Ticino 7

№ 47 del 21 novembre 2014 · con Teleradio dal 23 al 29 nov.

GLI ALIENI

Come vivono e come si integrano gli oltre mille studenti stranieri che frequentano i college ticinesi?

Corriere del Ticino · laRegioneTicino · Tessiner Zeitung · chf 3.–

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Ticinosette allegato settimanale N° 47 del 21.11.2014

Impressum Tiratura controllata 66’475 copie

Chiusura redazionale Venerdì 14 novembre

Editore

Teleradio 7 SA Muzzano

Redattore responsabile Fabio Martini

Coredattore

Giancarlo Fornasier

4 Arti Joshua Oppenheimer. La seconda sconfitta di Mariella dal Farra ....................... 6 Media Serial TV. Per conoscere l’Egitto di Marco alloni ......................................... 10 Letture Meret Bissegger. L’inverno ai fornelli di Giancarlo Fornasier ........................ 11 Società Pro Juventute. Mai troppo tardi di roberto roveda .................................... 12 Vitae Gabriele Motta di roberto roveda ................................................................. 14 Reportage Radio Fiume Ticino a cura della redazione; Foto di reza Khatir ............... 39 Storie Il nonno e il buio di Pietro Martinelli; illustrazione di ursula bucher ............... 46 Tendenze Scarpe. Di buon passo di Marisa Gorza................................................. 48 Svaghi .................................................................................................................... 50

Agorà Scuole e integrazione. Ciao Frankie!

di

Marco Jeitziner ..................................

Photo editor Reza Khatir

Amministrazione via Industria 6933 Muzzano tel. 091 960 33 83 fax 091 960 31 55

Direzione, redazione, composizione e stampa Centro Stampa Ticino SA via Industria 6933 Muzzano tel. 091 960 33 83 fax 091 968 27 58 ticino7@cdt.ch www.ticino7.ch www.issuu.com/infocdt/docs

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(carta patinata) Salvioni arti grafiche SA Bellinzona TBS, La Buona Stampa SA Pregassona

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In copertina

Alla scoperta del Ticino Illustrazione ©Bruno Machado

Origini dibattute La lettera, di cui riportiamo per ragioni di spazio un estratto e che a breve commenteremo, è stata pubblicata integralmente sul Giornale del Popolo del 10 novembre. Riteniamo possa essere di grande interesse per il lettore l’articolo di Carlo Baggi (“Creazione evolutiva”) pubblicato sul n. 46 di Ticinosette.

Buona lettura, Fabio Martini Egregi signori, in un articolo apparso su Ticinosette del 31 ottobre (“All’attacco di Darwin”, di Amanda Pfändler) si mette in guardia da (...) chi nella scuola pubblica, abusivamente e intollerabilmente, anziché presentare la teoria dell’evoluzione (la sola scientificamente dimostrata), persiste nell’insegnare il creazionismo fondato sulla Bibbia. Ora è inammissibile insegnare nella scuola pubblica teorie che non attengano strettamente all’ambito scientifico. Le si potranno tutt’al più insegnare a religione. Bisogna dunque vigilare per scongiurare questo pericolo.

Da quanto se ne sa, per la teoria evoluzionista all’origine del tutto non vi è un creatore (ossia una causa prima immateriale, distinta dalla materia, che si suole identificare con Dio) ma il “caso”. (...) L’uomo sarebbe “semplicemente un animale estremamente evoluto” ma non sostanzialmente diverso da altri animali, come, per esempio, la scimmia. La teoria evoluzionista, si fonderebbe su evidenze oggettive equivalenti a fatti e non a semplici opinioni. Così, stando all’articolo, si sarebbe espresso il direttore del DECS, Emanuele Bertoli. Ora, anche volendo ammettere come vero l’evoluzionismo, in questa teoria vi sono asserzioni che non persuadono, come quella secondo cui la materia, increata, esiste per forza propria e quella secondo cui l’uomo è un animale come un altro. Per quanto riguarda la prima tesi è da dire che è difficile credere che

possa esistere qualcosa che non abbia avuto una causa, che si fondi semplicemente sul nulla. (...)

Per quanto concerne la questione uomo, (...) è mai possibile che dalla materia inanimata possa saltar fuori, a furia di evoluzioni, un essere pensante come l’uomo? E, inoltre, è mai possibile che, anche volendo partire soltanto dalla scimmia (l’animale simile, corporalmente, all’uomo), da una bestia governata dal solo istinto abbia potuto derivare un essere razionale?

Ora, anche senza essere scienziati, si può stare certi (lo si può dire apertamente senza tema di smentita) che la dimostrazione irrefutabile, matematica di questa metamorfosi non esiste ne mai potrà essere portata semplicemente perché impossibile da portare. Si potranno tutt’al più avanzare delle ipotesi ma nessuna certezza. In ogni caso, credere che l’uomo possa derivare dalla scimmia esige un atto di fede molto maggiore di quello occorrente per credere alle “favole”della Bibbia. Ora si lasci pure insegnare nelle scuole la teoria dell’evoluzione ma non si permetta di presentare come assolutamente certa (tale da escludere a priori qualsiasi altra diversa tesi) la tesi secondo cui l’uomo è un essere derivato in tutto e per tutto dalla materia e insinuare così indirettamente, che tutto quanto non può essere dimostrato scientificamente (sperimentalmente), come l’esistenza di Dio e tutto quel che ne consegue, altro non è che fantasia. Insomma, il pericolo grave non dovrebbe essere tanto quello di presentare, accanto all’evoluzionismo, anche il creazionismo, quanto piuttosto quello di far credere che tutto quanto esula dal cosiddetto metodo scientifico dev’essere scartato in partenza. Se i racconti della Bibbia non meritano di essere tenuti per veri meno lo meritano ipotesi scientificamente non dimostrate né dimostrabili.

Con ossequi, F. F. (Airolo)

Ciao Frankie!

Scuole e integrazione. Nei dintorni di Lugano sono presenti due importanti college internazionali che ospitano complessivamente oltre un migliaio di studenti provenienti da tutto il mondo. Come vivono la nostra realtà? E noi che cosa facciamo per accoglierli? di Marco Jeitziner; illustrazione ©Bruno Machado

T

orno su un argomento che ho già trattato1. Vi sarà già capitato di passeggiare per le vie di Lugano, o di presenziare a qualche tradizionale evento cantonale, e sentire dei giovani parlare inglese, magari con un forte accento nordamericano. Vi sarete certamente chiesti chi siano costoro. Potrebbero essere degli studenti della Franklin University Switzerland (FUS) di Sorengo o della The American School in Switzerland (TASIS) di Montagnola, due importanti istituti internazionali privati che, da cinquant’anni ospitano oltre un migliaio di giovani, americani, russi, tedeschi, francesi, inglesi, mediorientali, sudamericani, caraibici ecc.

Ma cosa sappiamo di loro? E loro di noi?

Agorà 4

Realtà poco conosciute Personalmente sentii parlare del Franklin anni fa durante una uscita serale. Si diceva che alcuni giovani statunitensi frequentassero un Irish Pub. Tra noi c’era chi cascava dal pero, con un “Davvero? Vivono qui? Tra di noi?”. Qualcuno forse se ne rallegrava, pensando ai festini alla Animal House o a “capolavori” come Le ragazze del Coyote Ugly.

Del TASIS non ho mai saputo nulla, per contro. Se di lacune vogliamo parlare, direi che questa situazione è dovuta sia a noi, sia a loro (anche se qualcosa pare stia cambiando, come vedremo). Se tendiamo a ignorarci, e questa è l’impressione, vien da dire che tali realtà internazionali, qui in provincia, abbiano poco senso da un punto di vista sociale. Se molti ticinesi hanno un problema con tutto ciò che “viene da fuori”, va detto che anche queste “scuole straniere” non si sono sempre sforzate per integrarsi nel tessuto sociale.

Quanto accadde nel 2006, per esempio, lo dimostrerebbe.

L’autorità scolastica cantonale aveva “ricordato” al TASIS l’obbligo legale di far sapere, non quali fossero i piani di studio, ma quali e quanti allievi vi erano iscritti2! Se qualcuno (noi) ha dovuto ricordarlo, qualcun altro (loro) se n’era dimenticato. Ci volle la notizia dell’espulsione di una bambina dal TASIS per riportare l’attenzione su questa realtà.

