Technopolis 42

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NUMERO 42 | APRILE-MAGGIO 2020

STORIE DI ECCELLENZA E INNOVAZIONE

LO SMART WORKING SALVERÀ LE IMPRESE?

Le aziende di tutto il mondo tremano di fronte alla recessione post-pandemia. Il ricorso al lavoro agile potrebbe alleviarne gli effetti e aiutare il mercato IT

I NUMERI

11

Quale sarà l’impatto del Covid-19 e del drastico calo del Pil sugli investimenti in tecnologie in Italia? Sarà anche recessione digitale?

MOBILITY

18

L'epidemia frena la crescita dei settori automotive e turismo. Nonostante soluzioni sempre più intelligenti.

EXECUTIVE ANALYSIS Per la banche la questione della sicurezza è critica. Come affrontano il problema gli istituti medio-piccoli?


SMART MANUFACTURING SUMMIT 2020 dove IT e OT si incontrano

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SOMMARIO 4 STORIA DI COPERTINA STORIE DI ECCELLENZA E INNOVAZIONE

N° 42 - APRILE-MAGGIO 2020 Periodico mensile registrato presso il Tribunale di Milano al n° 378 del 09/10/2012 Direttore responsabile: Emilio Mango Coordinamento: Valentina Bernocco Hanno collaborato: Roberto Bonino, Carmen Camarca, Carlo Fontana, Roberto Masiero, Paolo Massardi, Paolo Saccavini, Elena Vaciago, Ezio Viola

Lo slancio digitale italiano

Una risposta “smart” all’emergenza covid-19

11 IN EVIDENZA

Mercato digitale nel golfo dell’incertezza

Il 5G di Huawei è già pronto a ripartire

Servizi gestiti, il vero valore del canale

18 SMART MOBILITY

22 ITALIA DIGITALE

Progetto grafico: Inventium Srl Foto e illustrazioni: Istockphoto, Adobe Stock Images, Shutterstock

Le automobili frenano per colpa del coronavirus

Le lezioni della crisi

24 STARTUP

La marcia in più dei chatbot è l’empatia

28 INFRASTRUTTURE

L’integrazione carente

30 FINTECH Editore e redazione: Indigo Communication Srl Via Palermo, 5 - 20121 Milano tel: 02 87285220 www.indigocom.it Pubblicità: The Innovation Group Srl tel: 02 87285500 Stampa: Imprimart Srl., Desio (MB) © Copyright 2020 Indigo Communication Srl Tutti i diritti di proprietà letteraria e artistica riservati. Il Sole 24 Ore non ha partecipato alla realizzazione di questo periodico e non ha responsabilità per il suo contenuto. Pubblicazione ceduta gratuitamente.

Il settore è al bivio: essere digitali o antiquati?

32 EXECUTIVE ANALYSIS

Banche medio-piccole, difendersi è critico

36 INTELLIGENZA ARTIFICIALE

L’Europa non sarà il Far West dell’A.I.

40 CYBERSECURITY

Ransomware dannoso e trasformista

44 ECCELLENZE

Acantho - Vertiv

Maire Tecnimont - Microsoft

Marcolin Group - Aptos

Ansaldo Energia - Kaspersky

Diana Corp - Boomi

Dainese - Nutanix


STORIA DI COPERTINA | Smart working

LO SLANCIO DIGITALE ITALIANO Le soluzioni per il teleavoro, come le piattaforme di collaborazione e comunicazione a distanza, permettono di fare di necessità virtù anche nel difficile momento che stiamo attraversando.

U

no dei tanti meme che circolavano sui social network nelle prime settimane di isolamento recitava, simulando una tipica domanda da indagine di mercato: “Chi ha guidato la trasformazione digitale della tua azienda?” Le risposte possibili erano tre: il Ceo, il Cto o il Covid-19. Al di là delle battute (un po’ di ironia non guasta anche in momenti difficili come quello della pandemia), il finto quesito rivela in realtà una verità sacrosanta: per molte piccole e medie imprese lo stato d’emergenza determinato dal virus è stato il motore di una trasformazione digitale che in molti casi esisteva fino a quel momento solo nelle intenzioni. Una ricerca del Politecnico di Milano condotta a fine 2019 individuava in 570mila unità i lavoratori dipendenti italiani che usufruivano di qualche forma di smart working, una cifra paragonabile a quella (554mila unità) che il Ministero del Lavoro ha recentemente indicato come la quota di nuovi professionisti “smart” creatasi dopo l’emergenza. Ma come spesso succede, soprattutto in Italia, le dinamiche sono molto diverse a seconda del segmento 4

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preso in considerazione. A fine 2019, sempre secondo gli Osservatori del Politecnico, aveva realizzato progetti di smart working il 70% delle grandi imprese nazionali, mentre la percentuale si limitava al 33% tra le Pmi e al 29% tra gli uffici della Pubblica Amministrazione. Poi è arrivata la pandemia e le priorità delle organizzazioni (e non solo) sono state travolte e stravolte. Ne osserviamo alcuni aspetti in almeno altre due ricerche italiane, realizzate proprio a cavallo dell’emergenza, di cui vi proponiamo una sintesi nelle pagine che seguono. Le norme

Il quadro normativo di riferimento per lo smart working risale a tre anni fa. La legge 81/2017 aveva cercato di recepire sia le istanze dei lavoratori autonomi sia quelle dei dipendenti in materia di “lavoro agile”, regolando un fenomeno che aveva già iniziato a diffondersi anche in assenza di interventi normativi. Ma lo smart working per sua natura è una formula flessibile, prevedendo che il lavoratore possa operare sia in ufficio sia nella propria abitazione. L’emergenza recente ha invece costretto aziende e persone a lavorare esclusivamente da casa, con una modalità molto più vicina a quella che nel nostro Paese è inquadrata come “telelavoro”. Di fatto, con i decreti emessi a marzo il Governo ha provvisoriamente uniformato le due tipologie, semplificando anche le pratiche (soprattutto quelle tra azienda e dipendente) necessarie per attivare la nuova modalità. L’impressione, confortata dai dati pubblicati nelle pagine seguenti, è che una percentuale di smart

worker creati durante l’emergenza resterà tale anche dopo, e vedremo quindi se e come il legislatore si adeguerà alla nuova situazione. Le piattaforme

Sono state al centro dell’attenzione mediatica e non per settimane, settimane in cui ha tenuto banco l’affaire Zoom, con episodi di hackeraggio e analisi tecniche sulla insufficiente crittografia dei dati. Non c’è dubbio che le piattaforme di comunicazione e collaborazione (Unified


UNA RIVOLUZIONE CONCRETA E INEVITABILE In Italia fino a ieri il lavoro da remoto era per i più una modalità occasionale, adottata per pochi giorni al mese oppure riservata ad alcune categorie professionali. Oggi tutto sta cambiando tumultuosamente. Le aziende che non erano state lungimiranti dovranno correre ai ripari, adottando nuove applicazioni (videoconferenza, chat, piattaforme cloud, webmail, ecc.) ma anche modificando le proprie infrastrutture informatiche affinché possano reggere il peso del lavoro da remoto esteso a tutti i collaboratori, o quasi. “Ciò che sta accadendo oggi non fa che accelerare un processo di digitalizzazione iniziato da qualche anno”, spiega Maurizio Desiderio, country manager di F5 Networks, società specializzata in tecnologie per la sicurezza e la continuità delle applicazioni. “Senza un’infrastruttura in grado di gestire i servizi, però, le applicazioni non funzionano”. Accanto al problema della capacità dell’infrastruttura c’è quello della sicurezza, inevitabilmente resa più fragile dalla frammentazione tipica del lavoro smart: i dispositivi, gli utenti e i punti

Communication and Collaboration) rappresentino spesso il primo e talvolta l’unico strumento di smart working adottato. Queste tecnologie consentono di fare tre cose importanti: comunicare con varie modalità (la più efficace delle quali è sicuramente la video-chiamata), condividere file in sicurezza e gestire agende e progetti comuni. Molto di quello che serve per realizzare una prima, ma efficace forma di lavoro agile. E infatti la stragrande maggioranza delle Pmi ha compiuto (o accelerato) un percorso relativamente semplice:

portare in cloud dati e applicazioni, per poter gestire con maggiore flessibilità l’infrastruttura e le funzioni abilitate dall’IT, e adottare una delle tante piattaforme di collaborazione disponibili sul mercato. C’è solo l’imbarazzo della scelta: suite complete come quelle di Microsoft (con in particolare la soluzione Teams, mirata alla collaboration) e Google (con Hangouts e Meet, oltre agli strumenti di produttività individuale), applicazioni sviluppate appositamente per la videoconferenza come Zoom e Cisco Webex,

di accesso si moltiplicano, su un ambiente IT già di per sé eterogeneo dall’adozione del cloud (o meglio, quasi sempre, dei cloud di più fornitori). Fondamentale per ogni strategia di telelavoro aziendale, a detta di F5, è l’adozione di una Vpn (Virtual Private Network) atta a garantire accesso sicuro alle applicazioni e ai dati. “La maggior parte dei nostri clienti enterprise è dotata di Vpn”, racconta Desiderio, “ma abbiamo iniziato ora nuovi progetti con clienti che non le avevano. Prima d’ora, in ogni caso, nessuna azienda aveva mai pensato di poter diventare totalmente virtuale. In passato le aziende hanno affrontato questioni relative ad applicazioni, infrastrutture e sicurezza con iniziative distinte: oggi è chiaro come tutte queste componenti siano fuse tra loro”. Sorge spontanea una domanda: da estemporaneo, il fenomeno è destinato ad avere impatti di lungo termine, forse irreversibili? Maurizio Desiderio ne è convinto: “Cambierà l’intero ecosistema, cambierà il modello di business delle aziende. Potranno esserci enormi opportunità per alcuni ed enormi rischi per altri”.V. B.

soluzioni e ambienti “open” come Zoho Meeting. Solo tra qualche mese potremo fare un bilancio della reale adozione di questi strumenti, intesa non semplicemente come risposta alla situazione di emergenza ma come cambiamento strutturale. Al momento è significativo che, almeno nelle dichiarazioni dei responsabili IT (questa volta in modo trasversale tra piccole, medie e grandi imprese), i budget siano stati allocati con tempi di reazione adeguati alla situazione. Emilio Mango 5


STORIA DI COPERTINA | Smart working

UNA RISPOSTA “SMART” ALL’EMERGENZA COVID-19 Uno studio di The Innovation Group fotografa l’impatto del lockdown sulle aziende italiane: tra rallentamenti e difficoltà, molte vedono nel lavoro flessibile a distanza una risorsa preziosa.

