Technopolis 41

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NUMERO 41 | GENNAIO 2020

STORIE DI ECCELLENZA E INNOVAZIONE

STORIE DI ECCELLENZA E INNOVAZIONE

Nuovi dirigenti e nuove idee promettono di trasformare la macchina pubblica e supportare le imprese. Ma per riuscirci dovranno superare i vincoli di politica e burocrazia

L’ITALIA DEL DIGITALE AI NASTRI DI PARTENZA GENNAIO 2020

TECH TREND

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Le previsioni degli analisti sulle tendenze che emergeranno quest'anno, fra assisteni virtuali più "intelligenti" e biometria.

INDUSTRIA SMART

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Impianti virtuali, realtà aumentata e robot collaborativi: le nuove frontiere dell'innovazione nel comparto manifatturiero.

MARKETING E IT

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Due ruoli tradizionalmente distanti oggi, sempre di più, collaborano per creare l'esperienza cliente perfetta.


SMART MANUFACTURING SUMMIT 2020 dove IT e OT si incontrano

Bologna, 23 aprile 2020

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SOMMARIO 4 STORIA DI COPERTINA STORIE DI ECCELLENZA E INNOVAZIONE

N° 41 - GENNAIO 2020 Periodico mensile registrato presso il Tribunale di Milano al n° 378 del 09/10/2012 Direttore responsabile: Emilio Mango Coordinamento: Valentina Bernocco Hanno collaborato: Stefano Belviolandi, Roberto Bonino, Carmen Camarca, Carlo Fontana, Roberto Masiero, Gianni Rusconi, Elena Vaciago Progetto grafico: Inventium Srl Foto e illustrazioni: Istockphoto, Adobe Stock Images, Shutterstock

La nuova Italia ai nastri di partenza

Una macchina algoritmica per scandagliare il mercato

11 IN EVIDENZA

Industria 4.0: non sarà una “Roboapocalypse now”

La trasformazione si fa in quattro

La rivincita dell’on-premise

Sviluppo senza codice, la chiave di volta per le aziende

20 TREND TECH

Un mondo nuovo, grazie alla tecnologia

24 FINTECH

Open banking, è aperta anche la mentalità

I pagamenti biometrici sono sicuri?

26 ITALIA DIGITALE

L’innovazione è la meta, il percorso è a metà

36 STARTUP Editore e redazione: Indigo Communication Srl Via Palermo, 5 - 20121 Milano tel: 02 87285220 www.indigocom.it

Grandi imprese, vero motore di trasformazione

42 SMART MANUFACTURING

La fabbrica intelligente si mette in mostra

46 EXECUTIVE ANALYSIS

Pubblicità: The Innovation Group Srl tel: 02 87285500

Stampa: Ciscra SpA - Arcore (MB)

© Copyright 2019 Indigo Communication Srl Tutti i diritti di proprietà letteraria e artistica riservati.

58 CYBERSECURITY

Il Sole 24 Ore non ha partecipato alla realizzazione di questo periodico e non ha responsabilità per il suo contenuto.

Gruppo Feltrinelli - Sap

Caffè Borbone - Fujitsu

Ciacci Piccolomini d’Aragona - Microsoft

Pubblicazione ceduta gratuitamente.

Baglioni Hotels - Aruba

L’innovazione digitale è materia da Cio?

54 INTELLIGENZA ARTIFICIALE

La promessa del decennio

Nuove minacce pronte a colpire

62 ECCELLENZE


STORIA DI COPERTINA | Politica e innovazione

LA NUOVA ITALIA AI NASTRI DI PARTENZA Un nuovo gruppo dirigente sta disegnando il futuro digitale del nostro Paese. Riusciremo a passare dalle buone idee ai risultati concreti?

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ra solo lo scorso ottobre quando, in queste pagine, davamo conto delle intenzioni del premier Giuseppe Conte di costruire una “smart nation” e dei progressi (ma anche delle tante sfide ancora da vincere, per usare un eufemismo) che questo percorso già presentava a pochi mesi dall’annuncio di luglio. Sebbene sia decisamente presto per parlare di risultati, anche parziali, bisogna ammettere che qualcosa si è mosso. Il Ministro per l’Innovazione tecnologica e la digitalizzazione, Paola Pisano, è sicuramente il più attivo tra i protagonisti di questa “trasformazione” in salsa italiana: sono recenti le sue esternazioni via social dal Consumer Electronics Show (Ces) di Las Vegas, un palcoscenico che nessun Ministro della Repubblica aveva utilizzato prima. E naturalmente non si è ancora spenta l’eco delle critiche e dei plausi per 4

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la presentazione, a fine dicembre, del Piano Nazionale per l’Innovazione (ne parliamo nelle pagine seguenti). Sempre tra dicembre e inizio gennaio sono successe altre tre cose importanti per il percorso evolutivo del nostro Paese: la nomina di Enrico Resmini ad amministratore delegato del Fondo Nazionale Innovazione, quella di Francesco Paorici a direttore generale dell’Agid (l’Agenzia per l’Italia Digitale, che è ancora in procinto di essere incorporata nel Dipartimento per la Trasformazione Digitale, attualmente guidato da Luca Attias) e la presentazione, sempre da parte di Paola Pisano e sempre da Las Vegas, del progetto Made.it (ne parliamo a pagina 29). Le nomine erano attese, quella relativa alla guida del Fondo Nazionale di Innovazione anche da parecchio tempo, essendo stata frenata da veti incrociati e polemiche più politiche che di

merito. Ma gli annunci hanno comunque mosso le acque del digitale e del processo di innovazione del “sistema Paese”, acque che in realtà non sono mai state così agitate (e lo diciamo, questa volta, con un’accezione positiva). Resmini, che vanta un curriculum ben poco politico e molto manageriale (le sue ultime esperienze sono in McKinsey e in Vodafone) potrà iniziare a disporre, a partire da febbraio e mettendo insieme più fondi, di poco meno di 500 milioni di euro, metà della cifra indicata dal Ministero dello Sviluppo Economico per l’anno scorso. Lo scoglio del procurement e i benefici del 5G

Gli annunci tramite social network e i piani strategici non sono stati l’unica fonte a cui attingere per capire quale direzione digitale stia prendendo il Paese.


Il Digital Italy Summit di Roma, organizzato da The Innovation Group a fine novembre, è stato un importante momento di incontro a cui hanno partecipato numerosi Ministri e altre personalità del mondo della Pubblica Amministrazione e dell’industria. Il filo conduttore dell’evento è stato l’individuazione di driver efficaci per la trasformazione digitale dell’ecosistema, assumendo che la crescita del Pil non ha aiutato e non aiuterà un rafforzamento della politica degli investimenti privati in tecnologia. Le più importanti scelte strategiche condivise da molti addetti ai lavori sono state: una politica di investimenti pubblici ad alto moltiplicatore in infrastrutture digitali, il potenziamento delle politiche industriali di Industria 4.0, l’efficace adozione del procurement pubblico e l’utilizzo del 5G per la trasformazione digitale delle imprese. Durante la prima giornata del summit Franco Bassanini, presidente di Fondazione Astrid, ha evidenziato la forte connessione fra la trasformazione digitale e la sostenibilità, ricordando che i dati sono una risorsa infinita nonché il pilastro principale su cui costruire un’economia circolare e realmente sostenibile. Una maggiore agilità del sistema normativo e la disponibilità di cospicui investimenti da parte della comunità europea (100 miliardi di euro in sette anni, come ha

recentemente dichiarato Ursula Von Der Leyen) oppure un fondo europeo per l’innovazione creato ad hoc potrebbero dare una spinta decisiva per uscire dall’impasse. La continuità rispetto ai progetti iniziati nel 2016 è invece l’elemento evidenziato da Luca Attias, che ha illustrato le soluzioni già implementate o in fase di lancio come Anpr, IO, PagoPa e Spid. Il Ministro dell’Innovazione Paola Pisano, intervenuta durante la prima giornata del summit, ha invece invocato il gioco di squadra tra pubblico e privato, un’alleanza che vede una prima realizzazione concreta con il progetto Repubblica Digitale, riguardante in particolar modo il mondo della scuola e della formazione. In merito alla trasformazione digitale, Pisano ha dichiarato che il suo Ministero, giovane e dotato di un’organizzazione ancora semplice, farà da “cavia” per un cambiamento che dovrà estendersi poi a tutta la PA centrale. Il Ministro ha ammesso che le procedure di procurement rappresentano un handicap per gli acquisti di nuove tecnologie e ha dichiarato di aver chiesto di poter operare in deroga per quanto riguarda la digitalizzazione della PA. Inoltre ha toccato nel corso del suo intervento al Digital Italy Summit altri due punti importanti: la necessità di maggiori fondi per investire in tecnologie di frontiera e quella di costruire un’infrastruttura nazionale di High Performance Computing (Hpc) per erogare la potenza di calcolo necessaria a supportare i progetti strategici in ambito intelligenza artificiale, 5G e mobilità. Il procurement è stato oggetto di dibattito anche nell’intervento del Ministro per la Pubblica Amministrazione, Fabiana Dadone, che ha evidenziato come non sia possibile esprimere un’esigenza di acquisto di tecnologia oggi e poterla soddisfare dopo due anni, quando ormai la stessa tecnologia sarà probabilmente diventata già obsoleta. Quindi riformare le gare d’acquisto diventa una

priorità espressa da più fonti anche all’interno del Governo. Il legame fra tecnologie e Pil

Nel suo intervento in uno dei Tavoli di Lavoro, il Ministro per gli Affari Regionali e le Autonomie, Francesco Boccia, ha affermato che l’economia è ormai tutta digitale e che la tradizionale catena del valore è saltata. A partire dal 2014, quanto più è aumentato il business dell’ecommerce tanto più è cresciuta la voragine nelle imposte. Per questo Boccia ha sostenuto l’introduzione della digital tax, benché questa non sia ancora sufficiente a creare parità di condizioni fra le imprese italiane e gli operatori Ott (over-the-top), come Google, Facebook e Amazon. Stefano Firpo, attuale direttore di Mediocredito Italiano e fautore, insieme a Carlo Calenda, del piano Industria 4.0, si è invece concentrato sul sistema delle Pmi, prendendo atto che il substrato è solido, fluido e coerente ma investe ancora poco in tecnologie di frontiera. Siamo penalizzati, forse, anche dal fatto che in altre aree del mondo, come Cina e USA, si spenda in tecnologie come l’Intelligenza Artificiale molto più di quanto non si faccia nel Vecchio Continente. E tuttavia la pubblicazione, in questi giorni, dei dati di produttività dell’economia italiana testimonia che solo grazie all’investimento in tecnologie digitali gli indici non flettono ulteriormente. Un richiamo all’ottimismo è giunto, infine, da Cesare Avenia, presidente di Confindustria Digitale: nel corso dei lavori del Digital Italy Summit ha previsto che il 5G, abilitando molte tecnologie che potranno essere efficacemente usate dalle piccole e medie imprese, contribuirà alla ripresa degli investimenti e quindi del Pil. Si tratta però di vincere paure e barriere, nonché di sfruttare bene i fondi europei già stanziati per questo tipo di investimenti. Emilio Mango 5


STORIA DI COPERTINA | Politica e innovazione

UNA VISIONE CHE VA OLTRE LA POLITICA Il Ministro Paola Pisano ha presentato gli obiettivi che guideranno il suo dicastero, con l’ambizioso titolo di “Piano Nazionale dell’Innovazione 2025”. Il commento dell’analista.

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l titolo era ambizioso: parlare di un Piano Nazionale per l’innovazione addirittura al 2025 (un piano quinquennale di questi giorni? Un brivido, si affacciano rimembranze lontane del Gosplan sovietico...) è di per sé coraggioso. Parlarne in un momento in cui la stabilità del governo pare una sfida quotidiana è quasi temerario. E tuttavia il Ministro per l’Innovazione Tecnologica e la Digitalizzazione Paola Pisano ha accettato la sfida (chapeau). Il 17 dicembre scorso a Roma, dopo il saluto istituzionale del Presidente Conte, Luca Attias, al termine del suo percorso come Commissario Straordinario per l’Agenda Digitale, ha rivendicato il carattere irreversibile delle trasformazioni introdotte nel periodo del Team della Trasformazione Digitale. Paola Pisano ha riassunto invece le attività avviate nei primi tre mesi: apertura del recruiting per cento nuove posizioni, avvio di una cabina di regia con gli altri ministeri, promozione dell’AI Ethical Lab, impegno alla formazione con i partner di “Repubblica Digitale”, avanzamenti sostanziali con Anpr e PagoPa. Ha quindi introdotto il tema del futuro, prendendo il 2025 come riferimento. Tre le sfide: la digitalizzazione della società, l’innovazione del Paese, lo sviluppo della 6

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tecnologia etico e sostenibile. “Nel 2025 l’innovazione viene gestita come una manovra strutturale politica”, ha affermato Pisano, prospettando un disegno integrato e un’azione sinergica delle imprese e del governo per vincere queste tre sfide. Il Ministro ha ampiamente sviluppato la visione utopica di un “Paese digitale realizzato” nel 2025, esaltando tutte le possibili sinergie positive necessarie per renderla possibile. Ha quindi descritto un percorso che dovrà essere ampiamente partecipato, con nove obiettivi e le prime venti azioni che sono state identificate. Alcune di queste sono state esemplificate: una sola identità digitale per ogni cittadino (veramente sono più di vent’anni che questo obiettivo è stato proposto, speriamo che sia la volta buona; d’altronde, se in India sono riusciti a fornire in pochi anni un’unica identità digitale a un miliardo di cittadini, forse entro il 2025 potremmo farcela anche noi); garantire il diritto a innovare, favorendo lo sviluppo delle tecnologie disruptive; trasformare i nostri borghi in luoghi di attrazione tecnologica; diffondere la biodiversità naturale; educare all’Intelligenza Artificiale; includere la popolazione over 65 (chi più soffre delle disuguaglianze sono gli anziani, che hanno difficoltà a raccogliere

Luca Attias

l’informazione in un momento in cui le edicole chiudono e l’informazione cartacea è sempre meno disponibile, quindi la proposta è portare i tablet agli anziani e aiutarli a usarli attraverso dei volontari). Attraverso quali fondi dovrebbero essere realizzati questi obiettivi? Enrico Resmini, direttore del Fondo Nazionale


per l’Innovazione, ha espresso l’esigenza di far compiere un salto al venture capital in Italia e di convincere le aziende ad aprirsi all’Open Innovation, facilitando la “fertilizzazione incrociata” fra startup e aziende. Roberto Viola, direttore generale di Dg Connect, ha infine sottolineato la necessità di accelerare l’innovazione digitale in Italia come condizione per lo sviluppo complessivo dell’Europa, con le sue priorità per il cambiamento climatico (Green Deal) e la trasformazione digitale. Pregi e difetti del Piano Nazionale per l’innovazione

Innanzitutto, non si tratta tecnicamente parlando di un vero e proprio Piano ma di una visione, di una prima definizione di obiettivi e di alcune indicazioni di metodo per raggiungerli. Non ci sono invece obiettivi quantitativi, tempi entro cui dovrebbero essere raggiunti e metriche con

cui misurarli. Detto ciò, rispetto all’angustia di visione che caratterizzava la precedente amministrazione, siamo in un altro mondo: Paola Pisano ha avuto il coraggio di gettare il cuore oltre l’ostacolo, di disegnare una visione che sfida la precarietà del Governo in cui si colloca per delineare un sistema di obiettivi a medio-lungo termine con cui il Paese dovrà comunque misurarsi. Un Piano richiede di effettuare scelte di priorità per utilizzare nel modo più efficace risorse comunque scarse. Nove obiettivi e venti azioni vanno bene per mobilitare gli animi ed esortare all’azione, ma sono troppi e soprattutto non si capisce quali investimenti richiedano e quali ritorni ci si attendano. E allora probabilmente, invece di chiedere di aggiungere altre azioni, si tratta di scavare e di scegliere. Poi, la prima priorità è quella di uscire dal vago in merito alle risorse, e innanzitutto capire quali mezzi finanziari siano richiesti, come potranno essere resi disponibili e in che tempi. Il Documento afferma che “L’attuazione della strategia si basa anche sull’utilizzo di diversi fondi di finanziamento, in particolare: fondi destinati all’innovazione nella manovra di bilancio; fondi non ancora impegnati, afferenti a programmi nazionali e europei (per esempio Fondi Pon, Pon gov, Fondi di Coesione); fondi già disponibili o di nuova programmazione grazie a una rinnovata collaborazione con il dipartimento della funzione pubblica”. Benissimo: quanti, come e quando, specie parlando di una pianificazione a cinque anni, che dovrà impegnare presumibilmente anche altri successivi governi? Inoltre, nel documento praticamente non si parla di politiche industriali. L’ innovazione digitale e la competitività internazionale del Paese possono essere trainate soltanto dal dinamismo del sistema delle imprese, e questo va favorito attraverso il potenziamento di politiche del tipo Impresa 4.0, che fran-

Paola Pisano

camente possono avere impatti di qualche ordine di grandezza superiore, ripeto, al “potenziamento dei borghi”. Infine, la governance. Il Ministro per l’Innovazione istituisce e presiede una cabina di regia per la digitalizzazione della PA e l’innovazione del Paese alla quale partecipano tutti i Ministri, più come osservatori rappresentanti di enti e amministrazioni pubbliche. L’auspicio dell’integrazione

Abbiamo già imparato ad apprezzare l’ansia di inclusione con cui il Ministro Pisano intende rompere i silos e i centri di potere che finora hanno bloccato il processo di innovazione della Pubblica Amministrazione nel nostro Paese. Ma continuiamo a mettere in guardia contro il proliferare di comitati trasversali, nei quali l’innovazione rischia di sfarinarsi e riemergono i particolarismi e l’innovazione viene sempre più depotenziata. E poiché il Ministro crede fortemente nella sua visione, agisca con polso fermo come un vero “czar digitale”, promuovendo l’integrazione ma non permettendo che la sua iniziativa rischi di sprofondare nella proliferazione dei comitati e dei tavoli di lavoro. E con questo, i nostri migliori auguri di buon lavoro al Ministro Paola Pisano e al suo team. Roberto Masiero, presidente di The Innovation Group 7


STORIA DI COPERTINA | Politica e innovazione

LA MACCHINA ALGORITMICA CHE SCANDAGLIA IL MERCATO DIGITALE Le tecnologie di intelligenza artificiale vengono in soccorso degli analisti, trovando nuovi spunti, correlazioni e insight sulle dinamiche dei fenomeni economici. Quella realizzata da The Innovation Group terrà sotto controllo gli investimenti in tecnologia in Italia.

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l mercato digitale italiano ha un nuovo osservatore. È la “Macchina Algoritmica”, un insieme di modelli matematici, dati e infrastrutture cloud, creata da The Innovation Group per scovare insight sull’andamento del settore. Lo scopo della macchina, basata su tecnologie di intelligenza artificiale e in particolare di machine learning, è quello di estrarre informazioni non banali sia dai dati economici a disposizione sia dall’osservazione del mondo che li circonda: dai dati “live” raccolti dai social media, dalle tendenze dei motori di ricerca Web e da qualsiasi altra informazione, anche non economica, che possa tuttavia avere correlazioni interessanti con i trend del mercato digitale italiano. I dati a disposizione della “macchina” sono le serie storiche relative all’andamento del mercato Ict italiano su quasi due decenni, cioè dal 2001 al 2018. A essi si affiancano quelli relativi all’andamento macroeconomico del Paese e dell’Eurozona, come ad esempio le serie storiche del nostro Pil e degli investimenti in sistemi e servizi Ict.

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Perché il machine learning?

L’intelligenza artificiale rappresenta la nuova frontiera del forecasting. Se fino a ieri la maggior parte delle previsioni è stata elaborata sulla base di modelli statistici costruiti ad hoc per rappresentare uno specifico problema in uno specifico momento, oggi invece è possibile definire algoritmi capaci di identificare e costruire questi modelli in maniera autonoma. Il ricorso alle macchine permette, tra le altre cose, di minimizzare il rischio di pregiudizio (bias) da parte di chi sviluppa il modello, ma soprattutto di trovare correlazioni e regole che normalmente sfuggirebbero a un osservatore umano, sia per mancanza di tempo sia per l’impossibilità di considerare un numero molto elevato di variabili di un sistema complesso. Su queste basi, The Innovation Group ha creato le fondamenta di una macchina algoritmica che, sebbene non ancora in grado, ad esempio, di “nutrirsi” dei dati provenienti dai social network, può già identificare potenziali correlazioni fra i trend del mercato digitale (e dei suoi principali segmenti) e il Pil.

La macchina è stata progettata utilizzando tecnologie industry standard e open source, come il linguaggio di programmazione Python 3.7 e il motore per database Mongo Db, capace di gestire anche i dati non strutturati. I dati statici vengono caricati nel database del programma da un analista, mentre i dati “live” vengono catturati tramite Api, scraping o attività manuale. L’interfaccia di presentazione delle informazioni e quella di controllo sono state sviluppate con tecnologia Web, così da garantire la massima interoperabilità del sistema. Lo sviluppo della macchina è ancora in corso ma, a fronte del caricamento dei primi set di dati (tra cui l’andamento del Pil italiano, report Istat sugli investimenti tecnologici, il numero di brevetti registrati e i dati relativi alla digitalizzazione delle imprese provenienti da Infocamere) hanno già permesso agli analisti di trovare interessanti insight sul mercato digitale. Tratto da “Digital Italy 2019”, realizzato da The Innovation Group ed Edito da Maggiori Editore


CLOUD E MACHINE LEARNING, LE IMPRESE DANNO L'ESEMPIO Al Digital Italy Summit di Roma, manager di imprese innovative hanno portato la loro testimonianza. Da Illimity Bank a Eni, passando per la Rai, si fa strada l’utilizzo dell’intelligenza artificiale.

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arallelamente al percorso della società digitale, riferita a cittadini e Pubblica Amministrazione, nell’ormai abusata locuzione “sistema Paese” le imprese giocano un ruolo fondamentale. Utilizzano le infrastrutture e i servizi messi a disposizione dallo Stato e contribuiscono alla crescita tecnologica dell’intero l’ecosistema. Sul fronte della trasformazione digitale delle imprese, i temi tecnologici e le applicazioni emersi durante il Digital Italy Summit organizzato da The Innovation Group a Roma sono tanti e diversi. Si pensi al caso di Illimity Bank, una realtà bancaria nativa digitale, o a quello di Eni, alle prese con una mutazione di Dna importante anche per dimensioni. Diversi gli spunti. Come ad esempio quello del machine learning che è in grado di portare nel mondo manifatturiero un aumento di produttività generalizzato. “Abbiamo tanti dati e possiamo sfruttarli attraverso algoritmi Carlo Panella

di machine learning”, spiega Leonardo Raineri, responsabile dell’Innovation Program di Miroglio. La società ha sviluppato iniziative di intelligenza artificiale per un’allocazione più strategica dei prodotti nel punto vendita. “Questi progetti hanno avuto un’accoglienza particolare laddove abbiamo potuto portare nel negozio fisico le tipiche logiche di chi si occupa di e-commerce.”, prosegue Raineri. “La sfida è farsi aiutare dai dati: un designer che basa la propria collezione di moda su dati oggettivi e in cima mette la creatività, a mio avviso, ha fatto bingo”. Capacità aumentata e capacità di analizzare una grande mole di dati fanno rima con le innovazioni di casa Rai, spiegate dall’Ict director, Massimo Rosso: “Stiamo cercando di entrare nel mondo emozionale attraverso i dati e modelli che analizzino l’emozione in un tweet dello spettatore. La Tv era l’oracolo degli anni Cinquanta, dava certezza e valore, mentre oggi sono gli algoritmi i nuovi oracoli, da costruirsi con un approccio di trasparenza e fiducia”. Mutazione di Dna anche per altre due realtà, agli antipodi ma che si collocano entrambe in ambiti di mercato storici: le banche e il settore dell’energia. In quest’ultimo, Dario Pagani, executive vice president e Cio di Eni, parla di una sfida da vincere. Quali le innovazioni in campo? “Sistemi e tecnologie che minimizzino le emissioni di CO2 e che, come i Big Data analytics e l’a-

Dario Pagani

nalisi predittiva, si intersechino nelle produzioni”, racconta Pagani. “Abbiamo investito su un sistema di potenza di calcolo da 70 petaflop, il primo non governativo in Italia, che permetta ai giovani di sperimentare la capacità di calcolo e le competenze”. In ambito bancario, invece, qual è la tendenza oggi, accentramento o decentramento? Alcune realtà stanno realizzando architetture in cloud per essere “liquide” sul cambiamento: è il caso di Illimity Bank, la banca nativa digitale. Come spiega Carlo Panella, chief direct banking digital operation officer della società, “Abbiamo un motore unico dei dati e integrazione delle soluzioni. Siamo completamente in cloud e ci siamo focalizzati su processi e possibilità di fare fondamenta solide. Vogliamo costruire piani semplici e superare l’annoso problema delle banche di dover stravolgere il business model attraverso il cloud”. Stefano Belviolandi

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IN EVIDENZA

l’analisi INDUSTRIA 4.0: NON SARÀ UNA “ROBOAPOCALYPSE NOW” Lo smart manufacturing rappresenta per certi versi il condensato delle più attraenti tecnologie di frontiera: Industrial IoT, robotica collaborativa, intelligenza artificiale, realtà aumentata. Paradossalmente, però, uno dei temi irrisolti e più dibattuti degli ultimi mesi è la capacità, da parte dell’uomo, di governare queste tecnologie e di utilizzarle in modo che i processi produttivi risultino più efficienti, assicurino più qualità ma nello stesso tempo garantiscano la necessaria sicurezza di persone e dati e la sostenibilità sociale. Di questo e altro si è parlato nel corso di un tavolo di lavoro dedicato proprio alla manifattura smart nel corso dell’evento Digital Italy Summit, tenutosi a Roma dal 26 al 28 novembre. Al tavolo erano presenti rappresentanti dei competence center, di Confindustria Digitale, del mondo accademico, dei sindacati e, naturalmente, delle imprese. Tra le evidenze emerse durante il dibattito ci sono stati gli elementi che dovrebbero sostenere la quarta rivoluzione industriale, e la convergenza dei diversi mondi presenti sull’importanza del fattore umano e organizzativo è stata unanime. “Le nuove tecnologie non avranno effetti deterministici poiché certamente sconvolgono l’esistente”, ha detto Federico Butera, sociologo, docente universitario e presidente della Fondazione Irso. “Saranno invece solo le politiche e la progettazione a disegnare le nuove organizzazioni, le nuove imprese, le nuove città, le nuove socie-

Federico Butera

Per far sì che la quarta rivoluzione industriale diventi un percorso virtuoso, bisogna agire su alcune variabili importanti, molte delle quali esulano dal mondo della tecnologia ma fanno riferimento all’organizzazione e al fattore umano. tà e soprattutto la qualità e quantità del lavoro. Per questo ritengo che si debba lavorare su tre punti chiave: innazitutto politiche industriali pubbliche e private che intervengano sulle variabili di crescita; in secondo luogo, progetti esemplari di sistemi socio-tecnici in rete e metodologie partecipative di progettazione; infine, la realizzazione di sistemi complessi sviluppata da attori diversi, anche in conflitto, ma basata su para-

metri concordati di prosperità e qualità della vita e con il coinvolgimento delle persone”. Secondo Butera non ci sarà una “Roboapocalypse now”, e il panico generato dalla possibilità che le macchine possano rubare spazio all’uomo o addirittura danneggiarlo non è giustificato. A patto, però, che si lavori insieme su alcune variabili fondamentali, ovvero “allargare la torta, creando nuovi servizi e mercati; sviluppare sistemi organizzativi più efficaci; non perdere di vista la sostenibilità ambientale e sociale; elevare la professionalità dei lavoratori e rinnovare il sistema formativo dei giovani e infine sviluppare piani e azioni condivisi tra gli stackholder come l’Industry 4.0 tedesco, il piano Calenda o il Patto per il Lavoro della regione Emilia Romagna”. E le tecnologie? Secondo Butera, “bisogna diffondere e applicare le nuove tecnologie abilitanti perché consentono potentemente di disintermediare; gestire e generare la conoscenza; connettere le operazioni delle aziende e di clienti; accelerare le decisioni; velocizzare i cambiamenti di prodotti e prestazioni; essere il nucleo di prodotti e servizi di qualità nuovi e personalizzati allo stesso costo della produzione di massa. Ma affinché tutto questo avvenga, occorre attivare gli altri due fattori della quarta rivoluzione industriale: l’organizzazione e il lavoro, anch’essi di nuova concezione”. Emilio Mango

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IN EVIDENZA

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l’intervista

LA TRASFORMAZIONE SI FA IN QUATTRO Il segreto per rimanere competitivi? Giocare alla digital transformation su quattro diversi piani: It, risorse umane, sicurezza e applicazioni

Protagonista al Dell Technologies Forum 2019, Nigel Moulton è Global Chief Technology Officer della divisione Converged Platforms and Solutions di Dell Technologies. Technopolis lo ha intervistato sui temi più importanti del forum: tecnologie emergenti, sostenibilità e qualità della vita. Quali sono le tecnologie su cui investirete di più nel prossimo futuro?