Una lunga tradizione Ciò stupisce se pensiamo che la Svizzera vanta una lunga tradizione di prestigiose scuole internazionali. Ogni anno esse accolgono migliaia di giovani da ogni dove: la Federazione svizzera delle scuole private stima3 a 100mila i giovani iscritti e otto su dieci sono stranieri (un dato persino in controtendenza rispetto ad altri paesi). Sono scuole certamente “di lusso”, con rette annuali che oscillano tra i

20 e 90mila franchi l’anno, frequentate da figli di industriali, diplomatici, politici, banchieri, scienziati, manager ecc.

Inoltre, queste due scuole non sono nate ieri: il TASIS esiste dal 1956 ed è il più antico collegio americano in Europa, mentre il Franklin risale ai primi anni settanta. Infine, non sono frequentate da quattro gatti, ma da 700 studenti il TASIS e da 400 il FUS. Ora, con tutto ciò, com’è possibile che il sottoscritto, ma non credo di essere il solo, sappia così poco di loro? Forse li invidiamo un po’? Invidiamo il fatto che al TASIS studiano all’interno di Villa de Nobili, che fu del marchese Rino de Nobili, ex deputato, ex diplomatico, nobile genovese antifascista fuggito sulle rive del Ceresio dopo il delitto Matteotti? Lo sapevate che de Nobili giocò un ruolo chiave nel convincere gli americani a liberare l’Italia4 e che la villa fu teatro, nel 1943, di importanti incontri tra la Resistenza italiana e i servizi segreti statunitensi e inglesi? Sembra la sceneggiatura di un film. Chi di noi non avrebbe dei ricordi di scuola e di vita migliori se avesse studiato in una splendida magione del 17esimo secolo, anziché in un grigio blocco di cemento e ferro?

Una comunità unita Stando al sito englishforum.ch la comunità anglofona in Ticino sembra molto unita. Vi si parla anche del FUS e del TASIS luganesi: vogliono sapere chi siamo, come si vive qui ecc. Premesso che basterebbe che ci frequentassimo un pochino per scoprirlo, scorrendo il forum emergono aspettative, ambizioni e problemi comuni a (quasi) tutti i giovani. Ecco alcuni stralci.

Nel 2010 uno studente americano del FUS si disperava perché aveva perso al casinò tutti i soldi per studiare (15mila franchi) e non trovava lavoro dato che “tutti chiedono l’italiano”. Da più parti giunsero consigli e sostegno morale, del tipo “la vita è bella, specialmente a Lugano”, oppure “vivi in Svizzera, quindi non ti preoccupare per i soldi”, o “ci vuole poco per sperperare quei soldi, specie se non sai la lingua, non hai amici, (...) e che spesso i ragazzi del Franklin e del TASIS sono «carichi»” (di soldi, ndr). Nel 2011 un altro studente americano che frequenterà il FUS chiede lumi sulla scuola e sul territorio. Uno risponderà che “è pieno di ragazzi ricchi e impertinenti che frequentano l’Irish Pub a Sorengo”, ma si scuserà e dirà che “sembrano tutti gentili, educati, probabilmente intelligenti, bravi studenti”. Questi stralci sono a mio parere significativi perché confermano l’impressione iniziale, e cioè che la conoscenza reciproca è lacunosa.

Dalle parole ai gesti La (loro) mancanza di apertura, per loro stessa ammissione, starebbe cambiando. Per esempio, sono recenti gli scambi tra FUS, USI e SUPSI, e il TASIS, sappiatelo, organizza delle “porte aperte”. Lo leggo su un portale locale5, ma la notizia è passata pressoché in sordina: un caso? Non sappiamo quanti ticinesi abbiano visitato la scuola, ma questi studenti pare si diano parecchio da fare per capire la nostra piccola realtà, bella o brutta che sia. Nella rivista Tasis Today apprendiamo che una o due volte al mese compiono “attività” sul territorio: presso le mamme sole in difficoltà di “Casa Elisabetta”, gli anziani della casa “Al Pagnolo”, la Croce Rossa (insegnano l’hip-hop ai ragazzini luganesi), SOS Ticino (incontrano i giovani richiedenti l’asilo per “aiutarli ad adattare la loro vita a Lugano offrendo attività culturali e lezioni di lingue”). Il TASIS offre anche dei corsi di inglese ai residenti, ma saranno frequentati? Chi lo sa. Se tutto questo è vero, quanti studenti ticinesi possono dire di fare altrettanto via da casa, magari in altri cantoni universitari?

Ebbene, la “nuova tendenza” delle scuole internazionali sarebbe quella di “studiare fuori dall’aula e scoprire il mondo che ci circonda”6. Savannah Hillebrand, studentessa della Florida al terzo anno al FUS, s’è recentemente chiesta: “Chi siamo e che sforzi stiamo facendo per integrarci all’interno di Lugano?”, perché “purtroppo la distanza dal centro (insieme alle barriere linguistiche) rischia di allontanare gli studenti dalla forza vitale della comunità di Lugano”7. Apprezzo la riflessione, anche perché è posta in italiano.

La nostra reazione La giovane Savannah credo abbia ragione: una scuola internazionale, per portare quei benefici di cui stiamo parlando, dovrebbe stare in città e non in un paesino isolato di nemmeno 2mila anime e che, per di più, di Lugano non ne vuole (politicamente) ancora sapere. Ma il nostro atteggiamento? Stando alle parole dei politici locali, questi giovani internazionali sono i benvenuti, ma nei fatti mi pare che in pochi se ne interessino. Negli atti dei consigli

comunali di Sorengo, Montagnola e Lugano si accenna soltanto a faccende tecniche o alle biblioteche delle due scuole. Per il resto, risulta addirittura che dessero... fastidio!

Il motivo è l’annoso “psicodramma” cantonale: rumore, schiamazzi, disturbo della quiete ecc., a tal punto che nel 2010 a Sorengo pare ci fosse una specie di Bronx.

Alcuni studenti stranieri furono all’origine di “un senso d’insicurezza e timore nella cittadinanza”8. Oibò! Organizzavano razzie nelle villette o derubavano le vecchine?

Macché, si frequentavano con dei ticinesi! Erano incontri a volte troppo “rumorosi” per le orecchie degli abitanti, come dire che i giovani di New York, in tal senso, sono come i giovani di Lugano. Be’, cosa accadde? Nel 2010 invece di incentivare gli scambi, per l’impareggiabile ex sindaco-monarca di Sorengo, a capo del comune per ben 24 anni consecutivi, la soluzione fu la repressione! Impose un servizio di sorveglianza “particolarmente specializzato e formato” per questo problema. Non solo, nel 2011 un altro luogo d’incontro, il già citato Irish Pub, venne costretto a chiudere in anticipo, poi alla chiusura definitiva, salvo poi ricorrere e vincere la causa perché “il comune non ha provato altre misure meno incisive”9.

Da un paio di anni il locale ha riaperto, gli incontri ravvivati. Oggi l’attuale sindaco dice10 che è “un onore” ospitare il FUS perché è una scuola “integrata nella nostra piccola realtà”.

Francamente non so più a chi credere, e voi? note 1 Vedi “Integrazione e pregiudizio” in Ticinosette n. 25/2012 e “L’accoglienza è importante” in Ticinosette n. 30/2013.

2 Dalla risposta del Governo all’interrogazione di Francesco Cavalli del 2 febbraio 2006.

3 swissinfo.ch, 7 agosto 2011.

4 Corriere della sera, 9 febbraio 2010.

5 tio.ch, 10 maggio 2013.

6 Ibid. 3.

7 L’Universo n. 1/2014.

8 Sorengo In Forma (n. 16/2010), organo informativo del comune.

9 tio.ch, 13 febbraio 2012.

10 Giornale del popolo, 13 aprile 2014.

Agorà 5

La seconda sconfitta Il regista Joshua Oppenheimer ritorna con un’opera di denuncia e di impunità.

In “The look of silence” i familiari della vittima incontrano i suoi assassini, tra cruda verità e spiragli di umanità di Mariella Dal Farra

Arti 6

“Cosa succede a una società quando gli assassini vincono?” si chiede Joshua Oppenheimer, regista di The act of killing, durante la conferenza stampa di presentazione del suo secondo documentario sul genocidio indonesiano: The look of silence. “È come andare in Germania dopo l’olocausto e scoprire che i nazisti sono ancora al potere. […] Questa è la storia di una famiglia che ha vissuto per decadi nel silenzio che segue alla perpetrazione di un’atrocità, particolarmente quando non è stata fatta giustizia”.

