Buone nuove dalla terra di zard narrazione e promessa di senso nella poesia di ida travi

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Titolo: Buone nuove dalla terra di Zard. Narrazione e promessa di senso nella poesia di Ida Travi Autore: Luigi Bosco Edizione a cura di: In realtà, la poesia Anno: 2013 Vol.: 17

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Buone nuove dalla terra di Zard. Narrazione e promessa di senso nella poesia di Ida Travi di Luigi Bosco

In realtĂ , la poesia 2013



Buone nuove dalla terra di Zard. Narrazione e promessa di senso nella poesia di Ida Travi

Ultimamente – e forse a torto – ho maturato la convinzione secondo la quale per essere davvero contemporanei – o “assolutamente moderni”, come avrebbe detto qualcuno – il miglior modo è quello di essere post postmoderni. Con le sue due ultime raccolte di poesia - Tà. Poesia dello spiraglio e della neve1 e Il mio nome è Inna. Scene dal casolare rosso2, entrambe edite da Moretti&Vitali - Ida Travi supera il postmoderno intercettando una offerta di senso “assolutamente moderna”, che origina tanto al di fuori della tradizione poetica tipicamente lirica come lontano dalla rinuncia critica del senso tipicamente antilirica, fondando ciò che in un’altra occasione ho avuto modo di definire ‘una nuova mitologia contemporanea’3 e inaugurando il ciclo di una epica post postmoderna che narra non le lunghe gesta di grandi eroi, ma i gesti brevi di chi semplicemente è sopravvissuto. Tà. Poesia dello spiraglio e della neve, Moretti&Vitali, 2011. Da ora in avanti TÀ. Il mio nome è Inna. Scene dal casolare rosso, Moretti&Vitali, 2012. Da ora in avanti INNA. 3 Ricominciare da TÀ. Per una nuova mitologia contemporanea, pubblicato su Poesia 2.0 il 29 Luglio 2011. 1 2

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Quel che «sembra un racconto, ma non lo è»4, è degno delle migliori trilogie cinematografiche, ma del tutto privo di spettacolo, di effetti speciali, di trama5: il tempo è un «futuro remoto»; «l’area è suburbana e soprannaturale»; l’atmosfera è spettrale e postatomica, ma conserva un alto grado di familiarità; «c’è elettricità, ma si usano le candele. Il telefono non funziona più». La terra di «Zard» è «un campo grigio», in cui pure crescono alberi e qualche ciuffo d’erba, con in mezzo «un casolare rosso». È un luogo «limitato da assi, chiuso da lenzuola» dove un inceneritore si staglia alto come una colonna d’ercole, accanto ad un cancello verde con un cartello con su scritto «vietato». Nella terra di «Zard» «si parla, scrivere è un castigo». È tutto ridotto all’osso. Gli esseri che la abitano, i «Tolki»6, hanno «nomi mondiali» (Olin, Attè, Inna, Antòn, Katrìn, Usov, Zet, Nikka, Sasa, Ur) e qualcosa di antico, di «arcaico». Sono archetipi, «esseri comuni: sono post (post-studenti, ex lavoratori, viandanti)». «Sono estranei e vivono come fratelli. Fanno famiglia». Soprattutto: «sono esseri di questo mondo, l’esatto contrario degli dei». Gli abitanti di «Zard» sono esseri indifferenziati, privi di «paese» e di «età»; si possono riconoscere «dalle tute, dai grembiuli collettivi». «Portano pastrani, berretti, galosce. Hanno sempre in tasca una borraccia».

Tutte le parti in corsivo da qui in avanti, se non altrimenti indicato, sono tratte dalle note dell’autrice che aprono le due raccolte. 5 “per amore della verità abbiamo rinunciato ad ogni abbellimento”. Cfr. la nota dell’autrice in TÀ. 6 “ ‘Chiamiamoci Tolki’ disse. ‘Noi siamo i Tolki’. Disse i Tolki perché ricordava l’antica parola inglese talk. Disse Tolki, i parlanti”, Cfr. la nota dell’autrice in INNA. 4