Se pensiamo agli investimenti, ci sono tre domande che dobbiamo farci quando guardiamo alle tecnologie emergenti (wearables, droni, biochip, cloud e chi più ne ha più ne metta): quali obbediscono alla legge di Moore (per esempio di droni) e quali no, quali sono scalabili (come gli assistenti vocali) e quali sono rilevanti (ovviamente per la mia organizzazione). Se applichiamo questi filtri riusciremo senz’altro a ridurre il numero di opzioni e dirigere meglio i nostri sforzi. Ci spiega meglio che cosa intende per scalabilità?

Gli assistenti vocali sono scalabili perché, ad esempio, inserire una tecnologia come quella di Alexa nelle nostre soluzioni non ha un costo tecnologico, perché il grosso del lavoro sul linguaggio naturale è stato già fatto. Oppure, se io posseggo uno smartwatch, il costo marginale per misurare il battito cardiaco è zero,

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“Edge” è una parola molto usata, qual è l’accezione che voi gli date?

La definizione di “Edge” sta cambiando nel tempo. Oggi può essere indifferentemente un dispositivo wearable, un’auto intelligente, un mini data center. In ogni caso, qualunque cosa sia “edge”, sarà connessa al cloud. Nigel Moulton

perché la tecnologia è già incorporata nell’oggetto. Nel segmento business quali sono le tecnologie di riferimento?

Sono tante, a partire dall’intelligenza artificiale e dalle sue varianti (machine learning, deep learning, pattern recognition), passando per il cloud ibrido, l’edge computing, tutte le tecnologie software defined e quelle di workforce modernization.

E “Transformation”?

Se parliamo di aziende, ci troviamo di fronte a quattro tipologie di trasformazione che le organizzazioni devono affrontare per non perdere efficienza: la trasformazione It (in cui il multi-cloud e il cloud ibrido giocano un ruolo fondamentale), la trasformazione della forza lavoro (in cui Dell mette in campo la soluzione Unified Workspace), quella relativa alla sicurezza (dove serve un approccio olistico) e la trasformazione delle applicazioni. Emilio Mango


LA RIVINCITA DELL’ON-PREMISE Nella corsa verso il cloud c’è ancora spazio per i sistemi ingegnerizzati, soprattutto per applicazioni e dati “core”. Lo testimonia la crescita in Europa e in Italia della famiglia Exadata di Oracle. Secondo alcune ricerche, dopo le prime e concitate fasi della corsa al cloud, ad oggi meno del 40% dei carichi di lavoro a livello mondiale sono stati trasferiti sulla nuvola, mentre la maggior parte “giace” ancora nelle architetture on-premise, nonostante le aziende siano sempre attente a cogliere le nuove opportunità offerte dalla tecnologia. Osservatore non imparziale ma molto ferrato in materia è Filippo Fabbri, systems

Filippo Fabbri

country leader di Oracle Italia, che Technopolis ha incontrato per fare il punto sulle tecnologie Exadata, vale a dire i sistemi ingegnerizzati di Oracle. Come procedono le vendite di hardware?

In controtendenza rispetto all’orientamento generale, il business di Oracle per il segmento hardware in Emea è cresciuto sia nel secondo quadrimestre sia nella prima metà dell’anno fiscale. L’Italia ha dato il suo contributo a questa crescita, facendo registrare un incremento del 13% rispetto al periodo precedente. A livello di prodotto, Exadata pesa per l’80% del fatturato mentre server e storage generano il restante 20%. Come mai questo ritorno di fiamma in Italia per i sistemi ingegnerizzati?

In realtà la fiamma non si è mai spenta. È un dato di fatto che le aziende guardino al cloud e che anche quelle che non lo hanno ancora provato si stiano predisponendo a utilizzarlo. I tempi e i modi però variano, soprattutto a seconda del tipo di segmento a cui appartiene l’impresa. Pensiamo al mondo bancario, che ha sempre mostrato una certa ritrosia verso il cloud. Perché ritrosia?

C’è ancora, per molti versi giustamente, una grande attenzione alla custodia dei dati. I passi verso il cloud vengono quindi fatti con la giusta cautela, soprattutto per i carichi di lavoro “core”. Anche le grandi aziende nazionali che hanno realizzati progetti enormi sul cloud hanno però mantenuto “in casa” la parte più strategica del loro sistema informativo.

Quindi c’è ancora spazio per i sistemi ingegnerizzati?

Consideriamo che la spesa per l’It delle aziende italiane da qui al 2023 sarà “flat”, con un valore intorno ai 30 miliardi di euro. Ovviamente la tendenza vede l’aumento del mercato cloud e la riduzione dell’on-premise, ma all’interno di questo macro trend c’è spazio di crescita per alcune architetture particolarmente efficienti. Ed Exadata è una di queste?

Exadata è basata su tecnologie x86 ma ha prestazioni molto diverse dalle altre architetture che hanno la stessa “radice”, di un ordine di grandezza superiore rispetto alle macchine “general purpose”. Poi non dimentichiamo che il market share di Oracle nel mercato dei database è maggiore del 40% e che il nostro prodotto gira molto meglio sulle macchine appositamente ingegnerizzate. In ogni caso noi non ci identifichiamo con l’on-premise, ma offriamo diversi “flavour”: on-premise su Exadata, in cloud (Exadata services come Public Cloud e Autonomous Database) oppure la nota formula Cloud at Customer (rinominata Exadata Cloud at Customer). E.M.

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L’IMPORTANZA DI UN CLOUD DI FIDUCIA Il divario tra provider globali e locali si fa sempre più ampio, il tema della sovranità dei dati più delicato. Technopolis ha intervistato Michel Paulin, Ceo di OvhCloud, per avere una fotografia del settore. L’anno scorso Octave Klaba, il fondatore di Ovh, aveva lanciato il guanto di sfida ai grandi provider mondiali del cloud, concentrati soprattutto negli Stati Uniti, vale a dire Google, Amazon e Microsoft. Ne aveva fatto una questione di principio, prima che di business, spingendo sui partner europei affinché il Vecchio cContinente recuperasse il terreno perduto in un settore strategico. Alla fine del 2019 Ovh ha cambiato nome in OvhCloud e ha cominciato a spingere ancora di più sul cloud providing. Per fare il punto della situazione Technopolis ha intervistato Michel Paulin, Ceo di OvhCloud. Qual è la fotografia attuale del mercato?

Tutti i clienti hanno capito che la locazione dei dati è critica e che, come ovvio, i dati sono strategici. L’Europa, in particolare, riconosce sempre di più l’esigenza di

Michel Paulin

controllare dove siano fisicamente collocati i dati e riconosce anche l’esistenza di un aspetto legale che non può essere fatto passare in secondo piano. Che cosa significa, concretamente?

In Francia, ad esempio, il Governo ha attuato politiche di controllo e di protezione dei dati in cloud per il settore pubblico. Grandi imprese francesi come Cap Gemini e Thales si sono mosse per garantire la compliance alle regole sulla sovranità dei dati e la protezione da ogni minaccia potenziale. Anche l’iniziativa Gaia X, nata in Germania, può essere considerata un buon punto di partenza, tant’è vero che noi vi abbiamo aderito.

In Italia qualcosa si muove?

Purtroppo al momento no, in Italia non siamo ancora riusciti ad avere un dialogo con le istituzioni e con altri partner. Lo stiamo facendo, invece, in Polonia e in Spagna. L’importante secondo noi è muoversi in tempo, perché il rischio di un oligopolio non europeo che possa mettere a repentaglio il controllo delle informazioni di settori strategici come la Pubblica Amministrazione, la finanza e la salute è concreto. OvhCloud che contributo dà?

Per noi il “trusted cloud” è fondamentale. Lo perseguiamo prima di tutto con le infrastrutture: abbiamo i nostri data center (più numerosi di quelli dei big player statunitensi in Europa) e le nostre reti di proprietà. Come è noto, siamo integrati verticalmente. Inoltre, abbiamo ormai una dimensione tale da essere significativi in Europa e da poter sfruttare le economie di scala per offrire prezzi accessibili con un livello di sicurezza elevato. In un mercato in il gap tra operatori di nicchia e player globali sta diventando sempre più ampio, noi vogliamo essere un fornitore globale alternativo. E.M.

LENOVO E LA STRATEGIA DELLE “TRE S” Prosegue il percorso di trasformazione di Lenovo, che dopo le “tre ondate” (sfruttare la leadership nelle attività core, crescere nei segmenti chiave e investire nelle tecnologie emergenti) inaugura quella delle “tre S”: offrire tecnologie intelligenti per i business users attraverso lo Smart Iot, le Smart Infrastructure e gli Smart Verticals. “L’intelligenza”,

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ha detto Jorn Ronning, director large enterprise e public sector Emea di Lenovo, “come l’AI o la realtà virtuale, “la mettiamo nelle tecnologie di frontiera ma anche nei prodotti tradizionali, come la serie Carbon X1 della famiglia Thinkpad. Persino nel maturo settore dei desktop abbiamo introdotto una categoria di device progettati in modo

intelligente: i ThinkCentre Nano, i desktop Tiny più piccoli al mondo”. Non solo i dispositivi, ma anche le soluzioni e le piattaforme dell’azienda diventano sempre più “intelligenti”. Nell’ottica dello “smarter workplace”, Lenovo sta investendo sempre di più sui nuovi servizi come il DaaS (Device as a Service), il supporto e il Modern IT.


TECHNOPOLIS PER CRIF

L’IT AGILE AL SERVIZIO DEL BUSINESS Architetture e sviluppo: i clienti sono al centro dell’approccio “trusted Fintech” di CRIF Global Technologies. nergia tra tutte le funzioni aziendali, tesa alla soddisfazione del cliente finale”.

Mirko Tedaldi, IT solutions senior director di CRIF “Dal punto di vista tecnologico, la nuova forte centralità acquisita dal cliente e dagli utenti finali richiede di saper sviluppare rapidamente applicazioni e servizi soggetti a frequenti iterazioni”. Mirko Tedaldi, IT solutions senior director di CRIF, racconta su quali pilastri la divisione IT di CRIF fondi le proprie basi per creare sempre più valore per i propri clienti. Oggi CRIF supporta istituti di credito e aziende di oltre cinquanta Paesi nell’offrire a consumatori e imprese esperienze sempre più facili e veloci e prodotti e servizi all’avanguardia. “Le architetture”, spiega Tedaldi, “vanno ripensate in maniera più flessibile, per essere adattabili al business e per realizzare i nuovi servizi in modalità Minimum Viable Product/Process, ovvero mirando ad avere il maggior ritorno sugli investimenti rispetto al rischio”. La trasformazione digitale pone alcune grandi sfide per CRIF Global Technologies. “In primis, quella di coniugare governance e sicurezza”, racconta il manager. “Dobbiamo inoltre far leva su asset e servizi chiave, senza compromettere agilità e centralità del cliente, e supportare nuovi modelli di business senza causare ‘discontinuità’ ai servizi esistenti. Altri aspetti determinanti sono garantire agilità nello sviluppo, nella delivery e nelle operations e permettere di reagire all’elasticità della domanda tramite il cloud”. Di pari passo, a livello organizzativo “serve una stretta si-

Metodologie, collaborazione e interculturalità per creare valore CRIF Global Technologies ha implementato la metodologia DevSecOps con tre componenti: l’automazione del flusso (dalla richiesta di feature e bug-fix ai test post-rilascio in produzione), l’utilizzo di un orchestratore di flussi automatici per le build/test e il coinvolgimento del team di Operations nella fase iniziale di progetto, in modo da intercettare quanto prima eventuali criticità a livello sistemistico. La variante “Sec” del DevOps è stata guidata dalla consapevolezza dell’imprescindibile esigenza di garantire la sicurezza di software e infrastrutture. Per la gestione dei progetti, prosegue Tedaldi, “adattiamo i processi IT all’ambito e alle caratteristiche del cliente e del progetto stesso, quali dimensioni, complessità e tolleranza del rischio”. Due i cardini: il primo, rilasciare al cliente solo le funzionalità di cui ha effettiva necessità, con un approccio agile e incrementale; il secondo, garantire un business sostenibile tramite un’innovazione veloce e vicina alle esigenze dei clienti. Nella forte espansione internazionale di CRIF, “la metodologia Agile ha rappresentato una strategia vincente per servire efficacemente clienti globali, adottata in contesti e ambiti di business diversi e con team numerosi, multiculturali e distribuiti geograficamente”. D’altronde l’interculturalità è un valore e una conditio sine qua non per CRIF. In Global Technologies questo significa puntare su team IT interculturali e cross-funzionali. “Siamo riusciti a fare della diversità la nostra unicità“, conclude Tedaldi, “attraverso linee guida, strumenti e metodologie, automazione, tool di collaborazione e il binomio AgileDevSecOps. Perché l’innovazione e la collaborazione sono le chiavi del successo delle organizzazioni moderne”. Per maggiori informazioni: infoglobaltechnologies@crif.com

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IN EVIDENZA

CRESCE L’IPERCONVERGENZA IN ABBONAMENTO Nutanix punta all’innovazione non solo sul fronte della tecnologia, ma anche su quello modello di business. Ne parla Jonathan Gosselin, senior director sales di Nutanix south Emea La strategia Nutanix in Europa evolve, pur mantenendo l’ottica multicloud: tecnologie nuove, modelli di business diversi e partnership di rilievo segnano il percorso di un’azienda che è diventata leader, secondo l’ultima analisi di Gartner, nel segmento dei sistemi iperconvergenti. “Mi piace evidenziare le tappe del nostro viaggio”, racconta a Technopolis Jonathan Gosselin, senior director of sales, southern Emea di Nutanix, “che vanno dagli appliance della prima fase, al software della seconda (in cui abbiamo aperto

Jonathan Gosselin

la nostra soluzione a vendor terzi), al modello a sottoscrizione recentemente introdotto. È un progresso importante, anche se non coinvolge in questo caso l’innovazione tecnologica, perché consente alle aziende di distogliere l’attenzione dai singoli componenti hardware e software per dedicarla alla cura dei propri clienti: il canone di abbonamento copre l’utilizzo delle nostre soluzioni, dell’aggiornamento e della manutenzione ci prendiamo carico noi nell’ottica di un’offerta as-a-service”. Il modello a “subscription” consente

al cliente di utilizzare le licenze in modo flessibile e da qualunque sede, svincolandosi dall’architettura sottostante. Inoltre, tutti i servizi possono essere fruiti in modalità as-a-service, a partire dai sistemi di gestione di data base per arrivare a Kubernetes. “Dal punto di vista della tecnologia”, spiega Gosselin, “i nostri sforzi sono diretti verso una sempre maggiore orchestrazione e automazione, al fine di rendere più facile l’utilizzo delle soluzioni da parte del cliente, che resta comunque libero di scegliere la formula più efficace, tra architetture on-premise e cloud. Da questo punto di vista, penso che uno dei nostri compiti sia quello di formare il cliente e il canale in modo che le scelte siano sempre più consapevoli”. La libertà di movimento è testimoniata anche dalla sempre più spinta politica di alleanze che Nutanix sta stringendo, non ultima quella siglata recentemente con HPE, volta a fornire una soluzione integrata di cloud ibrido as a service, completamente gestita e distribuita nei data center. E.M.

IL FUTURO È UNA BUSINESS PLATFORM Il profilo dei system integrator cambia: anche per loro è sempre più importante andare a fondo nei processi delle aziende clienti, parlare con i Cio ma anche con le linee di business e infine applicare la tecnologia là dove serve. “Il segreto è fare rete”, dice Fabrizio Callery, sales director di Gft Italia, “cioè diventare delle business

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platform. Ogni operatore deve e può cercare guadagni in segmenti dove oggi non ci sono. Facciamo un esempio concreto: il cliente non compra un mutuo ma una casa, non compra un finanziamento ma una macchina. In pratica si tratta di collegare i sistemi tecnologici delle imprese, cosa che si fa con le Api. Anche noi system in-

tegrator possiamo realizzare queste piattaforme, abilitando più soggetti a fare business attraverso azioni di terzi”. In questa trasformazione contano le tecnologie, come l’intelligenza artificiale, ma anche e soprattutto il fattore umano e i dati: due patrimoni spesso trascurati in nome del progresso hi-tech.


LE AZIENDE LEADER GESTIRANNO MEGLIO I DATI CON L’AI Insight divulga i risultati di una ricerca condotta nel 2019 a livello europeo. Insieme al presidente Emea Wolfgang Ebermann, Technopolis ha analizzato i risultati più interessanti.

no affiancare i clienti in questo percorso di trasformazione e abbiamo migliaia di consulenti formati sulle nuove tecnologie, come l’IoT. La nostra dimensione globale, poi, ci permette di intervenire in qualsiasi Paese anche se le competenze sono state acquisite e approfondite in un’area geografica diversa.

L’Insight Intelligent Technology Index è una finestra sul mondo dell’It aziendale. La ricerca, svolta tra maggio e giungo 2019 intervistando mille decisori IT di nove Paesi europei (tra cui l’Italia), ha evidenziato in particolare due criticità: l’importanza di una efficace gestione dei dati attraverso le tecnologie di intelligenza artificiale e la scarsità di competenze per la gestione delle infrastrutture, sempre più complesse. Technopolis ha intervistato Wolfgang Ebermann, presidente di Insight Emea, per approfondire alcuni spunti emersi nella ricerca.

Che tipo di esperienze avete già messo in campo in Italia?

solo un tema di discussione. Poi, il 67% dei decisori sostiene che la sfida principale stia nella gestione delle infrastrutture, e in particolare nella scarsità di skill disponibili. Infine, il 55% afferma che l’AI diventerà un fattore di successo nella misura in cui riusciremo ad avvantaggiarci dell’utilizzo dei dati. È la conferma che i dati per il business sono il nuovo petrolio.

Quali sono i dati che l’hanno più colpita?

Qual è il vostro ruolo in questo scenario?

Il 42% degli intervistati afferma che gli investimenti nel cloud siano stati i più importanti negli ultimi due anni. Penso che questa sia la prova che anche per gli europei il cloud è un fenomeno reale e non

È indubbio che le aziende che riusciranno a gestire i dati e le infrastrutture avranno un vantaggio competitivo. Per noi queste sono aree molto strategiche. Con noi lavorano data scientist e analisti che posso-

Wolfgang Ebermann

Senza fare nomi, una grande società del settore fashion and luxury ci ha chiesto di implementare un data lake che permettesse lo sfruttamento efficace dei dati aziendali. Noi ci siamo seduti a un tavolo insieme al board per decidere non solo quale piattaforma fosse la più adatta, compreso il mix di applicazioni in cloud oppure on-premise, ma anche quale potessero essere la governance e la strategia migliori per usare le informazioni. Una grande banca italiana con filiali all’estero, invece, ci ha chiesto di affiancarla per aiutarla ad analizzare e quindi ottimizzare lo spending IT, che prima era guidato da procedure manuali e gestito localmente. Grazie a un servizio centrale e digitale si riescono a risparmiare grandi risorse da destinare ad altri scopi. E.M.

LA SICUREZZA AL TEMPO DELLA DIGITAL TRANSFORMATION La trasformazione digitale sta modificando le nostre abitudini, ma cambia anche il perimetro da monitorare per chi offre soluzioni e servizi di cybersecurity. “Il problema è che abbiamo dispositivi e applicazioni provenienti da origini diverse”, dice Alain Sanchez, senior chief information security officer evangelist di Fortinet. “Prendiamo ad esempio il settore dell’au-

tomotive: finché le vetture erano isolate dal resto del mondo non c’erano problemi, ora invece lo scenario cambia completamente, perché mentre due smartphone di produttori diversi utilizzano gli stessi protocolli, nel mondo automobilistico e nella manifattura non è così”. Qui entra in gioco il concetto di “security by design”. “La sicurezza innestata nel singolo com-

ponente”, prosegue Sanchez, “è un modo molto elegante di risolvere il problema, ma non è facile da realizzare. Pensiamo a un interruttore della luce domestico, connesso a Google Home: per ottenere un buon livello di sicurezza bisogna coinvolgere tutti coloro che progettano e usano i prodotti, anche i responsabili delle linee di business e gli utenti finali”.

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IN EVIDENZA

SVILUPPO SENZA CODICE, LA CHIAVE DI VOLTA PER LE AZIENDE Le piattaforme di low-coding, come quella proposta da Appian, si adattano alle attuali esigenze di creazione rapida delle applicazioni, ai processi “agili” e al continuo miglioramento del software. Nell’era della velocità e dell’agilità, gli sviluppi software devono allinearsi alle esigenze del business e del time-to market, devono completarsi in tempi brevi e poter essere modificati continuamente. Alle modalità di lavoro agili e condivise tra i dipartimenti aziendali si abbinano ormai con una certa regolarità strumenti in grado di velocizzare la creazione del software, automatizzandolo il più possibile e alleggerendo l’attività di scrittura. Non a caso, Gartner prevede che entro il 2024 lo sviluppo low-code rappresenterà oltre il 65% delle attività legate al mondo applicativo. Su questa tendenza forte Appian ha costruito la propria evoluzione: la società è partita dal Business Process Management per arrivare a proporre una piattaforma low-code che, secondo il Ceo, Matt Calkins, “rappresenta la risposta più efficace per sostenere il ritmo dell’innovazione nelle imprese e per equilibrare le nuove forze di lavoro, che raggruppano gli esseri umani, ovviamente, ma anche i robot e l’intelligenza artificiale”. Le nuove applicazioni low-code e di integrazione rapida con altri strumenti devono permettere di orchestrare le attuali modalità di lavoro, a partire da template precostruiti e personalizzabili o modificabili, sulla base delle esigenze

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Matt Calkins

delle imprese. La nuova versione della piattaforma as-a-service di Appian comprende diverse novità, che vanno nella direzione appena descritta. Appian Ai propone un’integrazione nativa con alcuni strumenti di Google, in particolare per rilevare automaticamente la lingua di un’applicazione ed effettuare traduzioni e per effettuare il riconoscimento ottico dei caratteri. La presenza di Appian nel nostro Paese è già piuttosto radicata: dopo quattro anni di presenza tramite un rivenditore, nel 2015 l’azienda ha inaugurato la filiale italiana. Oggi conta circa ventimila utilizzatori annuali. “Siamo focalizzati soprattutto sulle grandi aziende nazionali, ma il nostro approccio incrementale consente di partire anche con investimenti contenuti e alla portata di realtà più ridotte”, spiega la country manager Silvia Fossati. “Rispetto a un contesto globale dove forte è il peso del mar-

cato dei servizi finanziari, a livello locale la nostra distribuzione è più bilanciata”. Fra i clienti più importanti in Italia c’è Iccrea (Istituto Centrale delle Casse Rurali ed Artigiane), che di fatto sta reingegnerizzando i processi di gruppo utilizzando la tecnologia di Appian.“Due unità, una più tipicamente It e l’altra dedicata al miglioramento continuo, lavorano insieme su ogni progetto dall’inizio alla fine”, racconta Cristiano Pietrosanti, responsabile organizzazione e progetti del gruppo bancario, al quale fanno capo 140 istituti appartenenti al mondo del credito cooperativo. “Usiamo metodologie lean e non c’è alcuna circolazione di documenti. I tempi di realizzazione si sono concentrati tra i venti giorni e i quattro mesi. Nel 2020 lavoreremo su diverse aree specifiche, dagli incassi & pagamenti ai servizi di back office della finanza”.


TECHNOPOLIS PER WOLTERS KLUWER TAX & ACCOUNTING DIGITAL TRANSFORMATION | Perpiciatis

GOVERNARE LA CRISI CON NUOVE REGOLE

Il nuovo Codice della Crisi d’Impresa si affronta con l’esperienza del commercialista e con il supporto digitale di Wolters Kluwer Tax & Accounting. Il nuovo Codice della Crisi di Impresa e dell’Insolvenza (Ccii), tra le mille novità, elimina dai testi giuridici la parola fallimento: il termine viene sostituito con definizioni più tecniche e specifiche per definire le varie fasi della crisi d’impresa. Il nuovo Codice si allinea così alla terminologia in uso in altri Paesi Europei, raggiungendo lo scopo di eliminare la caratterizzazione negativa che si accompagna tradizionalmente alla parola fallimento. Ma non si tratta solamente di una questione lessicale. Il nuovo Codice della crisi d’impresa rappresenta una vera svolta, che disegna anche un’occasione per digitalizzare le pratiche gestionali e migliorare la cultura finanziaria di moltissime aziende italiane. Questa svolta è emersa chiaramente dalle esposizioni e dal dibattito degli appuntamenti del roadshow “Crisi d’Impresa: tra novità normative

e risvolti applicativi” che Wolters Kluwer Tax & Accounting Italia ha organizzato per avvicinare i professionisti a questa novità legislativa. “Non è una riforma banale e i commercialisti, i veri Cfo in outsourcing delle piccole e medie imprese italiane, verranno coinvolti in modo importante”, ha commentato Pierfrancesco Angeleri, Managing Director di Wolters Kluwer Tax & Accounting Italia. “È dunque fondamentale una soluzione digitale che dia loro modo di svolgere appieno il proprio ruolo di consulenti d’impresa. La soluzione consentirà, attraverso automatismi digitali, una diagnosi precoce dello stato di difficoltà delle imprese per contribuire a salvaguardare la capacità imprenditoriale di coloro che vanno incontro a un fallimento di impresa per innumerevoli motivi, spesso indipendenti dalla validità del prodotto o dall’organizzazione aziendale”. Rispettare le norme del nuovo Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza significa fare degli investimenti. Le migliaia e migliaia di Pmi coinvolte dovranno organizzarsi e dotarsi di sistemi di Erm (Enterprise Risk Management) per monitorare il proprio rischio di default, dovranno acquisire nuove competenze di risk management e dovranno adottare organi di revisione e controllo.Una ricerca del Cerved ha tuttavia rilevato che i benefici saranno ben superiori agli oneri richiesti: se la stima dei costi a carico delle Pmi raggiunge, secondo la ricerca, i 6 miliardi di euro, i benefici vengono quantificati in 9,9 miliardi di euro. In un Paese come il nostro, dove l’imprenditore è spesso un geniale “self made man” abituato a gestire tutto in prima persona navigando a vista, ecco che si delinea all’orizzonte la necessità di un’organizzazione strutturata e di una cultura specializzata. “La nuova norma è un importante tassello verso la trasformazione dei professionisti, non soltanto in termini digitali, ma anche in termini sostanziali”, riflette Angeleri, sottolineando la crescente incidenza della consulenza nel business dei professionisti italiani. “L’adempimento è una commodity. Lo sviluppo della professione passa dalla consulenza e la consulenza si sostiene con la Business Intelligence, con la capacità di interpretare dati, con l’esperienza che consente di prevedere. Noi di Wolters Kluwer Tax & Accounting Italia ci siamo, con soluzioni che consentono tutto questo in modo immediato, semplice e integrato”. Le norme del Codice della Crisi d'Impresa e dell'Insolvenza offrono un'occasione per formalizzare e digitalizzare le pratiche gestionali delle Pmi e per migliorare la loro cultura finanziaria. Diversi operatori possono accompagnare le imprese in questo percorso, primi fra tutti i professionisti che metteranno al servizio dei clienti la propria capacità ed esperienza, sostenuti dalla digitalizzazione e dall’automazione di Business Intelligence racchiusa nelle soluzioni Wolters Kluwer Tax & Accounting.

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TECH TREND

UN MONDO NUOVO, GRAZIE ALLA TECNOLOGIA telligenza artificiale conversazionale, modelli di relazione multi-experience e sistemi di pagamento basati sul riconoscimento facciale: nel 2020 l’innovazione farà un ulteriore passo in avanti mettendosi al servizio di cittadini e imprese, consumatori e professionisti. L’economia del digitale sarà sempre più ricca, esalterà tecnologie consolidate e altre in via di consolidamento e svilupperà mercati a nove zeri. Solo un esempio: la domanda di robot destinati ai servizi professionali è prevista in fortissima ascesa e secondo le stime di Deloitte (contenute nelle “Tmt Predictions”) crescerà di 16 miliardi di dollari. Per i chip di intelligenza artificiale si stima un giro d’affari di oltre 2,6 miliardi di dollari, mentre gli audiolibri arriveranno a produrre su scala globale ricavi per 5 miliardi di dollari, in salita del 25% rispetto al 2019. L’ecosistema “moltiplicato” degli smartphone

Modelli di relazione "multiesperienzia", interfacce virtuali, sistemi di pagamento basati sul riconoscimento facciale. E poi intelligenza artificiale, robotica, machine learning e 5G. Ecco le previsioni per il 2020 di Gartner e Deloitte.

