell’altro - lo straniero che ci viene incontro - saper vedere oltre la faccia o la maschera che copre identità posticce e convenzionali.

Protendersi alla ricerca del vero e sostenere ciò che mi sembra vero e degno di attenzione, rispettando sempre il mio limite ed il mistero dell’altro.

Ubbidire, in tempo di conformismo mascherato da individualismo, può essere la più alta e significativa forma di trasgressione e di coraggio (parresia).

vita

/vita/

Il mandala ci ricorda la geometria sacra che origina la vita a partire da un piccolo segno (Bindu). Seme, goccia Principio uno che genera per espansione i molti. Seme del mondo statico e dinamico nulla e tutto finito e infinito farsi e disfarsi Il sogno di Shiva.

Ciliegi in fiore sul far della Sera anche quest’oggi è diventato ieri.

-Kobayashi Issa -

Accatastata per il fuoco la fascina comincia a germogliare

-Nozawa Boncho-

L’abilità di essere feriti. Abilità preziosissima. Capaci di essere feriti diventiamo capaci di guarire e curarci. Solo chi accetta la ferita si apre all’arte della cura. Ferita che, se non viene negata, può farsi feritoia da cui vedere ed essere visti come mai prima. In modo inedito. Guadagnando consapevolezza e potenza, oltre che credibilità umana e anche professionale.

Vulnerabilità è non avere sempre la risposta pronta, ammettere di non sapere, dubitare, esitare, commuoversi, esporsi accettando di non avere il controllo, aprirsi allo stupore e alla meraviglia.

Vulnerabilità è possibilità di sentire. Possibilità di farci attraversare dalla vita e goderne fino all’ultima goccia. E’ segno inequivocabile che siamo a contatto con la nostra pelle, con i nostri valori, con quanto intorno a noi. Segno che siamo vivi, perché la vita va sentita, altrimenti vita non è. Vulnerabilità è possibilità di essere toccati, raggiunti e quindi segno del legame che abbiamo costruito con cose e persone. Vulnerabilità è fragilità e, in quanto tale, ci ricorda che siamo capaci di andare in pezzi. Capaci di andare in pezzi diventiamo capaci di ricomporci, di assumere nuove forme, di ricucire con l’oro i cocci del nostro vivere ed evolvere, attraverso l’energia liberata dalle nostre fratture. Ricordiamo sempre, solo ciò che può rompersi può trasformarsi (altro che “anti-fragilità”!). Non c’è scelta tra essere vulnerabili o non esserlo. In quanto esseri umani siamo tutti per natura vulnerabili. La scelta è piuttosto tra il riconoscere la propria vulnerabilità e il negarla, tra il mostrarla e il nasconderla, tra il farne un punto di forza e il demonizzarla come un segno di debolezza. Chi contatta la propria vulnerabilità e la porta nel suo agire infonde fiducia, attrae, trasmettendo un messaggio all’altro potentissimo e radicale … “sei importante per me”.

vulnerabilità
/vul·ne·ra·bi·li·tà/
vuoto /vwo·to/

Vediamoci su zoom, parliamoci in zoom, facciamo cena su zoom... è possibile fare l’amore su zoom? Io divento immagine che si disloca nel tempo e nello spazio, sono qui presso di me, nella mia stanza e sono là dove sei tu e viceversa. Siamo più vicini, come fa supporre il termine zoom o siamo più lontani? Siamo fotogrammi di una narrazione che stiamo tessendo mentre la viviamo, ne siamo autori e spettatori e il grosso della trama è ancora tutto da scoprire. Il vicino e il lontano, la presenza e l’assenza cambiano di segno e di senso. È vitale inventare una nuova prossimità che non ci riduca ad immaginette chiacchierine, registrate e quindi replicabili, ma che con l’aiuto della vista e della immaginazione produca una maggiore pienezza di vita e di relazione. Ricordiamoci che quando guardiamo qualcuno vediamo sempre – al tempo stesso- il rapporto che esiste o potrebbe esistere fra noi. Ricordiamoci che siamo sempre più simili a mangrovie che vivono in acque salmastre (onlife) e quindi non è tempo di rimpianti di un tempo passato ma di costruzione di nuovi simboli e di nuovi codici che ci facciano sentire autori, protagonisti di nuove narrazioni e non sudditi di una tecnologia alienante. Può esistere un corpo on line che coincide con le narrazioni ed i dati condivisi nei diversi luoghi intersoggettivi frequentati in rete: tutto ciò che dice il nostro “esserci” on line. Siamo noi i decisori di tali narrazioni, i produttori delle immagini e delle nostre “pose” e stili. Non possiamo decidere tutto, siamo certamente condizionati dalla tecnologia e dalla doxa, ma restiamo umani proprio in quanto liberi di prendere in mano il nostro destino.

zoom /zuːm/

sei mosse per il futuro

6. Rompere il mito dell’autoconsistenza e della prestazione demiurgica

5. Stare nella corrente della vita

4. Sostenere l’ombra, la fragilità per recuperare forza

3. Scegliere –discernere; tagliare – sfrondare; aprire finestre per respirare aria nuova

2. Re-immaginare il tempo: ne freccia, ne linea continua ma sempre nuovo inizio

1. Fare spazio all’altro come unico

hanno contribuito:

barbara cancrini marco carcano tommaso carcano elisa falletta roberto ferrari maria giovanna garuti davide giancristoforo marina maderna matteo masciale licia maugeri gianpaolo mauriello elena meneguzzo marco meschini mauro montante francesca morgante andrea pallante francesca pasquariello annalaura perfetto enrico pirola stefano ravarini ludovica ravizza silvia roà antonella romani martina russo chiara sciotti elisa semeraro andrea volpe vito volpe

progetto grafico Sara Ghirardini stampato nel novembre 2022 via Lanzone 36 | Milano www.ismo.org | info@ismo.org

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