Premio speciale della giuria al Festival di Venezia 2014, The look of silence consiste in una lucida ricognizione nel dolore di una famiglia il cui figlio è stato trucidato durante i massacri che, nel 1965, segnarono la presa di potere da parte del generale Suharto. Costrette a vivere in prossimità dei propri aguzzini, il dolore di queste persone assume forme diverse: cieco e sordo come l’anziano padre, che si dice abbia ormai 107 anni; implacabile, ma straordinariamente composto come quello della madre; sgomento e in cerca di risposte come quello del protagonista, Adi Rukun, fratello dell’ucciso, nato a due anni di distanza dalla morte del primo figlio.

La pochezza degli aguzzini Se in The act of killing il fuoco era su coloro che hanno commesso le stragi (vittime stimate, circa un milione di persone), in The look of silence l’attenzione si sposta sulle vittime, che assumono il sembiante esemplare di Adi Rakun, quarantaquattro anni, di professione oculista.

Accompagnato dalla telecamera di Oppenheimer, Adi rende visita agli assassini, partendo da coloro che hanno materialmente eseguito le uccisioni fino ai leader politici che ne hanno pianificato l’attuazione.

La calma tenacia del protagonista nel chiedere conto di quanto è successo al fratello, rivolgendosi a persone che ammettono tranquillamente i propri crimini, ma senza mai assumersene la responsabilità morale, trasforma questa tragica inchiesta in un’indimenticabile dimostrazione

del perché, dopo tutto, si debba avere fiducia negli esseri umani. Nonostante la sua oggettiva vulnerabilità, appare infatti chiaro come Adi sia il più forte, mentre gli aguzzini, disumanizzati dal potere o resi dementi dalle loro azioni (più di uno racconta di avere bevuto il sangue delle proprie vittime “per non diventare pazzo”), si rivelano in tutta la loro raccapricciante pochezza.

Il “solito” Werner Herzog…

The look of silence è forse “l’unico film nel quale una vittima si confronta con i propri perpetratori mentre questi detengono ancora una posizione di potere”, precisa Oppenheimer: dopo la distribuzione, la famiglia di Adi Rakun ha dovuto trasferirsi a migliaia di chilometri di distanza dal luogo d’origine, proprio per evitare ritorsioni. Per lo stesso motivo, analogamente a quanto avviene in The act of killing, la maggior parte della troupe che ha realizzato il documentario è contrassegnata nei titoli di coda come “anonimo”.

I produttori, invece, sono “in chiaro”: come nel precedente documentario, si tratta del regista Werner Herzog e di Errol Morris, coautore del libro La ballata di Abu Ghraib e autore di Standard Operating Procedure, il documentario sulle testimonianze dei soldati che commisero gli abusi nel carcere iracheno1. E non è un caso (oltre a costituire un dato storico) che il lato oscuro dell’America compaia anche qui, nell’iconica forma di uno pneumatico della Goodyear, all’epoca monopolista del mercato della gomma. “Gli americani ci hanno insegnato a odiare i comunisti”, afferma uno degli assassini: “Avrebbero dovuto regalarci un viaggio-premio negli USA per il lavoro che abbiamo fatto”.

Joshua Oppenheimer si conferma autore di straordinaria onestà intellettuale, nonché di inusitata efficacia nel documentare il potenziale distruttivo insito nelle persone, così come la loro impressionante capacità di redenzione. note 1 Produttori esecutivi sono inoltre Signe Byrge Sørensen e André Singer.

L’impossibile, realizzato.

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Per conoscere l’Egitto La produzione cinematografica è spesso una fonte inesauribile di figure preconfezionate e generalizzazioni. Non è il caso di “Sijn al nisaa”, specchio fedele della società egiziana di oggi di Marco Alloni

Mi domando spesso come mai il grande cinema egiziano, non solo quello classico, non sia praticamente presente in traduzione italiana. In effetti nell’immaginario collettivo il cinema nilotico è quasi esclusivamente associato a due nomi: l’attore Omar El-Sharif e il regista Yussef Chahine.

Molti altri grandi nomi della cinematografia egiziana sono sacrificati sull’altare della cultura mediterranea. E non servirebbe fare la lista per dare la misura della loro ampiezza.

Media 10

ci mostra, in una sorta di rilettura kafkiana del presente, l’indissolubile coincidenza fra vittime e carnefici e fra buoni e cattivi, in una spirale di accadimenti all’interno della quale nessuno alla fine si salva.

Non si salva la protagonista, la carceriera Ghalia che finisce per essere ingiustamente accusata di omicidio e quindi reclusa nel suo stesso istituto penitenziario. Non si salva il deuteragonista (il secondo attore principale), vero assassino e marito della donna, che nella sua dubbia moralità è comunque a sua volta espressione di un mondo martirizzante e discriminatorio. Ma soprattutto non si salva la società nel suo insieme, a cui una sorta di ancestrale maledizione impone sempre la parte della vittima e il destino della sconfitta.

L’Egitto, fuori dagli stereotipi Eppure eccellenti prodotti sono individuabili anche ai nostri giorni. E uno di questi merita senza dubbio di incontrare l’interesse, per esempio, del Festival del Film di Locarno. Si tratta della serie televisiva Sijn al nisaa (“La prigione delle donne”) della regista egiziana Kamla Abu Zekri.

Oltre la rivoluzione Per chi volesse conoscere l’Egitto Assistere a un film del genere – che, fuori dalle strettoie della cronaca, ripeto, meriterebbe una traduzione tale film rappresenta probabilmenin tutte le lingue occidentali – te la testimonianza più appassionaequivale in qualche modo a bypasta e spietata per avvicinare questo sare l’intera cultura degli stereotipi paese, al di là degli stereotipi con sul Medioriente e riconoscere, in cui siamo soliti accostarlo. poche ore di visione, l’essenziale Una delle protagoniste del serial Sijn al nisaa Attraverso i migliori espedienti di quanto sta accadendo oggi in dell’arte cinematografica, la serie Egitto. È vero, le notizie ci raccontelevisiva mette in luce una realtà a tutto tondo di fonda- tano soprattutto di fatti esteriori che fanno la sostanza mentale importanza: quella dell’indigenza e della dispe- della nostra cognizione del mondo. E altrettanto vero è razione che accompagna la maggioranza degli egiziani. A che l’Egitto ha conosciuto una rivoluzione, tanti scontri partire da una regia e da una fotografia che tratteggiano di piazza e migliaia di vittime innocenti su un fronte e mirabilmente una serie di stupefacenti ritratti della vita sull’altro. Ma è altresì vero che le vere vittime della sua degli egiziani, ci consegna un’opera che è di diritto fra i storia recente covano in un sottotesto della cronaca che capolavori degli ultimi decenni. questo film ci svela in maniera impeccabile.

Terzomondismo? Estetica della miseria? Nient’affatto. In Si tratta di vittime di una società in cui rubare, mentire, questo film, fuori dagli stilemi di una certa retorica del appropriarsi indebitamente della fiducia altrui, spacciare vittimismo tipica di molto cinema egiziano, non incon- droga, corrompere e lasciarsi corrompere, rientrano in triamo nulla che assomigli al compiacimento vittimistico. una sorta di fatalità ignorata, il cui disconoscimento ci Al contrario, a farla da padrone è l’esattezza di un realismo impedisce di cogliere l’essenza dell’Egitto dei nostri tempi. che dipinge la realtà del paese con la compassata precisione Se un suggerimento possiamo dare è dunque di dotarsi, di un quadro rinascimentale. Nessuna inutile verbosità è quando possibile, degli strumenti per osservare la realtà lasciata alla sceneggiatura. E la recitazione, magistrale, ci al di fuori dei suoi più o meno ordinari accadimenti. Sijn trasmette immagini che se indulgono all’oleografico lo al nisaa offre una di queste straordinarie opportunità. fanno con pieno diritto estetico.

Sono certo che dopo averlo visto nessuna delle nostre idee Semmai abbiamo a che fare con quella che vorrei definire sull’Egitto sarà mai più semplice, semplicistica o solamente la crudezza poetica di ogni grande film. Una crudezza che approssimativa come in passato.

Letture L’inverno ai fornelli di Giancarlo Fornasier

Funghi,

cipolle, barbabietole, zucche, cavoli, castagne, rape, coste, cicorie, sedano... senza dimenticare erbe e spezie: ogni stagione ha le sue specialità, e autunno e inverno certo non fanno eccezione.