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rovando a guardare nella “sfera di cristallo” del 2020, gli esperti di tecnologia hanno previsto che molte innovazioni già note continueranno a essere tasselli fondamentali per il percorso di trasformazione digitale: per esempio l’edge computing e il cloud distribuito, le applicazioni universali della blockchain, l’Internet of Things e la realtà aumentata. Il nuovo anno sarà però segnato anche da una nuova classe di tecnologie pronte a imporsi sulla scena. Smartphone e reti 5G, automi e in-

Nel 2020 il business degli smartphone nel suo complesso supererà i 900 miliardi di dollari: oltre ai telefoni, contribuiranno a questo patrimonio una serie di “moltiplicatori” che comprendono hardware (smart speaker, cover, power bank e dispositivi indossabili), contenuti, advertising e app di giochi, musica e video. Questi moltiplicatori andranno a sviluppare un mercato da 459 miliardi di dollari, con una crescita prevista dal 5% al 10% nei prossimi quattro anni. Un dato su tutti: il giro d’affari delle app mobili dovrebbe sfiorare nel 2020 quota 120 miliardi di dollari, 80 miliardi dei

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quali deriveranno dai videogiochi. 5G e Wi-Fi superveloce

L’anno appena iniziato sarà quello del 5G, che porterà banda larghissima e reti mobili più affidabili, accelerando i progressi nell’ambito delle smart city, nei veicoli intelligenti e in decine di applicazioni IoT affamate di connessioni super veloci. Il vero valore di questa tecnologia, come si ripete da tempo, non sarà però limitato ai telefonini ma interesserà da vicino quasi tutti gli ambiti della nostra vita quotidiana, che saranno trasformati in meglio. Stesso discorso per il Wi-Fi 6, che promette velocità di download dei dati fino a tre volte superiori a quelle ottenibili con l’attuale protocollo di rete wireless (il Wi-Fi 5) e che, soprattutto, ha la capacità di estendere queste prestazioni a un maggior numero di dispositivi (più precisamente, dagli attuali dieci ai cinquanta previsti nei prossimi anni).

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Intelligenza artificiale “locale”

Nel 2020, sempre secondo Deloitte, saranno venduti oltre 750 milioni di chip (che diventeranno 1,5 miliardi entro il 2024) in grado di sviluppare funzioni di machine learning direttamente dallo smartphone, dallo smart speaker o dal drone su cui sono installati, anziché eseguire i calcoli in un data center in remoto. Grazie alla presenza direttamente “on site” dell’intelligenza artificiale, aumenteranno esponenzialmente le possibilità di sviluppo sia in campo consumer (comparto che assorbirà il 90% delle vendite di chip edge, principalmente in ambito smartphone) sia nel settore aziendale. Qui, a beneficiare direttamente dal device di avanzate capacità di analisi dei dati, non limitate alla mera raccolta, saranno in particolare le soluzioni dell’Internet of Things.

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Algoritmi per gli analytics

Le principali innovazioni sul fronte

dell’AI, secondo gli analisti, avverranno in ambito machine learning con l’introduzione di funzionalità di riconoscimento biometrico, realtà aumentata, assistenza vocale e fotografia. Grazie ai chip di intelligenza artificiale installati a bordo, tutte queste funzioni potranno essere svolte in modo più veloce e con maggiore tutela della privacy digitale degli utenti. L’AI e il machine learning, assicurano inoltre gli esperti di Gartner, diventeranno sempre più dei moltiplicatori di risorse per l’analisi automatizzata dei dati: insiemi complessi di informazioni attualmente possono essere processati in una frazione del tempo che era necessario appena due anni fa. Merito delle maggiori capacità di elaborazione degli algoritmi, capacità che può essere facilmente scalata nel cloud e che nel 2020 migliorerà notevolmente in fatto di velocità e precisione.

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L’AI conversazionale per tutti

C’è chi, fra gli addetti ai lavori, è più che convinto: difficilmente vedremo nel 2020 miglioramenti radicali nelle tecnologie consumer, tuttavia qualche forma di intelligenza artificiale conversazionale inizierà a diventare utile nel corso dei prossimi dodici mesi, ovviando ai difetti che ancora contraddistinguono gli assistenti virtuali quando si tratta di creare un messaggio di chat strutturato. Progetti come Microsoft Conversational AI, insomma, segneranno l’avvento di piattaforme in grado non solo di comprendere correttamente i comandi vocali dell’utente ma anche di seguire conversazioni complesse e cogliere le sfumature delle emozioni. Un passo in avanti enorme nell’ambito delle interfacce, insomma, riconducibile in larga parte all’intelligenza del silicio, e quindi ai chipset sviluppati appositamente per i dispositivi smart e capaci di elaborare accuratamente il linguaggio naturale in tempo reale, isolando le voci

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umane da altri rumori di fondo. Interfacce di nuova generazione

In ambito business, le aziende di ogni settore abbandoneranno progressivamente modelli di interfaccia tradizionala a favore di applicazioni che funzionano sui dispositivi mobili dei loro clienti. Schermi più grandi e ad alta risoluzione, in altre parole, abiliteranno strumenti di controllo dei dispositivi stessi molto più efficaci rispetto alle tradizionali interfacce “on machine”, aprendo le porte a una prospettiva completamente nuova per la gestione dei prodotti digitali. Le cosiddette interfacce agente (ovvero i chatbot) basate su intelligenza artificiale, fanno notare ancora da Gartner, rappresentano sin d’ora un nuovo paradigma d'interazione uomo-macchina e nei prossimi mesi influenzeranno notevolmente il modo in cui le aziende si rapporteranno ai clienti, offriranno loro servizi e metteranno a disposizione strumenti digitali ai propri dipendenti.

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Robot ubiqui

Nel 2020 il settore della robotica registrerà tassi di crescita importanti, sia nell’ambito degli automi industriali (per cui si stima un fatturato di 18 miliardi di dollari, in crescita del 9% anno su anno) sia in quello dei servizi professionali (in aumento del 30%). Dal 2016 al 2021, secondo le rilevazioni di Deloitte, risulterà quasi raddoppiato il numero globale di installazioni di robot industriali per la produzione di automobili, componenti elettronici, metalli, plastiche e altro, mentre i robot utilizzati nella logistica, nel retail e in ambito sanitario registreranno uno sviluppo a due cifre trainato in particolare dalla tecnologia 5G e i dai chip edge di intelligenza artificiale. Le macchine autonome (oltre ai robot, anche droni, veicoli di vario genere ed elettrodomestici), aggiungono gli analisti di Gartner,

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TECH TREND

continueranno a evolversi per trovare applicazione in spazi pubblici aperti, diventando sempre più capaci di collaborare tra di loro. Smart mobility in sella all'e-bike

Nei prossimi tre anni il numero di persone che userà la bicicletta per gli spostamenti tra casa e luogo di lavoro aumenterà su base globale di un punto percentuale, mentre raddoppierà il numero di utenti delle due ruote in molte grandi città del mondo. Che cosa comporterà questa tendenza? Che fra il 2020 e il 2023 saranno vendute oltre 130 milioni di biciclette elettriche e che alla fine di questo periodo ci saranno oltre 300 milioni di e-bike (di proprietà privata e in sharing) in circolazione sul pianeta, il 50% in più rispetto a quelle conteggiate nel 2019. L’innovazione tecnologica farà ovviamente da volano a questo sviluppo di domanda,

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grazie a strumenti e servizi ancillari che miglioreranno l’esperienza d’uso del mezzo, offrendo a portata di smartphone applicazioni per la registrazione e la condivisione dei tempi di percorrenza e delle informazioni sulle condizioni stradali, per il calcolo delle calorie bruciate o della quantità di gas serra risparmiata evitando l’automobile. Multiexperience e pagamenti con il volto

Dispositivi e strumenti di vario tipo attraverso i quali gli utenti interagiscono nelle loro epserienze digitali (o customer journey, che dir si voglia): è la multiexperience, un modello che richiede la creazione di applicazioni ad hoc, in grado di garantire in modo simultaneo un’esperienza coerente e unificata su Web, dispositivi mobili e indossabili. I punti di contatto immersivi che impiegano la realtà aumentata, virtua-

le o mista, le interfacce vocali e quelle uomo-macchina multicanale andranno a coesistere con i browser Web e con le applicazioni mobili: qualsiasi combinazione di questi touchpoint potrà essere utilizzata dai consumatori. A detta di Gartner, la tradizionale idea di computer come luogo di interazione singolo si evolverà per includere interfacce multisensoriali, quali per esempio dispositivi indossabili, comandi vocali o gestuali (per esempio negli ambienti di realtà aumentata o virtuale). I pagamenti gestiti tramite riconoscimento facciale sono un esempio di questa evoluzione dell’esperienza digitale e rappresentano una tendenza oggi già forte soprattutto in Cina, ma che si sta rapidamente diffondendo altrove e che contribuirà a diminuire ulteriormente l’uso del contante e delle carte di credito e debito. Gianni Rusconi

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LE SCOMMESSE DEL FUTURO, OLTRE IL 2020 Una Internet “per il futuro”, l’application loyalty, la “caccia” alle minacce, lo zero trust nella cybersicurezza e la co-innovazione. E poi, ancora, il viaggio verso le reti intent-based e il tema sempre più trasversale delle competenze. Se il decennio appena terminato, tecnologicamente parlando, può definirsi come un’epoca definire incredibile – segnata dall’ascesa mondiale degli smartphone, dalla crescente diffusione dell’intelligenza artificiale nelle aziende e nelle case e dall’ormai totale ubiquità del cloud computing, delle app e dei social media –, quello appena iniziato non promette nulla di meno. Anzi. In Cisco, a tal proposito, sembrano avere le idee chiare

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e sono convinti che la connettività mobile, il machine learning e l’evoluzione verso vere architetture multidominio continueranno a fare tendenza anche per gli anni a venire. La necessità di creare una Internet del futuro (e per il futuro), secondo gli esperti della società di networking californiana è l'unica possibile risposta all’inadeguatezza dell’attuale infrastruttura che sorregge la ragnatela telematica rispetto ai requisiti necessari per la trasformazione digitale: entro il 2023, saranno 49 miliardi i dispositivi connessi alla grande Rete e nel corso del decennio assisteremo all’emergere e allo sviluppo di una serie di nuove tecnologie come lo streaming 16K, il 5G e più avanti il 10G, il computing

quantistico, la sicurezza informatica adattiva e predittiva, i veicoli a guida autonoma e l’IoT intelligente. Da qui la necessità di reiventarla, questa infrastruttura, di renderla più veloce, più scalabile, più economica, più semplice da gestire e da proteggere. Secondo l’ultimo “App Attention Index” di AppDynamic, l’uso di servizi digitali si è evoluto fino a diventare un comportamento umano inconscio, una sorta di “riflesso digitale” che oltre per due terzi dei consumatori è diventato intrinseco alla propria vita quotidiana. Le persone, insomma, volteranno rapidamente le spalle ai marchi le cui applicazioni non offrano un’esperienza premium e al contempo semplice.


TECHNOPOLIS PER TREND MICRO

LA SICUREZZA IN CLOUD? È CONDIVISA La piattaforma Cloud One può dare ai clienti che migrano sulla nuvola lo stesso livello di sicurezza percepito per le infrastrutture on-premise. L’analisi di Salvatore Marcis, technical director di Trend Micro. Cloud One è la piattaforma di servizi di sicurezza che Trend Micro mette a disposizione delle aziende interessate a sviluppare applicazioni nel cloud. Consente sia di migrare sulla nuvola le applicazioni esistenti sia di erogare, in sicurezza, nuove applicazioni cloud-native. È la prima piattaforma del suo genere che include tutti i tool sviluppati da Trend Micro e già utilizzati da migliaia di organizzazioni, tra cui anche strumenti per i container e una nuova soluzione utile per proteggere applicazioni, reti, file storage e per assicurare che l’infrastruttura cloud sia configurata in maniera ottimale. L’approccio “all-in-one platform” di Trend Micro è pensato per offrire una protezione semplificata, automatizzata e flessibile, a prescindere dal punto del proprio viaggio verso il cloud in cui ogni azienda si trova. I clienti che usano la piattaforma trarranno vantaggio da un unico accesso a tutti i servizi, dalla registrazione di utenti e servizi cloud comuni, dalla visibilità da un’unica console e da un modello di tariffazione e fatturazione comune. La nuova piattaforma di cloud security di Trend Micro supporta i principali fornitori cloud, inclusi Amazon Web Services (Aws), Microsoft Azure e Google Cloud. “Trend Micro parla di cloud ibrido da quasi dieci anni”, dice Salvatore Marcis, technical director dell’azienSalvatore Marcis, technical director di Trend Micro

da, “e da sempre l’idea è fare in modo che gli utenti possano proteggere i propri data center, di qualunque tipo essi siano: on-premise, ibridi, pubblici. Negli ultimi dodici mesi il segmento di cloud pubblico è cresciuto molto, ma non così la percezione, da parte dei clienti, che la sicurezza in ambito cloud debba essere una sicurezza condivisa. I provider infatti proteggono la piattaforma, ma la difesa degli applicativi, dei dati e dei sistemi operativi (e di tutte le altre componenti, come i container) resta a carico dei clienti”. L’aspetto più interessante è la modalità di fruizione di Cloud One, un servizio di sicurezza in cloud che garantisce al cliente la sicurezza antimalware e Intrusion Prevention System (Ips) del suo ambiente, l’analisi dei dispositivi storage del cloud provider, il controllo di sicurezza della disponibilità applicativa dei server. E poi quello che viene definito cloud security posture management, vale a dire l’analisi del percorso che ha portato un servizio dalla sala server al cloud, per capire come vengano gestiti gli accessi dopo il cambiamento e verificare che i requisiti di regolamenti come Gdpr siano ancora soddisfatti. “Tutto questo è dentro Cloud One”, spiega Marcis, “e lo possiamo definire un assessment se ci riferiamo alla fase iniziale dell’implementazione, ma i servizi vengono erogati in continuo, monitorando tutte le modifiche che vengono fatte al sistema. Cloud One è di fatto un’evoluzione di Deep Security e viene proposta al cliente come un unicum. Si presenta come un portale, un pannello dal quale il cliente può scegliere quali servizi utilizzare”. Nel nostro Paese l’adozione delle architetture cloud è finalmente partita, ma non sono molte le aziende italiane che si sono spinte fino a portare i propri data center interamente nel cloud pubblico. “Imprenditori e manager si stanno sempre di più rivolgendo al cloud”, conclude Marcis, “ma tendono a replicare quello che hanno costruito in casa, con una modalità che viene di solito chiamata lift-and-shift; quindi, quando iniziano la trasformazione, tendono a pensare di avere senza sforzo lo stesso livello di protezione di cui godevano prima. Solo dopo si rendono conto che quel perimetro di sicurezza che avevano realizzato non è facilmente replicabile, e quindi ci chiamano. Il nostro obiettivo è quindi quello di far tornare a percepire ai clienti passati al cloud pubblico o ibrido il livello di sicurezza che avevano on-premise”. 23


FINTECH

OPEN BANKING, È APERTA ANCHE LA MENTALITÀ Uno studio di YouGov e Tink svela che nelle banche italiane otto dirigenti su dieci guardano con interesse al nuovo modello “collaborativo” imposto dalla direttiva Psd2. A spaventare, invece, è l’intraprendenza di Facebook, Google, Apple e Amazon.

L’

open banking è una rivoluzione attesa, ancora tutta da realizzarsi, ma che sembra avere la strada spianata. Ce l’ha dal punto di vista normativo, perché con la direttiva europea Psd2, entrata in vigore anche in Italia dallo scorso settembre, le banche sono obbligate ad “aprire” le proprie Api (interfacce di programmazione applicativa) a società terze, come le fintech. Per i titolari di conti correnti e carte di credito o debito questo significherà avere a disposizione modi nuovi, comodi, per fare acquisti sul Web o tramite app, per eseguire operazioni bancarie nazionali o transfrontaliere o, ancora, per richiedere prestiti. In sostanza, mentre finora ciascuna banca ha potuto sviluppare le proprie app e i propri servizi Web rivolti ai clienti, con il nuovo approccio “collaborativo” una fintech potrà, su autorizzazione dell’utente, collegare la propria piattaforma tecnologica a quella di una banca per veicolare ac24 |

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quisti o altre azioni che coinvolgono un conto corrente o una carta. L’open banking in Italia sembra avere la strada spianata anche da un altro punto di vista: la mentalità. Otto banchieri su dieci (81%) sono ben predisposti nei suoi confronti, ritenendola un’opportunità di trasformazione. In particolare, permetterà di “sviluppare servizi digitali migliori”, di “ridurre i costi di acquisizione dei clienti” e di “vendere l'accesso ai dati che vanno oltre la Psd2”. Questo è emerso da un sondaggio condotto da Tink e YouGov su 269 dirigenti di servizi finanziari di 17 Paesi, 21 dei quali in Italia. Da noi l’attitudine generale è ancor più positiva rispetto al contesto internazionale: l’81% degli intervistati italiani pensa che il settore stia subendo

una trasformazione significativa grazie all’open banking (la media dei 17 Paesi è 64%), il 57% immagina che la propria banca ne possa trarre concreti vantaggi (versus il 55% di media). Le Big Tech fanno paura

Esistono, per converso, diffuse preoccupazioni in merito sia alla Psd2 (direttiva che introduce altri obblighi, come per esempio l’autenticazione forte a due fattori nelle procedure di riconoscimento del cliente) sia, soprattutto, all’avanzata delle grandi aziende tecnologiche statunitensi nel territorio del banking. Basti citare la Apple Card recentemente lanciata negli Usa in collaborazione con Goldman Sachs e Visa, o le preoccupanti prospettive della criptovaluta di Facebook, Libra,


PAGAMENTI BIOMETRICI PIÙ SICURI DELLE PASSWORD, OPPURE NO?

BANCHE VERSO LA TRASFORMAZIONE

Pagare con un gesto della mano o con uno sguardo. La biometria applicata alle procedure di pagamento tramite smartphone non è più fantascienza, dal Face ID dell’iPhone utilizzabile in Apple Pay in poi. Che piaccia oppure no, l’autenticazione biometrica può rappresentare un’alternativa alle verifiche basate su password e token. Più comoda, sicuramente, ma anche più sicura? La scorsa primavera gli oltre 15 milioni di iscritti al canale YouTube di Unbox Therapy hanno avuto dimostrazione di come sia possibile ingannare il sistema di riconoscimento facciale del Galaxy S10 di Samsung posizionando davanti alla fotocamera non la persona in carne e ossa bensì un suo video (riprodotto da un altro smartphone). D’altra parte in molti scommettono sulla maggiore sicurezza della biometria rispetto ai login basati su pas-

Gli ultimi anni hanno portato scompiglio nel mondo delle banche, anche se ci si limita a osservare l’impatto delle trasformazioni tecnologiche su questo settore, tralasciando il contesto economico e gli scandali che hanno travolto alcuni istituti. Sul ruolo distruttivo e “costruttivo” del digitale è intervenuto recentemente l’analista Ezio Viola, amministratore delegato di The Innovation Group, facendo notare che “la sfida della trasformazione digitale per le banche italiane è ben lungi dall’essere conclusa” e che molte devono ancora “comprendere che digitalizzare non è sinonimo di trasformazione digitale, che quest’ultima non deve essere l'obiettivo finale ma è semplicemente il prezzo da pagare per poter continuare a stare sul mercato ed essere competitive con i nuovi attori emergenti”. La trasformazione, avviata attraverso un diverso e più fruttuoso utilizzo dei dati, potrà proseguire nei prossimi anni attraverso tecnologie come l’intelligenza artificiale, la blockchain, la realtà aumentata e l’Internet delle cose, tecnologie che stanno creando un ambiente che Viola definisce come “post-digitale”. In questo ambiente dovrà proliferare un elemento di natura non tanto tecnologica ,quanto piuttosto relazionale: la trasparenza. “Il post-digitale”, ha spiegato l’analista, “richiederà e porterà una trasparenza più ampia, consentendo ai consumatori di confrontare prodotti e servizi in real-time e di scegliere la migliore opzione, mettendo ulteriore pressione sulle banche e sul pricing dei servizi”.

o ancora la promessa di Google di introdurre nel 2020 una propria carta di credito appoggiata a Citigroup. Non mancano iniziative italiane, come la collaborazione fra Amazon e Intesa Sanpaolo, grazie alla quale i clienti comuni possono convertire i propri risparmi bancari in buoni regalo da spendere sulla piattaforma di e-commerce. Il 52% dei banchieri italiani si è detto preoccupato in merito alle ambizioni delle Big Tech. Un “rischio limitato”

In ogni caso, non è il modello open banking di per sé a generare ansie: nessuno degli intervistati in Italia lo ritiene una minaccia significativa per la propria banca, anche se uno su tre lo considera

sword, purché correttamente utilizzata: per esempio, come secondo o terzo fattore in una procedura di Strong Customer Authentication. “L’autenticazione biometrica ha un grande potenziale”, sottolinea Paul Jennekens, manager marketing della società di servizi di pagamento EquensWorldline, “in quanto è facile da usare e relativamente sicura,. Ma questo metodo deve far fronte anche a una serie sfide di sicurezza: lo spoofing è una di queste. Questo tipo di attacco informatico è usato per copiare i dati biometrici, falsificando l’identità, e ottenere un accesso non autorizzato. Ciò è possibile attraverso una registrazione vocale o una riproduzione in silicone dell’impronta digitale. Ma l’autenticazione biometrica si sta muovendo nella giusta direzione, soprattutto grazie agli enormi progressi dell’intelligenza artificiale”.

un “rischio limitato”, specie relativamente alla possibile minore capacità di fidelizzazione dei clienti. “Essere presenti sul territorio con un headquarter a Milano ci dà la possibilità di rapportarci in modo diretto con i nostri clienti e capirne in dettaglio le necessità”, ha commentato Marie Johansson, country manager di Tink in Italia, “e ciò che stiamo riscontrando tramite il confronto con loro, e che si evince anche nel report, è che le aziende che non abbracciano nuovi modelli di business e non vengono incontro alle aspettative dei clienti sono quelle che rischiano di essere sostituite da competitor più innovativi. I dirigenti delle banche italiane sono chiaramente alla ricerca di opportunità”. Valentina Bernocco

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ITALIA DIGITALE

Sulla propria capacità di innovare e sul grado di maturazione delle iniziative avviate, la maggior parte delle imprese italiane pensa di avere ancora un po' di strada da fare. Così svela una ricerca di The Innovation Group.

L'INNOVAZIONE È LA META, IL PERCORSO È A METÀ

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uanto sono innovative le imprese italiane? Il rapporto annuale “Digital Italy 2019” di The Innovation Group mostra una panoramica sullo stato dell’arte dell’innovazione in Italia, sulla base dell’autopercezione di un campione di 202 aziende. Le realtà intervistate, estratte casualmente dal database utenti di The Innovation Group, hanno espresso un giudizio in una scala da uno (pessimo) a dieci (ottimo) sul proprio grado di “innovatività” raggiunto rispetto a diverse tematiche: le iniziative sviluppate dalla funzione IT aziendale; gli investimenti in tecnologia; la capacità della divisione IT e delle tecnologie di supportare le attività aziendali e di promuovere l’innovazione; 26 |

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la diffusione e la qualità degli strumenti di gestione e analisi dei dati; la capacità d’innovazione del software utilizzato in azienda. La distribuzione dei voti ottenuta è stata poi suddivisa in tre cluster: gli “immobili” (voto compreso fra uno e quattro), che non hanno ancora iniziato il processo di trasformazione digitale o che sono in procinto di farlo; le imprese “in mezzo al guado” (voto compreso fra cinque a otto), che hanno iniziato o stanno iniziando il processo di digitalizzazione delle proprie attività; gli “attivi” (voto superiore a otto), che sono in una fase avanzata del proprio percorso di digitalizzazione e che si sono dotati di una vera e propria strategia ditale. In linea di massima l’analisi mostra la fo-

tografia di un Paese ancora legato a una gestione tradizionale dell’IT (a eccezione delle realtà di grandi dimensioni, con oltre 500 dipendenti) e le cui aziende, pur avendo avviato un percorso di rivisitazione dei propri processi interni in chiave innovativa, risultano essere tuttavia ancora in uno stadio iniziale per quanto riguarda lo sviluppo di attività di data analysis/governance e l’innovazione del software. In particolare, il 42,6% degli intervistati si considera “immobile” con riferimento alla diffusione in azienda degli strumenti di gestione e analisi dei dati, un dato che sale al 49,5% se viene valutata la qualità di tali strumenti e al 53,5% se si considera la capacità di innovazione del software utilizzato in azienda.


Nel caso della Pubblica Amministrazione è stata rilevata una posizione positiva con riferimento al livello d'innovazione delle iniziative e degli investimenti IT e alla capacità innovativa degli strumenti tecnologici, mentre è emersa una valutazione negativa sulla collaborazione con l’IT e sull’utilizzo di dati e strumenti volti a gestirli. I risultati mostrano come all’interno degli enti pubblici, pur essendo state avviate diverse attività innovative, queste ancora non si basino su strategie “data driven” né siano supportate da un’adeguata collaborazione con la divisione IT. Per quanto riguarda il settore della finanza, invece, è emersa una posizione positiva su iniziative e investimenti tecnologici e sulla capacità del business di sollecitare l’IT: tali valutazioni risultano in linea con i cambiamenti che stanno impattando il settore negli ultimi anni e che richiedono una rivisitazione dei modelli di business in chiave digitale. L'indice che misura la trasformazione

Dall’analisi è stato ricavato il “Digital Transformation Index”, ottenuto sommando le singole valutazioni dei rispondenti per ciascuna domanda, e volto ad indicare il livello di maturità “alto”, “medio” o “basso” raggiunto dalle imprese nella trasformazione digitale. L’indice ha rilevato che oltre la metà del campione (52%) ritiene la propria azienda si trovi in una fase intermedia del processo trasformativo, contro il 28,7% che è solo all’inizio e il 19,3% che si reputa in una fase avanzata. In modo particolare, la maggior parte del campione attribuisce una valutazione media al livello d'innovazione delle iniziative e degli investimenti in IT che la propria azienda sta sviluppando, così come al rapporto tra l’IT e il business. Soprattutto in relazione a quest’ultimo aspetto è emerso come sia ancora molto forte il ruolo del business nel sollecitare le attività innovative: una tendenza confermata anche dal fatto che, con riferimento

alla capacità innovativa delle figure IT e delle tecnologie in azienda, la maggior parte del campione ha ritenuto di appartenere agli “immobili”. Il ruolo dell’IT aziendale

Il 35,1% dei rispondenti attribuisce una votazione intermedia al livello d'innovazione delle iniziative sviluppate dall’IT aziendale, rientrando nella categoria degli “in mezzo al guado”, mentre il 34,7% appartiene agli “immobili” e il 30,2% agli “attivi”. Per quanto riguarda, invece, la percezione sul livello di innovazione degli investimenti in tecnologia effettuati dall’azienda, quasi la metà dei rispondenti (46%) si colloca nella categoria “in mezzo al guado”, contro il 34,2% degli “immobili” e il 19,8% degli “attivi”. In modo particolare, per entrambi gli ambiti considerati rientrano negli “immobili” principalmente le aziende medio-piccole, operanti nell’ambito dei servizi e dell’industria; anche nel cluster “in mezzo al guado” dominano le Pmi ma si riscontra una maggior presenza di aziende di grandi dimensioni (oltre 500 dipendenti). Sia con riferimento al grado di innovazione delle iniziative sia agli investimenti IT, il cluster degli “attivi” è composto in larga misura da aziende con oltre 500 dipen-

denti, operanti nel settore dei servizi, dell’industria e della finanza. Un altro ambito analizzato nello studio è la capacità dell’IT di assumere all’interno dell’azienda il ruolo di figura “pivot”, comprendendo quanto sia in grado di stimolare e promuovere l’innovazione all’interno del business. Tale capacità è reputata bassa dal 45,5% del campione (gli “immobili”): anche in questo caso il gruppo si compone principalmente di aziende operanti nell’ambito dei servizi, con una presenza più limitata di imprese operanti nell’industria, mentre per quanto riguarda la dimensione aziendale si rileva una prevalenza di realtà grandi (oltre 500 dipendenti). Agli “attivi” appartiene il 34,2% del campione, una percezione positiva che caratterizza principalmente le aziende grandi (oltre 500 dipendenti) operanti nell’ambito dei servizi e, in misura minore, della Pubblica Amministrazione e dell’industria. Nella categoria “in mezzo al guado” rientra, infine, il 20,3% del campione: si tratta in prevalenza di aziende di grandi dimensioni (con più di 500 dipendenti) operanti nell’ambito dei servizi e in misura minore nel settore industriale. Carmen Camarca, analista di The Innovation Group

Quanto valuta innovative le iniziative che la funzione IT della sua azienda sta sviluppando?

Fonte: TIG, 2019

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ITALIA DIGITALE

IN VIAGGIO VERSO IL FUTURO, GRAZIE AI DATI Uno studio di The Innovation Group svela che per le imprese italiane medio-grandi le iniziative tecnologiche di analytics e dintorni sono una priorità. Ma la vera innovazione deve ancora realizzarsi.

I BUONI PROPOSITI DELLE AZIENDE ITALIANE Nel giro di un paio di anni, le aziende italiane investiranno oltre 66 milioni di euro in progetti di trasformazione digitale. Ma per ora sono solo promesse. Il dato si evince dalle dichiarazioni d’intenti fatte da circa un centinaio di responsabili IT italiani di aziende grandi, medie e piccole, coinvolti da Insight, azienda partner di Microsoft, in un più ampio studio (“Intelligent Technology Index, per il quale sono stati interpellati mil-

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le professionisti di aziende di nove Paesi). Per questi professionisti investire in progetti di trasformazione digitale significa innanzitutto mirare a due obiettivi: il miglioramento dell’esperienza del cliente e lo sviluppo di nuovi prodotti e servizi. Come? Sicuramente anche attraverso il cloud computing, una tecnologia per cui le aziende italiane hanno speso circa 64 milioni di euro negli ultimi due anni, secondo le stime di Insight.