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Sembrano esseri «da poco nati alla parola, vivono incollati al loro nome». «Non concludono mai il discorso e da quello che dicono si ricava ben poco». La loro lingua «è misera, è una lingua da nulla». «Ripetono sempre le stesse cose e si vergognano di una parola in più»: pronunciano «quattro parole in croce, tutto qui». Gli abitanti della terra di «Zard» sono «in conflitto tra sé e sé e sono in conflitto tra loro». Si possono vedere ma «solo ogni tanto», scorgendoli per un attimo «inquadrati a strisce dietro lo spiraglio»: «da un lato ci sono loro e dall’altro ci siamo noi». Però: «loro chi? noi chi?». «Vanno e vengono», «fanno cose strane»: a volte, per esempio, «se ne stanno per ore alla finestra e fissano il campo come condannati, come esiliati in casa». Sono esseri «astuti, selvatici». «Stanno in guardia». Sono «legnosi, pronti ad ardere per niente». Sono «chiusi in se stessi, ombrosi come le lettere di un alfabeto perduto». Sono «come un vetro: si può guardare attraverso il loro isolamento». «Puri sintomi del tempo, sono intrecciati al tempo e nient’altro»: «proiettati sulla terra da qualche amore, vivono a modo loro, sperano cose così piccole che si sentono nell’aria». «Sacri e miserabili, misteriosi e semplici», «ci inquietano con la loro esistenza». «Aspettano», ma non si sa bene «cosa»; forse «lo scatto», «la parola che risveglia». Nel frattempo, vivono come sanno e come possono in un «Tà», questo luogo che è una specie di limbo, una terra di mezzo «crudele come un orologio al muro». La Travi afferma che gli antichi greci con Tà annunciavano la natura plurale delle cose e degli esseri del mondo: «Tà come tavolo, talamo, tasca. Tà come fine di eternità... realtà, libertà... volontà... verità, vanità, carità, carità, carità!». Tà, aggiungerei io, come “possibilità”, già che queste sono 9


«voci spente gettate sul nostro sonno... Eppure, nel bel mezzo del sogno, il corpo si sveglierà, sarà nuovo». La essenzialità, più che una caratteristica cercata o voluta, è una necessità intrinseca ai versi di queste due raccolte della Travi, la quale sembra assumere la funzione di intermediario, speaker di parole pronunciate da altri ed altrove che le vengono suggerite, sussurrate, tramandate. D’altronde, non potrebbe essere altrimenti, visto che la epopea del post-mondo di cui questi versi raccontano si compone di schegge narrative, frammenti, pezzi di un puzzle che cerca in qualche modo di ricomporsi; resti minimi che spuntano tra le macerie come rovine visibili, identificabili solo perché, un po’ più alte, si stagliano sul resto che giace ai loro piedi da mille anni. Quelli della Travi sono versi che compongono scene spurie, prive cioè di una origine o termine noti, prive di un inizio o, comunque, di un senso inteso come direzione narrativa, orizzonte verbale, prospettiva storica. Sono versi permeati da una indeterminatezza diffusa che impedisce alla narrazione di consolidarsi in un racconto; piuttosto, essi «fanno memoria», si pongono, cioè, come deposito di una promessa di senso, materiale proto-mitico che cristallizza le parti di un discorso andato in frantumi tempi or sono trasformandole in accidentali monadi di senso cui attingere per comporre, eventualmente, una nuova storia. Ma non è questa una pietra dello scandalo né un elemento di sorpresa: non è, infatti, la nostra l’era della fine delle grandi narrazioni? dell’esaurimento delle antiche strutture narrative? Ciò che invece risulta sorprendente della poesia di Ida Travi è il luogo narrativo all’interno del quale i versi si 10