Dopo il notevole La mia cucina con le piante selvatiche (apparso nel 2011), le edizioni Casagrande di Bellinzona propongono la versione in lingua italiana del nuovo volume della “cuoca di Malvaglia”, Meret Bissegger. In oltre 380 pagine vengono presentate 40 verdure disponibili alle nostre latitudini, alla base di circa 150 ricette, con combinazioni, abbinamenti e consigli fantasiosi e sorprendenti, a dimostrazione della ricchezza di prodotti e gusti che la natura è in grado di regalarci (e che purtroppo abbiamo dimenticato...). Oltre a piatti semplici e suggerimenti sulle preparazioni, Bissegger dispensa utilissimi consigli anche sulla conservazione delle verdure e tante idee per presentare piatti originali. Senza dimenticare la presenza puntuale di schede sul lavoro di piccole e medie aziende – in

Ticino, nella Svizzera tedesca e in Italia – che operano nell’ambito dell’agricoltura biologica (presidi Slow Food inclusi). Una conferma sia dell’amore che l’autrice nutre verso la cucina e la natura, ma in particolare del suo intento di riscoprire e coltivare un profondo dialogo tra produttori e consumatori, al fine di promuovere un’agricoltura e dei prodotti sostenibili per un consumo consapevole e critico. I 14 “Spunti di riflessione” che costellano l’opera diventano così anche un modo per “fermarsi” e pensare a ciò che raccogliamo, acquistiamo, portiamo a casa e mettiamo a tavola.

Come già avvenuto per il libro dedicato alle piante selvatiche e spontanee, anche questo volume è arricchito dalle bellissime fotografie di Hans-Peter Siffert – sono oltre 300! –, alcune delle vere “nature morte” in grado di mostrarci la grande paletta cromatica che i mesi tra settembre e marzo offrono.

Insomma, se amate la cucina, la natura e i suo prodotti (o desiderate farli amare) ecco un ottimo punto di partenza.

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Per chi sa cos’è la bontà. www.selection.migros.ch

La mia cucina con le verdure autunnali e invernali di Meret Bissegger; fotografie di Hans-Peter Siffert Edizioni Casagrande, 2014

Mai troppo tardi

Il suicidio è uno dei tabù moderni, ma il silenzio e la rimozione non aiutano certo a prevenire i drammi. Pro Juventute tenta di invertire questa tendenza con “Just a moment before”, progetto multimediale rivolto ai giovani in difficoltà di Roberto Roveda

Società 12

La nostra è una società che ha rimosso il tema della morte. Si preferisce non parlarne, quasi per una sorta di scaramanzia oscurantista. Ancora di più il silenzio avvolge il dramma di chi, pur vivendo nella benestante e spesso opulenta Confederazione, sceglie di togliersi la vita. Parliamo di circa 1400 persone ogni anno (su ben 25mila tentativi di suicidio!), il triplo delle morti che avvengono negli incidenti stradali.

Tra queste vittime del “mal di vivere” ci sono giovani, giovanissimi, anche bambini tanto che il suicidio è la seconda causa di morte tra i bambini e i giovani in Svizzera (10-19 anni) ed è la prima causa di morte tra gli adolescenti e i giovani adulti nella fascia di età tra i 15 e i 24 anni. Secondo i dati forniti da Pro Juventute (projuventute.ch), l’organizzazione che negli ultimi anni più si è occupata di suicidio giovanile, tra bambini, adolescenti e giovani adulti, nella Confederazione si registra un suicidio ogni quattro giorni e nel nostro paese circa l’11% degli adolescenti coltiva seri pensieri di morte. Il 30% di tutti i ricoveri nei reparti di psichiatria pediatrica e giovanile avvengono in seguito ad azioni suicide e depressioni.

Un momento prima di togliersi la vita….

Per affrontare questo problema drammatico e soprattutto provare a prevenirne le cause, la Pro Juventute ha lanciato molte campagne di sensibilizzazione sul tema del suicidio giovanile e ha avviato il servizio di consulenza “+ aiuto 147” (147.ch) che ogni giorno riceve almeno una telefonata da parte di una bambina o di un bambino con intenti suicidi. Lo spirito che anima queste iniziative è provare ad andare alla radice del problema, cercare di capire come possono agire gli adulti – genitori, insegnanti, educatori, parenti – per rilevare i campanelli d’allarme che ci dicono che quel giovane o quel bambino sta soffrendo e ha bisogno di aiuto. Prima che sia troppo tardi...

Ma cosa passa per la mente di un giovane in quegli attimi che precedono il tentativo di togliersi la vita? Questa è la domanda che si è posta ultimamente la Pro Juventute della Svizzera Italiana e alla quale sta cercando di dare una risposta con l’aiuto di un progetto multimediale dal titolo Just a moment before (“L’attimo prima”). Il progetto in questione è molto ampio ed è entrato nella sua fase operativa a marzo con la pubblicazione sul sito justamomentbefore. com degli episodi della prima serie web di informazione

educativa realizzata nella Svizzera italiana. Si tratta del primo tassello di un progetto vasto perché la campagna Just a moment before è un vero e proprio work in progress: si sta lavorando, infatti, a una pièce teatrale, un radiodramma, un’animazione, un videoclip. Verranno quindi utilizzati media diversi, dal teatro alla radio, dal web al cinema, dalla televisione all’editoria ai social network con l’obiettivo finale di produrre un lungometraggio nel quale, più che parlare di suicidio, si cerca di sottolineare l’importanza di prendersi cura dei ragazzi.

Momento centrale del progetto un workshop tenuto l’aprile scorso a Losone, nel quale sono stati coinvolti alcuni ragazzi assieme a professionisti del cinema e dell’educazione. Lo scopo: trattare assieme ai giovani il tema del suicidio e di come prevenirlo con la massima attenzione possibile, in modo da capire i ragazzi vedono questa complessa situazione e capire perché si arriva a compiere un gesto tanto estremo. Del progetto Just a moment before parliamo con il direttore della Pro Juventute Ticino, Ilario Lodi: Just a moment before nasce dalla necessità di poter comprendere quelli che sono i segnali che i ragazzi ci mandano quando nella loro persona comincia a prendere corpo l’idea che porta fino al gesto estremo. Noi vogliamo che l’adulto si renda quanto più consapevole di questi messaggi. Abbiamo chiamato il progetto proprio “l’attimo prima” perché questo è un titolo che si presta molto bene non soltanto a trattare il tema della prevenzione del suicidio, ma in generale dell’importanza della vita. Perché in quell’attimo prima si possono giocare moltissime cose.

Ma quali sono questi messaggi? Come riconoscerli?

I segnali che ci mandano i ragazzi sono moltissimi. Purtroppo non sono uguali per tutti, cambiano da soggetto a soggetto. Non si può dire – sarebbe assurdo – che un ragazzo che non parla o che non mangia più è un ragazzo che sta meditando il suicidio.

Questi segnali però, suggeriscono qualcosa. I giovani usano, magari in modo inconscio, anche dei “messaggi” molto espliciti che manifestano un loro bisogno di colmare dei vuoti, di entrare in relazione con gli adulti. I vuoti in questione possono essere di tipo affettivo, relazionale, o legati allo sviluppo di profili di personalità non ancora compiuti. Compito degli adulti è comprendere e farsi carico di quelle che sono delle implicite richieste di aiuto. Parlo non soltanto degli adulti che fanno parte della cerchia familiare del ragazzo, ma degli adulti in generale perché ognuno di noi ha una responsabilità nei confronti dei giovani.

In che senso è una responsabilità “collettiva”?

Ritengo che gli adulti debbano continuamente interrogarsi su quali siano le pratiche che non mettono i ragazzi nelle condizioni di crescere nel migliore dei modi possibile. I giovani hanno bisogno di immagini, di contenuti, di concetti forti. E noi invece spesso forniamo loro tutto ciò che ha a che fare con l’effimero o, il che è ancora peggio, con il banale.

Quindi in una società come la nostra esistono vuoti che i giovani avvertono e che aumentano il loro disagio?

Assolutamente sì. Ma preferirei definire la questione in altri termini: i vuoti, più che aumentare il disagio, non permettono ai ragazzi di crescere come meriterebbero. Il disagio è una situazione estrema e io non sono dell’avviso che oggi la condizione giovanile sia in quella del disagio, anche se la maggior parte degli investimenti vanno in quella direzione. Sì, perché lo stato e i privati investono moltissimo sulle situazioni di marginalità, come gli abusi, le molestie, gli affidamenti, tutti quei settori che hanno un bisogno assoluto di sostegno, ma che rappresentano una piccola parte della popolazione giovanile. La stragrande maggioranza dei ragazzi sta bene, ha bisogno solo di messaggi più forti e impegnati per poter crescere meglio. Su di loro, però, si investe pochissimo, o non si investe quasi nulla, perché si crede che sia la società nel suo complesso a doversene prendere cura.