L’

emergenza coronavirus ha portato molte aziende a dotarsi di strumenti di smart working. Se da un lato questo ha inciso positivamente sulla produttività e la continuità del lavoro, dall’altro ha avuto inevitabili ripercussioni sull’assetto organizzativo aziendale. Va, inoltre, rilevato che il telelavoro non è una condizione applicabile a tutte le categorie di dipendenti e universalmente valida per tutti i settori di mercato. Secondo i risultati del sondaggio “Impatto dell’emergenza coronavirus e Smart Working” condotto da The Innovation Group tra il 25 e il 27 di marzo, a pochi giorni dalla pubblicazione del Dpcm del 22 marzo 2020, gli ambiti che hanno subito una forti riduzioni o totale arresto delle attività sono soprattutto le vendite (indicate dall’83% del campione, formato da 70 rappresentanti di aziende di diversi settori e di tutte le classi dimensionali), gli acquisti (69%), la logistica/magazzino (62%), la supply chain e la produzione (61%). Al contrario, registrano nel complesso un incremento delle attività le aree del marketing/comunicazione, delle risorse umane e del servizio clienti/Crm. 6

| APRILE 2020

Quali ambiti della sua azienda stanno recuperando operatività e flussi attraverso la migrazione ai canali digitali? Marketing e comunicazione Servizio al cliente / CRM Amministrazione / Finanza Vendite Risorse umane Ricerca e sviluppo Nessuno in particolare Acquisti Legal Produzione Supply Chain Logistica / Magazzino

0%

10%

Perlopiù invariata è rimasta, invece, l’attività negli ambiti amministrazione/finanza, legale e ricerca & sviluppo. Quello che è importante osservare – e che è stato dimostrato dai fatti – è come uno spostamento anche parziale dei processi aziendali sui canali digitali possa permettere decisivi recuperi di operatività. L’emergenza sta agendo quindi come catalizzatore di un processo di trasformazione che improvvisamente si ritrova a essere accelerato: la sopravvivenza nei difficili tempi della pandemia obbliga le aziende a scegliere il digitale con maggiore decisione e velocità. Dal sondaggio emerge che, nel caso italiano, le aree privilegiate in questa dinamica sono state, il marketing/comunicazione (per cui il 42% dei rispondenti indica una migrazione al digitale), il servizio clienti/Crm (42%) e

20%

30%

40%

50%

l’amministrazione/finanza (42%). Gli ambiti in cui, invece, questo passaggio è ancora oggi frenato da limiti che impediscono una sufficiente operatività da remoto sono logistica/magazzino (4%), supply chain (7%) e produzione (7%). Interessante notare quanto sta avvenendo nelle vendite: se da un lato le attività tradizionali sono tra le più colpite in termini di riduzione o arresto delle attività, dall’altro è questa l’area per cui gli intervistati prevedono un significativo recupero di operatività grazie alla migrazione sui canali digitali (indicato nel 33% dei casi) e a un forte aumento degli ordini online. Uno scenario frammentato

Con riferimento all’adozione dello smart working in azienda, quasi la totalità del


campione (97%) ha dichiarato che la propria azienda utilizza il lavoro agile. Ma questo dato sottende una forte polarizzazione. Nel 49% dei contesti si faceva ricorso allo smart working già prima della diffusione del virus: si tratta principalmente di società di grandi dimensioni (da mille dipendenti in su) operanti in ambito finance, industria o servizi. Per il restante 48%, composto principalmente da aziende di piccole dimensioni (meno di 99 dipendenti), il lavoro da remoto è stato adottato solo in seguito all’emergenza. La forte diffusione del lavoro agile, inoltre, ha comportato un aumento degli investimenti nei alcuni ambiti: personal computer (area indicata dal 67% del campione), software e strumenti di collaborazione (per garantire la continuità del lavoro, preservando la possibilità di interazione, 48%) e smartphone e tablet (47%). Esigui, invece, gli investimenti nei servizi di telecomunicazione su rete fissa o mobile (16%) e in stampanti e strumenti accessori come cuffie o microfoni (17%), trattandosi di servizi e dispositivi di cui probabilmente i dipendenti erano già in possesso in precedenza e che non hanno richiesto particolari spese.

Dopo l’emergenza, nella sua azienda sarà incrementato l’uso dello smart working rispetto ai livelli pre-crisi?

24% 6%

70%

No

Non so

Gli ostacoli da superare

Il 70% degli intervistati ritiene che, una volta terminata l’emergenza, la propria azienda aumenterà il ricorso allo smart working rispetto ai livelli pre-crisi: un segnale importante di quanto l’esperienza *Fonte dei grafici: TIG, risultati preliminari del sondaggio “Impatto dell’emergenza Coronavirus e Smart Working”, N=70

In quali dei seguenti ambiti avete investito o investirete per introdurre lo smart working in azienda? 70% 60% 50% 40% 30%

PC (laptop, notebook, desktop) Software e strumenti di collaboration Mobile (smartphone, tablet) Strumenti e servizi di sicurezza informatica Infrastruttura TLC (network appliance, VPN, ecc.) Servizi di consulenza / training

20%

Business software (gestionale, ecc.)

10%

Stampanti / Accessori (cuffie, microfoni)

0%

Servizi TLC (servizi di rete fissa)

si sia dimostrata positiva per ampie fasce della popolazione italiana. Nonostante il lavoro da remoto sia risultato vincente in molti contesti aziendali, permangono diversi ostacoli da affrontare per promuoverne una piena diffusione. In particolare, il sondaggio ha messo in evidenza alcune criticità: problematiche dei dipendenti dovute all’isolamento o al contesto non favorevole (59% delle risposte), maggiore complessità nel gestire le persone o pianificare le attività aziendali (57%) e difficoltà a comunicare da remoto tramite chat interne e piattaforme di videoconferenza (39%). Un problema, quest’ultimo, a cui come abbiamo detto le aziende rispondo aumentando gli investimenti nelle piattaforme di software e social collaboration. Analizzando ulteriormente le risposte, si osservano delle differenze riconducibili alle peculiarità del singolo settore: emerge così che nella Pubblica Amministrazione i principali ostacoli allo sviluppo dello smart working sono legati soprattutto al senso di isolamento dei dipendenti e a una cultura aziendale non favorevole, oltre che a barriere tecnologiche, alla necessità di formazione dei dipendenti e alla complessità burocratica. Nei settori industria e finance, invece, i problemi sono soprattutto correlati alla gestione dei dipendenti e delle comunicazioni da remoto, oltre che alla sicurezza dei dati. Allo stesso modo, nelle aziende di piccole dimensioni (meno di 99 dipendenti) lo smart working viene ostacolato da fattori quali le barriere tecnologiche/ formazione dei dipendenti, l’infrastruttura inadeguata e la sicurezza dei dati. Nelle grandi imprese, invece, le principali criticità sono rappresentate dalla resistenza dei dipendenti e dalla cultura aziendale non favorevole, nonché da una più difficile gestione del personale e pianificazione delle attività. Carmen Camarca, analista, ed Elena Vaciago, associate research manager di The Innovation Group 7


STORIA DI COPERTINA | Smart working

LE AZIENDE PROVANO A GUARDARE AL FUTURO 9% 10% 21%

38%

22% Non prioritario

In fase di studio

Già pianificato

In fase di attuazione

Già attuate

C

ovid-19 e aziende italiane: che cosa succederà nel futuro prossimo e nel lungo periodo? Abbiamo indagato l’argomento con un questionario, compilato tra il 9 marzo (data di entrata in vigore del primo decreto del Presidente del Consiglio) e il 20 marzo. Otre 250 aziende hanno risposto domande su tre temi: le azioni già intraprese; le conseguenze attese sull’economia, sul business e sulla gestione delle risorse umane; le aspettative sugli impatti dell’epidemia. Il questionario è stato indirizzato a manager in gran parte appartenenti alla funzione risorse umane, di imprese rappresentative del tessuto economico italiano per dimensioni e settori industriali. Tra le azioni intraprese emergono sicuramente quelle immediate, di

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| APRILE 2020

risposta alle esigenze del breve termine, come l’acquisto e la distribuzione di materiale protettivo e come l’allestimento di team di emergenza. Risultano, invece, non applicate misure di portata maggiore in termini temporali e prospettici, come quelle di tipo remunerativo, quali incentivi salariali specifici, sussidi o indennità per dipendenti contagiati. Tra le otto azioni prospettiche proposte dal questionario, solo una risulta essere intrapresa da una fetta significativa di aziende rispondenti, il 30%, ovvero accelerare la strutturazione di un sistema di comunicazione e supporto. Tutte le altre sono ancora bloccate. Le imprese italiane, quindi, a un mese dalla segnalazione dei primi contagi nazionali non avevano ancora messo mano ai principali processi di gestione delle risorse umane, a partire dall’adeguamento degli obiettivi di performance, delle strutture organizzative, dei meccanismi retributivi e della redistribuzione dei carichi di lavoro. L’attenzione è ancora focalizzata su elementi di breve o brevissimo termine, mentre l’elaborazione dei possibili impatti di lungo periodo non le ha ancora spinta e a mettere in atto azioni chiave per la gestione delle persone, risorse cruciali per il rilancio assieme a quelle finanziarie. Dal punto di vista dell’impatto atteso, il mondo imprenditoriale vede conseguenze dalla portata limitata al breve termine, entro i sei mesi, e focalizzate su aspetti operativi. Non vengono considerati, invece, i probabili

Paolo Saccavini

necessari cambiamenti di strategia ed eventuali fusioni o acquisizioni. L’analisi della portata prosegue evidenziando come l’impatto atteso tenda a concentrarsi su clienti, fornitori e personale, e solo in maniera limitata su tecnologia e fonti di finanziamento: l’attenzione, pare, è posta soprattutto sulle conseguenze nella gestione delle relazioni e non altrettanto sulla gestione degli asset. Una forte convergenza viene registrata, infine, nell’adozione di nuove forme di lavoro flessibile. C’è consapevolezza nel considerare decisive una serie di leve per l’applicazione efficace dello smart working: per esempio, la tecnologia per la comunicazione e collaborazione da remoto, la cultura aziendale e gli stili di leadership che il management saprà adottare attraverso l’utilizzo di piattaforme digitali. La velocità con cui le aziende riusciranno a interpretare la portata dell’impatto e la capacità di reazione faranno la differenza nell’attraversare le diverse fasi della crisi e nel riguadagnare quel vantaggio competitivo che l’impatto del covid-19 potrebbe aver ridotto in maniera significativa. Paolo Saccavini, managing principal di Korn Ferry


STILI DI LEADERSHIP IN EVOLUZIONE

L’

impatto del covid-19 sull’economia mondiale ha comportato un adeguamento di tutte le componenti strutturali e comportamentali dell’organizzazione. Tra le prime, il telelavoro adottato per garantire la salute dei dipendenti e il rispetto delle normative: nel giro di pochi giorni gli uffici delle aziende si sono svuotati e le attività sono state dirottate sullo smart working, a eccezione di quelle a diretto supporto dei processi produttivi ancora attivi. Anche per le imprese ancora a digiuno di esperienze di questo genere, i processi interattivi tra le diverse componenti aziendali hanno continuato a funzionare in maniera adeguata. Con pochi aggiustamenti, superando le difficoltà d’uso delle diverse piattaforme tecnologiche e alcune procedure interne, è stato possibile riorganizzarsi anche grazie alla disponibilità delle persone ad adeguarsi a una situazione di emergenza che accomuna tutti – clienti, fornitori, collaboratori – e quindi impone de facto un nuovo standard nelle interazioni.

Le relazioni si trasformano

In generale il cambiamento richiesto dal ricorso estensivo allo smart working trascende la semplice adattabilità agli aspetti tecnologici, impattando invece in profondità le dinamiche di interazione interne (colleghi, responsabili, riporti) ed esterne (clienti, fornitori) all’azienda. Le modalità di organizzazione e gestione degli incontri, la condivisione delle attività e della documentazione hanno mantenuto un livello di efficacia adeguato. E ciò è dovuto, forse, anche all’esigenza di una

maggiore programmazione e disciplina. Nella cosiddetta “fase due” della ripartenza ci sarà la necessità di strutturare e governare in maniera sostenibile e duratura lo smart working. Andranno ripensati molti dei processi di gestione del lavoro, partendo dalla revisione degli assetti organizzativi, dei macro-processi, dalle modalità di ingaggio e valutazione di persone e performance, da modelli di remunerazione e di incentivo. Una questione di “stile”

Gli stili di leadership in azienda dovranno adeguarsi al nuovo contesto. Lo stile di leadership partecipativo, quello delegante e quello affiliativo potrebbero trarne vantaggio, risultando più efficaci rispetto allo stile direttivo e pace-setting. Il lavoro da remoto richiede maggiore predisposizione alla delega e, parallelamente, maggiore apertura alla condivisione dei contributi e delle opinioni altrui. E lo smart working aumenta altresì la frequenza delle riunioni virtuali, stimolando il ricorso a stili partecipativi e anche affiliativi, fornendo più occasioni per sentirsi parte di un gruppo, di un progetto, di una cultura. Lo stile direttivo invece potrebbe perdere di efficacia perché viene intermediato dalla tecnologia in più momenti: a monte, quando vengono inviate delle indicazioni in formato elettronico (che finiscono per spersonalizzare lo stile del mittente) e a valle, quando la distanza impedisce il grip diretto capo-collaboratore (fatto che influenza molto l’efficacia dello stile direttivo, specie di fronte a profili di bassa seniority). Analogamente lo stile pace-setting, che trova il proprio naturale campo d’azione “in presenza”,