dispongono e si organizzano, prendono forma. È un luogo wittgensteiniano della possibilità7, cioè del libero arbitrio8; un luogo logico, ovvero lecito e, perciò, possibile, nel quale le proposizioni, avendo riconosciuto i limiti del linguaggio che le compone, si preoccupano di mostrare ciò che non possono dire9, senza presentare il conto di alcuna assertività, alcuna finalità etica o di senso (che poi è la stessa cosa); senza alcun interesse nei confronti di una verità che, nonostante tutto, emerge prepotentemente manifestandosi come elemento costitutivo in sé di ciò che attraverso di esse viene pronunciato, acquisendo, per ciò stesso, una legittimazione. Un elemento di verità, insomma, che, essendo il senso del mondo fuori di esso10, non lo spiega né a sé lo piega, ma lo esibisce assumendo su di sé la irrefutabilità di una constatazione, l’evidenza di un dato di fatto - e infatti chiedete all’albero se sa perché vive 11. Se questa pacifica convivenza, nei versi di Ida Travi, tra indeterminatezza e necessità non sfocia in una caotica e sterile dispersività ma, al contrario, in una offerta alternativa di senso, ciò è dovuto al lavoro di contenimento della forma. gli eventi del futuro non possiamo arguirli dagli eventi presenti. La credenza nel nesso casuale è la superstizione. L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, Einaudi, 2012. 8 Il libero arbitrio consiste nell’impossibilità di conoscere ora azioni future, Ibidem 9 “Gli oggetti io li posso solo nominare. I segni ne sono i rappresentanti. Io posso solo dirne, non dirli. Una proposizione può dire solo come una cosa è, non che cosa essa è”, Ibidem. 10 Ibidem 11 Tutti i versi citati appartengono alle due raccolte oggetto di analisi. 7

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È la forma, infatti, che organizza il materiale apparentemente di scarto, gli accidentali frammenti narrativi di cui si compongono le due raccolte qui oggetto di analisi; ed è la forma che veicola un senso, piuttosto che il contenuto designato dalle parole usate - che potrebbero essere diverse senza che ciò comporti necessariamente uno stravolgimento. La forma di Ida Travi è quella della oralità: i suoi versi sono quelli di una poesia scritta per essere detta (scrivere nella terra di Zard è un castigo), caratterizzata da una prominente indole orale che con i modi del dire tenta di fondare i modi dell’agire, poiché senza il tramandarsi della vita e della voce, entrambe intese come gesti pieni che antecedono qualunque esercizio di coscienza, la parola si svuota e svuotandosi muore sulla pagina già morta, in silenzio, come se non fosse mai successo nulla. Un tempo il paese era bianco sembrava uno zucchero Poi la secchiata d’inchiostro e adesso più niente, più niente. A leggere le poesie di TÀ ci si riempie la bocca: le parole sono dense, i discorsi fluiscono pastosi in assoluto contrasto con la suggestiva evanescenza delle immagini proposte. Immagini che fanno tornare indietro al tempo neonatale in cui «si ascolta con la bocca»12, disseminando «l’integrità concettuale della cosa in sé … nella molteplicità dei suoni e dei casi»13. Ed è proprio per «questa frantumazione, per questa 12 13

Ida Travi, L’aspetto orale della poesia, Moretti&Vitali, 2007. Ibidem.

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dissoluzione dell’unità del vero, che il poeta tiene chi ascolta chiuso in un incantesimo e non lo lascia pensare»14. L’eliminazione di «impalcature linguistiche utili all’enunciazione di principi astratti»15, ottenuta grazie all’utilizzo di una lingua ridotta all’osso, contribuisce alla costruzione di un discorso in cui prevalgono enunciati di fatto: in questo tipo di poesia «qualcosa si compie, qualcosa accade, fosse anche soltanto il verso stesso»16. Questo tipo di scrittura – capace di rinunciare alle esigenze del discorso funzionale della parola operativizzata, senza per questo assoggettare le proprie necessità espressive alle forme di un ermetismo tardonovecentesco o del manierismo neoavanguardistico – denota la spiccata volontà di allontanarsi da qualunque tipo di formalismo di un linguaggio poetico fine a se stesso che rischia di ridurre la presa di coscienza eticopolitica che l’autrice vorrebbe universalizzare ad una personale lotta espressiva tema di acutissimi dibattiti critco-accademici. I versi Impossibile tornare al passato, impossibile guardare al futuro posti in esergo a TÀ riassumono in poche parole tutto lo stallo del mondo, tutto l’impasse dell’uomo. Non avendo la poetessa alcuna pretesa oracolare