C

hiuso un decennio in cui i dati sono diventati metaforicamente il “nuovo petrolio”, la linfa vitale (o se non altro il vero valore aggiunto) di qualsiasi attività economica, possiamo scommettere che in futuro la loro importanza per le aziende continuerà a crescere. D’altra parte aumenterà il loro numero, la varietà delle forme e le modalità di raccolta, ma ciononostante trarre valore dai dati dovrà diventare più semplice e non più difficile. A questo serviranno gli strumenti di analytics e Business Intelligence, tradizionali o basati su tecnologie di intelligenza artificiale. A che punto sono le aziende italiane nell’adozione di queste risorse? Se lo sono chiesti gli analisti di


The Innovation Group, trovando alcune risposte dal dialogo con chief information officer, IT manager e business manager di 187 imprese medio-grandi. Nello studio firmato a quattro mani dall’amministratore delegato Ezio Viola e dall’associate research manager Elena Vaciago si legge che “la gestione dei dati, i business analytics e le evoluzioni verso applicazioni di intelligenza artificiale sono considerati prioritari nelle iniziative IT”, e addirittura “occupano il primo posto nell’agenda dei Cio”. Alla domanda su quali fossero le principali iniziative Ict in programma per il 2019, il 63% degli intervistati ha indicato progetti riguardanti la gestione dei dati, gli analytics e l’AI. D’altra parte le altre due categorie di progetti Ict più citate sono la sicurezza (continuità, gestione del rischio, menzionata dal 63% del campione) e il cloud (40%), ovvero due tematiche strettamente legate ad analytics e dintorni. Le iniziative incentrate sui dati hanno bisogno di garanzie di continuità delle applicazioni, protezione delle informazioni, disponibilità di risorse per il calcolo, l’archiviazione e la distribuzione dei dati (risorse che il cloud fornisce a costi relativamente bassi). Sulla buona strada

Da queste prime evidenze, dunque, sembra di intuire che le aziende italiane di dimensione medio-grande siano sulla buona strada. Dobbiamo però osservare, scrivono Viola e Vaciago, che lo scenario è “molto ampio e variegato” e che attualmente “prevalgono le analisi orientate a fornire un supporto informativo utile a prendere decisioni e a migliorare i processi e l’efficienza interna all’organizzazione”. Attraverso le iniziative incentrate sui dati, infatti, le aziende italiane si aspettano soprattutto di poter velocizzare i processi decisionali (per il 62% del campione), di migliorare l’operatività (53%), di sviluppare

IL MADE IN ITALY È ANCHE TECNOLOGICO Il made in Italy non è solo cibo, moda e artigianato. Dal ministero per l’Innovazione guidato da Paola Pisano, in collaborazione con il Mise, il ministero degli Affari esteri e l’Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane, è nato il programma “Made.IT”. Un’iniziativa rivolta alle startup e alle Pmi italiane che si occupano di tecnologia e di digitale, le quali − stando alle promesse − potranno beneficiare di attività di marketing e promozione, comparire su un sito Web dedicato, partecipare a eventi di settore e fregiarsi del marchio “Made.IT”. Quel che più conta, forse, le realtà partecipanti potranno evitarsi un po’ di complicazioni burocratiche grazie a un sistema semplificato di visti e a non meglio specificati “interventi normativi capaci di semplificare l'attività imprenditoriale innovativa”. Potranno, infine, con-

nuovi prodotti e servizi (50%). Modeste quote di intervistati, invece, credono di poter ottenere dei vantaggi competitivi sul proprio mercato di riferimento (il 26%), di riuscire a incrementare gli utili (21%) o di saper monetizzare i dati in questione (14%). Gli utilizzi riguardanti l’area del marketing prevalgono nettamente, mentre solo in un’azienda su cinque i dati vengono studiati per la gestione del rischio d’impresa. Insomma, il cammino è stato intrapreso ma molte possibilità restano ancora inesplorate. Quanto, invece, alle tecnologie in uso, anche da questo punto di vista le aziende italiane sono in viaggio, per così dire, avendo avviato “un processo evolutivo che, partendo da applicazioni

tare su una rete di corrispondenti all’interno della Pubblica Amministrazione, sia in Italia sia all’estero. Per rientrare nel programma è necessario rispettare alcuni requisiti, tra cui il fatto di sviluppare tecnologie “inclusive” e che abbiano un “impatto sociale e ambientale sostenibile”. Il ministro ha parlato anche del requisito della "italianità", ma si dovrò chiarire meglio a che cosa si riferisca, se alla registrazione, al prodotto sviluppato o ad altro. In attesa di ulteriori dettagli, dalle dichiarazioni del ministro Pisano (fatte in occasione del Ces di Las Vegas) per ora sappiamo che il programma “prevede una fase di consultazione con gli stakeholder pubblici e privati, la definizione del piano operativo, la messa online di un sito dedicato e l’avvio ufficiale delle attività di supporto alle startup ad aprile, con il lancio del marchio”.

consolidate di business analytics, procede verso altre più avanzate (analitiche descrittive, predittive e prescrittive) fino a vere e proprie applicazioni di AI”, si legge nel report. Dai questionari si evince che fino all’anno scorso solo il 19% delle aziende medio-grandi aveva già realizzato iniziative di analytics basati su intelligenza artificiale o machine learning. Una percentuale destinata a salire al 42% nel giro un triennio, stando alle dichiarazioni d’intenti. “Soluzioni come il riconoscimento della voce, di immagini e video, il natural language processing, agenti e chatbot, simulazioni avanzate, predizioni analitiche e altro si stanno via via diffondendo”, sottolineano gli analisti. V.B. 29


ITALIA DIGITALE

A CACCIA DI NUOVE COMPETENZE I monitoraggi di LinkedIn svelano che in Italia la figura professionale più in ascesa è quella del data protection officer. Ma le aziende sono anche alla ricerca di esperti di Crm, Big Data e intelligenza artificiale.

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a componente tecnologica e digitale diventa sempre più importante per le aziende italiane, anche per quelle che operano in tutt’altro settore. Per molte non basta più poter contare su un personale IT generico e tuttofare, bensì servono conoscenze teoriche e abilità pratiche specifiche, necessarie per la gestione quotidiana del business così come per avviare progetti innovativi. Una ricerca pubblicata da LinkedIn lo scorso dicembre, “Emerging Jobs Italia”, ha svelato la classifica delle figure professionali e delle competenze che hanno registrato il tasso di crescita più elevato negli ultimi quattro anni, tra l’inizio del 2015 e la fine del 2019. L’elenco si basa sui dati del LinkedIn Economic Graph, un progetto di analytics che attinge al bacino di informazioni (di aziende, curricula, competenze, posizioni lavorative aperte, eccetera) della piattaforma social. Osservando la professione sul gradino più alto del podio viene da pensare che gli effetti del Gdpr, il regolamento europeo sulla protezione dei dati entrato in vigore nel 2018, decisamente si stiano facendo sentire: la figura più in ascesa nel quinquennio considerato è quella del data protection officer (Dpo). Si tratta sostanzialmente dell’evoluzione del “privacy officer” previsto nella direttiva europea 95/46,

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in vigore prima del Gdpr, ovvero di un consulente esperto di privacy e trattamento dei dati personali. Le principali competenze richieste riguardano le normative di legge, le policy di protezione dei dati e l’assistenza legale per i casi di presunta mancata compliance. Le aziende europee non sono obbligate ad assumere al loro interno un Dpo, ma possono in alternativa scegliere di affidare questo ruolo a una persona già in organico (purché non faccia parte del team dei dirigenti) o di ricorrere a un fornitore di servizi in outsourcing. Fondamentale, in tutti i casi, è che il Dpo possa operare senza condizionamenti né conflitti d’interesse, avendo come primario obiettivo la tutela dei dati personali. L'argento e il bronzo delle professioni più in ascesa in Italia vanno rispettivamente al consulente Salesforce (esperto dell’omonimo software, di Crm in generale e di Javascript) e allo sviluppatore Big Data (che deve intendersi di gestione dei dati, di programmazione basata su Scala, della piattaforma

Hadoop, di motori di analytics come Apache Spark e di software di data warehouse come Hive). Andrà poi tenuta d’occhio nei prossimi anni la professione piazzatasi al quarto posto, quella dello specialista in intelligenza artificiale, le cui competenze includono il machine learning, la computer vision, le reti neurali e la programmazione in Python. La classifica prosegue con lo specialista in Bim (Building Information Modeling), il lending officer (deve saperne di due diligence, gestione e analisi del credito, sistemi bancari), l’operatore di magazzino (la professione meno tecnologica fra le dieci, che deve però intendersi anche di robotica, sistemi per l’inventario e uso di Word), il data scientist (esperto di apprendimento automatico, Python, R, data mining e Big Data), lo specialista in cybersicurezza (le cui principali competenze sono cybersecurity, vulnerability assessment, information security, network security e penetration testing) e il customer success specialist (competente in Crm, Salesforce, prevendita, esperienza cliente e servizi cloud). Di fronte alla sfilza di esigenze che affollano i pensieri dei recruiter, sorge spontanea la domanda: chi cerca lavoro in Italia questi requisiti li possiede? Un’altra indagine pubblicata da LinkedIn, realizzata da Coleman Parkes intervistando oltre 300 responsabili delle risorse umane di aziende e agenzie di lavoro italiane, fornisce una risposta non troppo confortante: solo sei recruiter su dieci pensano che sul mercato del lavoro nostrano ci siano abbastanza candidati forniti delle giuste competenze digitali. V. B.


NEL 2030 SAREMO TUTTI ESPERTI DI TECNOLOGIA

Filippo Ligresti

L’innovazione è sempre più importante in azienda. Ecco perché anche nei ruoli non tecnici le competenze digitali saranno fondamentali nel prossimo futuro. Lo spunto arriva dal Dell Technologies Forum 2019, tenutosi a Milano lo scorso novembre.

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dare il benvenuto sul palco sono Filippo Ligresti, vice presidente e general manager per l’Italia, e Federico Suria, country manager enterprise sales di Dell Technologies Italia. Ma per questa edizione del Forum i temi tecnologici, sempre centrali, lasciano grande spazio anche a quelli legati alle risorse umane. Tutto nasce dallo studio “Future of Work: Forecasting Emerging Technologies’ Impact on Work in the Next Era of Human-Machine Partnerships”, realizzato da Dell Technologies e da Iftf (Institute for the Future) e basato sull’analisi di risposte provenienti da oltre 4.600 business leader di 42 Paesi. Per quanto riguarda il panorama italiano, la ricerca mette in evidenza che per oltre il 70% degli imprenditori e dei manager tutti i dipendenti saranno obbligati a diventare dei veri e propri esperti di tecnologia entro il 2030. Il “professionista del 2030” dovrà, infatti, distinguersi per una maggiore propensione verso gli algoritmi, per la cancellazione di qualsiasi gap digitale e per il possesso delle competenze necessarie ad applicare concretamente l’Intelligenza Artificiale in azienda. Sempre secondo la ricerca, inoltre, il 53% della classe dirigente italiana (contro il 44% del dato globale) chiede alle strutture governative nuove policy in

tema di lavoro, che si adattino al mutamento dello scenario, e una regolamentazione sull’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale. Oltre l’82% dei business leader italiani (54% il dato globale) è sicuro che la prossima generazione di lavoratori avrà un impatto dirompente sulla propria forza lavoro, grazie a competenze digitali profonde e a una mentalità radicalmente diversa: questo fatto spingerà la metà degli imprenditori e manager interpellati ad attrezzarsi inhouse, attraverso lo sviluppo interno delle competenze digitali, come per esempio l’insegnamento del coding ai propri dipendenti. “Nello studio”, ha dichiarato Ligresti, “è chiara la richiesta degli imprenditori e dei manager rivolta alle strutture governative circa l’implementazione di nuove regole che possano normare uno scenario di business – e un luogo di lavoro – che sta cambiando alla velocità della luce. Le aziende del futuro saranno digitali. Si posizioneranno come luoghi in cui tecnologie come Big Data, analytics, Intelligenza Artificiale o Internet delle Cose, saranno familiari come lo sono le scrivanie, i laptop o le stampanti. I dipendenti collaboreranno in un modo totalmente differente e immersivo, attraverso l’uso dell’extended reality, e l’Intelligenza Artificiale farà da complemento alle capacità umane, piuttosto che rimpiaz-

zarle, aiutando i dipendenti a gestire i flussi di lavoro, a portare a termine i propri compiti e a ricavare informazioni utili al business dall’immensa mole di dati a disposizione”. Federico Suria ha invece sottolineato il fatto che siamo ormai entrati nel vivo della cosiddetta quarta rivoluzione industriale. “I modelli di business si stanno trasformando in tutti i settori industriali, trainati dalla digitalizzazione che anche in Italia sembra aver avviato un percorso credibile”, ha detto Suria. “Questo processo va sostenuto perché è fondamentale per incrementare la competitività delle nostre aziende, in uno scenario globale che presenta incertezze sia a livello economico che geopolitico. Servono investimenti per creare competenze digitali sia sulle nuove generazioni di lavoratori sia su quelle esistenti, per renderle in grado di essere pronte a seguire la trasformazione richiesta dal mercato. Allo stesso tempo, è importante che a livello governativo i temi dell’interazione persona-macchina vengano indirizzati in maniera preventiva e regolati, al fine di armonizzare i potenziali impatti di un’implementazione non regolata delle nuove tecnologie”.

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TECHNOPOLIS PER ENGINEERING

L’ECCELLENZA? PARTE DALLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE LOCALE I vendor tecnologici possono fare molto per aiutare gli enti pubblici a trasformarsi. Ne abbiamo discusso con Dario Buttitta, general manager della divisione PA e Sanità di Engineering Spesso l’innovazione inizia dalla periferia, come nel caso delle Regioni, per arrivare poi agli organi centrali. Engineering ha realizzato numerosi progetti di rilievo con la Pubblica Amministrazione locale, alcuni anche utilizzando tecnologie di frontiera, come l’Intelligenza Artificiale. Technopolis ha intervistato Dario Buttitta, general manager della divisione Pubblica Amministrazione e Sanità dell’azienda. Come vede, con la lente della tecnologia, le ultime nomine di dirigenti e Ministri? Il fatto che un Governo nomini un Ministro dell’Innovazione è un buon segnale. Restituisce fiducia e riporta sui temi tecnologici il livello di attenzione adeguato. Certo, non significa che abbiamo già risolto i problemi, ma che c’è qualcuno in cabina di regia. La Ministra Pisano poi ha grande entusiasmo, è giovane, ha voglia di fare. Noi dobbiamo sostenerla e metterle a disposizione anche il nostro entusiasmo, perché penso che nessuno si possa chiamare fuori, qui è in gioco il futuro del nostro Paese. Come viene recepita la necessità di digitalizzare? Ci sono ancora velocità diverse. Noi vediamo una periferia che ha voglia di innovare perché ha un contatto diretto con il cittadino. Al centro, invece, se escludiamo Inps, Inail e altri organismi, il contatto con il cittadino è ancora limitato. Ma si sta lavorando nella direzione giusta: IO (l’applicazione per smartphone che aggrega servizi della Pubblica Amministrazione, ndr), ad esempio, sarà una finestra aperta verso la PA per il cittadino. Detto questo, fare innovazione non è riempirsi la bocca di slogan e sigle. Bisogna conoscere i problemi e scegliere le migliori tecnologie per risolverli. Il nostro è un Paese che si innamora di sigle e slogan: dobbiamo superare questo atteggiamento e chiederci che cosa serve per farlo progredire. Oggi molte regioni e città sono un driver di innovazione importante. Il centro arriverà, più tardi ma arriverà. Iniziamo a vedere molte gare Consip orientate al cloud, fatto che in passato sarebbe stata impossibile. È un segnale importante di futuri cambiamenti.

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Che cosa fa Engineering per la Pubblica Amministrazione? Engineering fa molte cose, in particolare ci concentriamo sulle filiere, perché oggi parlare di ecosistema digitale ha più senso che non parlare di “smart government”. Quando operi con le filiere riduci la spesa pubblica. Il caso Sistema Informativo per il Lavoro non è banale: ci sono nove Regioni e dieci milioni di cittadini che “insistono” sullo stesso software. Da una parte questo permette di fare economie di scala, dall’altra di creare un ecosistema fatto di aziende, agenzie del lavoro, cittadini, eccetera. Insomma, la buona innovazione ha sempre un impatto sociale positivo. Bisogna avere piattaforme abilitanti, e noi abbiamo anche quelle. Conosciamo i processi di Comuni, Regioni, così come della PA centrale, che abbiamo seguito nelle loro evoluzioni negli ultimi 40 anni e per questo abbiamo ben chiaro che cosa si dovrebbe e potrebbe fare per raggiungere una maggiore efficienza rispondendo alle irrinunciabili esigenze della PA. Abbiamo quattro data center che permettono di aprirsi verso il mondo del cloud con l’approccio tipico di Engineering: il meglio per il cliente. La nostra offerta cloud comprende un “orchestratore” che consente al cliente di definire il mix giusto di privato e pubblico e, in quest’ultimo caso, di optare per il nostro cloud o quello di altri provider. Quindi noi non facciamo scelte, noi lasciamo la libertà al cliente e ci occupiamo di governare il livello di complessità che ne consegue. E al contempo investiamo molto sul capitale umano. Tutti dicono di investire sul capitale umano... Noi non ci limitiamo a dirlo. Lo facciamo. Abbiamo evidenze concrete, come le 160mila ore di corsi di formazione erogati ai nostri dipendenti. Il Financial Times premia le 700 imprese migliori al mondo sul tema della diversità di genere, di religione, etnia, eccetera. In classifica ci sono appena otto aziende italiane, tra le quali solo una è del settore IT: Engineering. Questo ci rende orgogliosi, perché i nostri investimenti sul capitale umano vengono riconosciuti anche all’estero. Oltre a essere la più grande azienda italiana privata del settore It, siamo anche il primo modello aziendale “post-Olivetti” che si sviluppa seguendo lo stile europeo e non quello anglosassone: ne andiamo fieri e speriamo che ne vada fiero anche il Paese.


A sinistra, Dario Buttitta, general manager della divisione Pubblica Amministrazione e Sanità di Engineering

Torniamo alla PA locale. Perché è più “vivace"? Il territorio, le realtà locali, sono tradizionalmente i contesti nei quali i cambiamenti e in particolare le innovazioni possono essere più rapidamente innestati e fatti crescere. Questo vale anche per la trasformazione digitale che stiamo vivendo, un fenomeno che trova in molte Regioni e Comuni sensibilità, competenze e meccanismi attuativi che invece a livello centrale a volte si perdono nella complessità della macchina pubblica. Come Engineering, avendo il privilegio e anche la responsabilità di essere al fianco di tutti i livelli di governo del nostro Paese, sappiamo bene quali e quante eccellenze in tema di innovazione siano presenti sul territorio, dal nord al sud e nei diversi ambiti tematici. Può fare qualche esempio? Citavo prima il Sistema Informativo per il Lavoro. Siamo stati i primi a favorire il riuso delle soluzioni software nella PA e oggi serviamo dieci milioni di lavoratori censiti e 500mila imprese registrate. Sempre in quest’ambito, lavoriamo alla trasformazione digitale dei processi e servizi della PA locale, che possano semplificare e non ostacolare il lavoro delle imprese (ad esempio gli sportelli Suap) fornendo strumenti e competenze per un bacino di utenza di circa 13 milioni di cittadini. L’agricoltura è un ulteriore esempio del collegamento che unisce innovazione e competenze dal territorio agli enti centrali, ed anche in questo caso supportiamo l’intera filiera informativa e gestionale, dai numerosi sistemi regionali fino al Sistema Informativo Agricolo Nazionale. Considerando i soli tre ambiti appena citati, cioè lavoro, imprese e agricoltura, gli specialisti Engineering, ossia esperti dei processi core, dedicati esclusivamente a queste at-

tività sono oltre 250. Le nostre piattaforme tecnologiche “a ecosistema”, già implementano e introducono sul territorio tecnologie di intelligenza artificiale, Internet of Things, realtà aumentata, digital twins. Trasversale a tutto, il cloud, che offriamo sia attraverso la nostra rete di data center sia impiegando le infrastrutture di altri fornitori o degli stessi enti. Tutto ciò si declina ad esempio con l’utilizzo di droni in ambito agricolo (il sorvolo dei campi per l’ottimizzazione delle colture e per fini antifrode) o con l’impiego dell’IoT (sensoristica avanzata distribuita sul terreno) per migliorare ulteriormente l’eccellenza dei nostri prodotti. Oppure ancora con la Robotic Process Automation per automatizzare in maniera intelligente la gestione di migliaia (potenzialmente milioni) di pratiche, fornendo così un servizio più rapido ai cittadini e liberando i dipendenti pubblici da attività ripetitive a basso valore aggiunto. Altro tema, sempre drammaticamente attuale, è la tutela del nostro territorio: stiamo affiancando con tecnologie innovative molte Regioni nella prevenzione e gestione del rischio ambientale, con l’utilizzo degli advanced analytics per prevedere frane e valanghe, o applicazioni per allertare in tempo reale i cittadini. Questa progressiva digitalizzazione consente già oggi alle amministrazioni di generare un’enorme mole di dati, che sono e saranno la linfa della “data economy”. Abbiamo pensato naturalmente anche a come liberare il potenziale di questi dati, sviluppando una specifica piattaforma "a ecosistema", il Digital Enabler, che consente di armonizzare, integrare, e analizzare i dati provenienti da diverse fonti. Grazie a questa convergenza verso un singolo punto di conoscenza è possibile sviluppare nuovi servizi a valore aggiunto e abilitare digitalmente le tecnologie e le applicazioni più mature, per alimentare la trasformazione digitale.

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TECHNOPOLIS PER NUTANIX

LA TRASFORMAZIONE RIESCE MEGLIO SE È IBRIDA L’uso di applicazioni in cloud pubblico e on-premise sembra essere il modo migliore per adattare i sistemi informativi alle nuove esigenze di business. Basta trovare il giusto mix e avere un efficace strumento di orchestrazione. La testimonianza di Nutanix, leader nei sistemi iperconvergenti. La trasformazione digitale non è una strada a senso unico. Lo testimonia una recente ricerca commissionata da Nutanix a Vanson Bourne, i cui risultati sono stati diffusi a dicembre. Uno dei dati che spicca nella sintesi delle 2.650 interviste a decisori It di tutto il mondo è che il 73% delle aziende che aveva spostato le proprie applicazioni sul cloud pubblico ha poi deciso di riportarne alcune on-premise. In Italia, tra l’altro, questa percentuale sale all’82%. È una testimonianza del fatto che il modello vincente è quello ibrido, un dato che viene anche esplicitato nella ricerca: l’85% degli intervistati ha dichiarato che è l’architettura migliore per affrontare la trasformazione digitale. Per capire meglio come uno dei principali vendor It, protagonisti della digital transformation, aiuti concretamente le aziende a trovare e realizzare l’infrastruttura ideale, Technopolis ha intervistato Matteo Uva, sales manager commercial di Nutanix. Qual è il ruolo di Nutanix nella trasformazione digitale? La missione di Nutanix nell’era della trasformazione digitale è quella di fornire alle aziende infrastrutture che siano in linea con il potenziale della digital transformation. Sappiamo che, considerando miliardi di device collegati, dobbiamo per forza pensare ai volumi tipici dei Big Data. Come si deve organizzare il cliente in tema di infrastruttura per gestire tutti questi dati? Che investimenti sono necessari? Dal nostro punto di vista è chiaro che dobbiamo facilitare la trasformazione, che è inarrestabile. L’IT riteniamo avrà un ruolo centrale, ma la domanda è come debba organizzarsi. Non c’è dubbio che la risposta più centrata è quella che si riferisce alle infrastrutture ibride, dove il multicloud ha un ruolo importante. Quindi parliamo, in sintesi, di logiche infrastrutturali basate sul cloud ibrido. Come lo realizzate? Ci muoviamo all’interno di un percorso in cui il primo passo è la semplifi-

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Matteo Uva, sales manager commercial di Nutanix cazione dei data center dei clienti. Aiutiamo i clienti superare l’approccio tradizionale hardware-centrico, con tecnologie e skill diversi ma integrati. Noi semplifichiamo tutto questo utilizzando un unico strato hardware e un unico strato software. È ciò che comunemente viene chiamato iperconvergenza, e noi siamo stati precursori di questo mercato. Non è un caso se nel Gartner Magic Quadrant di riferimento Nutanix sia il leader assoluto. Dopo aver semplificato, in una seconda fase organizziamo un nuovo data center, più efficiente, sfruttando le logiche del cloud (marketplace, selfservice). La terza e ultima fase consiste nell’estendere questo data center, collegandolo con i fornitori di cloud pubblico. Il cruscotto, la soluzione che permette di orchestrare tutto, si chiama Prism Infrastructure Management Software. Una serie di tool a supporto danno la possibilità di decidere quali dati tenere in casa e quali no. E i clienti in Italia rispondono bene a questo tipo di offerta? Molte aziende hanno già iniziato questo percorso, sullo sfondo c’è la necessità di non restare indietro rispetto alla quarta rivoluzione industriale. Quello che posso dire è che noi in Nutanix stiamo lavorando con molti clienti che non solo hanno manifestato interesse, ma stanno già godendo dei primi importanti benefici.


TECHNOPOLIS PER MICROSTRATEGY

GOVERNANCE E DATI FRUIBILI, I PILASTRI DEL CAMBIAMENTO Digital transformation e data-driven vanno di pari passo. Perché senza una cultura e una tecnologia del dato non si può intraprendere un efficace percorso di innovazione e competitività. Technopolis ha intervistato Carlo San Martino, Sales Director e Country Manager di MicroStrategy Italia. Qual è lo scenario e quali sono le sfide per le aziende coinvolte nel processo di digital transformation? Le aziende che vogliono affrontare la trasformazione devono diventare sempre di più data-driven. Devono imparare a governare una mole di dati sempre più disomogenea fino a estrarre una “single version of the truth” che sia a disposizione tanto degli analisti IT quanto degli utenti di business, ovunque, in qualsiasi momento. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che gli strumenti con cui analizzare i dati sono sempre più diversificati: mobile, Web e perfino smartwatch. L’unico modo per realizzare tutto ciò in modo efficiente è utilizzare una piattaforma disegnata ad hoc, come MicroStrategy, una piattaforma enterprise aperta e scalabile che consente effettivi vantaggi in termini di velocità implementativa e sicurezza (e questo è intuitivo) ma anche di manutenzione (ogni modifica nella piattaforma viene propagato automaticamente in tutte le applicazioni di cui dispone l’azienda). In questi termini, la governance e la fruibilità del dato hanno un ruolo fondamentale. Qual è la situazione del mercato italiano? In un certo senso, la digital transformation è arrivata e si è sviluppata molto velocemente, laddove l’adozione di tecnologie per l’analisi dei dati all’interno delle aziende è stata invece spesso disordinata e disomogenea. Questo ha provocato non pochi problemi nel momento in cui, ad esempio, ci troviamo all’interno della stessa azienda con una serie di strumenti differenti adottati da utenti diversi. Per questo MicroStrategy ha introdotto i Federated Analytics, che permettono di connettere anche ambienti come PowerBI, Qlik e Tableau al nostro metadato, consentendo all’IT di avere una governance del dato efficace e agli utenti di business di continuare a utilizzare il proprio strumento abituale. In un secondo momento abbiamo esteso il concetto dei Federated Analytics anche ad altri strumenti, come ad esempio Python o R, per favorire lo sviluppo di applicazioni di intelligenza aartificiale. Qual è il livello di pervasività degli analytics in azienda? Nonostante tutti gli sforzi dell’IT per mettere in piedi sistemi di analytics sofisticati, oggi solo un 30% delle persone in azienda si basa sull’ana-

Carlo San Martino, country manager di MicroStrategy Italia. lisi dei dati per prendere ogni giorno le dovute decisioni (lo dicono gli analisti). Per risolvere questo problema di adozione, MicroStrategy ha introdotto la tecnologia dell’HyperIntelligence e le Schede di HyperIntelligence. Sono strumenti che in qualche modo invertono il paradigma con cui si interagisce con il dato, portando l’informazione verso l’utente invece di obbligarlo ad andare a cercarla e analizzarla. Per fare un esempio pratico: se ricevo un’email con degli elementi che richiedono che io prenda una qualsiasi decisione, dalle più semplici alle più strategiche, anziché dover chiudere la posta elettronica e aprire diversi strumenti aziendali per raccogliere le varie informazioni, il sistema riconosce negli elementi all’interno della email stessa il collegamento agli analytics necessari. A quel punto, semplicemente passando il mouse su quegli elementi, potrò visualizzare una Scheda contenente tutti i dati che mi consentiranno di prendere la mia decisione in modo più rapido (senza dover uscire dal contesto e con zero clic) ma anche più affidabile (perché effettivamente basata sui dati), oltre a evitare il ricorso a un’interfaccia utente dedicata. 35


STARTUP & PMI

GRANDI IMPRESE, VERO MOTORE D'INNOVAZIONE Gli investimenti distribuiti alle startup dalle aziende, anche non italiane, hanno sfiorato il mezzo miliardo di euro in due anni. a 2.657. E ancora: se gli investitori specializzati in innovazione (venture capital, business angel, acceleratori, incubatori) sono entrati nel capitale di 398 startup iscritte alla sezione speciale del Registro delle imprese, i Corporate Venture Capital (Cvc) sono presenti in 2.656 imprese innovative (circa il 25% del totale) mentre le rimanenti 7.490 hanno come soci solo persone fisiche e ditte individuali. L’Italia non è la Silicon Valley

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l capitale finito nelle casse delle startup tecnologiche grazie all’apporto di aziende italiane e internazionali continua a crescere, e in modo considerevole. Lo dice a chiare lettere la quarta edizione dell’Osservatorio sul Corporate Venture Capital, promosso da Assolombarda, Italia Startup e Smau in collaborazione con InfoCamere e Politecnico di Milano: l’open innovation nel nostro Paese non è più solo una bella espressione mutuata dal linguaggio degli startupper, bensì un fenomeno che finalmente sta registrando una dinamica positiva. E i 36 |

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numeri che fotografano le risorse in conto capitale profuse dal mondo corporate nell’ecosistema delle nuove imprese ne sono conferma. Fra i dati salienti dell’indagine spicca per esempio il numero delle quote dei soci aziendali che hanno investito in startup innovative, aumentato dell’88% tra settembre 2017 e settembre 2019, da 6.727 a 12.667 unità. Considerando le sole partecipazioni dirette, l’incremento è stato del 76,1% in 24 mesi, mentre il numero di startup entrate nel portafoglio dei Cvc è lievitato del 23%, passando da 2.154

Numeri importanti, senza dubbio, ma serve una precisazione di fondo per leggere questi dati: non stiamo parlando dei Cvc in stile Silicon Valley (quelli di Google o Intel, per fare due esempi), che nascono per finanziare le startup come dei veri e propri venture capital. Parliamo invece di aziende, tendenzialmente grandi, che scommettono su realtà imprenditoriali appena nate e innovative, in qualche modo legate al loro settore di competenza. Particolarmente interessante, a detta degli autori dello studio, è l’ammontare complessivo dei finanziamenti (fra riserve e capitale sociale) sottoscritti nei due anni analizzati: sfiora i 490 milioni di euro. Una cifra superiore sia all'impegno economico riconducibile ai cosiddetti “family&friends”, che hanno apportato 437 milioni, sia alla nuova iniezione di liquidità proveniente dagli investitori istituzionali, venture capital in primis, che non sono andati oltre quota 192 milioni di euro.