Paolo Massardi

viene intermediato dalla tecnologia nel tempo e nello spazio. Una parte dell’effetto dall’iniziativa del superiore (che nel faccia a faccia è agevolato a proporre in maniera tempestiva le azioni da intraprendere anche sulla base dei comportamenti osservati) viene scaricata sull’iniziativa del ricevente, il quale deve a propria volta attivarsi per richiedere l’intervento del suo superiore di fronte a dubbi o difficoltà. Un elemento rimane comunque sempre valido, tanto che si operi in presenza oppure da remoto, ed è la consapevolezza con cui il superiore, il collaboratore o il collega vivono la situazione e colgono l’effetto che il proprio comportamento sta avendo su quello degli altri. Riconoscere come il lavoro da remoto modifichi anche profondamente le modalità di ricezione e trasmissione dei nostri impulsi comportamentali può fare davvero la differenza: riuscire a coglierne e interpretarne le potenzialità e le limitazioni è diventata una delle sfide più urgenti per i manager nel mondo post-coronavirus. Paolo Saccavini, managing principal, e Paolo Massardi, senior client partner di Korn Ferry

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IN EVIDENZA

l’analisi

Roberto Masiero

IL MERCATO DIGITALE NEL GOLFO DELL’INCERTEZZA Il coronavirus non solo sta avendo un impatto drammatico a livello sanitario, umano e sociale, ma sta anche determinando la più grave crisi economica globale dell’ultimo secolo. Alcuni autorevoli analisti prevedono che il Pil italiano nel 2020 possa subire una riduzione fino al 9%, mentre Confcommercio ipotizza uno scenario in cui 50mila piccole imprese potrebbero essere costrette a chiudere, con una perdita di 300mila posti di lavoro. Eppure queste tetre considerazioni non devono riflettersi automaticamente sulle prospettive del mercato digitale. Anzi, sembra di assistere al capovolgimento del paradosso di Solow, che negli anni Ottanta affermava: “Si vedono computer ovunque, tranne che nelle statistiche sulla produttività”. Esaminiamo l’evoluzione delle dinamiche del Pil e del mercato digitale nel nostro Paese negli ultimi quindici anni, dal 2004 al 2019. Identifichiamo due momenti di maggiore discontinuità: la grande crisi del 2008, in conseguenza della quale il Pil subì una flessione del 5,5% a fronte di una contrazione pari al 2,9 del mercato digitale; e l’inversione del 2015, il primo anno in cui il la spesa in digitale tornò a registrare tassi di crescita superiori a quelli del Pil. Pare dunque che il mercato digitale tenda ad avere un andamento sostanzialmente pro-ciclico rispetto al Pil. La spiegazione potrebbe essere che, in anni in cui consumi e investimenti si contraevano, le aziende tendessero a tagliare gli investimenti in innovazione, che invece

venivano rilanciati soprattutto dalle imprese più lungimiranti negli anni più floridi. Il che dovrebbe farci prevedere, nel caso si avverasse la previsione di un calo del Pil intorno al 9%, una contrazione simile in proporzione a quella avvenuta nel 2009, stimabile quindi intorno al 6%. Ma alcuni indicatori fanno ritenere che per la prima volta potremmo assistere a una decisa inversione di tendenza e a una sostanziale tenuta del mercato digitale, nonostante l’atteso crollo del Pil. Una nostra ricerca sul campo, effettuata nelle scorse settimane interpellando Cio e Cxo di 99 imprese italiane, ha fatto emergere risultati sorprendenti: in piena crisi coronavirus, con il Paese in stato di lockdown, a fronte di un 29% di intervistati che si attendevano una riduzione del budget IT complessivo rispetto a quello precedentemente concordato, il 34 % si aspettava invece un aumento parziale o addirittura “considerevole” del budget stesso. Riteniamo non si tratti di un semplice wishful thinking, ma di un vero e proprio cambiamento della natura del ruolo degli investimenti in digitale, che di fronte alla gravità della crisi vengono ad assumere una natura anticiclica. A sostegno di ciò stanno alcune considerazioni da noi rilevate nel corso di conversazioni con vari opinion leader ed executive del settore: pochissime tra le grandi imprese hanno interrotto le attività, alcune hanno addirittura raddoppiato i budget IT per uscire dalla

crisi con un maggiore vantaggio competitivo; l’esigenza di passare allo smart working e di sviluppare rapidamente soluzioni quick & dirty di e-commerce ha imposto a molte medie aziende scelte e investimenti che venivano posticipati da anni; il fiorire di creatività nella didattica, guidato da migliaia di insegnanti che dal basso tentano di supplire all’inadeguatezza degli strumenti a loro disposizione, impone un salto di qualità negli investimenti della Pubblica Amministrazione in aree chiave come la scuola e la sanità. In poche parole: per la trasformazione del Paese ha fatto di più il coronavirus in un mese che tre anni di chiacchiere sulla trasformazione digitale. Anche per questo, sulla base delle informazioni raccolte, riteniamo ragionevole la stima per cui, proprio per la natura anticiclica che essa viene oggi ad assumere, la spesa in digitale nel corso del 2020 possa addirittura registrare un moderato incremento, nell’ordine dell’1%. Questo è naturalmente il caso migliore; il worst case scenario, che tiene conto di numerosi fattori inibitori, vede invece una flessione del 3%. È quello che definiamo il “golfo dell’incertezza”. Roberto Masiero, presidente di The Innovation Group

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IN EVIDENZA

FLASH E CLOUD, LE TENDENZE FORTI DELL’ARCHIVIAZIONE Il mercato dello storage è in bilico fra innovazioni e dinamiche di prezzo, come testimoniato da Pure Storage. Il mercato dello storage presenta, in questa fase storica, tratti controversi. Numerosi fattori di scenario lasciano intravedere prospettive di crescita del giro d’affari per i vendor, dall’incremento della richiesta di soluzioni cloud all’affermazione dello storage a oggetti (adatto per i dati non strutturati), dall’abbassamento dei costi della tecnologia flash fino al consolidamento di strumenti come i container e l’intelligenza artificiale. In direzione opposta, tuttavia, spingono altri fenomeni: innanzitutto il ribasso sui prezzi, cui si aggiungono elementi destabilizzanti come gli effetti macroeconomici negativi prodotti dalla diffusione del coronavirus. In questa dicotomia si rispecchia Pure Storage: l’ultimo esercizio si è chiuso con una crescita del 23% nel volume d’affari, che ha raggiunto gli 1,32 miliardi di dollari, ma anche con utili in perdita per 201 milioni di dollari. Da un lato continua ad aumentare il nu-

mero di clienti nel mondo (al ritmo di cinquemila in più in un trimestre), ma dall’altro la pressione sui prezzi si fa sentire. “Siamo ben lontani da un mercato in crisi”, commenta Alfredo Nulli, Emea cloud architect di Pure Storage. “Ogni anno aumenta la richiesta di capacità, mentre a calare è il valore del gigabyte. Noi abbiamo il vantaggio di offrire una soluzione di piattaforma e non solo dispositivi per memorizzare i dati. Quando dieci anni fa siamo partiti puntando tutto sulla tecnologia flash, abbiamo lanciato una sfida basata su una visione di lungo termine. Siamo stati i primi e oggi ne raccogliamo i frutti. La riduzione dei costi è destinata a stabilizzarsi nel 2020 e beneficeremo della progressiva sostituzione di storage tradizionale anche per la memorizzazione di dati meno pregiati”. Quest’ultimo fenomeno fa leva sull’arrivo di nuove tecnologie di memoria allo stato solido, come Storage Class Memory e Qlc (celle di memoria composte da più livelli), che si adattano alle applicazioni più sensibili alla latenza ma allo stesso tempo estendono il potenziale del flash anche a quanto finora conservato su disco magnetico. L’abbinamento con il protocollo Nvme (l’interfaccia degli Ssd più veloci), ormai esteso al comples-

Alfredo Nulli

so dell’offerta FlashArray, permette di superare i colli di bottiglia dell’interfaccia tradizionale Scsi, portando non solo ai dischi flash locali ma anche a quelli esterni dei benefici in termini di maggiori Iops (operazioni di input / output al secondo) e bassa latenza. L’andamento di Pure Storage in Italia riflette quello globale e conferma la generale diffusione del flash. “Il mondo del finance”, racconta Nulli, “sta innovando in modo sorprendente per estrarre valore dai dati, mentre la Pubblica Amministrazione ha intrapreso con decisione strategie cloud-first, che non mettano però in discussione gli investimenti già fatti. Anche il manifatturiero sta utilizzando il flash per ottimizzare i processi industriali in un’ottica di automazione. Questo scenario ci fa ritenere di poter radicare ulteriormente la nostra presenza, soprattutto a discapito dei concorrenti diretti”. R.B.

IL RANSOMWARE TORMENTA GLI ITALIANI L’Italia è al secondo posto, dopo la Germania e prima della Francia, nella classifica dei Paesi europei più colpiti dal ransomware, mentre a livello mondiale è settima. Così emerge dai

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APRILE 2020

monitoraggi di Trend Micro relativi all’intero 2019, periodo in cui nel mondo gli episodi rilevati sono aumentati del 10% rispetto all’anno precedente, per un totale di 61 milioni

di attacchi ransomware. Il settore più colpito è quello della sanità, nel quale oltre 700 organizzazioni hanno subìto almeno un attacco nel corso dei dodici mesi.


IL 5G DI HUAWEI È GIÀ PRONTO A RIPARTIRE Subito prima dello scoppio della pandemia, la multinazionale aveva presentato nuovi apparati e illustrato l'attuale stato di adozione delle reti di quinta generazione. Mentre in Italia scattavano i primi allarmi sul coronavirus, a Londra il 20 febbraio Huawei, nonostante l’annullamento del Mobile World Congress di Barcellona, mostrava le ultime novità delle soluzioni 5G che avrebbe dovuto presentare in fiera. “Nel 2020 oltre 170 operatori lanceranno il 5G nel mondo”, ha detto Ryan Ding, executive director del board e presidente del Carrier Business Group, aprendo la conferenza. “E già oggi molte telco stanno sperimentando la monetizzazione dei servizi basati sulle capacità del nuovo standard in termini di traffico, latenza e numero di connessioni contemporanee, in particolare nei segmenti dei servizi video B2C, intrattenimento, sport e gaming, per esempio”. La strategia di Huawei per vincere le ultime resistenze all’adozione del 5G (a cui si sono aggiunte recentemente le improbabili teorie fasulle sul ruolo che il nuovo standard avrebbe avuto nella diffusione del

Ryan Ding

virus pandemico), si articola su due filoni: la produzione di componenti sempre più innovativi e la divulgazione di modelli economici atti a dimostrare il rapido ritorno dell’investimento. Un esempio è la nuova base station, dal peso di soli 25 chilogrammi invece dei 40 degli apparati precedenti, oppure il primo chip industriale 5G al mondo. L’efficienza operativa nella realizzazione dei nuovi impianti è decisamente più elevata rispetto al passato: l’azienda stima riduzioni fino al 45% (rispetto alla precedente generazione di stazioni base) su costi operativi di installazione, spazi fisici necessari al posizionamento delle antenne e consumi energetici. “A oggi Huawei ha firmato 91 contratti commerciali per il 5G, di cui 47 in Europa, e consegnato oltre 600.000 unità di antenne Massive

Mimo 5G (AAU, Active Antenna Units)”, ha specificato Ding. “La compattezza delle nuove base station e antenne”, gli ha fatto eco Peng Song, presidente marketing and solution della divisione Carrier, “dovrebbe favorire lo sviluppo della rete soprattutto in Europa, dove il 90% delle stazioni di trasmissione ha un solo palo”. Nonostante l’effettiva adesione di interi Paesi (per esempio la Corea del Sud) al programma di sviluppo del nuovo standard, in Europa il 5G viene implementato ancora a macchia di leopardo, al netto dello stop imposto dalla pandemia, in gran parte per i noti problemi di frammentazione dello spettro di frequenze adottato nei diversi territori. “Abbiamo individuato in questa fase oltre dieci mercati verticali che possono già da subito beneficiare delle potenzialità del 5G e oltre 125 casi applicativi”, ha detto Alex Sinclair, Cto di Gsma (l’associazione di riferimento per lo standard Gsm, formata da oltre 750 operatori telco). Grazie al 5G, i progetti basati su Internet of Things genereranno oltre 700 miliardi di dollari di fatturato entro il 2030. Per il 21% arriveranno dalla sanità e per il 19% dal manifatturiero”. Ed è probabile che per gli investimenti della sanità si verifichi un’accelerazione proprio alla luce del coronavirus e dell’importanza ancor maggiore assunta da questo settore. E.M.