Ibidem. Ibidem. 16 Ibidem. 14 15

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Tanto nessuno ha portato il libro Nessuno può fare la profezia più che una rivelazione o un ammonimento, queste parole risuonano come la constatazione di un dato di fatto noto a tutti, divenuto a tutti gli effetti parte integrante di quella che chiunque è in grado, oggi, di riconoscere – arrendevolmente e con disarmo – come la propria condizione esistenziale. Ed è proprio intorno a questo dato di fatto che si è costruita molta della letteratura del secolo scorso e quella della decade che ci siamo appena lasciati alle spalle. L’impressione, però, è che il razionalismo postmoderno in connubio con previsioni apocalittiche, utopie disastrose, iper-realismi catastrofici, futuri distopici e nostalgici ritorni a improbabili tempi in cui si stava meglio quando si stava peggio, non abbiano lasciato molto spazio all’esercizio della speranza, ovvero alla pratica della possibilità non c’è un vicolo non c’è una strada esci, e sei nel deserto ma in fondo… guarda, là in fondo un cedro, un cedro! Il decostruzionismo da un lato e, dall’altro, il moralismo critico sembrano aver riempito tutti gli spazi del linguaggio che, convertitosi necessariamente in mera retorica degli eventi, è stato privato a mano a mano di

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tutta la sua potenza creatrice di nuovi sensi e, dunque, di nuovi mondi. E così È finita con la polvere nel piatto Abbiamo alzato il tiro, e adesso ai nostri piedi C’è la rondine morta C’è la rondine morta, presa a fucilate Presa a fucilate proprio a metà del volo Come abbiamo imparato in poesia L’estenuante ripeterci, anno dopo anno, lo stesso monito ha fatto sì che dal paventarlo passassimo, impercettibilmente e senza soluzione di continuità, al viverlo come una specie di inesorabile profezia che si autoavvera - la prova tangibile di quanto il linguaggio possa incidere sulla nostra percezione del reale, sulla nostra costruzione della realtà. Platone ha cacciato i Poeti dalle città un milione di volte, ormai, e non c’è rimasto più né tempo né spazio per le favole: impossibile tornare al passato, impossibile guardare al futuro. Ci restano solo le innumerevoli descrizioni, enunciazioni, analisi, astrazioni, trascendentalizzazioni, decostruzioni di un presente sempre uguale a se stesso che, sentendo così forte la pressione del futuro, si rende interminabile per poterlo contenere ed accogliere. Il presente che ci mostra Ida Travi, al contrario, è un presente dichiarativo, intemporale, lontano, cioè, da qualunque contingenza e, dunque, forte della pienezza di un immanentismo che lo slega tanto dal passato come dal futuro, consentendogli di fungere da àncora o punto di partenza.

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Nel tempo della proclamata fine delle ideologie e delle grandi narrazioni, nell’era della sparizione dei cosiddetti soggetti storici, la persona assume la irriducibilità di una monade spinoziana, un connubio di corpo e spirito che disegna una figura apparentemente troppo esile e frammentaria per sostenere il peso della Storia. Sarebbe però un errore di valutazione affrontare la questione con criteri appartenenti al passato: in un momento in cui praticamente tutte le categorie fondative della politica e del diritto sociale vengono messe radicalmente in discussione, è necessario partire dalla base, dall’esistenza cioè di un elemento di fondo che sia inalienabile, irriducibile, su cui fondare una questione antropologica attraverso cui poter leggere una dimensione della realtà al di fuori di qualunque assetto istituzionale. In tal senso, l’operazione attraverso cui Ida Travi mitizza l’intimità di una sfera privata (la vita degli abitanti di Zard) coinvolge quell’insieme di soggetti non in una redistribuzione istituzionale di poteri che privatizzano parti di mondo, bensì in una redistribuzione di gesti e di doveri che fondano una rinnovata sfera pubblica. In tal modo, Ida Travi indica non solo che un altro mondo è possibile, ma anche che altre forme di potere e organizzazione sociale possono in esso essere srutturate partendo dalla base: la persona. C’è chi afferma – ed io ne sono convinto – che questa non sia l’unica realtà possibile. Se ciò è vero, allora è lecito pensare che tocchi (anche) alla poesia proporne di nuove, di radicalmente nuove. Farlo è rischioso e risultano necessari molta forza e molto coraggio per sostenere il peso di tanta responsabilità: altro che poesia civile o filosofia politica, qui si sta parlando di azzerare tutto e 16