Due soci su tre sono del Nord

Se si considerano i dati parziali dei bilanci d’esercizio depositati al momento della stesura dell’Osservatorio, il fatturato generato complessivamente dalle startup innovative nel 2018 è salito a quota 889 milioni di euro; poco più della metà di questi ricavi, 449 milioni, è prodotto da imprese aventi fra i propri soci almeno un soggetto che rientra nella definizione di Corporate Venture Capital. Oltre il 37% degli addetti lavora per startup che attirano investimenti di tipo corporate. La maggior parte dei soci corporate, il 68%, ha sede nel Nord Italia e, visto e considerato che il 55% delle startup nasce nelle regioni settentrionali è facile intuire che una parte dei capitali dei Cvc vada a beneficio di realtà operanti nel Centro-Sud. Il mezzo miliardo di euro elargito dalle imprese all’ecosistema dell’innovazione è quindi da considerare un dato “positivamente sorprendente”, o così almeno l'ha definito Angelo Coletta, presidente di Italia Startup. Ma il difficile viene ora. “Si tratta ora di allargare e consolidare i modelli virtuosi di corporate venture e di open innovation”, spiega Coletta, “dando vita a misure legislative adeguate per incentivare gli investimenti da parte delle aziende, oggi concentrate prevalentemente sulle persone fisiche e sugli investitori istituzionali”. Gianni Rusconi

RACCOLTA DA 700 MILIONI NEL 2019 Oltre 100 milioni di euro in più rispetto al 2018: è di 694 milioni di euro il “bottino” raccolto in capitale di equity dalle startup tecnologiche italiane nel 2019, con una crescita anno su anno del 17% e il vanto di 14 round chiusi oltre i 10 milioni di euro, contro la dozzina dell’anno precedente. Si conferma, quindi, la buona salute del nostro ecosistema, sebbene l’incremento dei finanziamenti abbia rallentato e gli investimenti degli attori formali (fondi di venture capital indipendenti o aziendali e finanziarie regionali) siano aumentati solo del 12%, raggiungendo quota 215 milioni di euro. Sale, però, l’incidenza dei cosiddetti attori informali, un gruppo composto da incubatori, family office, business angel e piattaforme di crowdfunding e aziende: il loro contributo è cresciuto del 32%, arrivando 248 milioni di euro, e rappresenta la prima fonte di capitale per le nuove imprese tech. Lo afferma l’Osservatorio Startup Hi-tech del Politecnico di Milano, secondo cui è significativa la partecipazione dei

soggetti internazionali: hanno distribuito alle startup 154 milioni di euro, il 58% in più rispetto alla precedente rilevazione, con una crescita importante dei fondi europei e cinesi. Anche negli ultimi dodici mesi la stragrande maggioranza degli investimenti esteri attratti dall’ecosistema italiano è stata compiuta da attori formali (178 milioni di euro, il 77% del totale) mentre se guardiamo alla loro provenienza in testa troviamo l’Europa (che pesa per oltre il 46%), poi gli Stati Uniti (41%) e la Cina (11,6%). Rispetto al 2018, è sceso in modo sostanziale il contributo nordamericano, fatto parzialmente motivato, secondo gli esperti, dalle politiche messe in atto dall’amministrazione di Donald Trump. Il calo è compensato però dalla crescita sostenuta del ruolo di Paesi asiatici ed europei. In attesa degli effetti positivi legati al varo ufficiale del Fondo Nazionale per l’Innovazione, il traguardo del miliardo di euro di investimenti annui nelle nuove imprese non è più così lontano. Almeno così sembra. G.R.

WETAXI È PIÙ RICCA E PUNTA ALLE AZIENDE Club degli Investitori, che ha immesso nell’operazione 455mila euro, angel investor e imprenditori privati italiani (fra cui Giorgio Marsiaj, fondatore e amministratore delegato di Sabelt e vicepresidente dell’Unione Industriale di Torino): questo il gruppo che ha sottoscritto il recente aumento di capitale da 2 milioni di euro di

Wetaxi. Una startup torinese, nata per gestire direttamente via smartphone la prenotazione e la condivisione di un taxi, offrendo il vantaggio di poter conoscere in anticipo il costo massimo del viaggio inserendo il punto di partenza e di arrivo. L’operazione servirà a sostenere il piano di sviluppo della piattaforma su tutto il territorio nazionale, par-

tendo dai servizi di auto condivisa attivati di recente su Milano e Roma con le cooperative Taxiblu 02.4040 (1.800 auto) e Samarcanda 06.5551 (500 mezzi). Le nuove risorse, inoltre, saranno utilizzate per lavorare sull’aggiornamento del servizio e per supportare il lancio di una soluzione dedicata alle aziende, in particolare alle piccole e medie imprese.

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STARTUP & PMI

IDEE ITALIANE IN VETRINA A LAS VEGAS Robotica e scienza, green e smart home, tecnologia indossabile e automotive: sono i settori in cui operano le imprese tecnologiche italiane presenti al Consumer Electronics Show di quest’anno.

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a missione è andata a buon fine: è sicuramente positivo il bilancio della terza spedizione italiana al Consumer Electronic Show (Ves) di Las Vegas, organizzata dall’incubatore Tilt (The Italian Lab for Technology) in collaborazione con Ice-Italian Trade Agency. Per l’edizione di quest’anno le startup partecipanti erano più di cinquanta (fra cui una quarantina di debuttanti) in rappresentanza di diversi settori e con la novità assoluta dei due cluster dedicati all’ecologia e all’imprenditoria femminile. Efg Elettronica ha proposto una “videocuffia” che funziona come un sistema di videocomunicazione mobile per gli operatori e i volontari del soccorso, mentre NuvAp ha portato in vetrina dispositivi di rilevamento intelligenti per il monitoraggio dell’inquinamento in ambienti chiusi. Molte, poi, le soluzioni destinate alla smart home: dall’apparecchio IoT di DiceWorld per la gestione del comfort e della si-

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curezza fra le mura domestiche, con cui interagire attraverso segnali luminosi e gesti, al rilevatore di presenza umana in grado di individuare una persona anche se immobile, firmato da Cover Sistemi. Tre vincitori sul palco

HiRide, Smart Robots e Wahu: sono i nomi delle tre startup arrivate a Las Vegas al seguito di e-Novia che al Ces 2020 hanno vinto un “Innovation Awards Honoree”, rispettivamente nelle categorie “intelligence e trasporti”, “robotica” e “tecnologie indossabili”. HiRide, già fornitore di team di ciclismo professionistico e di importanti produttori di biciclette, ha presentato delle sospensioni adattive in grado di adeguarsi a diverse tipologie di terreno. Un sistema elettronico impiega algoritmi proprietari per rilevare le caratteristiche della strada ed eliminare totalmente le vibrazioni, garantendo a chi sta in sella il massimo comfort e la mas-

sima aderenza. Smart Robots, invece, ha creato un occhio robotico per applicazioni in ambito industria 4.0, capace di far raddoppiare le prestazioni di ogni singola postazione, aumentando produttività e qualità dei processi e riducendo drasticamente gli errori legati ad attività manuali (dunque i costi legati alle eventuali rilavorazioni). Un dispositivo, in altre parole, che funge da interfaccia tra gli esseri umani e i robot della fabbrica creando una forma di collaborazione in cui la macchina individua i movimenti dell’operatore umano ed esegue di conseguenza determinate azioni correttive. Wahu, infine, ha presentato una suola in grado di adattare la propria morfologia (e quindi aderenza e ammortizzazione) ai cambiamenti dell’ambiente esterno e allo stato dinamico di chi indossa la scarpa. Il tutto, combinando microelettronica e intelligenza artificiale per l’attivazione di impostazioni (controllabili tramite app) che massimizzano le prestazioni e offrono comfort in ogni situazione, dall’indoor al trekking. Tra gli altri progetti delle startup che componevano il plotone guidato da e-Novia, meritano una menzione particolare Rob.Y, piattaforma modulare e bidirezionale progettata per la “mobility-as-a-service” a guida autonoma ed elettrica, e il dispositivo indossabile di WeArt, capace di interagire con le persone digitalizzando, registrando e riproducendo sensazioni tattili. Emblematico il commento rilasciato nei giorni del Ces da Vincenzo Russi, Ceo di e-Novia, puntuale nel ricordare come “facendo leva sulle proprie capacità distintive, universitarie e industriali, l’Italia può giocare una partita globale anche nella produzione di alta tecnologia”. Gianni Rusconi


STARTUP & PMI

OPEN INNOVATION, AVANTI ADAGIO Ci sono segnali incoraggianti sulla propensione delle imprese ad aprire le proprie porte alle startup. Ma sulle scaleup l’Italia è ancora fanalino di coda in Europa.

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a strada è tracciata ma il percorso è ancora lungo: per definire lo stato dell’arte dell’ecosistema dell’innovazione italiano si può iniziare da questo concetto. Ci sono cioè ancora grandi passi in avanti da fare per colmare il gap con il resto d’Europa, ma è ormai inequivocabile il fatto che le imprese italiane stiano guardando in misura crescente alle startup tecnologiche per condividere con loro l’attività di ricerca, sviluppo e sperimentazione di nuovi servizi e soluzioni. E l’ultima “rassicurazione” in tal senso arriva dalla prima edizione della ricerca “Open Innovation Outlook: Italy 2019” condotta da Mind the Bridge e presentata al convegno di apertura dell’ultima tappa milanese di Smau. Lo studio è nato con il fine di comprendere l’attitudine delle aziende italiane verso il modello dell’innovazione aperta e ha confermato che – parole di Pierantonio Macola, presidente di Smau – “le imprese innovative crescono due volte più rapidamente ma le aziende europee e italiane investono meno rispetto ai loro concorrenti internazionali. La buona notizia è che la collaborazione fra startup e grandi e medie aziende sono ora all’ordine del giorno, e questo potrebbe aiutare entrambi i due soggetti a crescere”. Ecosistema ancora immaturo

Una tesi, quella della maggiore collaborazione, ribadita da Alberto Onetti, chairman di Mind the Bridge. Spiegan-

do i parametri considerati per valutare la predisposizione all’open innovation delle aziende (strategia, organizzazione, processi, cultura, accelerazione di startup, procurement, co-development, investimenti e acquisizioni), il manager italiano di casa in Silicon Valley ha ribadito come l’analisi mostri, con poche eccezioni, “un divario sostanziale tra le aziende italiane e i leader internazionali dell’innovazione”. Divario che trova fisicamente espressione nel confronto fra le 36 top aziende italiane per fatturato con le 36 top europee: ebbene, le nostre imprese riportano un indice medio di “readiness” pari a 2 contro il 3.8 delle grandi organizzazioni straniere e di 2.7 contro 4.3 se si comparano le sole top 12. Le principali aziende italiane si distribuiscono quasi totalmente nella parte di matrice che ospita le realtà che si stanno appena affacciando al mondo delle startup senza avere strutture dedicate (le cosiddette “newcomer”) oppure che hanno iniziato a organizzarsi per poter fare innovazione ma senza produrre ancora risultati (“challenger”). Nessuna traccia invece, salvo pochissime eccezioni, di imprese che si meritano l’appellativo di “trailblazer”, avendo avviato azioni di open innovation senza piani e strutture dedicate, e ancor meno di “corporate startup star”, e cioè realtà strutturate che generano risultati concreti in termini di collaborazione strategica con le startup. “La situazione attuale", ha commentato Onetti, "è

quella di un sistema industriale che si è appena affacciato all’open innovation e che per scalare in avanti deve adottare un approccio di scouting su scala internazionale. Ad oggi l’ecosistema italiano delle startup è ancora troppo poco maturo per poter supportare i bisogni di innovazione delle nostre imprese, che di conseguenza devono guardare al resto d’Europa, agli Stati Uniti e a Israele”. In Italia si contano attualmente 208 scaleup, capaci di una raccolta complessiva GENNAIO 2020 |

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STARTUP & PMI

pari a 1,8 miliardi di dollari: numeri importanti, ma che non evitano il decimo posto nel “Country Index”, classifica che misura i risultati in termini di innovazione tecnologica di un Paese. Nel Regno Unito, per avere un raffronto, gli investimenti in aziende tecnologiche giunte alla prima fase di maturità sono arrivati nel 2018 a quota 11,6 miliardi, in Germania a 4 miliardi e in Francia a 3,6 miliardi. Un gap che, inevitabilmente, si specchia nell’ancora acerba dimensione delle iniziative di open innovation e che riflette l’atavico problema del “nanismo” del nostro ecosistema. Secondo l’indice “Readiness” di Mind The Bridge, infatti, al crescere della dimensione aziendale aumenta la possibilità di strutturare azioni efficaci e non a caso l’indicatore medio per le grandi imprese (con i settori energy e banking a fare da locomotiva) si attesta a 2 contro l’1,6 delle medie e l’1,1 delle piccole. Accelerare e cercare all’esterno le competenze

Dallo studio emergono altri aspetti interessanti, tra i quali il fatto che molte aziende italiane abbiano intrapreso il proprio percorso attraverso azioni di tipo “marketing e comunicazione”, piuttosto che sviluppando progetti strutturati con obiettivi chiari e con risorse e budget de-

EQUITY CROWDFUNDING DA RECORD, SVETTA MAMACROWD Con 16 campagne concluse con successo e 14 milioni di euro raccolti negli ultimi dodici mesi (che salgono a 68 per complessivi 29 milioni dall’inizio dell’attività, nel 2016, a oggi), Mamacrowd si conferma la prima piattaforma di equity crowdfunding in Italia per numero e valore di progetti finanziati. L’exploit rientra in quello più generale del mercato dell’equi-

dicati. Sembra esserci ancora una superficialità diffusa verso il tema, dunque, ed è un difetto di gioventù che va corretto in fretta. “Occorre riconoscere”, osserva Onetti, “che l’innovazione non può più essere gestita solo internamente con le attività di ricerca e sviluppo, ma deve necessariamente svolgersi in collaborazione con società innovative terze, che sono tipicamente le startup”. Deve cioè prevalere una logica di integrazione di competenze, talenti e idee che stanno fuori e di creazione di figure dedicate (come il chief innovation officer o il chief digital officer) in grado di focalizzare e gestire le azioni necessarie per fare innovazione, sganciandole dall’attività corrente. Infine

ty crowdfunding, che ha raggiunto nel 2019 la cifra record di 65 milioni di euro sommando i capitali raccolti sulle nove piattaforme più attive nel Paese. Una vera impennata rispetto al dato del 2018, quando ci si era fermati a 36 milioni di euro. In netta crescita è anche il numero delle campagne finanziate: 113 nel 2018, sono salite a 138 l’anno seguente.

una considerazione che, speriamo, possa essere di stimolo: “È vero che l’ecosistema delle startup sta facendo grandi progressi”, ammette Onetti, “ma il mondo non resta a guardare e l’Italia si sta muovendo ancora troppo lentamente. E nel contesto attuale, muoversi lentamente equivale a non muoversi affatto”. L’appello del chairman di Minde the Bridge affinché si inverta la tendenza è quantomai opportuno, se si vuole realmente pensare che l’ecosistema possa crescere qualitativamente e dimensionalmente. In Silicon Valley, però, si è stabilita a tutt’oggi una sola grande azienda italiana per fare open innovation, ovvero Enel. Gianni Rusconi

MICROSOFT FOR STARTUPS SBARCA A MILANO Offrire tecnologia, supporto e accesso a nuove opportunità di relazione e business su scala internazionale all’intero ecosistema di growITup, la piattaforma di open innovation creata da Cariplo Factory per le nuove realtà imprenditoriali lombarde e italiane. Questo il nuovo obiettivo di Microsoft for Startups, iniziativa della società di

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Redmond che a livello globale può fare affidamento su una capacità di investimento di 500 milioni di dollari. In Italia ha debuttato lo scorso dicembre in seguito al varo di una collaborazione con l’hub di innovazione torinese Ogr Tech. Ora il progetto arriva nel capoluogo lombardo attraverso la partnership stretta tra Microsoft Italia e growITup.


TECHNOPOLIS PER BROTHER

FLUSSI DI LAVORO DIGITALI, LA CHIAVE DEL SUCCESSO L’integrazione fra stampa e documenti digitalizzati permette alle aziende di ottenere efficienza, sicurezza, risparmi e controllo sui dati.

Scaffali, carta e polvere. L'inefficienza parte da qui: da archivi affollati di documenti cartacei densi di informazioni potenzialmente utili al business, ma completamente scollegati dai flussi operativi più vitali. La gestione delle informazioni è uno dei processi critici all’interno delle aziende e dovrebbe essere alimentata da tutti i dati disponibili, per supportare al meglio le capacità decisionali. Per organizzazione i dati in un archivio strutturato e facilmente consultabile è necessario disporre di un bacino informativo interamente digitalizzato: un’operazione laboriosa e per molti costosa, in cui i processi cartacei rivestono ancora un ruolo predominante. Infatti, nonostante l’avvento di Pc, smartphone, tablet e cloud, la profezia della società senza carta non si è ancora avverata. Si stampa sempre di meno e meglio, ma in ogni caso si stampa ancora. La vera sfida, quindi, è quella di integrare tradizione e innovazione, cartaceo e digitale. In questo contesto, la digitalizzazione dei documenti ha un ruolo sempre più importante all’interno di uffici e Pmi, perché “libera” le informazioni contenute nelle pagine stampate, alimentando i processi di business. La dematerializzazione permette di condividere le informazioni più velocemente, di elaborare risposte in tempo reale, di accedere ai dati da remoto, di ottenere una migliore sicurezza e flussi operativi più efficienti e completamente

tracciabili. E ancora, con la dematerializzazione è possibile integrare documenti in processi già digitalizzati, veicolare le informazioni su più canali di comunicazione e, fatto non meno importante, ridurre gli spazi fisici necessari all’archiviazione. A fronte di questi vantaggi, le aziende sono sempre più consapevoli che la Trasformazione Digitale garantisca una migliore gestione dei dati. Migliorare l'acquisizione, l'indicizzazione e la sicurezza dei flussi documentali è fondamentale per efficientare il workflow all'interno di un ufficio. Scansionare i documenti e disporre di una loro immagine in alta qualità sono due capisaldi per tutte le iniziative aziendali di conformità e di efficienza. Tutto ciò si traduce in un’ottimizzazione del flusso di lavoro, grazie anche alla creazione di copie professionali, alla gestione facilitata dei supporti cartacei e all’archiviazione e condivisione digitale delle informazioni su tutta la filiera interna all’organizzazione. Si tratta quindi di processi particolarmente critici, che non richiedono solo strumenti altamente professionali e in grado di supportare pesanti cicli di lavoro, ma anche soluzioni software che consentano di facilitare le attività. I servizi di scansione e archiviazione Brother offrono la migliore soluzione per la gestione di documenti e archivi elettronici, con proposte personalizzate e di semplice utilizzo. Brother ha deciso di implementare nei suoi dispositivi numerose funzioni e soluzioni software che consentono di gestire l’informazione in maniera chiara, semplice e professionale. Che si opti per un modello all-in-one (con stampante, copiatore e scanner) oppure per uno scanner standalone (incentrato sulla scansione con funzionalità avanzate e alta velocità), in ogni caso creare PDF ricercabili, effettuare scansioni in rete, verso servizi cloud o dispositivi mobili è facile e veloce. Inoltre, applicando ai documenti da digitalizzare barcode o QR code creati tramite le stampanti di etichette Brother, è possibile archiviare le informazioni e organizzarle in maniera strutturata, sicura e veloce. L’ultima tecnologia di archiviazione automatica dei documenti con codice a barre di Brother è Barcode Utility, un software facile da usare e da integrare nel flusso di lavoro, ideale per ottimizzare grandi volumi di scansione. Attraverso la lettura dei codici a barre contenuti nel documento, Brother Barcode Utility permette di scannerizzare documenti con velocità e precisione, riducendo gli errori di archiviazione e creando un archivio strutturato, semplice da consultare. Il software riconosce il codice a barre e automaticamente processa i documenti nel disco locale, nella cartella di destinazione prescelta.

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SMART MANUFACTURING

LA FABBRICA INTELLIGENTE SI METTE IN MOSTRA Alla Automation Fair di Chicago, Rockwell ha annunciato soluzioni e partnership. E ha illustrato la sua visione: il futuro dell’industria 4.0 sarà basato sul modello “as-a-service”.

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e la salute di un mercato si vede dalla partecipazione e dall’entusiasmo delle persone, il settore delle tecnologie per lo smart manufacturing va a gonfie vele. Ad Automation Fair, l’evento annuale organizzato da Rockwell Automation a Chicago lo scorso novembre, c’erano 150 espositori e oltre 19mila tra esponenti dei vendor, rappresentanti delle aziende manifatturiere e innovatori. Blake Moret, presidente e Ceo di Rockwell Automation, ha prima di tutto illustrato i numeri dell’ultimo 42 |

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anno fiscale: 6,7 miliardi di dollari di fatturato (di cui 3,7 da soluzioni e prodotti per il controllo di macchine e impianti e 3 miliardi dal software), il 19% realizzato nella regione Emea. La società cresce anche per acquisizioni e con accordi strategici. L’operazione più recente è nel settore della cybersicurezza e riguarda Avnet (descritta brevemente nel box della pagina seguente), una delle più importanti è invece la creazione di Sensia, joint-venture tra la multinazionale e Schlumberger, che può contare su circa 1.000 dipendenti operanti in 80 diversi Paesi nel settore Oil&Gas. Ma l’accento posto da Moret sulle partnership ha riguardato buona parte del suo intervento, che ha rimarcato collaborazioni significative con Accenture, Ansys e Microsoft, oltre naturalmente agli sviluppi della sempre più forte integrazione con Ptc (di cui Rockwell è azionista). “La nostra strategia è basata su due concetti fondamentali”, ha detto Moret, “ovvero le partnership con altri protagonisti del mercato e la filosofia as-a-service. Ormai i servizi fanno parte integrante delle soluzioni, non sono più qualcosa da acquistare a parte, e la strada che sta percorrendo il mercato (e quindi anche noi) porterà inevitabilmente al concetto di everything-as-aservice, nonché all’importante mutazione dei modelli da vendita ad abbonamento. Un’opzione preferita anche dagli analisti, per via della facilità di prevedere il flusso dei ricavi”.


Nuovi obiettivi per l’Europa

All’evento di Chicago è stato dato ampio spazio al mercato e agli scenari europei. A guidare le attività del Vecchio Continente c’è Susana Gonzales, presidente Emea di Rockwell, che ha messo in evidenza insieme a Francesca Tagliani, italiana alla guida del marketing, le prospettive della Digital Transformation declinata nel mondo del manifatturiero. “Puntiamo molto sulle attività consulenziali”, ha detto Gonzales, “sfruttando anche i centri di competenza che abbiamo creato in Europa (tra cui Katowice in Polonia e Karlsruhe in Germania). Le aziende che sono ancora in fase di esplorazione e pianificazione delle soluzioni di smart manufacturing vanno infatti aiutate nel loro percorso. Una recente indagine sulle iniziative di Digital Transformation ha infatti rivelato che il 44% delle imprese sta valutando le tecnologie, il 34% è in fase di implementazione e il 22% ha già realizzato progetti significativi”. Secondo quanto emerso nel corso dell’evento, le sfide che attendono le aziende manifatturiere intenzionate a percorrere la strada della trasformazione digitale sono, nell’ordine, l’integrazione dei dati provenienti da sistemi differenti, la trasformazione di questi dati in formati interoperabili e infine la sicurezza. Quest’ultimo aspetto è centrale per tutto il comparto del manufacturing, perché l’adozione di soluzioni intelligenti e connesse ha ovviamente portato con sé i rischi di attacco che il mondo IT conosce bene. Sempre secondo i dati divulgati nel corso dell’evento, il 53% delle imprese manifatturiere ha sperimentato negli ultimi anni almeno una violazione negli impianti, dunque la sicurezza IT è al primo posto tra le preoccupazioni del 74% manager, ancor più della sicurezza fisica e del miglioramento della qualità. L’unione fa la forza

Uno dei temi più interessanti di Automation Fair è stata la partnership con Micro-

PIÙ SICUREZZA PER L’INDUSTRIA CON AVNET A testimonianza di come la sicurezza sia diventata una delle maggiori priorità anche nel comparto delle soluzioni per lo smart manufacturing, arriva l’annuncio da parte di Rockwell Automation dell’acquisizione di Avnet Data Security, azienda privata israeliana attiva da oltre 20 anni nel mercato della cybersecurity. Nel catalogo Avnet ci sono servizi e prodotti per la sicurezza informatica IT e OT, che includono security assessment, vulnerability test, soluzioni per la protezione delle reti e formazione per la gestione di servizi. “Le capacità di Avnet di erogare servizi, formazione, ricerca e servizi gestiti ci permetterà di rispondere alle esigenze di un numero molto più elevato di clienti a livello globale e, al tempo stesso, di continuare ad accelerare l’esten-

soft e con Ptc. Il “triangolo” formato dalle tre imprese è particolarmente intrigante, perché consente ai clienti di sfruttare la potenza e la flessibilità del cloud (ovviamente Microsoft Azure) e le soluzioni di realtà aumentata di Ptc. La collaborazione con quest’ultima non si ferma alle

sione della nostra offerta per questo mercato in rapida evoluzione”, ha detto Frank Kulaszewicz, senior vice president, control products & solutions di Rockwell Automation. Secondo i piani della multinazionale statunitense, la conoscenza e l'esperienza del team di Avnet aiuteranno Rockwell Automation a raggiungere l’obiettivo strategico di una crescita a due cifre nell’ambito delle soluzioni informatiche e dei connected services, espandendone le competenze su IT e OT a livello globale. La chiusura della transazione è programmata per i primi mesi del 2020 ed è subordinata alle consuete approvazioni degli organi competenti. Non si prevede che l’acquisizione abbia un impatto significativo sui risultati finanziari di Rockwell Automation per il 2020.

soluzioni ma è trasversale anche sui mercati: storicamente Rockwell è forte nel food&beverage, nell’oil&gas, nel farmaceutico e nell’automotive, mentre Ptc ha sempre avuto un ruolo primario, tra gli altri segmenti, nell’aerospaziale. “Le soluzioni sviluppate dalle nostre aziende”, ha detto Marc Barret, industrial service director di Rockwell Automation Emea, “soprattutto nell’ambito della realtà virtuale e aumentato sono disponibili sul mercato da circa due anni e generano ormai, insieme alla manutenzione predittiva e alle più giovani implementazioni dei digital twin (i gemelli virtuali degli impianti produttivi, ndr), casi reali di efficientamento, di incremento della qualità e di diminuzione dei costi. Fattori che rappresentano lo spirito dello smart manufacturing”. Emilio Mango 43


SMART MANUFACTURING

IL SOFTWARE SI PRENDE IN ABBONAMENTO Cresce il business di Ptc, multinazionale specializzata in soluzioni per il settore manifatturiero, con un modello di business basato sulle sottoscrizioni e non più sulla vendita. Un altro segnale del fatto che la digital transformation stia pervadendo anche i comparti più tecnici.