IL CLOUD NON SARÀ MONOLITICO La tendenza a creare un “mosaico” di servizi di fornitori diversi aumenterà in futuro: lo svela un’indagine commissionata da Equinix a Dynata, per la quale sono stati intervistati circa 2.500 responsabili IT di 123 Paesi. In Italia il 79% delle aziende ha in programma di

spostare nel cloud un maggior numero di attività e processi, in particolare database e strumenti di produttività. Per quasi un responsabile IT su due, il 45%, la strategia tecnologica da seguire prevede il “multicloud”, cioè la scelta e l’integrazione dei servizi di più fornitori.

Tuttavia attualmente solo il 20% delle imprese ha già adottato tale approccio. “C’è ancora un divario significativo tra le ambizioni delle aziende e l’implementazione dell’adozione del cloud”, ha commentato Emmanuel Becker, managing director di Equinix Italia.

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IN EVIDENZA

SERVIZI GESTITI, IL VERO VALORE DEL CANALE Achab, distributore milanese, sta traghettando i propri partner verso il modello del managed service provider. Così potranno spiccare sulla concorrenza. Il tempo del “box moving” per il canale sta ormai tramontando. Sopravvivere e produrre margini oggi come oggi significa saper proporre un servizio percepito come tale da un cliente finale a sua volta preparato all’idea di non essere più il proprietario di apparati e licenze. La conversione verso una logica da managed service provider (Msp) è la missione che il distributore milanese Achab ha intrapreso negli ultimi anni, riqualificando in tal senso la propria rete di partner e individuando nuovi soggetti pronti a far evolvere il loro modello di business, in particolar modo sul mercato della sicurezza. “Negli ultimi due anni l’acronimo Msp è diventato molto più conosciuto fra gli operatori di canale”, racconta Andrea Veca, fondatore e Ceo di Achab. “Noi vogliamo mettere i nostri partner nelle condizioni di rivestire un ruolo da consulenti di fiducia, con soluzioni che risolvano i

Andrea Veca

problemi reali e generino opportunità legate alla fornitura di servizi correlati”. In questa direzione vanno le più recenti evoluzioni del portfolio d’offerta proposto dal Vad milanese. L’ultima aggiunta è Altaro, società specializzata in soluzioni di backup e replica, un tassello fino a oggi mancante nella proposizione di Achab. Il prodotto di punta si chiama Vm Backup e ha la prerogativa di racchiudere in un unico software il salvataggio di macchine virtuali sia in ambiente Vmware sia Hyper-V. Piuttosto recenti sono altri due accordi di distribuzione siglati da Achab. Uno riguarda Vade Secure, titolare di una soluzione antispam che filtra e “pulisce” le email monitorando in tempo

reale i link e gli allegati dei messaggi e che blocca anche le minacce provenienti dall’interno. “Potrebbe sembrare anacronistico parlare di antispam oggi, ma basti pensare che oltre il 90% degli attacchi informatici viene perpetrato via email per capire quanto sia ancora attuale”, sottolinea Veca. Il secondo accordo riguarda Dark Web ID, azienda che ha sviluppato una piattaforma per il monitoraggio sul dark Web di credenziali compromesse e messe in vendita. La crescita del comparto Msp del canale appare dunque fondamentale per lo sviluppo del business di Achab. Lo spazio da colmare resta ampio, se pensiamo che due anni fa il peso dei servizi gestiti sul totale di mercato dei service provider era all’incirca del 10%, mentre oggi siamo arrivati al 20%. “Si sta cominciando a capire quale importanza ci sia dietro il concetto di automazione”, sottolinea Veca. “Purtroppo, però, l’80% dei fornitori si ostina ad avere un approccio reattivo, usando risorse costose e foriere di potenziali errori per attività poco strategiche. La logica del business di un partner deve cambiare, passando da una misurazione in ore a una basata sul canone”. Roberto Bonino

L’EDGE-TO-CLOUD SECONDO LENOVO La divisione Data Center Group di Lenovo ha da poco presentato due nuove famiglie di apparati che faciliteranno l’adozione di architetture “edge-to-cloud”: il server Think Agile Mx1021 e la soluzione di storage Think System Dm7100. “Si tratta di due novità che permettono di raccordare alcuni dei trend più significativi di oggi: edge computing, IoT e 5G”,

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ha dichiarato Alessandro De Bartolo, a capo della divisione Dcg di Lenovo in Italia. Gli elementi qualificanti della nuova offerta sono il cloud e l’iperconvergenza, in particolare quella targata Microsoft. “Gli ambiti che possono beneficiare di più di queste nuove soluzioni”, ha proseguito De Bartolo, “sono, tra gli altri, il retail, il manufacturing e l’healthcare”.

Il server Think Agile Mx1021 è un mattone fondamentale per l’edge e nello stesso tempo ha caratteristiche di alta resistenza anche in ambienti “ostili”. L’appliance Dm7100, invece, si distingue per la capacità di gestire in autonomia dove memorizzare i dati: sull’appliance stessa (anche in configurazione all-flash), onpremise o in cloud (in particolare Azure).


L’ITALIA GUIDA LA CRESCITA DI SALESFORCE Per la società da 17 miliardi di dollari di fatturato, sinonimo di Crm, lo Stivale è un mercato forte e in ascesa. Per ogni azienda, la crescita si misura sul volume d’affari e sulla quantità dei clienti acquisiti. Il 2019 di Salesforce ha mantenuto fede alle attese con un balzo in avanti del fatturato dai 13,2 miliardi di dollari del 2018 ai 17,1 miliardi dell’anno seguente. Il 2020, inevitabilmente, presenta maggiori punti interrogativi per l’effetto dell’epidemia di coronavirus, ma lo specialista del Crm può contare su qualche certezza legata, da un lato, alle acquisizioni che ne hanno ampliato il raggio d’azione e, dall’altro, a un modello basato sulle sottoscrizioni. Un modello indubbiamente più stabile rispetto quelli basati su isolate grandi commesse o su vendite “spot”. La filiale italiana farà leva su questi elementi per sperare di avvicinarsi il più possibile al risultato dello scorso anno, che l’ha portata ad avere il tasso di crescita più elevato tra tutti i mercati in cui l’azienda è presente. “Operiamo in un comparto che mostra maggior dinamismo rispetto ad altri”, fa notare Federico Della Casa, country leader

di Salesforce Italia, “soprattutto perché si sta passando dal concetto di una pura vendita di prodotti e servizi a quello di una relazione il più possibile personalizzata con la clientela. I nostri sviluppi e le acquisizioni più recenti vanno verso una visione olistica e completa del ciclo di vendita, a partire da ciò che avviene in fase di ingaggio, per arrivare a una durata nel tempo garantita dai servizi di supporto classici e digitali”. Questa strategia si traduce nella proposizione di uno strumento come Customer 360 (basato n gran parte sulla tecnologia dell’acquisita MuleSoft), che consente di centralizzare i dati e di interagire fra le varie applicazioni e cloud di Salesforce. All’acquisizione di Mulesoft si sono aggiunte in tempi più recenti quelle di Tableau, che ha consentito di aggiungere la componente analitica , e quella di Vlocity, un partner storico, che porta in dote varie applicazioni sviluppate per mercati verticali (comunicazioni, media, sanità, entertainment, energia, assicurazioni e servizi pubblici).

Federico Della Casa

Su tali basi tecnologiche Salesforce farà leva per rafforzarsi in Italia anche in un difficile 2020. Le performance d’eccellenza rispetto ad altri Paesi si fondano anche sulla presenza del più alto numero di utenti certificati (+51% anno su anno) e su una clientela che ha superato le 1.400 aziende. “Storicamente”, sottolinea Della Casa, “ci siamo radicati nel manufacturing e poi nelle utilities, settore in cui abbiamo rapporti con nove delle prime dieci realtà in Italia. Negli ultimi anni ci siamo rafforzati nel fashion e nel retail, mentre ora, dopo aver avuto successi rilevanti nel finance, ci aspettiamo l’onda della Pubblica Amministrazione”. R.B.

IL PARADOSSO DEI PERSONAL COMPUTER Nonostante l’ascesa dello smart working conseguente alla pandemia di coronavirus, per i Pc sarà un anno difficile. Nuovi dati di Idc e di Canalys fotografano una situazione contraddittoria, in cui da un lato le consegne di nuovi computer desktop, workstation e notebook diminuiscono per colpa delle interruzioni di supply

chain, e dall’altro la domanda aumenta. Secondo le stime preliminari di Idc, nel primo trimestre del 2020 le consegne di Pc tradizionali (da scrivania, workstation o portatili) sono calate del 9,8% anno su anno, toccando quota 53,2 milioni di unità. Un declino marcato che è “il risultato delle riduzioni di forniture dovute all’emergere

del covid-19 in Cina”, primo Paese al mondo esportatore di Pc o di componenti per Pc. Simili i dati di Canalys: i 53,7 milioni di sistemi desktop, workstation e notebook distribuiti nel primo trimestre 2020 segnano un calo dell’8% rispetto all’analogo periodo del 2019. Ovvero il peggior declino a volume degli ultimi quattro anni.

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IN EVIDENZA

LA “MCDONALD’S” DELLA UNIFIED COMMUNICATION Il mercato delle soluzioni di Unified Communication è affollato e competitivo. Da qualche tempo si stanno facendo spazio i fornitori UCaaS (Unified Communication as-a-Service), che propongono un’offerta basata su cloud puntando su strategie di marketing e di prezzo agguerrite. Trattandosi di un comparto tradizionalmente presidiato dal canale, ci può essere per qualche operatore la tentazione di associarsi a questi nuovi player, magari a discapito delle relazioni con vendor dalla storia più consolidata. Dai pericoli di questa tentazione Wildix ha messo in guardia i propri partner, radunati a Barcellona (e in parallelo a Dallas) per l’annuale Ucc Summit. “Lavorare con questa categoria di ‘fornitori vampiri’ significa farsi sottrarre rapidamente la propria base di clienti”, ha ammonito il Ceo, Stefano Osler. “Società come RingCentral, Fuze o Vonage fanno leva sulla propria immagine e su un brand reclamizzato su scala globale per attrarre clienti che tendono a fidarsi poco di un operatore locale. Le loro proposte cloud-based vanno progressivamente a eludere l’operato dal partner. Pur pesando non più del 25% del mercato, godono di una copertura mondiale e richiamano l’attenzione con prezzi aggressivi”. Per difendersi da questa concorrenza,

Stefano Osler

Wildix invita il canale a focalizzarsi sempre di più sulla competenza da mettere al servizio del cliente. “Dal punto di vista tecnologico è sempre più difficile differenziarsi”, ha proseguito Osler. “Non bisogna più pensare di vendere Pbx, bensì di aiutare le aziende a raggiungere i loro obiettivi di business”. In sostanza, l’invito al canale è quello di dimenticarsi del proprio piccolo spazio e territorio di riferimento, per presentarsi sotto il comune cappello di Wildix, un’organizzazione globale radicata e capace di offrire valore. Si tratta del primo passo di un progetto che dovrebbe sfociare in una vera e propria strategia di franchising, sulla falsariga del modello di McDonald’s, che è proprietaria di meno di tremila de-

gli oltre 37mila punti vendita recanti la propria insegna. Wildix, azienda che ha base a Tallinn ma ha l’anima italiana dei fondatori Stefano e Dimitri Osler, mette a disposizione dei partner non solo le soluzioni e gli strumenti utili per mantenere il corretto presidio del mercato, ma anche un programma fatto di corsi di formazione sulla metodologia Kanban e sul framework ValueSelling con Unicomm, con cui poter acquisire competenze sulla vendita a valore. La speranza dei fratelli Osler è naturalmente quella di rafforzare un tasso di crescita che nel 2019 è stato già notevole, +32% rispetto all’anno precedente. In questa visione del mercato i prodotti restano i “mattoni” con cui costruire un’ideale “casa” comune. Fra le novità più recenti introdotte da Wildix c’è Wizyconf, soluzione di Web conference con monitor touchscreen, funzionante su Chrome Os e basata sulla tecnologia WebRtc. All’applicazione per Android e iOS di Collaboration App, invece, è stata aggiunta una funzione di chat di gruppo. Il sistema di Ucc Kite, che finora ha permesso di effettuare videochiamate, condividere schermate e inviare documenti e chat, è stato migliorato con un funzionalità di notifica via Sms dei tentativi di contatto. R. B.

