Interface HUB/ART - Attilio Terragni - Riverrun

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ATTILIO TERRAGNI Riverrun



ATTILIO TERRAGNI Riverrun

a cura di Elisabetta Longari


“NON TI APPARTIENE LA MATERIA, CIÒ CHE TI APPARTIENE È LA CAPACITÀ DI MODELLARLA.” Armando Zuccali (CEO – Interface Facility Management)

RIVERRUN di Attilio Terragni 22 giugno - 15 settembre 2017

A cura di Elisabetta Longari Ph opere d’arte: Antonio Salvador Graphic design: Davide Deluk 1 Riverrun - Interface HUB/Art


interfaceHUB:

ecco come è stato possibile plasmare la materia.

“Box under the sign of time”, questo il nome di battesimo dell’immobile in cui inaugura Interface HUB, nasce nel 2009 su progetto dell’architetto Attilio Terragni, sulle spoglie di una preesistente palazzina degli anni 60 situata in quella periferia milanese in cui grandi costruzioni si affiancano a piccoli edifici. Viene commissionato dalla famiglia Stoppani, proprietaria della celebre gastronomia milanese Peck, la quale ha la necessità di realizzare un magazzino “di lusso” destinato a contenere merce preziosa e di elevato valore economico. Requisiti fondamentali per la committenza sono: la sicurezza contro l’intrusione, il controllo della temperatura e dell’umidità e il rispetto dei parametri di luminosità tali da garantire massima illuminazione naturale dei locali. Il progetto, nonostante le stringenti norme urbanistiche, viene portato a termine nel 2011, anno in cui i 2/3 della società dell’arte culinaria meneghina vengono acquisiti da Pietro Marzotto. L’imprenditore veneto tuttavia sceglie di non acquistare l’immobile appena terminato, lasciando così il magazzino-laboratorio completamente vuoto. L’incontro con Interface Facility Management avviene quasi casualmente, agli inizi dell’anno in corso, proprio quando Armando Zuccali è alla ricerca di un magazzino dove collocare materiali e mezzi di trasporto della società. Box Under the sign of time, una roccaforte che si staglia nello skyline di in un paesaggio urbano anonimo, è un fulmine a ciel sereno, un’idea che si insinua in maniera repentina e si candida a diventare l’incipit

di una nuova storia da raccontare. Da quel momento la sua facciata, con le finestre a taglio orizzontale scure e profonde, diventa l’elettrocardiogramma di un cuore che riprende a battere. Nasce così Interface HUB: da prezioso magazzino a sede principale di Interface Facility Management e di Interface HUB/Art. Il parallelepipedo dell’edificio sembra incarnare perfettamente i valori della società, dinamismo, flessibilità ed innovazione, e diventa ben presto lo spazio ideale per sperimentare un nuovo modo di pensare e progettare il lavoro in un’ottica di smartworking, dove esigenze produttive e stimoli creativi si possano fondere. Un “contenitore” in cui il benessere e la conciliazione delle esigenze personali e professionali siano il fulcro attorno al quale far ruotare la gestione del tempo e il modo di lavorare e dove la flessibilità diventi un importante strumento per il raggiungimento degli obiettivi. Da una parete all’altra, l’edificio sembra che continui in prospettiva moltiplicando il suo repertorio di immagini e di idee: elemento distintivo è proprio Interface HUB/ Art, spazio espositivo che si offre come palcoscenico per le nuove generazioni di artisti e designer e si prepara ad un fitto calendario di eventi, workshop e mostre. L’inaugurazione diventa quindi un’occasione per testare sulla propria pelle l’esperienza di una materia che si ricompone e prova a persuadere anche gli occhi più distratti del fatto che nulla assomiglia a ciò che è. Greta Zuccali (Coordinator InterfaceHUB/ART)



TRANSITI NELLA CORRENTE

“RIVERRUN è la prima e l’ultima parola del Finnegars Wake di James Joyce. È una parola nuova. Tutti sanno che River è fiume e Run è correre. La parola composta diventa però un personaggio nuovo, una suggestione del tessuto sonoro, e ci introduce all’esperienza di riunire le cose e di vederne il flusso. RIVERUN ha tre volte la lettera R che fa del Ritmo dello scorrere la struttura interna della parola. L’arte non è questione di Stile o di idee, è l’esperienza del RRRitmo, la costruzione del nostro incontro scontro nel flusso del RIVERRUN. Come una giornata di infiniti anni che riparte ogni mattino. La verità è relativa.” (A.T.)