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oi siamo ormai definitivamente una subscription company, è stata una migrazione durata qualche anno e che si è conclusa nel 2019. In questo percorso abbiamo ridefinito i Kpi su cui ci misuriamo e su cui ci misurano gli investitori”. A parlare è Paolo Delnevo, vice president Ptc Southern Europe. La sostanza è che anche nel segmento più “tecnico” delle soluzioni IT, quello per il mondo del manifatturiero, il modello di business è cambiato e si è identificato con quell’as-a-service che fino a pochi anni fa sembrava confinato all’ambito dei cloud provider o dei materiali di consumo. “I nuovi parametri con cui ci confrontiamo”, prosegue Delnevo, “sono sostanzialmente tre: il fatturato ricorrente annuo, che nell’ultimo periodo è cresciuto del 12%; il free cash flow, di 245 milioni di dollari, salito 13%); e le nuove sottoscrizioni, che sono cresciute del 4% e che nell’ultimo trimestre hanno raggiunto quota 150 milioni di dollari, cinque sopra gli obiettivi”. Questo significa che il modello funziona e che il mercato, come era da immaginare, cresce: il fatturato totale di Ptc è passato da 1,241 miliardi di dollari a 1,311 (anno fiscale 2019) nonostante le stesse previsioni del Ceo Jim Heppleman fossero negative a causa del passaggio del modello “a sottoscrizione”. Ai risultati 44 |

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positivi si aggiunge la recente acquisizione di Onshape (una transazione da 470 milioni di dollari, la più significativa della storia di Ptc) che, grazie a una piattaforma Cad totalmente basata su cloud, permetterà alla multinazionale di aggredire anche il mercato delle Pmi. “Onshape”, ha aggiunto Fabrizio Ferro, director presales di Ptc southern Europe, “integra ma non si sovrappone con l’attuale offerta di Creo. Il primo è una piattaforma SaaS, mentre il secondo viene utilizzato in modalità on-premise. Onshape, destinato ad aziende che potrebbero richiedere da una a cinque licenze, quindi Pmi, è una vera e propria piattaforma, perché integra anche un modulo di Product Data management che consente di gestire le informazioni e distribuire i dati relativi ai prodotti e alla produzione. Creo è invece un prodotto consolidato, giusto alla versione 7.0 (in uscita a marzo). Con la nuova release verrà inserito il motore di generazione di geometrie Frustum. Ci sarà poi l’integrazione con Ansys Aim, che permetterà ai progettisti e ai tecnici di fare calcoli più sofisticati. Infine, abbiamo deciso di accelerare il percorso verso l’Additive Manufacturing e di incrementare la facilità d’uso del software”. “Anche tenendo conto del rallentamento generalizzato dell’economia”, ha concluso Delnevo, “le previsioni per l’anno prossimo sono di una crescita a due cifre su quasi tutti i parametri. Il fatturato, in

particolare, potrebbe superare il limite di 1,5 miliardi di dollari”. L’acquisizione di Onshape potrebbe essere un ulteriore stimolo per Ptc, già particolarmente attiva in Italia, per incrementare presenza e ricavi nel nostro Paese. Oggi la multinazionale ha uffici a Milano, Torino e Bologna, partecipa a due Competence Center (Made a Milano e B-Rex a Bologna) e al Digital Capability Center di McKinsey, oltre a operare in partnership (come nel resto del mondo) con Rockwell, Microsoft e Ansys. E.M.


TECNOLOGIA AL SERVIZIO DELLA SOSTENIBILITÀ Il software permette di sostituire i prototipi fisici con la simulazione, ottenendo risparmi e riducendo l'impatto ambientale. Ce ne parla Olivier Ribet, Evp Emea & Russia di Dassault Systèmes.

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uò il software lavorare per l’ambiente? In campo industriale la risposta è sì, quando diventa possibile sostituire la prototipazione fisica con la simulazione. Da qualche anno Dassault Systèmes ha intrapreso un processo di trasformazione con l’obiettivo di fornire alla propria clientela i mezzi necessari per creare innovazione in modo duraturo e sostenibile. 3DExperience è la piattaforma su cui poggia il nuovo disegno strategico, in affiancamento ai pilastri storici Catia e SolidWorks. Progettata in origine per la modellizzazione degli aerei, la soluzione si è in seguito estesa a diversi settori industriali, dall’automotive ai sistemi di mobilità, dalla difesa all’high-tech, per arrivare alle smart city e alla sanità, in quest’ultimo caso anche grazie all’onerosa acquisizione (5,8 miliardi di dollari) di Medidata. Questa soluzione è al servizio di un tema all’ordine del giorno, quello della sostenibilità: piò spingere le aziende a un uso libero e significativo della simulazione, per poter eliminare la necessità di creare prototipi fisici e lavorare sul miglioramento continuo prima di entrare in produzione. “I modelli virtuali 3D sono alla base del rinascimento industriale, ma anche dell’evoluzione del mondo lifescience o nella realizzazione di città proiettate nel futuro”, indica Olivier Ribet, executive vice president Emea & Russia di Dassault Systèmes. “Sostenibilità non vuol dire solo essere genericamente green bensì estendere il

Olivier Ribet

concetto a produzione, logistica, design, gestione delle facility o della manutenzione. Più si rimuovono componenti tradizionali dei processi, più si lavora realmente per l’ambiente e anche per contenere i costi”. Ma come si traduce in concreto questa visione? “Oggi ancora molte imprese fanno prototipi fisici, che sono lunghi, costosi e consumano energia e risorse”, spiega Ribet. “La potenza dei computer, però, consente sempre più di simulare l’esperienza completa di un prodotto, non solo la sua componente fisica. L’innovazione non è più lineare, ma avviene con il contributo simultaneo di team che possono lavorare anche in luoghi fisici diversi. Occorre pensare al contesto in cui andrà a collocarsi il nuovo prodotto e per questo occorre maggior collaborazione fra chi è impegnato nello sviluppo e il test di un alto numero di ipotesi, in modo semplice e rapido. La nostra piattaforma abilita il nuovo modo di progettare”.

Anche in Italia si cominciano a vedere esempi di questa evoluzione. Fincantieri, per esempio, sta avviando lo studio per la progettazione di navi sostenibili “by design” e Prysmian intende cambiare il modo di posare i cavi sottomarini. “Siamo leader in questo comparto”, spiega il Cdo della società, Stefano Brandinali. “Riteniamo nostro dovere fare in modo di essere meno inquinanti, a partire dai nostri processi di progettazione. Abbiamo 112 stabilimenti nel mondo e migliaia di operai che lavorano in modo tradizionale, ma il nostro auspicio è poter sfruttare tecnologie come il 5G o il riconoscimento vocale per minimizzare il rischio di incidenti o ridurre la rumorosità in fabbrica”. Questo tipo di innovazione è alla sola portata delle grandi realtà? “Dassault ha 330mila clienti, ma solo 400 sono aziende molto grandi”, riprende Ribet. “Molte hanno poche licenze di SolidWorks, ma per tutte c’è l’esigenza di razionalizzare progettazione, produzione e logistica. Democratizzare la tecnologia significa consentire a tutti di fare simulazioni anche spendendo cifre più che ragionevoli. Anche in Italia ci sono realtà proiettate nell’innovazione: come Gaspardo, impresa del Nord-Est che vende nel mondo macchine agricole e sta sfruttando il potenziale dall’intelligenza artificiale. Ci impegniamo per far sì che le aziende possano condividere le loro esperienze e rivendere le competenze maturate”. Roberto Bonino

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EXECUTIVE ANALYSIS

L’INNOVAZIONE DIGITALE È MATERIA DA CIO? Nelle imprese la tecnologia è centrale per ogni genere di sviluppo, ma la sua governance è contesa fra l’IT e i manager. The Innovation Group e Indigo Communication hanno analizzato ciò che sta accadendo nelle aziende italiane.

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e aziende italiane oggi sono pienamente coinvolte in un processo di trasformazione digitale del proprio business. L’accelerazione sul fronte dell’interesse e dei nuovi modelli operativi generati dal digitale è un fenomeno evidente, ma si può osservare come vi sia un’accresciuta capacità di investimento al di fuori dell’area IT: un aspetto che, da solo, dimostra quanto l’innovazione sia oggi un trend non più confinato puramente nell’ambito della tecnologia. Diventa quindi urgente per i chief information officer (Cio) guidare il cambiamento in corso, ripensare il modo in cui la funzione IT opera e garantirle di rimanere protagonista in un momento in cui - come è inevitabile notare - la principale componente dell’innovazione è rappresentata dal digitale. Su questi temi The Innovation Group e Indigo Communication hanno realizzato una ricerca qualitativa, basata su venti conversazioni con Cio e chief digital officer (Cdo) di grandi aziende italiane. In prima battuta, emerge una situazione molto variegata con riferimento alla trasformazione in corso. Ogni organizzazione ha oramai intrapreso un proprio percorso ma si evidenziano livelli di maturità diversi, con una minoranza di imprese che ha posizionato la digitalizzazione tra le priorità strategiche del business, a livello di piano industriale, per i prossimi 46 |

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anni. Inoltre, se in generale il top management appare consapevole della rilevanza raggiunta dal tema, solo in alcuni casi il Cio ha un ruolo di guida nella governance dell’innovazione, mentre nella maggioranza delle aziende si mantiene una logica tradizionale di supporto al cambiamento in corso. Meglio “top down” o “bottom up”?

Governare i processi di innovazione digitale in azienda significa lavorare per lo sviluppo di un modello organizzativo efficace, che porti come risultato il dialogo costante con le funzioni del business interessate a recepire ogni opportunità, offerta sia da tecnologie sempre più disruptive sia da metodologie, strumenti, processi in grado di facilitare il cambiamento e di renderlo pervasivo in ogni ambito del business. La ricerca svolta sui Cio delle grandi aziende italiane ha portato a evidenziare come la governance dell'innovazione digitale sia efficace quando il chief information officer ha approntato una strategia di lavoro a stretto contatto con le funzioni del business, spesso le prime a comprendere che un’innovazione disruptive appena arrivata sul mercato potrebbe mettere in crisi il modo di operare dell’azienda. Un obiettivo prioritario, dunque, è individuare i meccanismi migliori per portare l’innovazione là dove serve. In termini di modelli adottati per portare e gestire l’in-

novazione digitale in azienda, le interviste hanno messo in luce due modalità principali. La prima, di tipo top down, è quella largamente più frequente (citata dal 90% degli intervistati) e prevede l’istituzione di una funzione o di un programma di digital innovation che riporti direttamente al Ceo e alle figure apicali dell’organizzazione. In alcune realtà questo ruolo spetta al


chief digital officer), un manager “esperto di trasformazione digitale”, il cui compito è spingere la nuova visione. Il modello ha alcuni vantaggi: può inserire le iniziative di trasformazione digitale all’interno del piano strategico dell’azienda, può ottenere il massimo supporto da parte del business, può legare il piano di innovazione alle tendenze del mercato. Tra i suoi limiti invece, la difficoltà di portare a terra le iniziative, l’eccessiva burocrazia, la scarsa flessibilità, la mancanza di sinergia con l’area IT tradizionale (laddove le due strutture viaggiano separate), la mancanza di una spinta che venga dal coinvolgimento di tutta l’organizzazione. A questo primo modello di governance se ne affianca di solito un secondo, basato su un approccio di tipo bottom up (citato dal 40% degli intervistati), che prevede un più stretto collegamento con tutte le funzioni di business e la capacità di re-

cepire idee e di definire gruppi di lavoro o team multidisciplinari, oltre che di far crescere “dal basso” progetti di innovazione con un valore fortemente trasformativo delle prassi e processi attuali. Il vantaggio di questo secondo approccio è quello di ottenere una maggiore motivazione delle persone e di risultare nel complesso più efficace in termini di risultati finali. Inoltre, mentre il primo approccio porta a ridefinire i processi, il secondo agisce direttamente sul prodotto finale. La sfida per portarlo in azienda è quella di realizzare momenti e modalità di collaborazione allargata, puntando a diffondere il digitale come modus operandi dei singoli dipendenti e individuando persone che possano diventare degli “agenti del cambiamento”. Una strategia per data center e cloud

Dal punto di vista delle infrastrutture Ict tradizionali, cioè data center proprietari e in outsourcing, lo sforzo delle aziende italiane è stato negli ultimi anni orientato a razionalizzare, tramite ottimizzazione e centralizzazione, oltre che verso un consolidamento dei fornitori. In molti casi la necessità di garantire un’elevata continuità dei servizi e di preservare, oltre alla compliance, informazioni e servizi critici, ha limitato la possibilità di fare un “salto” in avanti, verso il cloud. Spesso, però, laddove il percorso di ottimizzazione on premise si è concluso, in molti oggi stanno guardando agli ambienti di cloud pubblico come a una nuova possibilità anche per le infrastrutture core. Come emerge dalle interviste effettuate sul campione di Cio, la scelta più frequente, soprattutto in grandi organizzazioni con elevata complessità di gestione delle infrastrutture, è quella di un modello bimodale. Seguendo questo approccio, l’infrastruttura in uso è razionalizzata ed eventualmente posizionata in private cloud, mentre i nuovi sviluppi, che richiedono grande capacità di sperimenta-

zione e time-to-market, sono posizionati in public cloud. Quindi, ad oggi il cloud pubblico è sia una palestra di innovazione fondamentale per ciò che riguarda gli sviluppi disruptive (IoT, intelligenza artificiale, mobile) sia l’ambiente su cui far migrare, in prospettiva, l’It tradizionale. Ripensare il ruolo dell’IT

Tradizionalmente la funzione IT ha incontrato numerosi ostacoli che le hanno impedito di guidare i modelli di innovazione digitale: pensiamo alla nota difficoltà di risorse e staff; alla mancanza di un approccio imprenditoriale con la capacità di “assumersi dei rischi”; alla tendenza a vedere nella tecnologia una fonte di cambiamenti incrementali costanti e non di trasformazioni radicali, game changing. Alla luce dei cambiamenti in corso, il valore aggiunto a cui l’IT dovrà puntare sempre di più sarà la capacità di far convergere la componente digitale e quella di business, tramite una contaminazione reciproca e una piena apertura. Dalla ricerca sono emerse le capacità di cui deve dotarsi in particolare il Cio per guidare con successo la strategia di trasformazione digitale. Occorre un connubio di competenze, verticali sul settore in cui opera l’azienda e orizzontali sulle tecnologie. Un orientamento non limitato a una visione tradizionale dell’IT, ma rivolto a intraprendere progetti di rottura, innovativi per l’azienda, che possano creare un reale valore strategico. A questo si deve aggiungere la capacità di individuare le giuste soluzioni e le competenze fornite dal mercato, ma anche di introdurre in azienda nuove figure laddove siano indispensabili. E ancora, un orientamento alla misurazione dei risultati, la capacità di orchestrare la “domanda di digitale” attraverso un cluster di iniziative e programmi, disegnando in concreto una tabella di marcia e condividendo la ownership dei progetti digitali con le principali funzioni del business. Elena Vaciago e Roberto Bonino 47


EXECUTIVE ANALYSIS

IT FONTE DI CAMBIAMENTO Anche il più “analogico” dei manager non può negare la rivoluzione digitale in corso. Siamo finalmente arrivati al punto in cui è il business a cercare l’IT. Detto questo, il Cio deve però giocare sempre più un ruolo da “incubatore e imprenditore”. In aggiunta all’attività ordinaria e a quella straordinaria di abilitatore digitale, infatti, tocca a lui intravedere una tecnologia che possa essere applicata alla sua azienda, creare una newco e svilupparla, fino al punto in cui riesce a gestirla. Marco Moretti, Cio di A2A Tecnologie e processi sono importanti per accompagnare il cambiamento, ma innanzitutto vengono le competenze delle persone. C’è un percorso importante da fare dal punto di vista del mindset e dell’approccio, nello sviluppare soft skill che devono accompagnare la trasformazione. In tutti i processi, dalla selezione alla retention dei talenti, è importante valutare le diverse capacità e compentenze. Sergio Mattiuz, director of information technology and insurance services di Ania Il nostro percorso di trasformazione digitale si concretizza, in questa fase, nello sviluppo dell’infrastruttura di una datadriven company. La gestione avanzata dei dati ci permette di attivare con i nostri clienti interazioni sempre più distintive e personalizzate, basate sulla loro storia, i loro bisogni e i loro comportamenti attesi. Allo stesso tempo, la nostra crescita organica e per acquisizioni ci ha dato l’opportunità di trasformare anche i nostri processi di back office. L’adozione del cloud sarà l’elemento abilitatore sul fronte tecnologico. Gabriele Chiesa, Cio di Amplifon 48 |

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Per favorire l’innovazione occorre trovare una corretta convergenza fra IT e business. L’innovazione condotta sul piano puramente tecnologico rischia di essere poco praticabile se non è coniugata con aspetti di business: oggigiorno le tecnologie hanno molte potenzialità, ma occorre renderle comprensibili e accessibili al mondo dei manager. In Csi abbiamo definito delle dinamiche interne per stimolare cambi di paradigma e di approccio, per dimostrare potenzialità e condividere con i colleghi che si occupano delle aree di business la proposizione innovativa che si possono sviluppare. Fabrizio Barbero, responsabile architecture, centre of excellence, R&D director di Csi Piemonte Oggi è fondamentale garantire tanto uno sguardo al futuro quanto un’operatività resiliente. Il nostro è un punto di vista privilegiato, essendo noi sia un processor sia un player che contribuisce al mercato con prodotti innovativi. Pensiamo ad esempio all’impatto innovativo della Psd2: siamo

stati tra i primi a doverla applicare ai nostri sistemi. L’evoluzione era obbligata, ma le nuove regole hanno incluso un’innovazione che siamo stati veloci a cogliere, cosicché oggi disponiamo di un’offerta completa e innovativa per le nostre banche clienti. Paolo Marchini, country manager Italy di EquensWorldline Il cloud presenta grandi vantaggi: flessibilità, scalabilità, disponibilità 24 ore su 24, costi ridotti. Va però sposato in pieno: usarlo solo come IaaS, è un approccio neutro. Una volta che ci sei, è quasi impossibile non sfruttare tutti i servizi pronti e a disposizione, con set-up zero e pagamento a consumo. Alcune criticità ci sono, ma legate più che altro alla necessità di reingegnerizzare le applicazioni. Emanuele Brunelli, Cto di De Agostini Da qualche tempo esiste in Ferrero un gruppo focalizzato sull’Open Innovation, in ambiti che spaziano dalla nutrizione all’agri-scienza, dalla biotecnologia fino ai


materiali per il packaging. Le tecnologie digitali giocano un ruolo centrale in questi contesti, a cominciare dall’intelligenza artificiale, per arrivare ad altre tecnologie come IoT e blockchain. Il loro compito è aiutarci ad accelerare o a scaricare a terra gli sviluppi su cui stiamo lavorando. Giovanni Battistini, senior vice president Open Innovation di Ferrero Oggi è importante dotarsi di capacità di governo del cambiamento e di revisione dei processi. Il nostro supporto non può essere solo tecnico, bisogna orientare il change management, far capire i benefici della trasformazione digitale e portare servizi innovativi che siano anche molto facili da usare, soprattutto se l’utente finale è il cittadino. Noi puntiamo su una governance efficace dei progetti, su cronoprogrammi di attività sostenibili sia in termini tecnici sia organizzativi, sulla capacità di gestire le criticità e sulla valutazione dei risultati ottenuti. Erik Vizzi, direttore sistemi socio sanitari, amministrativi ed enti locali di Inva Nel piano di Strategia Digitale ci siamo organizzati con logiche di “process owner” non legate a specifiche funzioni aziendali, in modo che tutta l’azienda si muova seguendo gli obiettivi comuni e fortemente collegati al business. I progetti di trasformazione digitale non andranno tanto a incidere sui costi dell’Ict, ma piuttosto sui risultati dell’azienda, e saranno monitorati dal controllo di gestione. Ci aspettiamo un incremento dei volumi di fatturazione e un efficientamento dei processi interni. Tiziano Salmi, Cio di Iren La sfida per le aziende è ripensare i propri prodotti o servizi, e di conseguenza i processi interni, integrando la tecnologia necessaria a fornire ai propri clienti una esperienza semplice e personalizzata. In questo il limite più spesso non è la tecnologia in sé, ormai ampiamente accessibile,

ma la cultura aziendale e le competenze. È una grande opportunità per chi opera nell’It e richiede un lavoro interdisciplinare con una forte collaborazione di tutte le strutture aziendali. Domenico Alessio, chief information & technology officer R2 di Gruppo Mediaset Il “Miroglio Innovation Program” (Mip) ha come mandato tenere un occhio aperto sul mercato, sugli sviluppi in corso e sulle startup. L’apporto del Mip riguarda anche la parte metodologica e arriva anche a supportare la nascita di startup aziendali per progetti d’innovazione radicale. Da un punto di vista organizzativo, il programma siede a un tavolo sull’innovazione, con la presenza dell’IT e delle funzioni apicali del business, delle HR e dello Sviluppo Strategico, per stabilire periodicamente i filoni prioritari della nostra innovazione. Francesco Cavarero, Cio di Miroglio Non è certo forzando la mano sul cloud che si risolvono tutte le sfide imposte dal mondo in evoluzione e di ottenere anche significativi risparmi. Eliminare progressivamente l’infrastruttura presente “in casa” è uno degli obiettivi che ci siamo dati, ma occorre procedere cum grano salis, analizzando le offerte sul mercato e arrivando a capire, come abbiamo fatto noi, che appoggiarsi sul public cloud non significa automaticamente abbattere i costi. Luciano Guglielmi, Cio di Mondadori Pirelli ha definito una strategia focalizzata sulla produzione di pneumatici per autovetture di fascia premium e prestige. Il modello si basa sulla progettazione del miglior pneumatico per le specifiche esigenze di ciascuna vettura, su un’accurata previsione dei cicli di ricambio e sulla geolocalizzazione della domanda futura. La tecnologia digitale è quindi un abilitatore fondamentale del modello di business. Pier Paolo Tamma, Svp e chief digital officer di Pirelli

Un’azione proattiva di innovazione è quella di usare il digitale per unificare culture molte diverse, ragionando su come è cambiato, o come cambierà, il modo di fare Tv o radio. Oggi, grazie a una profonda convergenza, tutto è digitale, la digitalizzazione è entrata a far parte del Dna dell’azienda. Siamo quindi in una fase successiva, in cui fare innovazione digitale in Rai significa farla diventare una datadriven company. Lo stesso prodotto televisivo può divenire un “cavallo di Troia” per acquisire dati, in modalità trasparente e responsabile, su cui creare intelligenza e conoscenza. Massimo Rosso, Ict global director di Rai La convergenza fra IT e business non è banale, le divisioni aziendali hanno le loro esigenze. Servono una contaminazione reciproca, una piena apertura, uno sforzo per arrivare a una convergenza con le strategie del business e per poter collegare il piano di Digital Transformation agli obiettivi strategici indicati dal top management. Il mestiere più sfidante per l’IT è oggi quello di orchestrare la domanda, incanalarla in un’agenda che abbia senso, costruire una roadmap e disegnare un’architettura unitaria. Mario Attubato, Corporate Head of digital transformation, Saipem Con riferimento al cloud, la nostra strategia è fare scelte oculate, puntando in ogni caso a portare a terra al meglio quelli che sono gli obiettivi del business. Non pensiamo che la principale motivazione per andare in cloud siano i minori costi. In alcuni ambiti però è assolutamente necessario al business. Entro il 2023 il 40% dei nostri workload sarà in cloud, ma a guidarci sarà sempre l’identificazione di specifiche esigenze aziendali, sulla base del disegno di una roadmap che porti a migrare quello che ha senso. Cosma Panzacchi, executive vice president business unit Hydrogen di Snam 49


EXECUTIVE ANALYSIS

IL MARKETING DIVENTA SEMPRE PIÙ DIGITALE Le ultime evoluzioni della tecnologia, soprattutto in direzione dell’intelligenza artificiale e dei Big Data & analytics, stanno cambiando le modalità di relazione fra le aziende e la loro clientela. Dietro le opportunità di sviluppo omnicanale si celano sfide legate alla gestione dei dati e delle identità.

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l marketing è probabilmente il settore in cui la trasformazione digitale ha avuto finora gli effetti più evidenti e tangibili. Le modalità di comunicazione e vendita sono notevolmente cambiate in un tempo relativamente breve e oggi diversi sono i comparti nei quali il business online ha già assunto un peso rilevante, con l’arrivo di nuovi marchi “pure digital” e con la parallela evoluzione di realtà tradizionali impegnate a tenere il passo o a guadagnare vantaggi competitivi. Uno degli aspetti più significativi di questa evoluzione è la nuova centralità assunta dal cliente, pronto a esperienze di ingaggio digitale costruite su interazioni dirette, e offerte personalizzate, tanto online quanto offline. I professionisti del marketing che abbiano già compreso come sfruttare il potenziale degli sviluppi legati all’automazione, all’intelligenza artificiale e agli strumenti analitici possono utilizzare i dati per misurazioni end-to-end dell’efficacia delle proprie azioni e per 50 |

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comunicazioni sempre più mirate verso i target ritenuti più corretti. Il ruolo e il peso di questa componente in azienda si sta consolidando, ma allo stesso tempo occorrono competenze tecnologiche non semplici da reperire sul mercato. La collaborazione con le strutture IT potrebbe essere la soluzione ideale, tuttavia non sempre linguaggi e modalità di interazione sono allineati o consolidati in processi di collaborazione standardizzati. Un viaggio per i clienti, ma anche per le aziende

Partendo da queste basi, abbiamo costruito una ricerca qualitativa realizzando una quindicina di interviste con figure di responsabilità sia nel marketing tout court sia nel marketing digitale. Un gruppo di professionisti appartenenti ad aziende di diversi settori (fashion, finanza, automotive, retail, turismo, energia e altri, fra gli altri), con un bilanciamento fra soggetti con una storia ben radicata ma in evoluzione verso le nuove frontiere e realtà native digitali.