ricominciare daccapo. Per ciò è necessario abbassare il tiro e, «per amore della verità», «rinunciare ad ogni abbellimento» ho poche parole e m’arrangio con quelle non voglio far torto a nessuno non voglio incantare nessuno volevo solo imparare dalla rondine Mi sembra di poter affermare che, con queste sue due raccolte, Ida Travi tenti di fare proprio questo: assumersi parte della responsabilità di offrire al mondo la possibilità di una nuova realtà, con tutti i rischi che ciò comporta Parlo del mondo parlo del sogno fuori Lo fa proponendo ciò che, come detto in apertura, si potrebbe definire una “nuova mitologia contemporanea” che «narra ciò che in realtà non è, o non accade una volta per tutte, ma si fa, fuggevolmente diventa»17, perché «si narra proprio quel che si cancella, cioè quel che si toglie dal reale e si trasforma in opera»18: deporre segni, emettere suoni, è sempre un sovrascrivere al già scritto, un sovrapporre al già detto, quindi un cancellare – fosse anche il bianco di una pagina o il silenzio di una stanza. E infatti, quella della Travi è una mitologia che non proviene dal totalmente altro, che non è il frutto di un intromissione esterna o di un intervento divino, ma è il risultato di un processo endogamico di rigenerazione del 17 18

Ibidem. Ibidem.

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già esistente che non rischia mai di diventare una tautologia c’è qualcosa che ci domina l’unica via d’uscita è qui dentro La mitologia di Ida Travi è un posto reale, dove l’esperienza supera il pensiero; è quella parte di mondo rimasto ancora inesplorato «più pericoloso della terra», dove il rischio è perdersi; è un luogo del mondo «a cavallo del tempo» che era caduto dietro l’occhio, ecco Perché non si vedeva più! È una mitologia che non si fonda su un atto di fede degli uomini verso un profeta, bensì su un patto di fiducia tra esseri accomunati dalla medesima tragicità, poeticamente intesa come «il fatto di dover nascere e morire, di dovere, in questo lasso, inscrivere una storia di cui non siamo a conoscenza, se non alla fine dell’opera»19. Una mitologia, perciò, che non ha confini se non quelli dei margini della pagina scritta o della lunghezza d’onda della voce. Una mitologia incompleta, che è solo agli inizi, un abbozzo di innumerevoli piccole storie delle quali la Travi ci offre brevi scatch, singole sequenze, puntuali episodi di una saga, lunga come la Storia, ancora tutta da scrivere, da costruire, da vivere e raccontare. Compiti, questi, che non spettano solo al poeta ma anche e soprattutto al lettore, perché 19

Ibidem.

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cosa può fare la prima della fila con questo gelo? che riparo ha?

Per cominciare è necessario uno scambio a fondamento di un patto di fiducia tra lettore e poetessa: ella è disposta a prestare il suo occhio Intanto, prendi da me questo occhio Guarda al lettore che offrirà l’orecchio all’ascolto E tu dammi l’orecchio Se si accoglie con fiducia l’invito della poetessa Sii te stesso, per favore Lascia stare il fantasma al di là di ogni pregiudizio, si produce un incantamento capace di liberarci da ogni barriera del funzionalismo retorico del pensiero «attraverso uno stato di sospensione del reale, o una forma di dissoluzione temporanea del mondo nella molteplicità dei segni»20 che consente, almeno in quell’istante, di esperire il sollievo che deriva dal «superamento del tragico» in atto.

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Ibidem

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Ma quali provviste, Olin la merce siamo noi, siamo la merce che può fare acquisti Olin, te lo dico in un orecchio e tu dammi l’orecchio quando l’aquisto riguarda il pane, i tempi sono prossimi alla redenzione Questi pochi versi di incontestabile efficacia hanno la stessa portata di un manifesto che, in risposta al contemporaneo svuotamento etico dell’ambito politico, figlio del diktat neoliberista, cercano di proteggere e preservare quel che si è salvato dalla colonizzazione del miraggio capitalista e dalla contro colonizzazione del sintomo comunitarista, attraverso l’universalità delle sue affermazioni21. E cosa si è salvato? La lucida consapevolezza del proprio stato, delle proprie condizioni umane, che nei versi di Ida Travi si manifesta con una concretezza e materialità così intense da sembrare il frutto di una autopercezione piuttosto che di un atto di coscienza te lo dico per l’ultima volta, Zet qui c’è una legge che parla chiaro - bisogna vivere da umani, lo capisci? Per questa ed altre ragioni cui accennerò di seguito, ritengo che sia TÀ sia INNA siano due raccolte poetiche profondamente politiche e, più in generale, credo di poter Cfr. Il fenomeno comunitario nell’era della quarta dimensione per maggiori approfondimenti sulla questione del miraggio capitalista e del sintomo comunitarista. 21