GIOIE E DOLORI DELL’E-COMMERCE Le forzate chiusure dei negozi seguite al coronavirus hanno fatto impennare gli ordini dell’e-commerce, ma non per tutte le categorie di beni e servizi. Quest’anno, secondo le stime di Juniper Research, nel mondo il commercio digitale vedrà calare il proprio giro d’affari del 14% rispetto al valore del 2019, scendendo da

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11.200 miliardi a 9.700 miliardi di dollari. A soffrire di più sarà l’e-ticketing, ovvero la vendita di titoli di viaggio e di ingresso ad attrazioni, spettacoli ed eventi: per questo segmento si prevede addirittura un crollo del 59%. “I vendor del commercio digitale”, ha commentato Nick Maynard, analista di Juniper Re-

search, “nel 2020 affronteranno stravolgimenti, ma lo spostamento della spesa dall’offline ai canali online rappresenta un’opportunità cruciale per il mercato. I vendor devono agire per far fruttare l’aumentata digitalizzazione dei servizi durante la pandemia, così da alimentare la futura crescita”.


TECHNOPOLIS PER WOLTERS KLUWER TAX & ACCOUNTING ITALIA

CHE COSA SERVE DAVVERO ALLE STARTUP? Il commercialista Francesco Salvetta ha strutturato il suo studio a supporto del tessuto industriale e delle startup della provincia di Trento, facendo leva sulle automazioni digitali. Lo Studio Salvetta di Trento da sempre guarda alla tecnologia per emergere e differenziarsi. Il suo fondatore, Francesco Salvetta, ha strutturato lo studio a supporto del tessuto industriale locale sulla base della propria mentalità poliedrica e, soprattutto, aperta alla tecnologia e ai suoi vantaggi. Le startup possono ricevere consulenza grazie alle soluzioni digitali di Wolters Kluwer Tax & Accounting Italia, azienda partner dello Studio Salvetta, che lo ha dotato di applicativi moderni ed efficienti per automatizzare al massimo tutte le operazioni contabili, dichiarative e di bilancio, consentendo così l’offerta di servizi innovativi. L’automazione, la trasformazione digitale, la Business Intelligence e la dematerializzazione targate Wolters Kluwer Tax & Accounting Italia hanno consentito a Francesco Salvetta di distinguersi per offerta consulenziale innovativa e a alto valore aggiunto. “La collaborazione con enti pubblici e aziende provinciali orientano la nostra necessità di dotazioni digitali”, racconta Salvetta. E spiega quello che davvero serve a una startup per avviare con successo le proprie attività: “Dobbiamo essere super precisi, efficacissimi e anche veloci nelle risposte. Per esempio lavoriamo per introdurre startup nei Bic (Business Innovation Center) della società provinciale Trentino Sviluppo. La società ha creato degli spazi incubatori per startup, dove le neoaziende hanno la possibilità di sviluppare i loro business model e le loro idee, sgravate dalle incombenze e necessità aziendali. All’interno di un contratto le startup ricevono spazi e servizi, tra i quali quello amministrativo e contabile, che assume ogni giorno un’importanza crescente, perché non c’è impresa innovativa o startup che non abbia bisogno di una consulenza amministrativa e di finanza e controllo di gestione. Fare impresa oggi significa ‘far di conto’ e Trentino Sviluppo offre questa fondamentale pratica anche attraverso la nostra capacità di commercialisti e esperti contabili”. Gli incubatori d’impresa nella provincia di Trento sono attualmente sette: Trento, Pergine Valsugana, Mezzolombardo, Borgo Valsugana, Pieve di Bono e due a Rovereto, dove opera un Polo della Meccatronica e si sta sviluppando un Progetto Manifattura. È la trasformazione digitale dello Studio Salvetta a consentire l’operatività anche in mobilità e Wolters Kluwer Tax & Accounting Italia è il suo importante partner tecnologico. “Tutto quello che è necessario per la cura del cliente ce lo fornisce Wolters Kluwer Italia”, assicura il fondatore, “dagli applicativi per la contabilità di base all’archiviazione telematica, dal portale collaborativo alla piattaforma digitale per la gestione efficace di contabi-

Francesco Salvetta lità, dichiarazioni e bilancio, fino alla fatturazione elettronica e alla dematerializzazione documentale e conservativa dei registri fiscali e del libro giornale, oltre che dei dichiarativi. Tutto è applicato per la soddisfazione del cliente in termini di efficienza sugli adempimenti e tutto è utilizzato per l’analisi e la consulenza manageriale”. A fronte di tutte queste soluzioni digitali, il contatto diretto con il cliente è ancora importante, e come? “Limitiamo il coinvolgimento della clientela al minimo”, spiega Salvetta, “ma sfruttiamo quei momenti, ad esempio la raccolta della firma sui dichiarativi, per rendere consapevole il cliente del lavoro dello studio. Proprio l’automazione e la trasformazione digitale rendono lo studio così efficiente da non far percepire al cliente il lavoro che invece c’è dietro, e che resterà anche in futuro. Diversa è la condizione del commercialista come consulente. Qui il rapporto è diretto tra commercialista e imprenditore, e la nostra prerogativa è quella di affiancare il cliente e creare un clima collaborativo per sviluppare una capacità di analisi possibilmente neutra e non emotivamente coinvolta. Il Cfo – ed è quello il mio ruolo per tante Pmi e startup locali che un Cfo non se lo possono permettere al loro interno – dev’essere un analista, un visionario, un creativo, deve avere ampiezza mentale. Per questo ha bisogno di conoscere i dati dell’azienda e di saperli analizzare e interpretare. Cosa che ci riesce benissimo, grazie ai software di casa Wolters Kluwer Italia”.

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SMART MOBILITY

LE AUTOMOBILI FRENANO PER COLPA DEL COVID-19

Il settore dei viaggi e del turismo e quello dell’automotive risentiranno entrambi in modo pesante degli effetti della pandemia.

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L’

epidemia del covid-19 si è allargata velocemente, dalla Cina a tutto in tutto il mondo occidentale: a marzo i Paesi europei e poi a seguire gli Stati Uniti hanno annunciato misure drastiche per rallentare la crescita delle infezioni. Il settore della mobilità è oggi uno tra i più colpiti dal virus. Le prime restrizioni ai viaggi si sono viste in gennaio in Cina, con la chiusura temporanea di aeroporti e stazioni, oltre che con divieti ferrei di movimento tra le diverse regioni, fino all’obbligo per ogni persona di chiudersi

in casa e lavorare da remoto. La stessa procedura è stata quindi seguita prima dall’Italia (con la chiusura il 23 febbraio del primo focolaio, la “zona rossa” del lodigiano) e poi dalle altre nazioni colpite dall’epidemia. A metà marzo, a fronte di un contagio globale che riguardava oramai quasi 200.000 persone, avevano chiuso le frontiere a qualsiasi trasporto passeggeri (consentendo però il trasporto merci) Albania, Danimarca, Portogallo, Polonia, Slovenia, Russia (solo verso la Cina), come ha riportato l’aggiornamento di Unioncamere su “Coronavirus:


Cina post-coronavirus: la riduzione dei consumi Beni di lusso Viaggi Abbigliamento Consumo di cibo Acquisti di automobili Acquisti di proprietà Gestione finanziaria e investimenti Formazione professionale/personale Educazione scolastica

0%

10%

20%

30%

40%

50%

60%

FONTE: Data 100 Insight, febbraio 2020; base: 5.859 consumatori cinesi (18-50 anni)

impatto sul trasporto di merci e passeggeri”. Grecia, Romania, Serbia, Ungheria e Repubblica Ceca avevano optato per restrizioni verso i Paesi con situazione più grave. Misure come controlli sanitari alle frontiere sono stati disposte da Austria, Bielorussia, Germania. Quarantena di 14 giorni per gli ingressi decisa invece da Malta, Norvegia e Croazia, mentre la Svizzera ha scelto di consentire solo quelli giustificati da motivi lavorativi. Purtroppo siamo ancora lontani dalla fine dell’emergenza, come dimostra il fatto che il trend cumulativo dei contagia-

ti totali nel mondo registri a fine marzo una crescita esponenziale, secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Gli impatti sui trasporti, i viaggi, il turismo, saranno elevati per tutto l’anno. In Italia, dove il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 22 marzo 2020 ha imposto di muoversi solo per “comprovate esigenze lavorative, esigenze di assoluta urgenza e motivi di salute”, si è assistito a una progressiva e forte riduzione del traffico sulle strade, che a metà marzo risultava diminuito di un 60% rispetto allo stesso periodo del 2019. Il

settore dei viaggi è chiaramente tra quelli più impattati dalla crisi sanitaria, come mostra anche un’indagine effettuata da una società di ricerca di Beijing, Data100 Insight, tra il 16 e il 20 febbraio: dopo i beni di lusso, i viaggi sono il secondo ambito in cui i cinesi dichiarano di voler risparmiare maggiormente, seguiti da vestiti, alimentari e acquisti di automobili. Il crollo della produzione di auto

Per una serie di motivi, anche il settore dell’automotive dovrà far fronte a enormi danni economici dall’epidemia 19


SMART MOBILITY

di covid-19. Innanzitutto, la Cina è il più grande mercato automobilistico al mondo, sia dal punto di vista della produzione di veicoli e di componenti sia della fornitura alla supply chain dei principali costruttori, nonché dal punto di vista dei consumi. A Wuhan, focolaio originario dell’epidemia, risiede il 10% della produzione automobilistica cinese (oltre 2 milioni di veicoli all’anno), con impianti che fanno capo a GM, Honda, Nissan, Peugeot Group e Renault e alle cinesi Changan e Dongfeng. Durante la crisi molti hanno arrestato la produzione (come ha fatto ad esempio Tesla a Shanghai, posticipando la data di produzione del suo Modello 3) e a questo si è aggiunto il crollo dei consumi sul mercato interno, tanto che le vendite di auto in Cina erano diminuite del 92% nella prima metà di febbraio, secondo i dati della China Passenger Car Association. Con l’evolvere dell’epidemia, come riporta Ihs Markit, ogni car maker europeo ha annunciato da metà marzo l’arresto della produzione di auto per una durata media di 13 giorni. Si avrà quindi una riduzione drastica di tutti i veicoli costruiti nei principali mercati europei (Germania, Francia, Spagna), come minimo per 880mila unità in questo periodo, e non è ancora chiaro se passati questi giorni la produzione riprenderà in pieno. A partire dal 18 marzo anche nel Nord America i costruttori hanno annunciato piani simili di shutdown, anche se per una durata inferiore (in media sei giorni). Quali effetti nel lungo termine?