La differenziazione del campione fra compagnie di origine tradizionale e pure digital player determina, già in partenza, marcate peculiarità sulla definizione stessa della presenza online. Laddove esista un consolidato radicamento “analogico” o un modello commerciale basato su una rete distribuita sul territorio, la componente digitale assolve la funzione preminente di creare modalità complementari di relazione con clienti e prospect. Nei casi più evoluti, si offre al pubblico la possibilità di interagire con chat (anche automatizzate) o strumenti social per acquisire informazioni, esporre problemi o avviare un primo rapporto destinato però a essere convogliato su canali commerciali più tradizionali. Diverso, naturalmente, è il discorso per chi ha una presenza solo digitale o ha deciso di puntare su questo canale per rafforzare direttamente il proprio volume d’affari. In questi casi, tutto ruota attorno alla capacità di attirare pubblico verso il proprio sito, luogo principe di un viaggio che può anche cominciare altrove, ma lì


è destinato a completarsi con un’azione di acquisto. Il mantra della customer experience

C’è una maggiore omogeneità di vedute sul concetto di customer experience e sui processi in corso per migliorarla o portarla al centro delle iniziative di marketing. Aver compiuto investimenti (spesso rilevanti) per avere una presenza online significa fare in modo che un cliente o un navigatore occasionale sia attirato verso i contenuti del sito, sia spinto a effettuare una registrazione, sia invogliato a tornare per aggiornarsi o completare un’azione. Il livello di stratificazione delle attività messe in campo per raggiungere questi obiettivi varia in funzione del modello di business, ma anche della personalità del responsabile marketing, a maggior ragione se esiste una struttura interamente orientata al digitale. Alcune aziende hanno già costruito veri e propri percorsi di supporto al customer journey nelle sue varie tappe di costruzione della relazione con uno specifico brand, mentre altre si

limitano a effettuare campagne e attivare iniziative volte ad acquisire informazioni anagrafiche o comportamentali sui potenziali interessati. Più controverso appare lo scenario evolutivo verso iniziative che incrociano dati e identità dei consumatori per generare iniziative personalizzate o creare applicazioni di digital marketing. La volontà di definire una comunicazione sempre più mirata è comune a quasi tutte le aziende del nostro panel. Siamo, però, ancora lontani dalle applicazioni di alcune multinazionali che, soprattutto nel campo dell’abbigliamento, già oggi sono in grado di riconoscere un soggetto su qualunque touch point di interazione fisico o virtuale, di indirizzare messaggi basati sui comportamenti dell’utente (all’interno di un negozio o di un sito Web) e di creare forme di ingaggio costantemente alimentate nel tempo. La creazione di un viaggio personalizzato si fonda necessariamente sulla costituzione di un’identità, pronta ad arricchirsi e a perfezionarsi in funzione delle modalità di interazione che ogni individuo ha con un dato brand. C'è una diffusa volontà di creare un rapporto più personalizzato, ma la definizione di una strategia correttamente articolata si scontra non tanto con limiti di budget o tecnologici quanto con le preoccupazioni legate al rispetto del Gdpr, il regolamento europeo sulla protezione dei dati. Prove di dialogo fra marketing e IT

La nostra indagine conferma la tendenza dei professionisti del marketing ad acquisire maggior autonomia decisionale anche nella scelta degli strumenti funzionali al proprio lavoro. Il fenomeno è più marcato nelle aziende che arrivano dal business tradizionale. Il rapporto con l’IT è storicamente condizionato da un dialogo spesso difficile da costruire, per ragioni legate alle differenze di linguaggio o ai tempi di realizzazione dei progetti. Tuttavia, sembra che la situazione stia cambiando. Ai silos

del passato lentamente si sta sostituendo un dialogo, ancora iniziale ma a progredire nel tempo. Il marketing vede nell’IT soprattutto un abilitatore delle proprie strategie e su questa base partono richieste e tavoli di confronto volti a individuare congiuntamente la soluzione più adeguata al rispetto alle esigenze di entrambi i fronti, quello di chi ha un obiettivo di mercato da raggiungere e quello di chi deve assicurare un’integrazione armonica fra le tecnologie. Cresce, in ogni caso, dentro ai team di marketing la presenza di figure dotate di competenze tecniche. Lo scenario cambia nelle realtà native digitali, perché qui la tecnologia è una componente fondante del modello di business e le forme di collaborazione sono più ordinarie e formalizzate. Il customer journey del futuro

Nelle previsioni di investimento per il 2020 emergono alcune tendenze. L’approccio data-driven alle strategie di marketing accomuna realtà di differente natura e storia. In tutti i casi, l’obiettivo sarà l’ampliamento della comprensione dei bisogni dei clienti e, per quanto possibile, dei prospect, allo scopo di indirizzare messaggi più rilevanti per il target e di offrire esperienze maggiormente personalizzate. C’è grande fermento anche nell’evoluzione delle modalità di interazione: in certi casi si progetta di sfruttare le potenzialità delle chatbox, in altri si punta a differenziare i punti di contatto soprattutto in direzione della mobility. La capacità di “seguire” il consumatore lungo tutto il suo viaggio digitale è un altro tema destinato ad attirare budget, soprattutto per le aziende totalmente impegnate nel business online, mentre le altre non possono prescindere dall’esistenza di una rete commerciale o da modalità di ingaggio più tradizionali. Anche nel loro caso, tuttavia, molto del lavoro programmato andrà nella direzione di una digitalizzazione più estesa. Roberto Bonino 51


EXECUTIVE ANALYSIS

STRATEGIE E VISIONI A CONFRONTO La personalizzazione è senz'altro una delle leve si cui punteremo. Si baserà sull'identificazione delle cosiddette “personas” e dei loro comportamenti, e sulla la creazione di percorsi di customer journey multicanale. In questo modo individueremo i touchpoint più rilevanti, siano essi di tipo tradizionale o digitale, per poi andare a identificare quali tipologie di contenuti veicolare. Fondamentale sarà il supporto di piattaforme di digital marketing e Crm avanzate. Alessandro Casellato, e-commerce and digital director di Costa Crociere Negli ultimi tempi il rapporto fra marketing e It si è fatto certamente più ravvicinato e collaborativo. Ciascuno dei due dipartimenti mette a fattor comune le proprie competenze e conoscenze. Nelle attività in cui il peso della tecnologia è più rilevante, il marketing chiarisce quali obiettivi occorra raggiungere e la scelta finale è sempre condivisa. Anna Aisa, responsabile marketing strategico di Day Ristorazione Siamo un'azienda nativa digitale e la nostra attività si fonda sulla digitalizzazione dei processi di formazione, in passato gestiti in modo totalmente diverso. Anche le relazioni con la clientela, ovvero aziende che fruiscono della nostra piattaforma as-a-service, fanno leva su componenti tecnologiche evolute, per poter personalizzare nel miglior modo possibile la nostra offerta. Jacopo Mauri, senior marketing manager di Docebo 52 |

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Grazie alla marketing automation, nel pieno rispetto della vigente normativa in materia di privacy e data protection, stiamo raccogliendo molte informazioni sulle quali poi i nostri data scientist costruiscono i modelli statistici necessari per proporre offerte sempre più mirate o per servire il cliente sul canale di sua preferenza. Marco Landoni, direttore marketing di Edison

Oggi esiste un consumatore “liquido”, che si relaziona con touchpoint di diversa natura, diretti o indiretti, sincroni o asincroni, umani o digitali. Per noi la customer experience è al centro di questo rapporto e si basa sulla gestione di una quantità di dati senza paragone all’interno del nostro mercato. Giuseppe Cunetta, chief marketing & digital officer di MediaWorld

Al centro della nostra attività c’è il sito Web, che ci permette di avere controllo diretto sulla navigazione e sui comportamenti d’acquisto dei clienti. Però abbiamo una strategia inevitabilmente multicanale per attrarre verso le nostre proposte e gli strumenti analitici sono indispensabili per tracciare percorsi e attitudini su cui costruire azioni di ingaggio. Massimo Visone, sales & marketing director di Monclick

Con un mix articolato di strumenti digitali, siamo in grado di misurare la soddisfazione lungo tutto il “viaggio” del cliente. Questo ci serve per innescare un processo di miglioramento continuo, basato sull’ascolto dei feedback che riceviamo e su un rapporto di interscambio oggi costruito anche su chatbot e interazioni con avatar in linguaggio naturale. Riccardo Torchio, chief marketing & communication officer Europ Assistance Italia


Il nostro approccio al cliente si basa su un concetto strategico che chiamiamo “endless consumer journey”. Il viaggio resta il cuore dell’esperienza, ma si alimenta con le aspettative prima ancora di partire (il sogno) e con i ricordi del viaggio una volta terminato (le memorie). Il nostro obiettivo è contribuire a rafforzare il sogno e rendere le memorie persistenti. Il percorso diventa circolare quando riusciamo a generare un nuovo sogno. Andrea Guanci, direttore marketing Italia di Msc Crociere Proponendoci come un vero e proprio consulente per la fornitura di energia, per noi la customer experience parte dalla chiarezza nell’esposizione delle informazioni riguardanti ciascun cliente. L’evoluzione verso gli strumenti digitali ci sta portando a una maggior attenzione alle fasi di ingaggio e differenziazione della nostra offerta. Lucia Trevisani, marketing manager di Repower Vendita Italia La chiave del nostro marketplace è creare il match perfetto fra venditori e compratori. Quindi è fondamentale riconoscere e, se possibile, anche anticipare i bisogni di chi si rivolge alla nostra piattaforma. Lavoriamo fianco a fianco con la unit Product & Tech per creare un’esperienza utente “by design” sui nostri punti di contatto. Elena Ianni, direttore marketing di Subito.it All’interno della nostra strategia multicanale, lavoriamo su forme di contatto sempre più personalizzato e con obiettivi chiaramente orientati alle performance. I dati sono al centro dei processi di marketing digitale e ci aiutano a indirizzare i nostri contenuti e a monitorare il comportamento degli utenti. Simone Sicuro, group sales & marketing coordinator di Triboo

Il customer journey è un tema da affrontare a 360 gradi. Il nostro cliente spesso si documenta online e poi si reca in concessionaria per provare, prima di un possibile acquisto. Già in queste fasi occorre creare un’esperienza senza soluzione di continuità fra costruttore, importatore e concessionario, facendo in modo che si estenda per tutto il tempo di possesso dell’auto. Fabio Di Giuseppe, direttore marketing di Volkswagen Italia

Siamo una challenger bank mobile-only e ci rivolgiamo a un pubblico giovane, digitale quasi per definizione. La tecnologia è al centro dei processi di relazione con i nostri clienti, ma dietro la chat di Buddybank c’è sempre un essere umano, così come dietro ogni nostra azione c’è il rispetto per tutte le segnalazioni che riceviamo. Claudia Vassena, responsabile di Buddybank powered by Unicredit

Il tema del customer journey è tra i più importanti per la nostra azienda. L’adozione di un Crm di ultima generazione ci ha consentito di avere una vista unificata- omnicomprensiva e cross-canale sui nostri clienti, che a loro volta hanno a disposizione un’esperienza omogenea a prescindere dallo strumento di contatto. Dragana Andjic, chief digital officer di Twinset

La multicanalità integrata è al centro dei nostri sviluppi attuali e futuri. Non solo la compagnia assicurativa sta progressivamente digitalizzando i suoi processi, ma anche le agenzie, con il nostro supporto, possono sfruttare le attività online per ingaggiare nuovi clienti ed elaborare iniziative sempre più personalizzate. Alberto Federici, direttore marketing di UnipolSai

UN RAPPORTO AFFASCINANTE E INSIDIOSO La customer experience è un tema dominante negli investimenti delle aziende nel mondo retail e non solo, tanto da superare in valore anche quelli destinati brand o alle politiche commerciali. Il mondo digitale è ormai la prima fonte di informazione per i consumatori e il primo touchpoint con le aziende. Proprio per questo motivo, anche il gap fra le aziende native digitali e quelle più tradizionali in termini di customer journey si sta assottigliando e questo viene evidenziato anche dalla ricerca. Una delle chiavi per velocizzare l’espansione end-to-end dei processi di relazione con la clientela risiede in una maggior collaborazione fra i dipartimenti marketing e quelli It delle aziende. Fin qui entrambi hanno maturato competenze di eccellenza, ma

c'è ancora una certa polarizzazione. Dalla ricerca, però, emerge la tendenza a collaborazioni più strette. I dati sono al centro di ogni strategia di marketing digitale, nell’ottica di una conoscenza più approfondita delle attitudini dei consumatori e di iniziative personalizzate. La gestione delle identità è alla base dello sviluppo della comunicazione tailor-made, ma non è ben acquisita la capacità di fare customer identity management. Operare correttamente con la privacy delle persone significa aderire al Gdpr, ma anche alle normative delle nazioni con cui si viene a contatto. Bisogna poi proteggersi da tentativi di esfiltrazione dall’esterno ma anche definire policy per gli accessi interni. Alessandro Livrea, regional manager di Akamai

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LA PROMESSA DEL DECENNIO Pregiudizi involontari, impatti sull’occupazione, violazioni della privacy: diverse le paure connesse al machine learning. Ma altrettanti gli impatti benefici sulla società.

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ffascina, spaventa, incuriosisce, attrae grandi investimenti e viene vista dalle più grandi potenze mondiali (Stati Uniti e Cina innanzitutto, l’Europa a seguire) come una tecnologia strategica per gli anni a venire. Non è esagerato affermare che l’intelligenza artificiale, nelle sue variegate forme, sia una delle grandi promesse tecnologiche che potranno realizzarsi nel decennio appena cominciato, portando innovazione e benessere nella società ma solo a patto di rispettare alcuni fondamentali principi etici. Il rifiuto delle discriminazioni, per esempio, una questione legata all’annoso problema del bias ovvero il pregiudizio involontario potenzialmente racchiuso negli algoritmi. Ne sa qualcosa Apple: lo scorso novembre lo Stato di New York ha avviato un’indagine in seguito ad alcune segnalazioni (fra cui quella di Steve Wozniak, cofondatore dell’azienda insieme a Steve Jobs) secondo le quali il servizio Apple Card riconoscerebbe agli uomini dei limiti di credito molto superiori a quelli concessi alle donne. Un algoritmo sessista, in pratica. Qualcosa di simile era accaduto in Amazon nel 2018, con un algoritmo testato nell’ambito delle risorse umane per effettuare delle prime scremature dei curricula: si è scoperto che il programma tendeva a favorire i candidati maschi. Il problema, si è poi capito, risiedeva nella base di dati impiegati per allenare il modello mate54 |

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matico, ovvero una raccolta di curricula (in cui il sesso maschile era nettamente prevalente) ricevuti da Amazon nell’arco di un decennio. Prontamente ritirato, il programma difettoso ci ha lasciato un insegnamento: può esserci discriminazione anche in assenza di mentalità discriminatoria. E non possiamo accusare un algoritmo di ragionare in modo poco etico, la responsabilità grava sulle nostre spalle. L’ambivalenza della biometria

Un’altra questione etica forse ancor più spinosa è quella del rispetto della privacy e dei diritti umani: basti pensare al massiccio utilizzo della videosorveglianza e della biometria a cui già oggi fa ricorso la Cina. Una ricerca del Politecnico di Zurigo nel 2018 stimava che il numero di apparati di videosorveglianza attivi nel Paese possa salire a 450 milioni entro la fine del 2020. Un recente studio di Comparitech ha invece calcolato che, nella classifica delle dieci metropoli del mondo più popolate di videocamere di sorveglianza in rapporto agli abitanti, solo Londra e Atlanta non sono ubicate in Cina. Attualmente, la città che annovera più videocamere Cctv in rapporto alla popolazione è Chongqing: quasi 2,8 milioni di apparati controllano 15,3 milioni di abitanti, ovvero 168 ogni mille persone. Al secondo e terzo posto, rispettivamente, Shenzhen e Shangai, mentre Pechino è nona. Le videocamere tappez-


zano luoghi pubblici come gli attraversamenti pedonali (dove chi cammina sulle strisce avendo il semaforo rosso viene messo alla gogna su maxischermi, con tanto di nomi e cognomi ottenuti dai software di riconoscimento facciale) e addirittura le aule scolastiche. In un liceo di Hangzhou, per esempio, gli studenti vengono monitorati con programmi di intelligenza artificiale per capire se siano attenti, disattenti, interessati o disinteressati alle lezioni. Vista dall’Occidente, la Cina inizia ad assomigliare sempre più a un Grande Fratello di orwelliana memoria. Eppure l’intelligenza artificiale applicata alla videosorveglianza e alla biometria non è di per sé “buona” o “cattiva”. Nella Repubblica Popolare da anni viene utilizzata come strumento di indagine nella lotta alla criminalità e nella ricerca di persone scomparse, mentre dal 2019 a Shenzhen è possibile acquistare biglietti del treno o della metropolitana attraverso il riconoscimento facciale. Si presta a interpretazioni ambivalenti, invece, la recente decisione del ministro dell’Industria e della Tecnologia di imporre la procedura di identificazione del volto come obbligatoria per le attivazioni delle Sim card telefoniche. Uno strumento utile contro le truffe e i furti di identità, certo, ma che potrebbe anche rappresentare un “tentativo molto centralizzato di tenere sotto controllo chiunque”, come sottolineato da Jeffrey Ding, ricercatore dell’Università di Oxford esperto di intelligenza artificiale. Assistenti vocali o spioni? Il tema della privacy è la spina nel fianco di un’altra tecnologia basata su intelligenza artificiale: le interfacce a controllo vocale. Tanto Apple quanto Google e Amazon l’anno scorso hanno avuto problemi con i rispettivi software (cioè Siri, Google Assistant e Alexa), scoperti a “origliare” le conversazioni di ignari utenti senza aver chiesto esplicitamente il permesso. Lo facevano a fin di bene,

cioè per migliorare il funzionamento del servizio di assistenza vocale: una sorta di programma di controllo qualità, nel quale collaboratori delle tre aziende ascoltavano stralci di registrazioni fatte dagli smart speaker per rispondere a un comando vocale. In molti casi, si trattava di registrazioni attivate involontariamente dagli utenti, con una frase o un suono che il software interpretava come comando. In seguito al polverone mediatico scaturito dalle rivelazioni di alcune talpe, le tre società hanno interrotto i rispettivi programmi di controllo qualità o reso più espliciti i termini d’uso del servizio. D’altra parte questo incidente di percorso non fermerà, presumibilmente, la corsa degli assistenti vocali, che anzi sembrano intenzionati ad allargarsi sempre più oltre i confini delle pareti domestiche. Già integrata nei sistemi di infotainment di vari marchi e modelli di automobile (Audi, Bmw, Ford e Toyota e prossimamente anche Lamborghini), Alexa ci sta prendendo gusto a viaggiare sulle quattro ruote. Al Ces di Las Vegas è stato annunciato che prossimamente negli Stati Uniti, in circa undicimila stazioni di servizio di ExxonMobil, i possessori di conti Amazon Pay potranno pagare i rifornimenti di carburante attraverso i comandi vocali. Grandi sfide della medicina, Google si schiera

La questione della tutela della riservatezza si fa ancor più delicata entrando nel campo dei dati sensibili, come quelli riguardanti la salute. Anche in quest’ambito sull’AI non si può emettere un giudizio tranciante, perché le grandi speranze e le grandi paure sono i due lati della stessa medaglia. Per vincere le sfide della medicina servono non soltanto macchinari e competenze: servono i dati, necessariamente. E di dati si è nutrito, per un paio di anni, il progetto sperimentale condotto da Google insieme a ricerca55


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tori del Cancer Research UK Imperial Centre, della Northwestern University e del Royal Surrey County Hospital: sulla base di 91mila mammografie eseguite su pazienti britanniche e statunitensi, si è cercato di capire se un algoritmo di apprendimento automatico possa ridurre la percentuale di diagnosi errate. La difficoltà di identificare correttamente il cancro al seno sulla base di esami mammografici è un punto dolente: secondo l’American Cancer Society, un caso di malattia su cinque non viene riconosciuto e similmente abbondano i falsi positivi, che per le pazienti significano inutile sofferenza ed esami aggiuntivi. Nei test realizzati, il sistema ha prodotto meno falsi positivi rispetto alle interpretazioni delle mammografie eseguite dai medici (il 5,7% in meno sul campione statunitense, l’1,2% in meno su quello britannico) e anche meno falsi negativi (si sono ridotti del 9,4% per il campione statunitense e del 2,7% per quello britannico). Il miglioramento può sembrare poca cosa, ma non se rapportato ai grandi numeri che descrivono la diffusione dei tumori femminili; va considerato, inoltre, che l’algoritmo ha “ragionato” solo sui dati radiografici, senza poter valutare la storia clinica ed elementi di contesto. Insomma, a detta di Google “ci sono segnali promettenti del fatto che questo modello possa migliorare l’accuratezza e l’efficienza dei programmi di screening”. La stessa società di Mountain View, protagonista positivo di questa iniziativa, recentemente è finita sotto indagine per un altro progetto riguardante l’applicazione dell’intelligenza artificiale ai dati sanitari. Un accordo confidenziale tra Google e Ascension, la principale catena cattolica di ospedali e case di ricovero statunitense, è stato svelato pubblicamente dal Wall Street Journal e in pochi giorni è sfociato in un’indagine federale. Lo Us Department of Health and Human Services vuole vederci chiaro sul modo 56

in cui la società californiana può accedere alle cartelle cliniche e ai dati medici e personali di circa 150 milioni di cittadini statunitensi finiti nel database di Ascension in seguito a ricoveri, cure ed esami. A detta di Google, la collaborazione nasce dal fatto che la catena di ospedali e cliniche sia un cliente dei propri servizi cloud. Non ci sarebbe alcuna violazione della privacy e delle leggi statunitensi sul trattamento dei dati medici, ma semplicemente verrebbero applicate tecnologie di analytics e intelligenza artificiale per “trarre valore” dai dati in questione. Il tutto al momento è ancora nebuloso, così come lo sono le speranze e le paure legate all’uso dell’intelligenza artificiale in campo medico. Una minaccia o un aiuto nel lavoro?

Non c’è dubbio sul fatto che una delle principali preoccupazioni legate all’intelligenza artificiale riguardi gli impatti sul mercato del lavoro. Così come nelle precedenti rivoluzioni industriali le macchine hanno incrementato la produttività e l’efficienza, comportando stravolgimenti nelle fabbriche, allo stesso modo i software e i robot “pensanti” potranno rivoluzionare non solo il settore secondario ma anche il terziario. Sta già succedendo:

basti pensare ai chatbot usati per l’assistenza ai clienti e ai robo-advisor che, a certi livelli, possono sostituire i consulenti finanziari in carne e ossa. Stando a recenti stime riportate da Consob (il “Quaderno Fintech” pubblicato a fine 2019) già lo scorso anno sul mercato italiano i volumi gestiti da robo-advisor avevano superato quota 358 milioni di euro; su scala mondiale, la stima è di oltre 877 milioni di euro. Si prevede che nel 2023 il valore annuo gestito dai software di AI possa sfiorare i 2,3 miliardi di euro, a fronte di 147 milioni di clienti serviti. Difficile, comunque, valutare quale sarà l’impatto dell’AI trasversalmente ai settori occupazionali. Negli ultimi anni vendor tecnologici e società di analisti hanno snocciolato previsioni rassicuranti, sottolineando come la sostituzione uomo-robot in campo lavorativo sarà solo parziale e comporterà allo stesso tempo un’evoluzione: alle persone i compiti a maggior valore aggiunto, più qualificati, ai software e alle macchine quelli ripetitivi e di routine. L’AI, inoltre, permetterà in vari campi di esplorare possibilità inedite e sorprendenti. E questa, forse, è una delle poche certezze su cui possiamo scommettere. Valentina Bernocco


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UN “SALTO MONDIALE”, MA NON TROPPO CONVINTO Uno studio commissionato da Ibm evidenzia i progressi delle aziende europee, statunitensi e cinesi nell’adozione di tecnologie basate sull’AI. Permangono però ostacoli e timori.

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n “salto mondiale” verso l’intelligenza artificiale: in giro per il pianeta, le aziende si incuriosiscono, sperimentano e non di rado avviano progetti più o meno strutturati, adottando l’una o l’altra tecnologia di AI. Ma siamo ancora lontani da un livello di adozione maturo, come sottolineato da innumerevoli osservatori (vendor, società di ricerca e consulenza). Un’ulteriore conferma giunge ora dallo studio “From Roadblock to Scale: The Global Sprint Towards AI”, commissionato da Ibm a Morning Consult, per il quale sono stati interpellati nell’ottobre del 2019 circa 4.500 manager e dirigenti con ruoli di responsabilità sull’IT della propria azienda. Il campione includeva imprese di dimensioni piccole, medie e grandi, dislocate fra Europa (Italia inclusa), Stati Uniti e Cina. Ebbene, è risultato che attualmente ben tre aziende su quattro impiegano l’intelligenza artificiale in una qualche misura e che molto spesso questo utilizzo è connesso a quello del cloud. Il fatto non stupisce, poiché tipicamente le soluzioni di machine learning richiedono una certa disponibilità di dati o capacità di calcolo (se non entrambe le cose) che il cloud fornisce a costi relativamente abbordabili. Un tempo a un’azienda sarebbero serviti grandi data center o supercomputer, oppure immensi archivi di dati necessari

per allenare un algoritmo. Oggi, invece, le infrastrutture, le piattaforme e i servizi “as-a-service” hanno consentito l’accesso a soluzioni di AI anche a realtà che non dispongono di grandi mezzi economici e tecnologici. Tornando ai risultati del sondaggio di Ibm, emergono però ostacoli di altra natura. Il 37% degli intervistati ha citato come principale barriera all’adozione dell’AI la carenza di adeguate competenze all’interno dell’azienda, mentre il 31% ha puntato il dito verso le complessità di gestione dei dati e verso la frammentazione nei famigerati “silos” (compartimenti stagni che impediscono una visione d’insieme e una gestione unitaria dei dati). Il 26%, inoltre, si è lamentato della mancanza di strumenti adatti a sviluppare modelli matematici di intelligenza artificiale. Le motivazioni a intraprendere nuovi progetti tuttavia non mancano, al punto che Ibm prevede si raggiunga entro un massimo di due anni una percentuale di adozione nelle aziende pari all’80% almeno. Oggi come oggi, l’AI

viene sfruttata soprattutto per potenziare la sicurezza dei dati (36% degli intervistati), per l’automazione dei processi (31%), per assistenti virtuali o chatbot (26%), per l’ottimizzazione dei processi di business (24%) e per analizzare dati raccolti da sensori IoT(24%). Si può dunque parlare di un “salto mondiale” verso l’intelligenza artificiale, ma le potenzialità di queste nuove tecnologie restano in gran parte inespresse. “La lenta adozione dell’AI nelle aziende”, scrive Ibm, “può essere spiegata in vari modi, per esempio con la carenza di competenze e di strumenti, con il vendor lock-in e con la mancanza di fiducia e familiarità nei confronti dell’intelligenza artificiale. Finora, tuttavia, uno tra i principali ostacoli è stato di tipo culturale”. Insomma, c’è un po’ di paura, specie in relazione ai possibili impatti sull’occupazione. Tra gli intervistati, il 78% ha sottolineato che è molto importante o addirittura cruciale per la propria azienda il fatto di potersi fidare delle soluzioni di AI adottate, reputandole eque, sicure e affidabili. V.B. GENNAIO 2020 |

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CYBERSECURITY

Si prospettano tempi difficili, fra tipologie di attacco già molto in voga negli anni recenti e altre ancora da scoprire. Ransomware e phishing subiranno un'evoluzione, mentre l'intelligenza artificiale sarà allo stesso tempo un'arma d'attacco e di difesa.

NUOVE MINACCE PRONTE A COLPIRE

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i siamo lasciati alle spalle il decennio del boom degli smartphone e della conseguente nascita del malware destinato ai dispositivi mobili, di cui per anni si è parlato incessantemente. Poi nuovi fenomeni hanno catturato l’attenzione mediatica, dominando anche i report delle società di sicurezza informatica: i grandi attacchi DDoS, capaci di paralizzare aziende o anche intere porzioni del Web per ore o giorni; i criptominer, che sfruttano le risorse di calcolo del dispositivo “colonizzato” per produrre criptovaluta; ma soprattutto il ransomware, il vero protagonista degli ultimi anni, un tipo di attacco con cui si mira a ottenere guadagni 58 |

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immediati e facili attraverso la richiesta di un riscatto (da qualche centinaio di dollari in su). A guardare le previsioni dei vendor per il 2020, c’è da scommettere che il ransomware spopolerà ancora nei prossimi mesi e, presumibilmente, negli anni a venire, in forme sempre più evolute. Su un orizzonte di medio periodo si stagliano poi questioni irrisolte, venute alla ribalta in anni recenti e ancora non regolate da normative chiare e uniformi. La privacy degli utenti, innanzitutto, che nel post-terremoto di Cambridge Analytica è parsa un oggetto fragile, in balia delle nebulose politiche dei social network, ma che oggi tutti (Facebook inclusa) difendono a gran voce. E poi l’intelligenza

artificiale, tema peraltro connesso con il precedente e con ancor più complesse questioni etiche: gli assistenti vocali e il riconoscimento biometrico associato alla videosorveglianza, per citare due tecnologie molto promettenti, generano comprensibili timori. Intrecciando tutto questo con l’avvento del 5G, e dunque con nuove applicazioni che ci faranno vivere in modo ancor più “connesso”, emerge il quadro di una società iper-tecnologica in cui siamo e sempre più diventeremo tutti delle macchine generatrici di dati. Proteggere questi dati sarà, forse, una delle grandi sfide del decennio. Molto altro però bolle nella pentola della cybersicurezza nel 2020.


IL PHISHING DI ALTO LIVELLO

LA CYBERWAR

“Nel 2020 le tecniche di phishing aumenteranno e si affineranno andando a colpire un numero di vittime sempre crescente”. Or Katz, principal lead security researcher di Akamai, così sintetizza un pensiero comune a molti vendor, convinti del fatto che il fenomeno delle truffe via email stia mutando la propria natura. Nato come tentativo di “sparare nel mucchio”, inoltrando messaggi truffaldini a masse eterogenee e non specificate di utenti e sperando che una piccola percentuale “abboccasse all’amo”, oggi il phishing sta diventando anche qualcosa di diverso. Alle campagne raffazzonate, in cui compaiono errori di sintassi e di lessico, si affiancano ondate di messaggi-truffa confezionati con cura e, in certi casi, indirizzati a bersagli specifici e strategici (per esempio, utenti aziendali). A detta di Akamai, quest’anno emergeranno tecniche di phishing sempre più efficaci e al contempo le campagne saranno più difficili da identificare proprio perché il bacino dei destinatari in molti casi sarà circoscritto. Gli utenti business saranno l'anello debole della catena della sicurezza: spezzandolo, gli autori di un attacco potranno anche ottenere credenziali di accesso ad account protetti, interni a reti aziendali. Verosimilmente, la posta elettronica continuerà a essere il principale canale di diffusione di questo genere di attacchi, affiancato però da altri metodi efficaci nell’indurre le vittime a cedere informazioni personali, credenziali di accesso o addirittura a inviare denaro. “Il phishing prevede sempre più spesso attacchi via Sms sui cellulari o l’utilizzo di messaggi diretti sui social media e sulle piattaforme di gioco, ”, sottolinea la società di cybersicurezza Check Point.

Si agisce nell’ombra, per ragioni di sicurezza o spionaggio o controspionaggio, per un intreccio di interessi politici ed economici. Si agisce installando malware o backdoor nei server e nei computer dell’avversario, che in questo caso è uno Stato. Di guerra cibernetica si parla da decenni, ma oggi come mai in passato le tecnologie hanno raggiunto un livello di sofisticazione tale da diventare vere e proprie armi, che minacciano l’equilibrio politico e sociale di intere nazioni. Il velo è già caduto per la National Security Agency (Nsa) statunitense, prima con le rivelazioni di Edward Snowden (rivelazioni che riguardavano però la sorveglianza di massa e non la cyberwar) e poi con quelle del gruppo hacker noto come Shadow Brokers, che ha denunciato l’esistenza di strumenti di cyberspionaggio sviluppati dall’agenzia governativa. Si tratta in particolare exploit, usati dall’Nsa per penetrare nei sistemi informatici di aziende e governi stranieri. La società di cybersicurezza Bitdefender si spinge a parlare di una nuova guerra fredda cibernetica che si profilerebbe all’orizzonte, e scommette sul fatto che quest’anno si creerà un divario sempre più netto fra le tecnologie e l’intelligence delle potenze occidentali e quelle delle potenze asiatiche. “La guerra commerciale in corso tra Stati Uniti e Cina e il crescente divario tra le due super economie è un chiaro indicatore di questa tendenza”, sottolinea Bitdefender. “Il contesto geopolitico alimenterà lo sviluppo e l’uso di armi informatiche, a fini di spionaggio o manipolazione politica, o addirittura per attaccare infrastrutture critiche”. Con le elezioni presidenziali statunitensi in vista, il clima si scalda.