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affermare che sia un atto profondamente politico la vita di Ida Travi nel suo insieme, fatta di piccoli gesti quotidiani che evitano il clamore; fatta di insegnamento nelle scuole e di incontri di poesia con gli studenti e con il mondo del lavoro attraverso i sindacati; fatta di convivenza piuttosto che appartenenza ad un ambiente istituzionale o istituzionalizzato che la Travi, invece di limitarsi a criticare formalmente, usa come uno strumento a suo favore per la messa in atto di un cambiamento sostanziale, anche a costo di una totale esclusione o di una presenza periferica, sempre comunque preferibile all’assorbimento ho visto lo scarafaggio correva sul cucchiaio che importa? [...] quel buio là in fondo lo vedi? è peggio... è peggio era molto peggio un secolo fa quando tiravi sera, un secolo fa quando guardavi il soffitto nel lucido alloggio governativo non avevi il cucchiaio mangiavi da solo, dormivi da solo nel lucido alloggio governativo Allo stesso modo, queste poesie sono tanto politiche quanto lontane da quella che generalmente viene considerata ‘poesia civile’: a differenza di questa, infatti, quella di Ida Travi è una poesia libera dalla retorica della

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critica e della denuncia e che, alla polemica accondiscendente e consolatoria delle lotte contro i mulini a vento, preferisce la problematizzazione del contesto sociopolitico dal quale essa stessa origina ed al quale appartiene e che, per ciò, non viene mai rinnegato. È questo atteggiamento spurio allora che fa davvero la differenza: le parole di Ida Travi non sono un atto di ribellione e di rinnegamento tipico di chi crede di essere nel giusto e di avere la soluzione in tasca; al contrario, la Travi sa benissimo che la soluzione in tasca non la ha ci dev’essere un pezzo di pane ci dev’essere un cesto di mele da qualche parte ma dove, ma dove… e, soprattutto, sa perfettamente che - se mai ne esistesse una, visto che non possiamo consacrare la casa, Zet non abbiamo la campana non potrebbe trovarla da sola lo vedo bene ch’è buio è notte anche per me non credere Il discorso di Ida Travi, dunque, è necessariamente pieno di incoerenze e contraddizioni, di difficoltà questo posto mi ammala questa sedia è mortale voglio alzarmi 22


e di speranza è lo stesso principio del miracolo, Zet è la fine dell’alluvione tutto ritorna al suo posto di dubbi e certezze Io non ci credo e se nasco di nuovo me ne andrò Altro che una sedia e un bambinetto ci deve essere modo d’andarsene da qui in una parola: pieno di umanità. Allo stesso tempo, è un discorso figlio del suo tempo, che affronta questioni come l’educazione, il lavoro, l’ambiente, le relazioni sociali, la paternità, la religione sempre questa storia della colpa, Zet sempre questa storia della punizione ma guarda là in fondo, guarda un cero, un focherello… con richiami chiaramente orientali a cui si devono l’economia del pensiero, il ridimensionamento delle sue derive metafisiche hai troppo azzurro intorno alla testa ti serve una fascia marrone un cappello contadino 23


e la chiave ecologista (nel senso etimologico della parola) l’albero è cresciuto di notte è cresciuto di colpo è molto più alto dell’inceneritore che sottende tutto il discorso, volto ad incoraggiare il ritorno dell’uomo al posto ed alla dimensione che gli spettano sta’ giù con la testa, dammi retta devi fare come il sasso devi legarti alla terra mostrale l’occhio rosso più da vicino, incollalo! Leggere o, meglio ancora, ascoltare Ida Travi non è difficile: ci si abbandona volentieri e senza diffidenza alla voce che ci chiama e che noi riconosciamo come umana, sorella e, dunque, familiare: sono nata e nessuno m’ha detto niente c’era questo animale dappertutto sulle fasce, sulla croce, in fondo alle calzine * siamo baciati dallo spirito del tempo ci bacia sulla testa lo spirito del tempo è così che ci pettina, ci inchina *