Ma concretamente, che cosa si può fare?

Ecco, io vorrei che il cittadino sapesse che tipo di educazione vuole per i propri ragazzi. Vorrei che ciascuno di noi avesse

un’idea, seppur molto vaga, del concetto di valore, di priorità, del concetto di giusto o sbagliato, pur nella sua ambivalenza.

Sempre più spesso oggi si delega agli altri il compito di prendersi cura dei ragazzi oppure, peggio ancora, si crede che riempire il tempo dei giovani sia già sufficiente per fare educazione. Certo, praticare sport, suonare, frequentare centri ricreativi sono tutte attività bellissime, ma non sono abbastanza. Io sto parlando di sviluppo di profili di personalità solide ed equilibrate ed è una responsabilità che noi adulti abbiamo nei confronti di tutti i giovani, indistintamente. Dobbiamo sempre ricordarci che qualsiasi cosa stiamo facendo, possiamo star certi che c’è un ragazzino che ci sta osservando. È indispensabile, quindi, prima di tutto essere un esempio. Infatti, come possiamo pretendere dai ragazzi ciò che noi stessi non siamo in grado di rispettare? Stiamo molto attenti come adulti al tipo di relazione che abbiamo con i ragazzi, perché non c’è nessuno che può entrare in relazione meglio di noi con i giovani che ci stanno intorno. Noi abbiamo la responsabilità di cogliere da questi giovani tutto ciò che loro ci dicono perché è a loro che consegniamo i nostri sogni, le nostre ambizioni di adulti, il nostro paese. A chi mi chiede perché mi occupo di politiche giovanili, rispondo semplicemente in questo modo: io ho tutto l’interesse a prendermi cura, e bene, di quei ragazzi che domani si prenderanno cura di me. Ecco dove sta la mia ambizione: io ho la necessità, come adulto, di sapere che tipo di educazione voglio per i miei ragazzi, perché soltanto in questo modo potrò essere una figura presente per loro.

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In dicembre tutto è possibile.

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S

ono nato a Lugano nel 1971 ma sono poi cresciuto nel Mendrisiotto. I miei genitori erano di origine italiana e si sono trasferiti da giovani in Svizzera. A Chiasso, nel lontano 1978 – più di trentacinque anni fa! – mio padre aveva aperto la società anonima orologeria COVERI, un acronimo che significa semplicemente compra-vendita e riparazione, coronando il suo sogno di intraprendere un’attività in proprio. La sua passione per gli orologi però non mi aveva affatto contagiato: da piccolo passavo del tempo in negozio per cercare di apprendere le basi del mestiere, ma mi ero subito convinto che quella non sarebbe stata la mia strada. Fin da bambino, infatti, la mia passione erano i numeri: per questo motivo, più tardi, ho studiato contabilità e in questo settore ho trovato il mio primo impiego a Chiasso.

Poi, quando avevo vent’anni, i miei genitori mi hanno spinto a imparare le lingue e in particolare l’inglese: sono partito alla volta di Londra, dove ho trascorso i sei mesi più belli della mia vita. Tornato a casa, ho fatto il militare e ho trovato un lavoro a Lugano nell’ambito dell’importexport di accessori per biciclette. Una bellissima esperienza durata fino a quando, nel 1994, la società è stata venduta a dei compratori americani: in quell’occasione sono stato a New York per una settimana a spiegare il mio lavoro alla persona che avrebbe preso lì il mio posto. Un altro bellissimo viaggio. È stato nel giugno di quell’anno, proprio mentre la società stava chiudendo definitivamente, che ho perso mio padre a causa di una grave malattia. In quel momento così doloroso ho dovuto prendere una decisione molto difficile su che cosa fare del negozio di orologeria a Chiasso, che papà aveva fatto crescere. Fino a quel giorno, non avevo mai pensato di seguire le sue orme. Alla fine, ho deciso di provare: ho frequentato alcuni corsi base sull’orologeria e mi sono buttato in questo mondo meraviglioso. Oggi ogni tanto mi trovo a dire ai miei clienti: “Ho dovuto perdere mio padre per trovare il lavoro della mia vita”. Amo tantissimo il mio mestiere, che mi dà soddisfazioni incredibili: mi consegnano orologi che non funzionano, io con le mie mani li aggiusto e loro tornano a fare “tic tac”.

È straordinario! All’inizio è stato strano passare da un lavoro in cui parlavo l’inglese e il francese (e qualche volta pure il tedesco) e intrattenevo contatti internazionali a un’attività che si svolge molto in laboratorio e con una clientela locale.

In vent’anni di attività ho maneggiato migliaia di orologi: ognuno con la sua storia, le sue particolarità e anche i suoi difetti, che in qualche modo sono unici. Con la crisi molti stanno riscoprendo gli oggetti che appartenevano a nonni e bisnonni, di conseguenza, in questo periodo più che vendere novità eseguo riparazioni. Nello svolgere questo lavoro ho l’occasione di fare un salto nel passato e di capire la difficoltà che potevano avere gli orologiai di cento e più anni fa. È bellissimo poter metter mano alle meccaniche di allora e scoprire degli ingranaggi geniali per l’epoca in cui sono stati costruiti. Per questo oggi mi concentro soprattutto sulle pendole e sugli orologi più antichi o d’occasione, dando la possibilità al cliente che ha dei pezzi importanti, di esporli nella mia vetrina, per cercare di creare un mercato del vintage. Ecco perché in questi giorni sto lavorando a un sito internet.

Poi ho scoperto che questo lavoro non è fatto solo di capacità manuali e precisione, ma anche di contatto con le persone e riconoscenza. Per esempio, mi è capitato di andare a prendere una pendola da una persona anziana, che mi ha chiesto di far presto perché per lei i rintocchi dell’orologio erano una vera e propria compagnia! Sono quelle le tante piccole soddisfazioni che rendono bello il mio lavoro. Poi ci sono anche i problemi, certo, ma sono poca cosa rispetto al resto.

Quando ripenso all’inizio di quest’avventura, sono convinto che se papà fosse stato qui, io avrei probabilmente continuato a svolgere un altro lavoro, magari anche altrove: il negozio è piccolo e in due ci si batte la testa! E probabilmente non avrei neppure incontrato la compagna della mia vita, che ho conosciuto in negozio e che mi ha dato due bambine stupende. Un’altra casualità incredibile che mi emoziona ancora oggi.

GABRIELE MOTTA

Vitae 14

La perdita improvvisa del padre lo ha posto di fronte a una scelta e alla scoperta del lavoro della sua vita: l’orologiaio. Un mestiere che gli regala soddisfazioni, contatti e “viaggi nel tempo”

testimonianza raccolta da Roberto Roveda fotografia ©Davide Stallone

di ???; fotografie ©???

Radio Fiume Ticino

L’onda del futuro a cura della Redazione fotografie ©Reza Khatir

in apertura: Felice, speaker; sopra: Matteo, speaker e programmatore musicale

L

a radio esiste e resiste, alla grande. Nella profonda rivoluzione che ha investito i mass media nel corso degli ultimi due decenni, l’invenzione di Marconi continua ad accompagnarci nella nostra quotidianità.

Una presenza interessante e discreta, che ci segue in auto come sul lavoro, in casa come in palestra. Ed è proprio l’assenza dell’immagine il suo punto di forza, o meglio, capovolgendo i termini della questione, la sola presenza della voce e dei suoni a farne uno strumento di comunicazione autentico e coinvolgente.

Che si tratti di intrattenimento, informazione o approfondimento, la radio resta una compagna fedele e discreta

delle nostre giornate, lontana dalla spettacolarizzazione della televisione, dall’esibizionismo dei suoi personaggi e dal cicaleccio becero e litigioso dei talk-show. Le tecnologie e internet le consentono oggi di mettere in campo un’interattività senza precedenti con il pubblico e la possibilità di offrire trasmissioni sempre più “su misura”.

Attraverso questi nuovi strumenti la radio diviene sempre più comunità, confermando la capacità di essere un mezzo di comunicazione moderno e al passo con i tempi.