Conviene chiedersi fin da ora quali saranno i cambiamenti sull’economia e sulle abitudini di consumo delle persone in ambito mobilità una volta usciti dallo stato di pandemia. Interessante in questo senso analizzare di nuovo quanto ha evidenziato per il periodo della ripresa post-Covid19 la ricerca svolta 20 |

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IL CAR SHARING SI RISCOPRE SOCIALMENTE UTILE Fino a poco tempo fa le strade di molte città europee (e italiane, su tutte Milano e Torino) erano un brulicare di automobili, biciclette, scooter e monopattini elettrici, che – prenotati via app – permettevano di spostarsi tra casa, lavoro e luoghi di svago a costi ragionevoli, senza problemi di parcheggio. Poi, come tutti sappiamo, il coronavirus da questione cinese è diventato un dramma mondiale dai profondi impatti sulla salute delle persone, sul lavoro, sull’economia e – non secondariamente – sulla libertà di viaggi e spostamenti. I sogni della mobilità smart che fa leva su smartphone, app e reti 5G sono stati bruscamente interrotti, ma non annullati. Certo, oggi non è il momento del car pooling, che anzi rappresenta l’antitesi dell’esigenza di distanziamento interpersonale. Ma proprio nelle drammatiche settimane di marzo la mobilità smart e condivisa ha scoperto di poter

nella regione di Hubei (primo focolaio del contagio) dalla società Digital100 Insight, riportata sul portale EEO.com il 27 febbraio. Partendo dalla considerazione che nella regione alcune industrie (ristorazione, intrattenimento e turismo) hanno sofferto più di altre, mentre l’economia digitale registrava una crescita esplosiva, notiamo che, secondo il sondaggio, dopo la ripresa del lavoro le persone hanno modificato le proprie abitudini di viaggio. Risulta aumentata la propensione a utilizzare biciclette, auto a guida autonoma e veicoli speciali, mentre è diminuita la disponibilità a viaggiare in taxi, metropolitana e au-

svolgere una funzione “sociale”: a Roma, per esempio, la sindaca Virginia Raggi ha chiesto che un centinaio di veicoli del car sharing comunale fossero messi gratuitamente a disposizione dei medici impegnati nei cinque “Covid Hospital” e nei reparti di terapia intensiva degli altri nosocomi. Il provvedimento, inizialmente valido fino al 3 aprile, ha permesso di tamponare il problema del fermo dei mezzi pubblici dopo le ore 21 per chi è stato costretto a turni di lavoro lunghissimi, oltre che difficili. Aniasa, l’associazione che all’interno di Confindustria rappresenta il settore dei servizi di mobilità, ha fatto sapere che in seguito ai decreti del presidente del Consiglio le società di autonoleggio (car sharing incluso) attive in Italia hanno “rafforzato ulteriormente le procedure che garantiscono l’igienizzazione dell’abitacolo tra un noleggio e l’altro”. V.B.

tobus. L’attenzione al risparmio è maggiore e sono cambiati alcuni valori negli acquisti: molti temono conseguenze per il proprio reddito (il 68% degli intervistati) e si osservano particolari riduzioni di consumi nei settori lusso, turismo e abbigliamento. Oggi nella regione cinese i cinque principali ambiti considerati più promettenti sono l’educazione medica, l’intelligenza artificiale, l’accesso alle informazioni su Internet, l’uso di piattaforme di e-commerce e, infine, corrieri e logistica. Elena Vaciago, associate research manager di The Innovation Group


TECHNOPOLIS PER ALLY CONSULTING

LA CONSULENZA IT CAMBIA PROSPETTIVA La società supporta le Pmi del settore manifatturiero con un approccio incentrato su innovazione, flessibilità e concretezza. Ally Consulting è una realtà imprenditoriale nei servizi di consulenza IT per le piccole e medie imprese che affianca le imprese del manifatturiero discreto. Con la flessibilità di una startup, la società supporta oltre cento clienti in Italia e all’estero su molteplici progetti di digital transformation ed Erp, con un approccio incentrato su innovazione, flessibilità e concretezza. Ally offre consulenza in ambito applicativo e tecnico, partendo dall’analisi dei processi aziendali e arrivando alla modellizzazione e alla reingegnerizzazione del modello di business ottimale i cui dati e flussi sono gestiti integralmente dal sistema Erp. “L'industria manifatturiera si trova ad affrontare notevoli trasformazioni imposte dal mercato, tutte all’insegna del miglioramento delle performance”, ha dichiarato Paolo Aversa, managing director di Ally Consulting. “In questo contesto, l’esigenza di innovare è ormai diventata un imperativo a cui le Pmi non possono più sottrarsi. Tuttavia, gli ostacoli che incontrano oggi sono molteplici, primo tra tutti la mancanza di competenze interne adeguate su cui fare affidamento”. L’innovazione consente, infatti, alle aziende di tutte le dimensioni di reagire rapidamente alle evoluzioni del mercato, ma spesso esse non riescono a comprendere il valore che c’è dietro ogni innovazione e devono adeguarsi alla nuova tecnologia senza avere la capacità culturale per sfruttarne l’intero potenziale. “In Italia”, prosegue Aversa, “viaggiamo ancora in notevole ritardo rispetto ad altre realtà internazionali e restiamo ancorati a concetti culturali che non ci permettono di esplorare a fondo le nuove tecnologie. Per questo c’è bisogno di coinvolgere le aziende in percorsi formativi anche attraverso figure come quella dell’innovation manager, altrimenti queste si troveranno a disposizione una serie di informazioni fondamentali che però, non sapendo le imprese come usarle, risulteranno completamente inutili”. È in questi contesti che

Paolo Aversa, managing director di Ally Consulting interviene Ally: nell’ambito della messa in opera del sistema Erp, i suoi consulenti valutano le necessità delle imprese in considerazione del settore in cui operano e le supportano nella ridefinizione dei modelli produttivi volti a permettere il completo controllo delle attività attraverso metriche e Kpi definiti. O ancora, le supportano nel gestire una supply chain estesa e complessa oppure nel pianificare una produzione su commessa, senza rallentare quella in serie. Il modo più efficace per mostrare il valore di un investimento tecnologico in un'organizzazione è quello di prevedere modelli che combinino sia la strategia sia il processo e che, nel farlo, diano velocemente un ritorno dell'investimento e raggiungano gli obiettivi previsti con Kpi chiari e misurabili. “A livello tecnologico”, conclude il managing director di Ally, “le sfide attuali riguardano il trovare continuamente nuove soluzioni capaci di analizzare in modo adeguato le informazioni dal campo, che è poi la richiesta più frequente delle aziende. Raccogliere dati, strutturarli e dar loro un significato sarà la sfida vincente di qualunque impresa. Si tratta di rendere facilmente leggibili dati provenienti da diverse fonti, come sensori, impianti, smartphone, tablet e terminalini, integrandoli in un sistema Erp evoluto”. Le partnership, infine, sono un pilastro fondamentale della strategia consulenziale di Ally Consulting, che conta sulla collaborazione storica con Infor e con molte altre realtà, per garantire una consulenza IT che coinvolga ogni ambito aziendale. 21


ITALIA DIGITALE

Che impatto avrà la pandemia di coronavirus nel breve e medio periodo sul lavoro e sugli investimenti delle aziende? Potrà, forse, fungere da catalizzatore per cambiamenti organizzativi e tecnologici.

LE LEZIONI DELLA CRISI

N

onostante le molte difficoltà, la pandemia di coronavirus e il conseguente lockdown potranno essere per le aziende un catalizzatore di cambiamento organizzativo e tecnologico? Di certo stiamo scoprendo che cosa significhino concretamente lo smart working, il fare riunioni ed eventi online, la formazione a distanza, l’uso delle piattaforme di e-commerce. Lo smart working porterà vantaggi legati alla diminuzione dei trasferimenti e dei costi degli spazi degli uffici, oltre a produrre impatti positivi sull’ambiente. Stiamo anche scoprendo che la tecnologia aiuta a relazionarsi meglio con i clienti attraverso il ricorso ai canali digitali, che si stanno dimostrando una valida alternativa anche per chi finora li aveva usati poco o per niente. Le imprese manifatturiere, inoltre, stanno imparando che i processi della supply-chain possono essere fragili se non sono "intelligenti" e flessibili lungo l'intera catena del valore, e che i processi di produzione devono diventare sempre più automatizzati (come nel modello Industria 4.0). Solo così potranno essere resilienti e agili nel rispondere a questi shock. Infine stiamo osservando come le aziende, per rafforzare le proprie infrastrutture tecnolo22 |

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giche e mettere velocemente a disposizione alcuni servizi e modalità di lavoro smart, stiano facendo ricorso a servizi cloud che garantiscono scalabilità e resilienza. Ciò richiederà un veloce adeguamento delle infrastrutture di rete e di comunicazione per supportare il sensibile aumento del traffico, dunque si dovrà accelerare la larga banda in tutti i territori. Tali tendenze sono confermate anche dal fatto che i mercati stanno premiando colossi come Amazon, Microsoft e i vari operatori over-the-top, ma anche imprese del settore software. Queste lezioni sul potenziale delle tecnologie che le aziende stanno imparando possono guidarci a tracciare lo scenario del mercato digitale nel contesto economico che abbiamo di fronte. Per il nostro Paese si prevede nel 2020 un Pil in decrescita tra il 7% e 9%, a seconda di scenari variabili in base alle tempistiche di esaurimento della pandemia e alla conseguente durata della recessione economica. L’impatto sarà diversificato per settore e per geografia anche nel nostro Paese e influirà sulla spesa corrente e sugli investimenti in tecnologie digitali: le Regioni più colpite pesano per oltre il 40% sul Pil e per oltre il 50% sul valore del mercato digitale nazionale. Quest’ultimo, dopo

aver ripreso a crescere negli ultimi due anni (portando a tracciare una previsione simile per il 2020), ora si troverà di fronte a una decrescita significativa per quest’anno. Ma di quanto, e chi subirà i maggiori impatti? Le lezioni apprese potranno essere un fattore di accelerazione in alcuni settori e aziende? Da un recente sondaggio di The Innovation Group, realizzato durante il lockdown su un campione di imprese cross-settoriale, risulta che è in corso una valutazione delle priorità aziendali, con un duplice focus: da una parte, sui costi e sul ritardo nel lancio dei nuovi prodotti; dall’altra, sull'utilizzo di canali digitali e smart working per far fronte all’emergenza. Ciò può portare a una riduzione della spesa in tecnologia prevista e a un congelamento dei progetti, ma può anche accelerare le iniziative legate alla necessità di far fronte alla continuità operativa e ad avviare progetti di trasformazione digitale per recuperare efficienza e produttività. A dimostrazione di ciò, la maggioranza del campione afferma di voler mantenere invariato o addirittura di voler aumentare il budget inizialmente previsto prima della pandemia. Ezio Viola, amministratore delegato di The Innovation Group


CONTACT TRACING SOSPESO TRA ETICA E NECESSITÀ

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a via italiana al contact tracing è tracciata, per dirla con un giro di parole. Per usare i nomi propri dobbiamo invece parlare di Immuni (così si chiamerà l’applicazione che il governo invita gli italiani a scaricare sul proprio smartphone) e di Bending Spoons, la software house milanese che ne ha sviluppato il codice, mettendolo a disposizione con licenza d’uso gratuita e perpetua. La società è stata scelta fra le oltre trecento candidature giunte al Ministero dell’Innovazione poiché ritenuta la “più idonea per la sua capacità di contribuire tempestivamente all’azione di contrasto al virus, per la conformità al modello europeo delineato dal Consorzio PEPP-PT e per le garanzie che offre per il rispetto della privacy”, come si legge nell’ordinanza numero 10 del 16 aprile firmata dal Commissario straordinario per l'emergenza covid-19, Domenico Arcuri. Il citato consorzio, di cui Bending Spoons fa parte (insieme a una trentina di altri soggetti, tra aziende e istituti di ricerca di otto Paesi), propone un approccio internazionale al problema del tracciamento dei contatti e delle interazioni fra le persone: le varie app sviluppate su base nazionale dovranno essere interoperabili. Cioè dovranno poter comunicare tra loro, consentendo di ottenere una visione d’insieme. Lo scopo del contact tracing è proprio questo: registrare i contatti ravvicinati tra le persone così da poter ricostruire a posteriori, per ogni nuova diagnosi, la mappa degli

altri potenziali contagiati. Oltre a Bending Spoons (che pur essendo un’azienda italiana per le sue applicazioni iOS può vantare oltre 12,6 milioni di utenti attivi tra Nordamerica ed Europa) stanno collaborando alla lotta mondiale al coronavirus anche due colossi della Silicon Valley. Rivali in molti campi, Apple e Google si sono alleate per fornire sostegno tecnologico a governi, forze dell’ordine e operatori sanitari. Nel mese di maggio verranno rese disponibili dalle due società delle interfacce di programmazione delle applicazioni (Api) interoperabili, che permetteranno agli sviluppatori di far funzionare le medesime app su dispositivi Android e iOS. Per queste future applicazioni, così come per l’italiana Immuni, la registrazione di spostamenti e contatti ravvicinati sarà affidata non al Gps bensì al Bluetooth. A parole, la tutela della privacy sarà necessariamente garantita, procedendo con l’anonimizzazione

e l’aggregazione dei dati in modo da renderli non riconducibili al singolo, cosa che d’altra parte già si sta facendo con la raccolta dei dati delle celle telefoniche. Rispetto a quest’ultimo metodo, però, l'uso del Bluetooth è più orientato alla privacy: su un cellulare dev’essere attivato con un gesto volontario dell’utente, mentre il passaggio di un dispositivo dentro all’area di copertura di una cella telefonica viene rilevato in automatico. Si è detto, inoltre, che l'utilizzo di Immuni sarà su base volontaria. Tuttavia, già a pochi giorni dalle presentazione dell'app, alcuni giornalisti instillavano il dubbio che il governo possa finire per imporre limitazioni agli spostamenti (o addirittura l'obbligo di braccialetto elettronico) per chi sceglierà di non collaborare. Il garante della privacy, Antonello Soro, ha sottolineato di “non essere stato coinvolto nella valutazione dell'applicazione”. D’altra parte il presupposto per l’efficacia del contact tracing (per il covid-19 così come per altre patologie virali) è che il progetto coinvolga una larga fetta della popolazione, almeno la maggioranza. La ragione dell’etica per il momento resta sospesa tra le libertà personali necessarie per poter definire un Paese come democratico e l’urgenza di passare alla “fase due”, salvando l’Italia dalla paralisi economica. Per il Commissario straordinario Arcuri, senza dubbio, il contact tracing sarà “un pilastro importante nella gestione della fase successiva dell'emergenza”. Valentina Bernocco

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STARTUP

LA MARCIA IN PIÙ DEI CHATBOT È L’EMPATIA Carmine Pappagallo e Gianfranco Fedele, fondatori della startup campana Mazer, raccontano gli ingredienti vincenti del loro progetto: Laila, un software per piattaforme conversazionali che adatta il suo modo di parlare all’utente.