Che questa frase di Attilio Terragni sia il viatico per entrare nel suo mondo. È la migliore, la più adatta a svolgere questo servizio, proprio come una porta. Osservando le sue opere, infatti, ciò che salta subito agli occhi è la corsa delle linee, che diventano in alcuni casi veri e propri tagli, interruzioni delle superfici. In architettura come in pittura. Questo dato rende ancora più felice l’idea di inaugurare l’attività di un nuovo edificio firmato dallo stesso autore di cui sono esposti i dipinti nello spazio interno dedicato all’arte. La corrispondenza tra contenitore e contenuto è evidente: mentre cambia l’ambito operativo, i materiali e il modo di giocarseli - si noti ad esempio l’ascetismo cromatico della prova tridimensionale che non trova sempre riscontro sul piano bidimensionale, anzi spesso vivacemente colorato - la concezione del mondo è evidentemente la medesima. L’architettura, come i dipinti di Attilio Terragni, stabiliscono un immediato parallelo con il Finnegans wake di Joyce proprio relativamente alla decostruzione e ricostruzione del linguaggio sulle sue

infinite combinazioni e metamorfosi, come per restituire la ciclicità della vita. Un inno alla complessità e alla ricchezza del cosmo. Protagonista è la linea che, come insegna l’esperienza percettiva e come ha evidenziato dal punto di vista teorico in modo puntuale lo studioso francese Michel Pastoureau1, rappresenta il risveglio della superficie, uno dei suoi principali elementi di scarto, cesura e attivazione. Elemento particolarmente prepotente, introduce discontinuità e al tempo stesso indica la continuità del divenire, è segnale del flusso inarrestabile, essenza e perno del movimento, vettore direzionale, transito; dunque azione, e non forma. Proprio per queste sue caratteristiche la linea sembra il punto di partenza di uno dei “discorsi” preferiti da Attilio Terragni, architetto, pittore e fotografo, sembra rappresentare l’elemento archetipico a monte di ciascuna delle modalità linguistiche adottate, che tutte si avvalgono della linea come ponte che collega ma anche come taglio che separa, frammenta le superfici, le allontana/ avvicina e le perturba, mentre spesso collabora a creare una sorta di effetto specchio, una specie di duplicazione del simile che si rivela però presto come diverso. In piena continuità con i principi dell’astrattismo razionalista, lo spazio è relativo ed assoluto al tempo stesso, estensibile, infinito e mutevole. Anche se sembra inutile scomodare Le Corbusier e Mondriaan, occorre dire che la matrice


della concezione dello spazio è quella, anche se risulta di fatto quasi ribaltata. Il principale attore del detournement è l’intervento di una componente turbativa tutta postmoderna, strettamente relativa al tempo attuale, in cui l’utopia modernista è lasciata definitivamente alle spalle, come un sogno, per entrare nel regno della consapevolezza del principio d’indeterminazione e altre storie simili che minano l’onnipotenza dell’uomo, e lo ridimensionano. La coscienza della relatività, al di là della dichiarazione posta in esergo, è sottolineata dalla proposta espositiva fondata sul gioco di combinazioni delle tele, presentate prevalentemente in forma di dittico e trittico3, figure tradizionali della storia dell’arte che trovano qui una nuova vita soprattutto nel dinamismo delle linee. Torniamo alla scelta di inaugurare lo spazio contestualmente a una mostra di dipinti dell’architetto che ha firmato l’edificio; questa scelta, nello scambio dialettico tra esterno e interno, che funzionano come eco reciproca, comporta appunto un effetto di amplificazione dei valori. E torniamo alla linea, protagonista assoluta, che è prima di tutto movimento energia velocità, come insegnano anche i Futuristi e come è ben emblematizzato dalla scultura di Balla dal titolo Pugno di Boccioni, rosso incrocio di indicazioni direzionali. È stato fatto questo esempio per dire della potenza dinamica dei colori, che spingono anch’essi, accelerando la corsa delle linee; i colori sono portatori

di diverse temporalità e inclinazioni, contribuiscono in modo sostanziale alla forza della corrente, alla creazione delle traiettorie variamente orientate, a volte perfino contraddittorie. A causa di questo trattamento delle superfici, lo spazio si spalanca in aperture mai viste. L’insieme delle opere di Terragni esposte in questa occasione, se osservate con attenzione, concentrandosi su alcuni elementi precisi e i loro comportamenti, a volte sembra che si somiglino tutte, in altri momenti invece si potrebbe pensare che abbiano perfino autori diversi. L’immagine della complessità, del cambiamento, sta sotto gli occhi degli osservatori, abbagliati dagli effetti di solarizzazione, sorpresi dal gioco del rovescio tra positivo e negativo e altre ambiguità, catturati in particolar modo dai grandi formati delle tele e soprattutto a causa dell’allestimento ritmico molto serrato, che, attraverso la presentazione dei materiali sotto forma di una sequenza inarrestabile, restituisce ciascuno al proprio essere nel tempo. Ogni tela deriva dalla medesima concezione, del fare e del vivere: pensando a Perec, cos’è del resto la vita se non “passare da uno spazio a un altro cercando il più possibile di non farsi troppo male”2? La “figura” dell’esistenza è molto bene sintetizzata da questa polifonica attivazione dello spazio, condotta tramite operazioni che, come si è detto, danno luogo a esiti finali anche assai diversi tra loro. Tutte le tele di Terragni comunque instaurano un dialogo con le altre, fatto di contraddizioni e fratture con alcune,