Nella nostra esplorazione del panorama mediatico cantonale, iniziata qualche settimana fa con il reportage dedicato a TeleTicino (Ticinosette n. 39, 26.9.2014), abbiamo

Reza Khatir Nato a Teheran nel 1951 è fotografo dal 1978.

Ha collaborato con numerose testate nazionali e internazionali.

Ha vissuto a Parigi e Londra; oggi risiede a Minusio ed è, fra le altre cose, docente presso la SUPSI. khatir.com

voluto presentare il “dietro le quinte” di una delle emittenti private più apprezzate nel cantone: Radio Fiume Ticino. Un modo per dare un volto e un aspetto a quelle che per la maggior parte di noi sono voci amiche e consuete.

Nata il 21 marzo del 1997, grazie a un concorso UFCOM, l’emittente ha iniziato la sua attività prendendo il posto di Radio 90.6 a cui non era stata rinnovata la concessione dopo un decennio di trasmissioni. Nel 2008 RFT ottiene la concessione anche per il Sottoceneri e nel 2011/2012 vince il titolo di “Radio dell’anno”. Ed è proprio del settembre 2014 il dato massimo di ascolto di sempre: circa 37mila contatti giornalieri. Del suo futuro, delle sfide che

i nuovi media stanno imponendo, del rapporto con la radio pubblica e della sua realtà occupazionale abbiamo parlato con il direttore di RFT, Duilio Parietti.

Le radio, nel processo di profonda trasformazione che ha investito i media nell’arco degli ultimi vent’anni, hanno retto bene il colpo. Quale è stato l’impatto delle nuove tecnologie e del digitale sulla vostra emittente e in che modo lo state affrontando?

Diciamo che lo storico passaggio dall’analogico al digitale deve ancora compiersi del tutto. RFT è attentissima allo sviluppo tecnologico ed è sempre stata all’avanguardia in tal senso. (...)

Ilaria, responsabile marketing

Duilio, direttore artistico

Marcello, direttore e amministratore delegato

Riccardo, speaker

Ana, ufficio marketing e pubblicità

Antonio, speaker

Per primi abbiamo lanciato l’app gratuita che permette all’ascoltatore di seguire i nostri canali ovunque e di interagire con noi per richieste e informazioni in tempo reale, soprattutto legate alla viabilità. A oggi, già diecimila persone l’hanno scaricata... tra l’altro a giorni lanceremo un importante aggiornamento.

Siamo stati inoltre tra i primi a credere nell’interazione con i “social”, tanto che oggi con quasi 30mila fan siamo una delle radio svizzere con maggior seguito su Facebook. A breve completeremo la totale digitalizzazione del nostro segnale, ma la vera rivoluzione sarà il passaggio al DAB, ormai standard del futuro riconosciuto anche dall’UFCOM. Entro alcuni anni la storica “modulazione di frequenza” andrà in pensione, sostituita da questa nuova tecnologia che permetterà l’ascolto, su unica frequenza, e in qualità digitale, in tutto il territorio della Svizzera italiana. L’aspetto epocale di questo cambiamento sarà dato dal fatto che le radio, sia pubbliche che private, avranno le medesime condizioni d’ascolto.... Finalmente, sul campo, sia i privati che le reti SSR potranno operare in una condizione di parità da questo punto di vista. La diffusione terrestre è stata l’ostacolo maggiore in questi anni per l’emittenza privata, perché per una serie di motivi politico-burocratico-economico, era impossibile

coprire tutto il territorio della Svizzera italiana, mentre la radio di stato con i suoi canali copre capillarmente tutto il territorio, come detto con il DAB questo gap sarà superato. Certo per il definitivo passaggio FM/DAB ci vorrà ancora qualche anno.

Come cercate di caratterizzarvi rispetto all’offerta radiofonica pubblica e privata presente nel cantone e quale ritenete sia il vostro principale target d’ascolto?

Oggi, in un ventaglio di proposte così ricco qual è il mercato radiofonico, è indispensabile poter offrire all’ascoltatore un prodotto quanto più chiaro e mirato. Radio Fiume Ticino si profila come emittente urban, estremamente vicina al proprio ascoltatore. Interattività, come si diceva prima anche con l’uso dei social, gioiosità, positività e intrattenimento da una parte.

Dall’altra un orecchio sempre attento, grazie a una redazione di quattro giornalisti a cui si aggiungono numerosi collaboratori esterni, alla realtà cantonale. Notiziari alle 7.30/12.00/16.00 18.30 ma, cosa assolutamente nuova nel panorama radiofonico, messa in onda in tempo reale di news meritevoli di attenzione.

La radio, in quanto a immediatezza, diventa così una concorrente diretta dei portali di news.

Romano, giornalista

Oliver, giornalista

Brunella, venditrice

Angelo, giornalista e capo redattore

Aldo, speaker

Il palinsesto è la spina dorsale della proposta radiofonica. Che sviluppi ha avuto in questi ultimi anni e che ruolo ha l’informazione all’interno della vostra programmazione, tenendo conto delle scelte compiute a riguardo dalle altre emittenti?

Animazione e informazione si sono evolute molto negli anni. Le trasformazioni sono in parte state dettate anche dal trasformarsi della società e degli altri media. L’informazione negli anni è diventata più veloce e diretta e noi ci siamo evoluti in tal senso. Esistono varie teorie e scuole di pensiero sui cambiamenti della radio e sulla sua evoluzione in futuro.

Noi crediamo che l’intrattenimento offerto all’ascoltatore sia importante quanto la musica, se non addirittura di più. In ogni caso, per non dimenticare l’ascoltatore che non può o non vuole “chiacchiere”, abbiamo creato una decina di canali tematici di sola musica. Si può così avere a disposizione un canale pop, uno italiano, uno svizzero, uno dance... ecc.

In pratica canali di sola musica, senza pubblicità né parlato. Basta andare sul nostro sito o scaricare la nostra app.

Con il nostro ventaglio di canali oggi possiamo davvero accontentare tutti i gusti sia di chi predilige un’animazione serrata, sia di chi desidera una colonna sonora senza parlato.

A livello occupazionale come siete organizzati al momento? Il finanziamento pubblico ha contribuito

a consolidare la vostra azienda anche in termini di rapporti di lavoro?

Attualmente RFT impiega circa 25 persone. Il “ristorno sul canone” ci ha aiutato a crescere, ma il grosso del fatturato proviene sempre dalla pubblicità. La revisione della legge federale sulla radiodiffusione, attualmente in discussione, dovrebbe aumentare lo splitting riservato ai privati. Ci auguriamo che ciò ci consenta di essere un po’ meno dipendenti dalla pubblicità che oggi, proprio perché sfruttata sino in fondo per necessità economiche, finisce per essere un ostacolo alla crescita del prodotto, perché alla fine poco gradita dall’ascoltatore.

La copertura oggi raggiunge Lugano. Avete in previsione l’estensione delle vostre frequenze anche al resto del cantone?

RFT, godendo della modifica della legge federale, da circa sei anni ha facoltà di accendere le proprie antenne anche nel Sottoceneri. Si è proceduto subito a coprire Lugano e hinterland.

Per Mendrisiotto e Chiasso perdura invece uno stallo burocratico legato a una serie di problemi nei siti in cui si potrebbe accedere (ricorsi, problemi di interferenze internazionali ecc).

La situazione è paradossale: da una parte la legge ci permette di accendere, dall’altra... la legge ce lo nega. Siamo impegnati su vari fronti per risolvere questo problema. Ci auguriamo avvenga quanto prima...

Il nonno e il buio di Pietro Martinelli; illustrazione ©Ursula Bucher

Q

Storie 46

uella sera il nonno era rimasto a casa a curare il nipotino Giovanni di tre anni e mezzo. Per qualche minuto guardò il cartone animato che aveva messo per il bambino, poi si addormentò e cominciò a sognare. Un sogno inizialmente un po’ agitato perché, quando si era addormentato, era deluso e inquieto per non aver saputo inventare una storia da raccontare al nipotino. Infatti quella sera, eccezionalmente, Giovanni la voleva da lui la storia e solo a malincuore aveva poi accettato di mettere uno dei soliti dvd.

Ecco, si era detto il nonno, spesso critichiamo i bambini perché passano troppo tempo davanti al televisore, ma poi, quando siamo chiamati a sostituire la tecnica con la fantasia, scopriamo di essere aridi come una sorgente disseccata.