L’

intelligenza artificiale pura e semplice ai chatbot non basta più. Serve un ingrediente ulteriore, che da esseri umani potremmo chiamare “empatia” ma che dal punto di vista tecnologico è anch’esso il frutto di algoritmi di machine learning. Per l’utente che si ritrovi a chattare dall’altra parte dello schermo assomiglierà piuttosto a una dote emotiva, che rende il chatbot quasi (o del tutto) indistinguibile da un interlocutore umano. Questa è la caratteristica di Laila, una piattaforma software per la creazione di interfacce conversazionali “dal tocco umano”, come le definiscono in Mazer, la startup campana che ha messo a punto tale tecnologia. l programma non interagisce con l’utente attraverso scelte multiple o risposte preimpostate, bensì è padrone di un registro linguistico che si adatta di volta in volta all’azienda che ne fa uso. Laila monitora continuamente il sentiment della persona con cui sta dialogando, cioè gli stati d’animo che trapela24 |

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no dal dialogo, e adatta il suo linguaggio alla forma che l'utente è meglio in grado di comprendere. Addirittura, secondo i test realizzati dalla startup, una persona su due non si accorge di interagire con un software ma crede di dialogare con una ragazza in carne e ossa (al punto di arrivare a flirtare). Per capirci di più, Technopolis ha intervistato Carmine Pappagallo e Gianfranco Fedele, fondatori di Mazer. Come è nata l’idea alla base della vostra startup?

Carmine Pappagallo: Noi founder del progetto Laila proveniamo dal mondo del digital marketing, dove abbiamo maturato una profonda consapevolezza sulle esigenze delle piccole, medie e grandi aziende che operano nel Web. Sappiamo, per esempio, che essere online significa dotarsi di una struttura che risponda al pubblico in tempi rapidi ed in ogni momento del giorno e della notte. Un modello di marketing fondato sull’idea che la comunicazione tra utente e brand debba essere un’esperienza di dialogo personale, in cui l’utente ha sempre disponibile un interlocutore in grado di risolvere ogni suo dubbio. Gli e-commerce ne sono un esempio lampante: su questi siti le decisioni vengono prese in tempi rapidissimi ed è molto facile per chi compra cambiare idea sulla base di decisioni repentine, spesso impulsive. Questo legame tra utente e brand richiede un contatto umano, materialmente difficile da realizzare in termini di costi e di efficacia. Ebbene, Laila crea proprio questo tipo di esperienza: un dialogo in linguaggio naturale nell’ambito del quale il chatbot sviluppa una relazione “empatica” col proprio interlocutore, attraverso potenti sistemi di intelligenza artificiale in grado di misurare il suo stato d’animo e di orientare la conversazione nella direzione più adatta a lui.

MICROSOFT FOR STARTUPS STA DIVENTANDO GRANDE Ha compiuto da poco due anni il programma di sostegno alle nuove idee imprenditoriali creato da Microsoft e oggi operativo in 140 Paesi del mondo. Inclusa l’Italia, dove ha debuttato recentemente grazie ad accordi siglati a Torino con Officine Grandi Riparazioni e a Milano con Fondazione Cariplo. Microsoft for Startups mette a disposizione consulenza e supporto, ma soprattutto agevola l’incontro con potenziali clienti e investitori, dato che le startup

Quanto tempo ci è voluto per passare dall’idea, allo sviluppo, alla commercializzazione?

Gianfranco Fedele: La realizzazione di Laila, per la sua natura tecnologica, è strettamente legata alla ricerca scientifica con cui ci siamo misurati dal primo giorno. Essenziali sono state le partnership universitarie, prima fra tutti quella con l’Università della Campania Luigi Vanvitelli, che ci hanno guidato nella scoperta e nella creazione di strumenti di intelligenza artificiale evoluti e assolutamente inediti. La ricerca scientifica è durata un anno, alla fine del quale è stato sviluppato un prototipo che ci ha permesso di andare online su un numero limitato di siti Web su cui Laila oggi è ancora presente. Una volta ottenuti i primi importanti riconoscimenti, ci siamo strutturati per l’industrializzazione del prodotto, che nel giro di sei mesi è diventato un servizio Software-as-aService. In base alla vostra esperienza, quali ostacoli si trovano ad affrontare gli aspi-

del programma hanno accesso diretto alla rete di vendita del colosso di Redmond. Due nuovi vantaggi si aggiungono per le startup: ora possono utilizzare GitHub Enterprise, servizio che prevede funzionalità aggiuntive rispetto a quelle di GitHub (la piattaforma per la community open-source oggi di proprietà di Microsoft); prossimamente, inoltre, avranno accesso alla Microsoft Power Platform, piattaforma per l’analisi dei dati e lo sviluppo di applicazioni aziendali.

ranti startupper italiani?

C.P.: A nostro parere, la cosa più difficile è trovare partner esperti in grado di guidarti nelle scelte più importanti. È facile imbattersi in piattaforme di crowdfunding, associazioni di investitori o venture capital che pubblicizzano le proprie attività online: la semplicità con cui se ne scopre l’esistenza è pari a quella con cui spesso se ne rimane delusi. Un ruolo importante l’ha giocato la nostra inesperienza: sappiamo di aver spesso bussato alle porte sbagliate, ma alla fine siamo riusciti a circondarci delle giuste persone che hanno dato la necessaria spinta al nostro progetto. Per esempio?

C.P.: Il Ministero dello Sviluppo Economico, che ha riconosciuto da subito il caratteri innovativo del nostro progetto e ha iscritto la nostra azienda all’Anagrafe Nazionale delle Ricerche, accordandoci agevolazioni e piani di sviluppo fondamentali. In secondo luogo Elteide, il nostro acceleratore d’azienda, che ancora oggi cura ogni aspetto del nostro 25


STARTUP

business e in più ci guida nell’ambito del complesso mondo della finanza agevolata. E poi Zephiro Investments, che ci segue nel difficile percorso attraverso finanza e investimenti. Quanto è stato importante trovare l’appoggio di incubatori e investitori?

C.P.: Avere un incubatore come Elteide è stato fondamentale per due motivi, uno pratico e l’altro psicologico: affidare la propria azienda a professionisti esperti la gestione amministrativa, contabile e finanziaria mette nelle condizioni psicologiche ideali per potersi concentrare su quello che appare più impellente, ovvero lo sviluppo tecnologico e quello del business. Quanto agli investitori, dal più grande al più piccolo, essi sono la nostra colonna portante. Siamo consapevoli del fatto che si tratti di persone, a volte amici, che hanno scelto di rischiare i propri soldi fidandosi di noi e delle nostre idee, e di questo sentiamo forte la responsabilità.

con progetti ad alto valore tecnologico e innovativo. Nell’ambito di questo bando, il Mise ci ha accordato un finanziamento di 400mila euro, grazie al quale ci siamo potuti rapidamente strutturare e iniziare l’industrializzazione di Laila. Oggi più che mai siamo convinti che certe forme di finanziamento rappresentino un’opportunità di sviluppo per l’intero sistema Paese, e ci riempie di orgoglio l’idea di poter presto restituire il favore a una nazione che ha scelto di credere in noi. Si parla spesso di “ecosistema” delle startup. Qual è stato il vostro?

C.P.: Il nostro ecosistema di riferimento è 200 Digital District. È composto da una dozzina di startup, dall’acceleratore Elteide e da un’area di co-working. Il distretto si trova a Marcianise, in provincia di Caserta, e rappresenta una grande opportunità di sviluppo non solo per le aziende che lo compongono ma per tutto il territorio campano.

Ci dite qualcosa in più sul contributo del Mise?

Quante persone lavorano in Mazer? Che obiettivi di sviluppo vi siete prefissati?

G.F.: Abbiamo vinto un bando chiamato Smart&Start, destinato alle startup

C.P.: In Mazer oggi siamo in dieci, e sette di noi sono completamente con-

Gianfranco Fedele (a sinistra) e Carmine Pappagallo

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centrati sullo sviluppo tecnologico della piattaforma. Abbiamo intenzione di far crescere il progetto sempre di più, arrivando a ottenere un’operatrice virtuale che sia in grado di sostituire l’umano con una percentuale di errore tendente a zero. Per farlo, stiamo sviluppando assieme all’Università tecnologie sempre nuove, che entrano nella complessa architettura di Laila e ne migliorano la qualità complessiva. Siamo consapevoli del fatto che si trattidi qualcosa di estremamente ambizioso, ma i dati ci supportano e ci confortano in merito alla bontà del nostro progetto. Che cosa rende Laila una tecnologia vincente?

G.F.: Laila si configura come una sorta di assistente virtuale per le aziende, perché è in grado di coprire numerosi ruoli in un ambito da sempre appannaggio di operatori umani, cioè la gestione delle relazioni. In ambiti come il customer service o il digital marketing, in cui sono in gioco la reputazione delle aziende e dei brand, si riteneva che i sistemi di automazione non potessero entrare se non per coprire ruoli marginali: si pensi, ad esempio, ai tradizionali chatbot in grado di restituire informazioni su un numero limitato di domande o addirittura in corrispondenza della pressione di pulsanti di selezione. Ebbene proprio in questi contesti Laila, grazie alla sua tecnologia, si configura come strumento in grado di relazionarsi online con gli utenti attraverso una conversazione fluida e pari all’umano. Secondo una stima recente, più del 50% degli utenti che hanno dialogato con Laila erano convinti che il proprio interlocutore fosse un umano ed ignoravano di aver parlato con un robot. Questo cambia completamente le regole del mercato, collocando Laila in un contesto dove non sono presenti concorrenti diretti ma solo indiretti.


In che misura i chatbot potranno, in futuro, sostituirsi ulteriormente alle persone?

G.F.: Dobbiamo immaginare che nel futuro i rapporti tra utenti e brand saranno completamente mediati dai chatbot, i quali conferiranno alle aziende la capacità di restituire ai propri utenti informazioni e assistenza sempre e in tempi rapidissimi. In futuro, inoltre, anche le relazioni tra azienda ed azienda passeranno attraverso chatbot che si configureranno come veri e pro-

pri sistemi di mediazione in grado di portare avanti trattative commerciali e strategiche, fare acquisti, vendite o gestire controversie senza mai perdere di vista gli obiettivi aziendali. I chatbot, infine, saranno proattivi: una volta in grado di utilizzare sistemi di riconoscimento e simulazione della voce, potranno prendere contatto con persone, scambiare con loro informazioni e portare a termine task che richiedono il contatto con l’umano. Valentina Bernocco

IL FATTORINO-ROBOT ITALIANO È UNA RISORSA IN TEMPI DI CRISI La consegna a domicilio, almeno temporaneamente, da scelta di comodità è diventata una scelta obbligata. Se poi è tecnologica, allora tanto meglio anche dal punto di vista della sicurezza, poiché consente di limitare i contatti interpersonali e di sollevare i fattorini da parte dello stress a cui sono sottoposti. Si chiama Yape (Your Autonomous Pony Express) il “drone fattorino” creato da ingegneri e progettisti di e-Novia, l’incubatore del Politecnico di Milano: è un robottino compatto a guida autonoma e ad emissioni zero, che nel suo compartimento può trasportare oggetti pesanti fino a 20 chili. Uno strano, piccolo veicolo che si sposta su due ruote e che è tanto agile da poter schivare gli ostacoli su strade, marciapiedi e all’interno di spazi chiusi, guidando sé stesso attraverso l’intelligenza artificiale. Testato fin dal 2017, da allora è stato adottato in via sperimentale in Giappone, come veicolo di supporto alle consegne del servizio postale nazionale e per il trasporto

di materiali per l'edilizia nella zone devastate dal terremoto del 2011. In Germania, invece, viene utilizzata all'aeroporto di Francoforte per scortare i passeggeri al gate, mentre in Italia Yape è stato inserito nelle sperimentazioni di connettività 5G di Vodafone, Esselunga, Poste Italiane e Politecnico di Milano. Alla luce dei cambiamenti nelle nostre abitudini di acquisto imposti dal coronavirus, StartupBlink (società che si occupa di mappare le neoimprese più interessanti) ha inserito questo robot self-driving tra le innovazioni utili per fronteggiare l’attuale crisi sanitaria.