1 | Michel Pastoureau, La stoffa del diavolo, Il Nuovo Melangolo, Genova 2007 2 | Georges Perec, Specie di spazi, Bollati Boringhieri, Torino 2013 3 | Composti da elementi largamente interscambiabili accostati tra loro secondo una logica combinatoria di carattere variabile.

ricco di assonanze privilegiate con altre, fino a sembrare membri della stessa famiglia. Corrispondenze, simmetrie e scarti tanto delle linee quanto delle stesure cromatiche, che giocano spesso sul contrasto tra l’opacità del colore acrilico contrapposta alla lucentezza del pigmento a olio. La trasformazione è il cuore dell’esistenza, e dunque di questo lavoro. Lasciamoci trasportare dal flusso di sciami di linee tratteggiate, che, con il loro preciso ticchettio, si organizzano come soldati di un solo esercito e si dispongono come falangi; quelle stesse linee improvvisamente danno vita a elementi simili a pentagrammi o esplodono in fuochi d’artificio, oppure a tratti si animano con movimenti quasi organici, come serpenti risvegliati dal suono del flauto o nastri e cartigli calligrafici mossi dal vento. La loro caratteristica è comunque la velocità: le linee corrono, e nessuno può fermarle, corrono a perdifiato in uno spazio immenso. A volte creano effetti ottici disorientanti, dal sapore perfino catastrofico, che fanno pensare a Piranesi e a Escher, specialmente per quella componente di “quasi” specularità tra uguali ma diversi, e per l’assetto sempre instabile dello spazio che impone slittamenti e accelerazioni, improvvise cadute e itinerari imprevisti. Cosa vedono i nostri occhi? È difficile da dire perché tutto cambia continuamente come in un film, un film di fantascienza però. Frattali, città, galassie, elementi che si aggregano momentaneamente,

addensandosi a creare un nucleo, per poi aprirsi, disperdersi, spazzati via da un vortice. Gli spazi contenuti nei formati delle tele, grandi ma non enormi, sono vastissimi, siderali, nonostante il cognome del loro autore appartenga all’immaginario ctonio. La linea è un ponte tra un dipinto e l’altro, e l’osservatore si trova irretito in un gioco di rimandi che ha un fortissimo potere di coinvolgimento. Attilio Terragni immette in un mondo dove l’aria è rarefatta e pura, dove il corpo, privo di forza di gravità, è lanciato in orbita, il volo è all’ordine del giorno, ogni transito lieve e ognuno segue inevitabilmente il corso più o meno accidentato del proprio destino. Come un turacciolo nella corrente, immagine metaforica dell’uomo immerso nel flusso della vita, secondo Pierre Auguste Renoir, uno dei più luminosi cantori del cambiamento.

Elisabetta Longari



































Sono nato a Como il 31 Agosto, il giorno di Sant’Abbondio, santo patrono della città, nel segno della vergine e da giovane ho cercato di curare le mie nevrosi con il tennis e il tennis è diventato per tanti anni il mio primo agar, (campo in sumero), il testo antico su cui mi sono veramente formato. Il campo è di polvere rossa, terra sottile, quel principio, la Terra, che i greci hanno fatto diventare il principio di tutte le cose, addirittura il principio della vita umana, della vita nell’universo, come se gli altri pianeti avessero una terra sterile e la nostra fosse di una qualità extra superiore, capace d’inventarsi me e tutti gli altri. Nel tennis la polvere si solleva, s’attacca al corpo, fa scivolare la palla con un suono sempre uguale e sempre diverso, timbro e larghezze d’onda simili ma vibrazioni diverse, fa risuonare ritmi così vicini al battito del cuore da portare la terra e il suo suono come una musica dove fioriscono i colpi migliori: tum, tum, tum, tum... eco di un suono della terra di tempi lontanissimi, di coltivazione di campi, di ritmi di costruzioni immense, di danze, di passi che l’hanno calpestata, corse degli animali scomparsi, estinti come i loro suoni. Nell’agar tennis più lo scambio si fa lungo più questo misterioso suono scende nelle voragini del passato, anestetizza il presente e lo sforzo dello scambio, stordisce come un’antica danza dionisiaca, diventa quell’eterna presenza che non potremo mai conoscere, gli infiniti passi e rumori della Terra, strumento ritmico unico...nascere e perire... tum, tum, tum, tum, tum...Insieme al tennis l’altro mio agar è stato il disegno. Per fortuna ho incontrato alle scuole medie il maestro Zia Napoleone che ha schiacciato i miei tubetti dei colori, che i miei compagni custodivano parsimoniosi. Non avevo mai visto tanta bellezza. Un mazzo di colori incantevoli. Tutti liberi, fluidi sul tavolo e, finalmente