Sentiva ancora nel sonno agitarsi questi pensieri fastidiosi quando si accorse di trovarsi nel giardino della vecchia casa che aveva abitato da bambino e che era rimasta al centro dei suoi ricordi dell’infanzia. Si guardò le gambe e vide che portava dei pantaloncini corti e che ai piedi calzava dei sandali con la fibbia, come si usava a quei tempi. Fu allora che si rese conto che era tornato bambino.

La vecchia casa del nonno bambino era situata su un terreno in pendenza e c’era un cunicolo largo non più di mezzo metro e alto circa tre volte tanto che entrava nella casa in corrispondenza di una estremità della facciata a valle, arrivava fin contro la roccia retrostante, faceva un angolo retto, attraversava tutta la casa parallelamente alla facciata, poi, dopo un altro angolo retto, usciva all’altra estremità della casa. Probabilmente serviva per isolare il piano terreno dalla umidità che scendeva dalla roccia. Un cunicolo buio e umido quindi, disseminato di pozze di acqua, pieno di ragni e ragnatele e di altri animaletti poco simpatici. Si favoleggiava addirittura della presenza di scorpioni e al nonno sembrava di ricordare che

uno scorpione gli era stato mostrato proprio per scoraggiare imprudenti tentativi di esplorazione.

Forse anche per questi richiami degli adulti, percorrere tutto quel cunicolo, entrare da una parte e uscire dall’altra, era un progetto che da bambino lo aveva affascinato. Farlo sarebbe stata una dimostrazione di coraggio, la dimostrazione di poter dominare il mondo.

Malgrado numerosi tentativi, non riuscì mai a superare se non di qualche passo il primo angolo. Subito dopo avrebbe dovuto lasciare alle spalle il tratto iniziale illuminato dalla fioca luce che filtrava dall’entrata e si sarebbe trovato di fronte a un buio sempre più fitto. Tanto più che dopo l’angolo, non sapeva per quale motivo, non era possibile scorgere la luce che avrebbe dovuto rischiarare l’angolo di uscita. Un aspetto inquietante che aveva discusso con i suoi amici e che aggiungeva mistero al mistero. Poi la sua famiglia

aveva cambiato casa e il cunicolo misterioso venne dimenticato. Il nonno stava pensando a tutte queste cose quando, guardandosi attorno, vide sua madre che lo osservava sorridendo. “Entra tesoro”, gli disse, “sono sicura che ce la puoi fare. Io ti aspetterò all’uscita”. Il nonno bambino guardò fiducioso sua madre che spesso nella vita gli aveva insegnato il coraggio. Pensò che era strano che questo lo avesse fatto la madre e non, come vorrebbe la tradizione, il padre, ma poi, con l’esperienza, si ricordò che nella vita, al di là dei luoghi comuni, spesso sono proprio le madri a essere coraggiose e a infondere ai figli questa fondamentale virtù.

Allora entrò nel cunicolo, percorse rapidamente il tratto illuminato e giunse all’angolo.

Davanti a sé il buio diventava sempre più nero.

Mosse qualche passo, si rigirò a rivedere la luce rassicurante proveniente dall’entrata, e avanzò.

Improvvisamente senti una mano gelida toccargli la schiena. Sobbalzò e picchiò la testa contro il basso soffitto. Si toccò la schiena e scoprì la causa di quella sensazione di freddo: aveva sfiorato una tubazione di ferro che sporgeva dal muro.

Continuò curvo, tastando il terreno davanti a sé con le mani e giunse a un nuovo angolo che svoltava verso la facciata, ma che non era l’uscita. Una volta girato quell’angolo infatti il buio diventava completo, davanti e dietro. Avrebbe voluto tornare, avrebbe voluto piangere, ma poi una illuminazione gli infuse nuovo coraggio: ecco perché non si vedeva la luce dell’entrata.

Probabilmente a metà percorso il cunicolo faceva un’ansa che impediva dall’angolo di entrata di vedere la luce dell’angolo di uscita. Se la sua supposizione era giusta presto avrebbe trovato in successione altri tra angoli retti. Girato l’ultimo avrebbe finalmente rivisto la luce.

Continuò, il respiro era diventato affannoso, sentiva il cuore in gola, ma continuò. Avvertì dei passi felpati dietro di sé che si avvicinavano, si girò scrutando il buio e i passi cessarono. Avanzò fino al secondo angolo dove gli apparvero due puntini luminosi che lo guardavano da una nicchia nel muro. Si fermò e quando, poco dopo, sentì giungere da quei puntini un brontolio che finì in un lamento, il sangue gli si gelò nelle

vene. Ma poi si ricordò che gli avevano raccontato che i gatti, quando stanno per morire, vanno a nascondersi in qualche luogo remoto. Quel pensiero, invece di aggiungere paura a paura, gli fece nascere dentro un sentimento di simpatia e di pietà. Mormorò con dolcezza qualche parola del tipo “ciao micio, bravo, bravo …” e gli sembrò che il gatto si fosse acquietato. Passò oltre e, finalmente, arrivarono il terzo e poi il quarto angolo dell’ansa, quello che lo portò a vedere la luce che filtrava dall’uscita.

Ormai ce l’aveva fatta. Ci furono ancora alcune sorprese, un grande ragno crociato, una bestiola, forse un topo gli tagliò la strada, ma ormai il suo animo era saldo. La luce, ancora lontana, lo rassicurava e poi gli riscaldava il cuore il pensiero che nel cunicolo aveva lasciato un amico: quel gatto al quale aveva rivolto alcune parole gentili e che forse sarebbe guarito.

Quando uscì all’altra estremità della facciata non c’era la mamma ad attenderlo e lui era ritornato nonno. Dopo pochi secondi si svegliò, si ricordò del sogno e pensò a tutti i cunicoli che aveva attraversato nella vita spinto da una curiosità che era cresciuta negli anni con il coraggio e con la fiducia in sé stesso.

In fin dei conti aveva percorso decine di volte quel cunicolo buio e misterioso che non aveva avuto il coraggio di attraversare da bambino.

Un dubbio tuttavia gli rimase: quell’ansa c’era davvero? Era davvero la causa per cui dal primo angolo non si vedeva la luce dell’ultimo angolo?

Gli sarebbe piaciuto poterlo verificare, ma ormai la vecchia casa era stata demolita e al suo posto era sorto un palazzo moderno. Senza cunicoli misteriosi.

Guardò il piccolo Giovanni e vide che pure lui si era addormentato. Spense il televisore e pensò che alla prossima occasione gli avrebbe raccontato la storia del cunicolo buio e di quanto sia importante avere il coraggio necessario al momento giusto.

La storia qui presentata è stata pubblicata in I lumi dei nonni (volume oggi esaurito), edito dalle edizioni Nonsolostorie nel 2007. Si ringrazia l’associazione ABBA - Abbastanza per tutti (abba-ch.org) per la gentile concessione. Tutti i diritti sono riservati.

Storie 47

Di buon passo Tendenze p. 48 – 49 | di Marisa Gorza; illustrazione ©Paul Oakey

Forse è l’inquietudine dei nostri giorni a influenzare il look femminile, tant’è che per vestire i mesi freddi la moda sembra smaniosa di mixare capi di diverso genere,dai volumi e materiali più disparati, discordanti e all’apparenza incoerenti

Il

fiero giubbotto in pelle si sposa al sexy abitino drappeggiato che scolpisce le curve. Alla severa giacca sartoriale, decisamente chic, si accosta la gonnellona freak anni settanta, oppure gli informali jeans boy friend appena calati sui fianchi.

Mentre il corposo maglione nordico e il pellicciotto arruffato se l’intendono con shorts-coulotte in fragile pizzo e qualche pezzo vintage, dal sapore retrò, esce dal fondo dell’armadio per far baldoria con accessori avveniristici...

Una delle tendenze più forti del momento è quella di abbinare, pur nella stagione fredda, outfit dalle trame impalpabili, composti da strati vaporosi, a scarpe massicce, solide, arrotondate, con la suola in primo piano, diventata più importante della tomaia. Quasi come si

Forte impronta

Espressione della manualità artigianale, lo storico mocassino Brera dei Fratelli Rossetti è stato rivisitato per l’autunno in chiave contemporanea.

Correvano gli anni sessanta quando Renzo Rossetti introdusse per la prima volta la scarpa con i “fiocchetti”, ma l’elemento decorativo era destinato a diventare mitico. Ora il mocassino, oltre che tinto con l’esclusiva tamponatura a mano dall’effetto anticato, viene proposto con tomaia lavorata a punto croce, montata su una corposa suola in tinta scarlatta. Per passi destinati a lasciare il segno.