LA SICUREZZA STUDIA I COMPORTAMENTI La sigla IoC, indicatori di compromissione, si riferisce ad attività potenzialmente dannose: Url di siti Web, phishing, o indirizzi IP di spam. IoC può indicare anche un traffico di rete che usa porte non standard, modifiche sospette alle impostazioni del registro di sistema e volumi di lettura/scrittura anomali. Gli IoC sono incentrati sulle minacce e sono stati il punto fermo della protezione della sicurezza informatica per decenni. Gli indicatori di comportamento (IoB) invece si concentrano su come gli utenti si comportano e interagiscono con i dati. In particolare, l'attenzione è rivolta agli indicatori di cattivo comportamento. Comprendendo come un utente/ dipendente/appaltatore/account si comporti di solito, è possibile identificare il segnale che precede eventi rischiosi, ad esempio il furto di dati. La nostra previsione è che quest’anno aumenterà decisamente il numero di organizzazioni che riconoscono la necessità di migliorare la propria sorveglianza sulle minacce basata su IoC con le intuizioni contestuali di indicatori comportamentali IoB. Le strategie di sicurezza informatica di tali aziende passeranno da un approccio esterno (cogliere come gli aggressori esterni stiano cercando di penetrare un perimetro) a un approccio interno-esterno (comprendere i rischi che si trovano all'interno e l'importanza di prevenire furto di dati indipendentemente da utente, dispositivo, supporto o applicazione cloud). Nico Fischbach, global chief technology officer di Forcepoint

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CYBERSECURITY

GLI ATTACCHI AUTOMATIZZATI

IL CLOUD COME TRAMPOLINO

FAKE NEWS E DEEP FAKE

Attualmente, all'incirca una metà del traffico Internet è generata dai bot. Questo termine non identifica solamente i software malevoli, ma anche quelli che legittimamente accedono alle risorse del Web, come per esempio i motori di ricerca, i crawler, le chat. Purtroppo esistono e sempre più verranno sfruttati anche i bot malevoli, quelli che lanciano attacchi DDoS (Distributed Denial-of-Service, finalizzati a mandare in tilt il sistema bersaglio), violano account protetti, eseguono scraping di dati e altro ancora. Per un’azienda, episodi di tal genere possono significare interruzioni di attività, furto di dati e perdite di denaro. “In passato non abbiamo dato abbastanza importanza a questo fenomeno”, fa notare F5 Networks, “ma guardando ai prossimi mesi si rende sempre più necessaria una strategia di gestione dei bot. L’aspetto maggiormente critico è che botnet e malware si evolvono in modo continuo”.

Il cloud può essere un ottimo alleato della sicurezza, poiché fornisce risorse per il backup e assicura un’infrastruttura hardware e software sempre aggiornata, cosa affatto scontata nei data center interni alle aziende. Ma è anche potenziale veicolo di violazioni, perché servono accortezze specifiche per proteggere dati e applicazioni non più racchiusi nel famoso “perimetro” che un tempo delimitava l’ambiente IT delle aziende. Sophos invita a prestare attenzione a un problema sottovalutato: “I sistemi cloud diventano sempre più flessibili e complessi ed eventuali errori di configurazione, uniti alla mancanza di visibilità, rendono questi ambienti cloud un ghiotto bersaglio per i cybercriminali”. La nuvola però non è solo un bersaglio: quest’anno i criminali sfrutteranno il cloud per veicolare attacchi e per controllare da remoto le loro vittime. Anche le piattaforme di sviluppo create per scopi legittimi, come GitHub, saranno usate come canali di comando e controllo delle comunicazioni.

Se ne parla dai tempi del Russiagate, e negli ultimi anni social network come Facebook e Twitter stanno facendo ricorso ad algoritmi di machine learning e collaborazioni con esperti di fact-checking per debellare il fenomeno. Ma le bufale online, alimentandosi dell’ingenuità di molti e dei meccanismi virali del Web, continueranno a proliferare. “Le elezioni americane del 2016 hanno visto l'inizio della diffusione di fake news basate sull'intelligenza artificiale”, spiega Check Point. “I candidati statunitensi prevedono che i movimenti politici oltreoceano stiano già attuando strategie per influenzare le elezioni del 2020”. La disinformazione sfrutterà probabilmente le tecnologie di AI emergenti. “Le telefonate audio di deepfake sono già state utilizzate per alcune truffe, inducendo le organizzazioni a trasferire fondi su conti controllati dagli aggressori”, illustra Bitdefender. “I criminali informatici hanno sottratto 243.000 dollari

RANSOMWARE MIRATI E SEMPRE PIÙ “FURBI” In anni recenti i ransomware hanno spopolato non solo sui Pc e sugli smartphone delle loro vittime, ma anche nelle pagine della cronaca tecnologica. Questo tipo di infezione, una volta installata, esegue la crittografia di tutti i file o blocca in altro modo un dispositivo per richiedere il pagamento di un riscatto, solitamente tramite criptovaluta. Da iniziale problema dell’utente singolo, questo è diventato una minaccia anche per le aziende, mentre episodi eclatanti come quello di Wannacry hanno evidenziato la capacità dei “malware ricattatori” di causare danni estesi. Nel

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GENNAIO 2020

2017 Wannacry mise a tappeto centinaia di migliaia di computer nel mondo, attaccando aziende private, enti pubblici, ospedali, reti di trasporti e altri tipi di organizzazione e utenti. A detta della Nsa e di Kaspersky, dietro all’apparente finalità di lucro, cioè alla richiesta del riscatto, si celava un intento più subdolo: la distruzione di dati, voluta forse dal governo nordcoreano. Il nuovo decennio sarà ancora l’epoca dei ransomware classici, ma anche di ransomware di diversa natura rispetto a quelli conosciuti fino a oggi: mirati, diretti a colpire specifici settori verticali, come l’assistenza

sanitaria, le infrastrutture critiche e l’istruzione. Ne è convinta Bitdefender, società che prefigura inoltre la crescita di campagne di ransomware mirate ai service provider. Check Point fa notare che “gli hacker trascorrono molto tempo a raccogliere informazioni personali sulle loro vittime per garantire che il danno arrecato sia cospicuo e che i riscatti siano di conseguenza molto più alti”. Fabio Pascali, country manager per Italia di Veritas, aggiunge un altro tassello al mosaico: “Nel 2020 emergeranno varianti di ransomware che combinano il consueto blocco dei dati con


impersonando il Ceo di un’azienda energetica tedesca. La truffa di DeepVoice convinse il Ceo della filiale britannica a inviare i fondi a un fornitore ungherese nell’arco di un’ora. Questi incidenti mostrano come la creazione artificiale di contenuti video e audio utilizzando il machine learning porterà probabilmente a un maggior numero di truffe di social engineering”. Il 2019 è stato l’anno dell’entrata in vigore della normativa PSD2, che da un lato impone nuove misure di protezione degli account bancari (come l’autenticazione forte a due passaggi) e dall’altro spiana la strada alle società fintech e a ondate di nuovi servizi basati sul modello dell’Open Banking. “Le startup fintech hanno maggiori probabilità di essere vulnerabili al phishing e ad attacchi alla sicurezza verso le applicazioni Web e mobile, a causa di software commerciali obsoleti od open-source e della man-

canza di procedure di sicurezza”, riflette Bitdefender. La società di sicurezza informatica nel corso del 2019 ha appurato violazioni di dati conseguenti ad attacchi alle fintech, tra le cui vittime figurano aziende inserite nella classifica Fortune 500. Il danno si è verificato perché i dati personali sono stati memorizzati in modo improprio, per esempio nei file di log, oppure per colpa di procedure di autenticazione deboli che hanno permesso agli aggressori di resettare la password tramite il supporto online per i clienti, o esponendo inavvertitamente documenti interni in aree pubbliche della Rete. Non è mancato un episodio molto grave, in cui gli hacker hanno sfruttato indirizzi di posta elettronica ingannevoli per dirottare un milione di dollari da da una società di venture capital a una startup israeliana. Oltre al rischio di esporre all’esterno i dati dei clienti, dunque, per le fintech c’è anche quello di perdere grandi quantità di denaro da fondi di investimento.

Il deepfake è solo una delle manifestazioni potenzialmente malevole dell’AI. F5 Networks scommette che il 2020 sarà l’anno del primo attacco contro un’azienda basato su intelligenza artificiale. “Il terreno è pronto e il malware sofisticato, che adatta il suo comportamento per non essere rilevato, è già una realtà”, spiega la società. L'AI consentirà ai cybercriminali di ottenere scalabilità e velocità mai raggiunte prima, perché lo sforzo manuale di adattare un attacco a uno specifico individuo sarà, in gran parte, automatizzato. Una nuova generazione di malware sarà in grado di comprendere l’ambiente e sfruttare le informazioni ottenute per indirizzare meglio l'attacco. A detta di F5, inoltre, diventeranno più comuni le truffe email basati su impersonificazione: con l’intelligenza artificiale i truffatori potranno generare automaticamente messaggi di spear-phishing che imitano lo stile di scrittura degli amici o dei colleghi del destinatario. Valentina Bernocco

le capacità di estrazione dei dati. Ciò che rende questo tipo di attacco così devastante è che si rivolge ai dati più redditizi: la proprietà intellettuale. Se in passato l'obiettivo era principalmente quello di aggirare le difese e crittografare quanti più dati possibili, presto vedremo esempi di attacchi ransomware che vanno a ricercare informazioni di valore incredibilmente elevato, come prototipi, schemi e progetti dei prodotti”. La disponibilità di attacchi “pronti all’uso” o quasi alimenterà il fenomeno. “Nel 2019 abbiamo riscontrato un numero crescente di hacker che vendono

esemplari di ransomware, ransomwareas-a-service e tutorial su come svilupparli”, testimonia Anna Chung, principal researcher Unit 42 di Palo Alto Networks. “Questa disponibilità di prodotti e servizi sottobanco consente anche a chi non è tecnicamente esperto di entrare attivamente in gioco”. Poiché il ransowmware finora si è dimostrato economicamente vantaggioso per chi ne fa uso, è del tutto verosimile che la sua crescita proseguirà. “Ci saranno attacchi più sofisticati e personalizzati che utilizzeranno approcci multipli e disattiveranno le protezioni

passo dopo passo, bloccando i backup prima di eseguire la violazione dei dati”, spiega Filip Verloy, field Cto Emea di Rubrik. “Alcune organizzazioni stanno cercando di difendersi acquistando assicurazioni specifiche contro gli attacchi ransomware. L’anno prossimo avremo la dimostrazione che quest’ultimo approccio non funziona”. Insomma, stipulare polizze assicurative è un modo per limitare i danni, ma non un’efficace strategia di difesa. A detta di Verloy, “l’unica soluzione è quella di adottare un approccio olistico alla sicurezza e alla protezione dei propri dati”.

FINTECH NEL MIRINO

L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE “CATTIVA”

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ECCELLENZE.IT | Gruppo Feltrinelli

LE LIBRERIE SI TRASFORMANO ANCHE ATTRAVERSO I DATI Il gruppo editoriale utilizza i canali di vendita fisici, purché innovativi, e quelli digitali. Con analytics e Big Data sta imparando a conoscere sempre meglio la propria clientela.

V

endere libri è un mestiere antico, passato nel tempo attraverso i cambiamenti delle modalità di stampa e distribuzione, ma da sempre è legato a un oggetto che non è mutato poi troppo, almeno da quando è diventato un prodotto industriale. La libreria resta il polo d’attrazione primario per un pubblico di lettori che in Italia si concentra soprattutto sui cinque milioni che leggono più di un titolo al mese (dato dell’Associazione Italiana Editori). Quasi il 70% degli acquirenti ama ancora recarsi in un punto vendita, sfogliare le pagine, leggere il risvolto di copertina, magari chiedere un consiglio al libraio. Siamo di fronte a un comparto con numeri assoluti che certamente potrebbero essere più elevati e in cui appare complesso pensare a un’innovazione di prodotto. Eppure, la trasformazione digitale investe anche ciò che di primo acchito appare più statico. Ne sa qualcosa un editore come Gruppo Feltrinelli, che in questi ultimi anni ha diversificato il proprio business soprattutto creando un concept di punto vendita come luogo di intrattenimento e sosta. All’attività editoriale si sono affiancati non solo il retail ma anche la ristorazione e l’organizzazione di eventi, ed è stata recepita una stratificazione multicanale che passa dalla vendita online e dalla proposta di un canale televisivo. “La nostra evoluzione in direzione del retail rende indispensabile mettere i dati a disposizione del business”, spiega il chief information officer, Luca Castellano. “Ci siamo posti l’obiettivo di averne il pieno dominio, non solo per rendere più efficienti i pro62 |

GENNAIO 2020

cessi commerciali ma anche e soprattutto per fare promozione culturale nel Paese”. Una prospettiva ambiziosa, che si alimenta con la rivalutazione del punto vendita e con la costruzione di un’esperienza emozionale per il cliente, nella logica dell’omnicanalità: “Gli strumenti digitali ci servono per stimolare soprattutto il pubblico più giovane ad avvicinarsi alla cultura”, spiega il Cio. “La libreria diventa il luogo di aggregazione di un viaggio che può anche nascere altrove. Abbiamo 45 milioni di visitatori all’anno nei nostri negozi e dobbiamo partire dal presupposto che nessuno è uguale all’altro. Il riconoscimento del cliente e lo sviluppo di un desiderio d’acquisto continuamente supportato sono la chiave per raggiungere importanti risultati”. Dal punto di vista tecnologico, il processo di cambiamento passa per l’adozione di strumenti di Big Data e analytics, allo

scopo di estrarre le informazioni corrette per fare ingaggio e seguire il cliente nel suo viaggio. Per le librerie LaFeltrinelli si è scelto di utilizzare la piattaforma di Erp (Enterprise Resource Planning) Sap S/4 Hana, appoggiandosi al partner VarGroup per le fasi di implementazione. “Per il momento lavoriamo ancora con una soluzione on-premise”, precisa Castellano, “ma per il futuro stiamo programmando la progressiva dematerializzazione degli asset fisici e, quindi, è probabile che troveremo la giusta combinazione fra componenti che manterremo in casa e altre che saranno migrate in cloud. A cominciare dal Crm e dalla marketing automation”. Questo percorso di trasformazione digitale ha anche contribuito a rendere più strategico il ruolo dell’IT, che condivide con il management gli obiettivi di time-to-market, la visione strategica e i budget sui nuovi progetti.


ECCELLENZE.IT | Caffè Borbone

CON IL CALCOLO IN-MEMORY, IL CAFFÈ È SERVITO L’azienda produttrice di cialde e capsule ha ottenuto visibilità sui dati e semplificato la gestione della supply chain grazie ai sistemi Primeflex di Fujitsu, configurati con Sap Hana.

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nche la migliore tradizione di caffè napoletano può beneficiare dell’innovazione tecnologica, e più precisamente di innovazioni che consentono di far evolvere il modello di business. Fondata nel 1997, Caffè Borbone ogni giorno produce 96 tonnellate di prodotto trasformato, ovvero caffè torrefatto e in grani, cialde e capsule, che vengono commercializzati in Italia e sui principali mercati europei. In tempi recenti la forte crescita del giro d’affari (con incrementi del 40% da un anno all’altro) ha spinto l’azienda a metter mano a un’infrastruttura IT non più adeguata a sostenere le sue attività. “Semplicemente, non disponevano delle risorse necessarie”, spiega il chief operating officer, Francesco Vitobello. “In particolare, non eravamo in grado di gestire efficacemente i nostri dati”. I dati a cui il Coo fa riferimento sono sia quelli delle vendite sia quelli del sistema informatico di produzione, il Manufacturing Execution System (Mes): non soltanto l’azienda non riusciva a trarre valore da questi dati, ma troppe erano le procedure gestite in modo manuale e basate su rapporti cartacei. Caffè Borbone necessitava di nuovi strumenti per poter identificare nuove tendenze e i clienti ad alto valore aggiunto,

LA SOLUZIONE Fujitsu Integrated System Primeflex for Sap Hana è stato adottato con a bordo i moduli dedicati a gestione materiali, finanza, pianificazione della produzione, vendite, distribuzione e business analysis. Caffè Borbone ha anche installato i sistemi di storage Eternus CS800 e DX200 e i server Primergy RX2540 M4.

così come aveva bisogno di tecnologie capaci di analizzare in tempo reale i dati di produzione, per correggere e prevedere inefficienze e per mantenere costante nel tempo la qualità dei prodotti. “La trasformazione digitale è un passaggio obbligatorio”, fa notare Vitobello. “Era venuto il momento per un upgrade. Avevamo bisogno di una soluzione che fosse in grado di garantire la capacità e gli strumenti necessari a continuare la nostra evoluzione anche sui mercati esteri”. Appoggiandosi all’opera del system integrator Cat Srl, l’azienda ha quindi scelto di puntare sui Primeflex di Fujitsu, sistemi che integrano server, storage, connettività di rete e software: in particolare, ha adottato la versione di questa piattaforma ottimizzata per Sap Hana, il sistema di gestione di database in-memory di Sap. Quest’ultima tecnologia di per sé consente di velocizzare le operazioni di calcolo, ma Caffè Borbone necessitava anche di una piattaforma in cui memorizzare e collegare la crescente quantità di dati. “Eravamo alla ricerca di una soluzione stabile che fosse accessibile e facile da manutenere. Fujitsu ha soddisfatto tutti i requisiti”, assicura il Coo. Il progetto ha richiesto nove mesi per la pianificazione e sole due settimane per la procedura di migrazione. Ora l’azienda si è assicurata accesso ininterrotto ai dati critici ma anche la capacità di analizzare qualsiasi altro tipo di informazione su vendite, distribuzione, tracciamento dei materiali, clienti (oltre 4.000), fornitori (700), referenze (circa mille). Merito di “una piattaforma veloce, solida e flessibile”, come la definisce Vitobello, spiegando che la sua scalabilità consente anche di “supportare le nostre crescenti esigenze di espansione”. GENNAIO 2020 |

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ECCELLENZE.IT | Ciacci Piccolomini d’Aragona

LA TRADIZIONE DEL VINO TOSCANO SI RINNOVA CON IL CLOUD Grazie alle soluzioni di Microsoft il personale dell’azienda, spesso fuori sede, può accedere liberamente all’email e lavorare senza interruzioni di attività.

D

ietro a un simbolo della Toscana ed eccellenza del made in Italy, il Brunello di Montalcino, c’è anche un bel po’ di tecnologia. Non solo quella che permette di coltivare un terreno fertile per ottenere un nettare pregiato, ma anche quella che rende un’azienda sempre produttiva e connessa anche nei tempi dello smart working. Il regno di Ciacci Piccolomini d’Aragona sono 200 ettari di possedimenti (fra la tenuta storica di Castelnuovo dell'Abate, nel pisano, e quella moderna in località Molinello), di cui 60 dedicati alla produzione vinicola: Brunello, ma anche altre varietà che fruttano all’azienda 3 milioni di euro di fatturato annuo (per l’80% derivato da export). I discendenti della famiglia Bianchini, che oggi seguono le orme del capostipite Giuseppe, sapevano di dover realizzare un rinnovamento tecnologico: posta elettronica, software gestionali, documenti e accessi ai Pc gravavano tutti su un vecchio server, ormai inadeguato per sostenere tutti questi processi. Durante le frequenti trasferte all’estero i dipendenti, in particolare i commerciali, non potevano consultare liberamente l’email né documenti e informazioni, poiché queste attività erano vincolate alle postazioni aziendali. Insomma, il business si muoveva a singhiozzo, con interruzioni forzate duran64 |

GENNAIO 2020

te le assenze del commerciale dalla sede. Affidandosi a Si-Net, un partner di Microsoft, il produttore vinicolo ha scelto di abbandonare il sistema on-premise usato fino a quel momento e di puntare su cloud Office 365. Ha dunque migrato sul cloud il proprio servizio di posta elettronica interno e, in un secondo momento, ha adottato la piattaforma di collaborazione a distanza Microsoft Teams. Questo approccio ha eliminato il vincolo “fisico” che in precedenza legava i processi di consultazione dell’email alla presenza in azienda: ora è possibile usare un LA SOLUZIONE Office 365 ha consentito di spostare sul cloud la posta elettronica dell’azienda, in precedenza basata su Exchange Server, e dunque permette la consultazione dell’email anche in mobilità, in occasione di fiere e trasferte. Microsoft Teams permette la collaborazione a distanza e, in futuro, potrà essere veicolo di esperienze di degustazione in videoconferenza.

altro Pc o un dispositivo mobile, durante le trasferte, per la consultazione di informazioni, le prenotazioni, le fatturazioni e altro ancora. Inoltre adesso i dipendenti possono interagire con il personale IT per risolvere eventuali problemi tecnici. “In un mercato in cui il contatto diretto tra le persone è l’elemento essenziale per la compravendita, il cloud computing di Microsoft e in particolare Office 365 ci aiutano a essere pronti e reattivi, a gestire meglio informazioni e documenti e soprattutto a collaborare in tempo reale, sia internamente sia con partner, clienti e fornitori, anche quando siamo fuori dalla sede aziendale, durante le fiere e gli eventi di degustazione”, ha dichiarato Alex Bianchini, responsabile di produzione di Ciacci Piccolomini d’Aragona. Ora l’azienda progetta di ampliare l’uso delle soluzioni di Microsoft al altri ambiti, come la Business Intelligence (attraverso Power BI) e la proposta di esperienze di “degustazione digitale” in videoconferenza, in cui clienti e partner dell’azienda assaggiano vini e si scambiano opinioni a distanza. Un perfetto incontro fra la tradizione del Brunello di Montalcino e la tecnologia.


ECCELLENZE.IT | Baglioni Hotels

LA CATENA ALBERGHIERA HA UN DATA CENTER "DI LUSSO" Aruba Enterprise ha realizzato un cloud privato su misura per l’azienda specializzata in strutture ricettive a cinque stelle. LA SOLUZIONE Il servizio IaaS Aruba Private Cloud ha permesso di creare un virtual data center con server virtuali, firewall e reti, con infrastruttura resiliente, networking ridondato a 10 Gbit/sec e storage replicato in due luoghi diversi, in modo da scongiurare il rischio di perdita di dati. La catena alberghiera, inoltre, ha adottato un rack dedicato e un servizio di colocation per i server che ospitano i servizi Web e i gestionali delle diverse strutture ricettive.

B

outique hotel ma anche resort e ville, in città d’arte come Roma, Milano e Firenze, località di mare come Punta Ala e le Maldive, mete estere come Londra e la Provenza. Fondata nel 1974, l’italiana Baglioni Hotels è una catena comprensiva di nove strutture ricettive che però fino a ieri non disponeva di un data center altrettanto “di lusso”. L’infrastruttura informatica in uso non permetteva un’ottimale gestione dell’hardware e dei dati, né dei processi di booking. Le aree dei portali di Baglioni Hotels da cui vengono effettuate le prenotazioni necessitavano di strumenti di monitoraggio, nonché di un maggior livello di sicurezza. La società puntava a un triplice obiettivo: semplificare una parte dei processi IT, ottimizzare la gestione dei sistemi informativi presenti in tutte le sedi dislocate degli hotel e delle

attività commerciali collegate a essi, e infine ottenere una migliore continuità di servizio. Da qui la scelta di rivolgersi ad Aruba Enterprise, divisione di Aruba che sviluppa progetti e soluzioni IT personalizzate per imprese e Pubblica Amministrazione. Attraverso una massiccia migrazione in cloud è stato possibile far convergere l’infrastruttura IT delle sedi aziendali dislocate in tutto il mondo in un unico data center di livello enterprise. Con il servizio IaaS (Infrastructure asa-Service) Aruba Private Cloud è stato creato un data center virtuale (su risorse resilienti e networking ridondato) e contemporaneamente sono stati adottati un rack dedicato e un servizio di colocation per ospitare i servizi Web e i sistemi gestionali degli alberghi della catena. Il virtual data center assicura risorse garantite: una Cpu sempre disponibile al 100%,

senza overbooking, e una Ram utilizzabile totalmente, di cui si può sfruttare ogni gigabyte materialmente presente sui server che erogano il servizio. Grazie a questo progetto, ora l’intera infrastruttura informatica di tutte le sedi di Baglioni Hotels viene erogata da un unico punto, altamente ridondato e protetto, mentre la migrazione sul cloud ha permesso di ottenere flessibilità nella gestione delle risorse e scalabilità. “Aruba Enterprise si è dimostrato un interlocutore sempre disponibile, che ha saputo gestire ogni nostra richiesta nel dettaglio, studiando un progetto di migrazione specifico per ciò che ci serviva”, assicura Alessandro Bruni, Cio e responsabile area IT di Baglioni Hotels. “Penso sia essenziale poter contare su un unico referente nell’implementazione di processi digitali di tale portata”. GENNAIO 2020 |

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APPUNTAMENTI 2020

A&T dove: Oval, Lingotto Fiere di Torino quando: 12-14 febbraio perché partecipare: la fiera dedicata all’automation & testing può aiutare le aziende ad affrontare l’adozione delle tecnologie 4.0.

GREEN LOGISTICS EXPO

DROIDCON TURIN dove: Officine Grandi Riparazioni, Torino quando: 16-17 aprile (segue hackaton il 18-19 aprile) perché partecipare: è la principale conferenza italiana dedicata ad Android, rivolta a sviluppatori e ingegneri informatici ma anche ad aziende, ricercatori e designer.

WEB MARKETING FESTIVAL dove: Palacongressi di Rimini quando: 4- 6 giugno perché partecipare: sono in programma, tra le altre cose, più di una cinquantina di approfondimenti e seminari dedicati a blockchain, assistenti vocali, Big Data, cybersicurezza e altro ancora.

dove: Fiera di Padova

SMAU MILANO

quando: 18-20 marzo

dove: Fiera Milano City

perché partecipare: è una fiera internazionale B2B sulla logistica sostenibile, con un intero settore dedicato all’e-commerce.

CYBERSECURITY SUMMIT dove: Centro Congressi Roma Eventi - Fontana di Trevi quando: 26 marzo perché partecipare: The Innovation Group riunirà esperti e aziende per parlare di best practice, normative e tendenze nella cybersicurezza.

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GENNAIO 2020

SPS ITALIA

quando: 20-22 ottobre

dove: Fiera di Parma

perché partecipare: è un appuntamento storico, il principale dell’anno per Smau, ed è la migliore occasione per conoscere le novità dei vendor Ict e promettenti startup italiane.

quando: 26-28 maggio perché partecipare: andranno in scena le migliori soluzioni di automazione; protagonisti di questa decima edizione anche cloud, IoT, intelligenza artificiale e Big Data.

CMOVE dove: Centro Congressi NH Milanofiori, Milano quando: 19 febbraio perché partecipare: si parlerà di mobilità connessa, autonoma, smart ed elettrica, insieme a startup, fornitori di servizi e aziende dell’Ict.


PRODUTTIVITÀ, EFFICIENZA E RISPARMIO SUI COSTI: LE AZIENDE CHIEDONO, LA STAMPA GESTITA RISPONDE. Sempre più aziende nel mondo stanno adottando soluzioni di MPS (Managed Print Services)

COSA SIGNIFICA PER UN’AZIENDA RICORRERE A SOLUZIONI MPS?

PERCHÉ NASCONO I SERVIZI MPS? Per monitorare e gestire tutte le risorse di printing in azienda (le pagine stampate, i materiali di consumo, la reportistica) seguendo un modello in cui tutti i processi risultano ottimizzati sulle esigenze produttive.

OBIETTIVI PIÙ IMPORTANTI DA RAGGIUNGERE In termini di parco stampa e gestione documentale, le PMI italiane si prefiggono:

RIDUZIONE DEI COSTI Hardware e consumabili

FATTORI CHIAVE DI SUCCESSO NEL PERSEGUIMENTO DEGLI OBIETTIVI Sono 5 i fattori di soddisfazione che determinano il successo dei servizi di stampa gestita:

Garantirsi il raggiungimento di determinati obiettivi, fondamentali per il successo nel business!

AUMENTO DELLA SICUREZZA Di documenti e stampanti

RIDUZIONE:

- del carico di lavoro sullo staff IT - dell’impatto ambientale

MIGLIORE QUALITÀ E AFFIDABILITÀ DEI SERVIZI

MIGLIORAMENTO: - dei flussi di lavoro - dei costi predittivi - del reporting/analytics

LA SOLUZIONE? BROTHER PAGINE+ È un servizio flessibile ideato da Brother per le PMI: una soluzione di stampa completa che semplifica la gestione del parco stampa e abbatte i costi.

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