liberati dalla mia presa da braccino tennistico. Era come essere dentro il pensiero del tubetto. Schiacciando tubetti di colori si educa un uomo alla generosità dell’arte: libertà fisica del tubetto schiacciato che espande lo sguardo per sempre. E ancora oggi vedo il mondo attraverso un tubetto. In quello scarto minimo tra quest’inizio sembra avvenire qualcosa di eccessivo, ma non posso correggerlo perché era proprio così. Lì è successo tutto. Perché l’essere giovane è iniziare tutto daccapo. E poi è lì che si decide il confine tra le cose e con sé stessi, tra quelli che lo se lo chiedono e quelli che non se lo chiedono: dove è il confine delle nuvole? dove è il confine delle persone? Sono cresciuto nella ripetizione di questi due agar. O meglio la ripetizione è cresciuta insieme a me, e io mi sono sempre riposato appoggiato a questa ripetizione. La ripetizione è ovunque: in tutti gli esseri umani, nelle loro idee e nelle loro azioni. La ripetizione non è qualcosa che avviene qualche volta, c’è sempre, continuamente. Tutte le persone e le cose ripetono, si ripetono, in continuazione. Come un grandissimo eco, come quel rumore delle automobili che sento quando cammino ai bordi di un’autostrada. Mi chiedo; chissà perché arriva un momento in cui c’è questo irrinunciabile appuntamento con la biografia nell’immensità dell’universo e dei suoi misteri. Forse è un momento inutile, ma le cose inutili mi hanno sempre attratto come una calamita attira una fabbrica di pezzi in alluminio. C’è sempre qualcosa da notare, commentare, di cui parlare, di cui scrivere e in certo senso di cui disegnare, perché come sarebbe possibile vivere senza disegnare il mondo? Attilio Terragni


LIGHT FROM ANOTHER ROOM, 2017 Stampa digitale, 50x50 cm

LIGHT FROM ANOTHER ROOM, 2017 Stampa digitale, 50x50 cm

ZABRISKIE POINT, 2016 Acrilico e china su tela, 130x190 cm,

ZABRISKIE POINT, 2016 Acrilico e china su tela, 130x190 cm,

SOUND FROM ANOTHER ROOM, 2017 Acrilico e china su tela, 130x190 cm,

SOUND FROM ANOTHER ROOM, 2017 Acrilico e china su tela, 50x50 cm,

SHARDS OF MEMORY, 2017 Olio e acrilico su tela, 130x190 cm,

NATURE, 2017 Olio e acrilico su tela, 130x190 cm,

NATURE, 2017 Olio e acrilico su tela, 130x190 cm,

STRANGE DAYS, 2017 Olio e acrilico su tela, 130x190 cm,

SOUND FROM ANOTHER ROOM, 2017 Olio e acrilico su tela, 130x190 cm,

SOUND FROM ANOTHER ROOM, 2017 Olio e acrilico su tela, 130x190 cm,

SOUND FROM ANOTHER ROOM, 2017 Olio e acrilico su tela, 130x190 cm,


SOUND FROM ANOTHER ROOM, 2017 Olio e acrilico su tela, 130x190 cm,

IN THE CITY OF LIGHTS, 2017 Olio e acrilico su tela, 130x190 cm,

WAVES OF TIME, 2016 Olio e acrilico su tela, 130x190 cm,

WAVES OF TIME, 2017 Olio e acrilico su tela, 130x190 cm,

WAVES OF TIME, 2017 Olio e acrilico su tela, 130x190 cm,

POETRY OF WORDS AND NUMBERS, 2017 Olio e acrilico su tela, 130x190 cm,

VISION, 2016 Olio e acrilico su tela, 130x190 cm,

NATURE, 2017 Olio e acrilico su tela, 130x190 cm,

VISION, 2017 Olio e acrilico su tela, 130x190 cm,

VISION, 2016 Olio e acrilico su tela, 130x190 cm,

VISION, 2016 Olio e acrilico su tela, 130x190 cm,

AUTORITRATTO, 2016 Olio e acrilico su tela, 130x190 cm,




Via Privata Passo di Pordoi, 7/3 - Milano


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