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ognuno se ne sta come un bicchiere al suo posto, al suo posto aspettando che venga una mano * siamo come sacchi nel buio, tempestati da piccole gocce di sangue le stelle ci credono morti ci guardano a lungo, attonite * dormiremo nel cesto come le noci e passeranno i secoli * e tutto questo per sentirsi così soli per vivere sempre così sperduti... La Travi (o chi per lei attraverso la sua voce) si presenta dicendo io sono la figlia del contadino, aggiungendo subito dopo appartengo alla nostra epoca, come per evitare fraintendimenti da un lato, e dall’altro sottolineando con un gesto inclusivo (nostra) che anche noi tutti lo siamo figli del contadino, frutto dei suoi frutti e dei frutti della terra di cui ci nutriamo per vivere. A conferma di ciò, vi è una domanda che la Travi ci pone quando ci chiede perché, pur essendo figli della terra, dalla terra abbiamo imparato così poco, come se lo avessimo dimenticato 25


Se è vero che sei figlio del fornaio dimmi perché dalla farina abbiamo imparato così poco, dimmi perché non ci voltiamo quando passa il carretto, e ci chiama Inneggiare, oggi, al sentimento di appartenenza dell’essere umano alla terra fuori dei confini ideologici della retorica politica del potere, non solo rappresenta un invito rivolto a tutti al recupero delle proprie radici e della propria dimensione umana, ma identifica allo stesso tempo quella che potrebbe essere la causa delle nostre difficoltà esistenziali che pena quell’andare in giro senza un nome quell’andare tutti in fila, senza un nome *

è per via delle radici è sempre così quando perdi le radici ogni cosa lascia il suo posto ogni cosa lascia il suo posto e cade E questo stesso sentimento di appartenenza è ciò che spinge la Travi ad affermare che non c’è dubbio, non c’è dubbio queste cose sono qui per noi lo schermo, il lume sono qui per noi il mondo ci saluta, è Zet! fa cenno con la mano... è qui per noi. 26


ma anche ciò che sta alla base della manifesta necessità di un ritorno alla dimensione umana a spese del pensiero astratto e delle sue derive metafisiche hai troppo azzurro intorno alla testa ti serve una fascia marrone un cappello contadino * non tirare la tenda non farlo il sole ti cadrà sugli occhi sarai cieco tutto svanirà non vedrai più la strada dove a testa bassa ti aspetta il cavallo * quel chiodo è lì dall’inizio non puoi toglierlo * sono cose dell’altro mondo, Zet sono cose che non avrai mai mai!

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A chi dovesse manifestare preoccupazione per il suggerito ridimensionamento dell’eccessivo impiego del pensiero nella vita umana a spese di tutto il resto, la Travi specifica da un lato che si tratta solo di un ridimensionamento e non di una eliminazione dì solo la parola che ti salva oppure fa’ qualcosa, pensa. e dall’altro incalza affermando cosa importa se non trovi la parola ci sono le mani e i piedi versi, questi ultimi, nei quali risulta evidente non solo una implicita influenza da parte della filosofia orientale, ma anche un più esplicito richiamo all’antica filosofia e cosmologia greca, nello specifico ad Anassagora secondo il quale “l'uomo è il più sapiente di tutti i viventi perché ha le mani”. Di conseguenza, è lecito affermare che per Ida Travi il pensiero assume un valore solo se il suo compimento avviene nell’agire, in una corrispondenza tra parola e gesto che unisce sophia e praxis in ciò che un tempo era considerata una prerogativa degli dei: la techné. Per questo: Prima d’accendere lo schermo va’ nell’orto da’ un’occhio all’insalata […] sono benedette le nostre schiene il collo è benedetto, sono benedette le nostre braccia. ma se dimentichi se tu dimentichi... perderai la grazia 28


giacché tu metti il fiore nell’acqua e il fiore si riprende il fiore non sa quel che fa ma quel che fa è meglio L’intero impianto teorico o ideologico (nell’accezione positiva del termine) di Ida Travi si fonda su una constatazione per nulla estranea al senso comune e che ciascuno di noi ha sicuramente fatto almeno una volta nella sua vita: siamo andati avanti e indietro per secoli, avanti e indietro per secoli, convinti d’essere noi i padroni... e adesso?