Rock’n’comfort

Cominciamo con la versione stivaletto di Fornarina che combina elementi rock a un genuino comfort. Costruito in morbida pelle invecchiata con inserti matelassé, ha punta arrotondata, attualissima platform carrarmato ed è percorso da una pratica zip laterale, quando non si chiude con una fibbia in metallo brunito. Joy, questo è il suo nome, è perfetto con le trendy gonne a godet e i lunghi mantelli ritornati in auge.

volesse ancorare al suolo la volubile e... volatile donna.

Si tratta delle track shoes, scarpe chiuse o aperte con suola così spessa da ricordare la forma di un carro armato. Disponibili in molte varianti: dai sandali alle stringate, dagli stivaloni ai tronchetti, dalle décolletée alle sneakers. Questo tipo di suola risale agli anni trenta, inventata da una guida alpina per calzature adatte alle scalate. Ora scendono dalle alte vette per camminare lungo le vie cittadine, anche se nei corsi e ricorsi tipici della moda ricordano quelle dei settanta. Sì, proprio le maxi zeppe in voga nel periodo con qualche ritorno (ricaduta o risalita?) nei novanta. Oggi di nuovo si fa a gara a sfoggiare il modello dalla suola più imponente possibile, emulando fashion blogger, trend setter e starlette, tutte a passo... ben sostenuto.

Rock’n’glamour

Grintosamente rock pure i tronchetti firmati Philipp Plein che, con quello stacco di tacco (scusate l’assonanza) a stiletto vertigo, promette slancio e glamour alla falcata da star sul red carpet. Prezioso il materiale: cocco rosso spruzzato da micro cristalli Swarovski, ma l’innovativo plateau-suola, tipo pneumatico, trattiene ben ormeggiata al terreno la divina che li indossa. Però che sballo quegli stivaletti portati con leggings in sottilissima nappa elasticizzata, tempestata di borchie dorate!

Techno chic

Accenti techno chic per la collezione invernale di Vic Matié. Ci sono polacchini sportivi, da montagna e da città, con tacchetto a zeppa in para e gomma, rifinito dal guardolo in cuoio e talloniera in pelle imbottita. Mentre la tomaia è in confortevole montone dalle calde tonalità quali rosso vinaccia, cioccolata e giallo senape, ma appare anche un camoscio stampato a grintose macule leopardate. Si completano con zaini e sacche in perfetta simbiosi con le calzature.

La domanda della settimana

Ritenete che la programmazione delle radio private sia qualitativamente apprezzabile, anche rispetto a quanto proposto dalle emittenti pubbliche?

Inviate un SMS con scritto T7 SI oppure T7 NO al numero 4636 (CHF 0.40/SMS), e inoltrate la vostra risposta entro giovedì 27 novembre. I risultati appariranno sul numero 49 di Ticinosette.

Al quesito “Ritenete che la politica nazionale stia rispondendo in modo rapido ed efficace alle problematiche legate all’ambiente e allo sviluppo sostenibile dell’economia?” avete risposto:

SI NO

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Svaghi 50

Astri ariete Luna, Venere e Urano. Grazie a questa configurazione vi sentirete più impulsivi ma allo stesso tempo più vivi. Colpi di fulmine con persone straniere.

toro Grazie a Marte di transito siete perfettamente consci di che cosa sia giusto e che cosa sia sbagliato per voi. Tenete bene la lingua a freno.

gemelli Venere e Luna disarmonici. Finché durerà questo transito dovrete fare i conti con una certa mancanza di autodisciplina e scarsa voglia di lavorare.

cancro Possibili scatti d’ira provocati da un’emotività fuori controllo. Riposatevi di più! Iniziate a fare una cosa alla volta.

Siate costruttivi e fiduciosi.

leone Discussioni con i familiari a causa di antichi rancori e a questioni di natura economica. Turbamenti tra il 27 e il 28 novembre. Non siate permalosi.

vergine Crescita per la vostra situazione sentimentale. Attenti a non esagerare con un’alimentazione troppo zuccherina.

Spese esagerate in prodotti di bellezza.

bilancia La vostra vita sociale si sta arricchendo di nuovi incontri. Irascibili con i familiari i nati nella terza decade a causa della quadratura con Marte.

scorpione Grazie al connubio con Saturno saprete essere particolarmente determinati. Possibili rimpianti o situazioni stressanti tra il 27 e il 28 novembre.

sagittario Tra il 23 e il 24 la Luna si troverà nel vostro segno. Questo aspetto amplificherà ogni vostra emozione. Erotismo alle stelle grazie a Venere.

capricorno Appeal erotico alle stelle. Magnetismo e grosse capacità persuasive. Incontro con il segno dello Scorpione. Svolte improvvise e qualche imprevisto.

acquario Avete l’occasione per dimostrare quanto siete geniali. Affrontate i problemi con creatività. Attenti tra il 27 e il 28 a non farvi prendere dall’orgoglio.

pesci Venere disarmonica. Scarso interesse per le questioni professionali più impegnative. Particolarmente costruttivi e determinati i nati nella terza decade.

Gioca e vinci con Ticinosette

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La soluzione verrà pubblicata sul numero 49

Risolvete il cruciverba e trovate la parola chiave. Per vincere il premio in palio, chiamate lo 0901 59 15 80 (CHF 0.90/chiamata, dalla rete fissa) entro giovedì 27 novembre e seguite le indicazioni lasciando la vostra soluzione e i vostri dati. Oppure inviate una cartolina postale con la vostra soluzione entro martedì 25 nov. a: Twister Interactive AG, “Ticinosette”, Altsagenstrasse 1, 6048 Horw. Buona fortuna!

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Orizzontali 1. Ritardi burocratici • 10. Variopinto pappagallo • 11. Tiro • 12. La festa del 25 dicembre • 14. Pari in forca • 15. Folletti • 16. C’è quel del vero • 18. Spagna e Italia • 19. Nervosi, scossi • 21. Distanti (f) • 23. Novantanove romani • 24. Velocipede • 26. I confini di Sonvico • 28. Nel centro di Carona • 29. Il bel Sharif • 30. Passeracei americani • 33. Alto graduato • 34. Ampia, vasta • 37. Parte dell’intestino tenue • 39.

Morir • 40. Sono uguali in bella • 41. Esauste • 43.

Combattere • 45. Dittongo in reità • 46. Altari pagani • 49. Comprensivi, accondiscendenti • 53. Le ampolline in tavola • 54. Numero pari.

Verticali 1. Un racconto del russo N. Leskov • 2. Metallo radioattivo • 3. Venuto al mondo • 4. Coccodrillo • 5.

Grave senza pari • 6. Consonanti in genio • 7. L’immagine sacra del Pope • 8. La contengono le sigarette • 9.

Il pronome dell’egoista • 13. Un dilettante appassionato • 16. La Bella danzatrice • 17. Rimembrare • 20. Pari in pianto • 22. Norvegia e Malta • 25. Grandi regni • 27.

Opera verdiana • 31. Tonte senza pari • 32. Instillare • 35. Morbida, soffice • 36. L’indirizzo in rete • 38. Avverso, contrario • 42. La quarta nota • 44. Asciugamani da spiaggia • 47. Fine inglese • 48. Devote • 50. Gola centrale • 51. Pari in serra • 52. Pronome personale.

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La soluzione del Concorso apparso il 7 novembre è: MUTILATO Tra coloro che hanno comunicato la parola chiave corretta sono stati sorteggiati: Adelio Montorfano (Lugano) Carmen Servalli (Arcegno) Lydia Bassi (Sala Capriasca) Ai vincitori facciamo i nostri complimenti!

Premio in palio: buono RailAway FFS per l’offerta “Skiarena Andermatt-Sedrun” RailAway FFS offre 1 buono del valore di 100.– CHF per 2 persone in 2a classe per l’offerta RailAway FFS “Skiarena AndermattSedrun” da scontare presso una stazione FFS in Svizzera.

Ulteriori informazioni su ffs.ch/snownrail

Con RailAway FFS sulle piste della Skiarena Andermatt-Sedrun. Massimo divertimento sulla neve!

La Skiarena Andermatt-Sedrun con le regioni di Andermatt-Gemsstock, Andermatt-Nätschen, Sedrun-Oberalp, Sedrun-Valtgeva e Realp, in collaborazione con la Matterhorn Gotthard Bahn, vi offre la possibilità di sfrecciare su oltre 125 km di avvincenti piste con un unico skipass.

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L’effetto fa la differenza.

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