Ecco, appunto: è adesso? Questa è la domanda che chiunque oggi si sta ponendo ed è già un grosso passo avanti il fatto di essere tutti d’accordo sulla questione da porsi. Il passo successivo è riuscire a trovare un equilibrio nella soluzione. Le due raccolte di Ida Travi - TÀ e INNA - pur evitando sempre, come già accennato, di offrire soluzioni readymade, contengono numerosi spunti di riflessione che, pur nella loro estrema semplicità, non rappresentano una lista di luoghi comuni. Ida Travi è assolutamente consapevole del fatto che, malgrado i presunti passi in avanti compiuti dall’uomo,

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è come nella grotta come se vivessimo ancora nella grotta * di tutto questo non resterà che una briciola e che tutto il mondo è malato come un bambino piccolo come un bambino senza la mamma * abbiamo preso troppi esempi e adesso cosa sarà di noi? Nonostante ciò, la stessa Ida Travi afferma che qualcosa è bene, qualcosa è male mi senti? e perciò esclama cosa fai... alzati! dobbiamo lavorare davanti al bambino perché veda il raggio e impari e perché, in fondo

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cos’altro vuoi fare, Zet... cos’altro fa una famiglia nelle lunghe sere d’inverno? Piange? Allora, se così stanno le cose, non ci resta molta scelta: possiamo piangere nelle sere di questo nostro lungo inverno, oppure fare in modo che il bambino impari a vivere, a essere un uomo; impari a vivere come un essere umano. Cosa che di per sé sembra possedere un elevato livello di intuitività, ma solo in apparenza. In realtà è più facile di quanto non sembri essere inumano (disumano); per questo è necessario essere all’altezza adoravano i figli senza amarli ecco perché fa così freddo, qui ecco perché gli abitanti di prima non hanno lasciato traccia e preparare il terreno raccoglieremo il ferro da terra il bambino crescerà lontano dalla ruggine per proteggere chi ancora non sa cosa può diventare togli il bambino dai libri è finito in mezzo i libri vai a prenderlo insegnagli come si tiene la vanga non vedi che comincia dalla fine?

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* sono solo zanzare, Sasa quel che vedi non è la verità il sole sorgerà un’altra volta, te lo giuro cresceranno le mele rosse. * dormi beato, Sasa, dormi qui sotto l’occhio dell’orso presto fiorirà il limone e tu ricadrai nel profumo le ombre se ne andranno, te lo giuro anche Zet te lo giura, questo allarme non sarà per sempre * copriti Sasa ci si ammala, qui Tra cento anni, lo so verranno gli angeli verranno a salutarci diranno siamo noi diranno siamo noi siamo già stati qui è qui che abbiamo smesso di essere felici e voi invece...

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voi siete venuti in lacrime vi siete sciolti in lacrime vi siete consolati coi nostri fazzoletti Il rischio della disumanizzazione dell’umano non è un’invenzione di Ida Travi o frutto di una delle tante teorie complottiste così di moda oggi, ma un pericolo tangibile che tutti corriamo quotidianamente, il più delle volte senza assumerci ciascuno le nostre responsabilità tutto il vicinato inveiva si gettava contro il nostro silenzio tutti alzavano la mano con fare minaccioso come se fosse facile vivere ancora qui * gridava: uscite, parlate! prendeva a pugni la porta ma perché, dico io, che colpa abbiamo noi? siamo forse noi i colpevoli della sua infelicità? Arriverà, però, il momento in cui noi cadremo in ginocchio come le viole e allora si vedrà di chi è il torto! *

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un giorno avremo vergogna abbasseremo la testa per la vergogna come quando ho scordato il giuramento, come quando di nascosto ho bruciato la lettera Fino a quel momento, però, nell’attesa che arrivi quel giorno con la sua vergogna, possiamo ancora fare qualcosa. E quel che ci resta per farlo sono le mani. Per questo adesso lavoriamo prendi la vanga! : scava.

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