KASPERSKY CERCA NUOVE IDEE Kaspersky ha lasciato tempo fino al 30 aprile per rispondere alla seconda call for ideas del proprio Innovation Hub (IHub). Una "chiamata" rivolta alle startup attinenti al mondo della sicurezza informatica, che potessero già vantare un’entità legale, un prodotto o prototipo già sviluppato e contratti già chiusi oppure progetti pilota in corso. Chi entrerà nel programma potrà ricevere supporto tecnologico e consulenza imprenditoriale e poi eventualmente, superata la fase pilota, avere accesso alla rete di distributori e rivenditori di Kaspersky. Nella precedente call, lo scorso anno, l’azienda aveva ricevuto 258 candidature da 49 Paesi e da questo gruppo erano poi emerse 12 startup particolarmente meritevoli (premiate a Milano durante un demo day) per le loro soluzioni di cybersicurezza per l’Industrial Internet of Things (IIoT), i trasporti, la blockchain e i controlli antifrode. Quest’anno la selezione sarà affidata a esperti di Kaspersky e di F6, piattaforma online dedicata a startup e acceleratori: sarà valutato il modello di business, così come la validità tecnica delle soluzioni proposte, che dovranno saper risolvere problemi concreti di sicurezza informatica. Gli imprenditori selezionati potranno presentare i loro progetti davanti a una giuria nei Demo Selection Days (originariamente in programma a Milano il 27 e 28 maggio).

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INFRASTRUTTURE

L’INTEGRAZIONE CARENTE

I Big Data sono fondamentali nelle iniziative di trasformazione aziendale. Ma spesso l'approccio è sbagliato.

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n approccio strutturato alla governance dei dati è essenziale nell'implementazione di un progetto di trasformazione digitale. E questo è ancor più vero in un'epoca di ibridazione delle infrastrutture e delle normative. Fra regolamentazioni europee sempre più strette e la volontà di andare verso segmentazioni sempre più fini, con cui poter personalizzare al massimo la user experience, le aziende sono pressoché costrette a disporre di dati di alta qualità e ben organizzati. La “Digital Business Transformation (Dbt) Survey 2020” di The Innovation Group, realizzata su un campione di 145 business manager di aziende italiane medio-grandi, conferma l’importanza delle tecnologie Big Data: sono un’area di forte attrazione di investimenti per le imprese che hanno 28 |

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“cantieri aperti” verso l'innovazione, anche se l'emergenza legata alla diffusione del covid-19 inevitabilmente rallenterà lo sviluppo dei progetti in corso. Già nel 2019 la voce Big Data figurava al secondo posto, dietro le piattaforme di digital marketing, nelle porzioni di budget destinati dalle imprese italiane alla trasformazione digitale. L'anno in corso dovrebbe, compatibilmente con la congiuntura, confermare questa scala di valori, con l'inserimento prepotente delle tecnologie di intelligenza artificiale e machine learning. Governance sottovalutata

La presenza di piani di data governance ben definiti, tuttavia, scarseggia: è la voce meno citata tra quelle incluse nella lista proposta dalla survey. La percentuale di citazioni del 31% appare misera, soprat-

tutto se confrontata con il 58% delle progettualità realizzate con il coinvolgimento del management e con il 50% dei progetti di multicanalità orientati al tracciamento delle relazioni con i clienti. D'altra parte, si evidenziano ancora contraddizioni nella diffusione di una cultura digitale all'interno delle imprese, poiché al 48% di realtà che hanno già assicurato in modo pressoché completo l'accesso alle informazioni da qualsiasi luogo, dispositivo o momento della giornata si contrappone il 27% di quelle che hanno avviato iniziative per spingere internamente un approccio datadriven. Queste lacune si traducono in carenze lamentate un po' su tutta la filiera di un marketing che già si vorrebbe fortemente digitale, con punte negative sulla capacità di avere una visione unica dei clienti su diversi touch point (appena il 27% delle aziende del campione può dire di averla ottenuta) e sulla disponibilità di analytics avanzati dei dati (23%). Silos duri a morire

Una delle difficoltà più evidenti nell'utilizzo strutturato dei dati a supporto dei processi di trasformazione digitale è la presenza dei famigerati “silos” che creano dispersione, a cui sommano la tendenza ad affidarsi sempre più al cloud e la quota crescente di informazioni derivanti dal Web e dai social media. In un mondo ideale, si dovrebbe passare da una gestione punto a punto nei data warehouse a un approccio di tipo "data hub", in cui tutto è concentrato e da lì si parte per redistribuire le informazioni verso diversi destinatari. La realtà appare differente e la soluzione non è mai universale. Ogni azienda dovrebbe individuare la propria traiettoria di riconciliazione dei dati interni ed esterni


in funzione dell'uso che intende farne, dei costi e della rapidità di esecuzione. L'interazione e l'interoperabilità sono importanti per una buona gestione dei dati e il cloud può rappresentare una soluzione architetturale adatta ai tempi, soprattutto perché in grado di assicurare flessibilità e capacità di evolvere in futuro. Per un'efficiente strategia di governance servono un'analisi preventiva affidata a team dedicati in azienda e strumenti possibilmente orientati a un approccio olistico, in cui tutto viene gestito in modo integrato. A complemento di ciò, vanno considerate risorse come il Master Data Management (che può convogliare i dati critici in un solo luogo di riferimento) e i software per

LENTO PROGRESSO PER LE ITALIANE

la data quality e per la gestione dei metadati. Il tutto, evitando di creare altri silos. Alla ricerca del chief data officer Gartner ritiene che i progetti data-driven rappresentino oltre i tre quarti delle iniziative di trasformazione digitale attualmente in corso. Se in passato toccava ai Cio raccogliere, organizzare e produrre report, spesso retroattivi, sui dati aziendali, oggi questo compito deve necessariamente passare a figure più specializzate, nella fattispecie i chief data officer (Cdo). Si tratta di professionisti dotati di competenze tecniche e capaci di guidare i progetti di governance, gestione e protezione dei dati aziendali, magari integrando sistemi di

Spending review post coronavirus permettendo, le tecnologie Big Data quest’anno dovrebbero attrarre investimenti in crescita da parte delle aziende italiane. Ma piani ben definiti per la gestione dei dati sono ancora poco presenti. Ne abbiamo discusso con Yari Franzini, regional director di Cloudera Italy.

gole organizzazioni interne collaborano e condividono i dati stessi. Contemporaneamente, stanno avviando programmi di discovery interna per capire come e dove i dati vengano creati, consumati e gestiti in azienda. Questo secondo processo appare più lento, ma è già in corso e potrà ottenere spinta ulteriore dalla disponibilità di piattaforme unificate, in grado di considerare tutti i dati presenti all’interno di un’organizzazione in modo unitario, indipendentemente dalla loro natura e collocazione.

Nelle aziende italiane ci si occupa poco di governance dei dati. Perché? Stiamo vivendo un processo graduale. Le aziende si stanno rendendo conto di quanto i dati rivestano un ruolo cruciale per il loro business. C’è molto da fare, considerando che secondo Gartner il 91% delle organizzazioni oggi non sa ancora i sfruttare al meglio i dati che ha a disposizione. Le aziende stanno iniziando a investire in tecnologie che consentono di analizzare e usare al meglio questo patrimonio, ma per farlo devono ripensare anche a come le sin-

Che cosa è mancato finora alle nostre aziende in termini di approccio? Si potrebbe dire che finora sia mancata una visione di insieme e che le organizzazioni si siano mosse in ordine sparso, sulla base di singole urgenze e opportunità. Non è sbagliato, ma certo questo approccio opportunistico rappresenta solo un primo passo nella giusta direzione. Potendo riscontrare vantaggi operativi e di business su casi e progetti specifici, le aziende sono sicuramente invogliate a guardare oltre e ad estendere questo approccio

intelligenza artificiale per automatizzare determinati flussi e ridurre l'incidenza dei processi manuali. Anche alla luce degli effetti negativi generati dall'emergenza covid-19, appare importante per le aziende lavorare sui dati per trovare fonti di risparmio e presidio del mercato. Mancano esempi eclatanti in Italia, ma anche da noi occorrerà riuscire almeno ad avvicinarsi ad approcci simili a quello di Netflix, che ha trovato il modo di risparmiare un miliardo di dollari all'anno sulla customer retention, oppure a quello di Walmart, che è in grado di trattare 2,5 PB di dati sui clienti ogni ora, usandoli per aumentare le vendite. Roberto Bonino data-driven a tutta l’organizzazione. Si tratta di un processo graduale, che chiama i vertici aziendali a ridisegnare processi ed equilibri, ma certo la disponibilità di piattaforme aperte, modulari e basate su standard come quella di Cloudera può contribuire a rendere questa evoluzione non solo indolore, ma anzi immediatamente positiva per il business. I settori più ricettivi al cambiamento? Tipicamente, i settori che si muovono in anticipo sono quelli ad alta intensità di dati e quelli in cui questi stessi dati rivestono un ruolo particolarmente critico. Il primo esempio è sicuramente quello del finance nella sua accezione più estesa (banking & insurance), in cui i dati sono fondamentali e anche straordinariamente sensibili, per cui devono essere gestiti in modo efficace almeno quanto sicuro. Un’efficace analisi proattiva dei dati permette anche di sviluppare servizi avanzati, con l’obiettivo di creare vantaggio competitivo, e penso alle telco e al comparto energy e utilities. R.B.

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FINTECH

BANCHE AL BIVIO: ESSERE DIGITALI O ANTIQUATE? Un nuovo report di S&P Global Ratings evidenzia pesanti rischi all’orizzonte per gli istituti bancari che non investiranno nell’innovazione digitale con un’adeguata strategia.

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l mondo delle banche, anche in Italia, è di fronte a un bivio. Una parte degli istituti ha saputo adattarsi alle evoluzioni tecnologiche e di mercato o almeno sta provando a trasformarsi per non dover temere le concorrenza delle nuove banche digitali e dei servizi fintech. Altre, invece, restano ancora molto legate al vecchio modo di lavorare e alle offerte tradizionali. E questo per loro è un grande rischio. Un recente report di S&P Global Ratings (titolato "Tech Disruption In Retail Banking: Italian Banks Not Adapting

To The Digital World Quickly Will Be Left Behind”) prevede un rischio di progressiva emarginalizzazione per le banche che non sapranno adottare strategie di trasformazione digitale, con il supporto dei necessari investimenti. In realtà la maggior parte delle realtà nel settore bancario italiane si sta adattando al mondo digitale, puntando a migliorare i processi interni, a proporre ai clienti soluzioni multicanale e a collaborare con le fintech. Su scala mondiale già lo scorso anno uno studio di Capgemini (condotto


con interviste di profondità su una sessantina di dirigenti bancari di 23 Paesi) aveva evidenziato un predominante atteggiamento di apertura delle banche verso le fintech: il 70% degli intervistati si era detto propenso ad avviare collaborazioni per creare nuovi servizi e per distribuire quelli esistenti attraverso nuovi canali. E collaborare con le fintech significherà anche accettare di condividere e integrare dati con le loro piattaforme, secondo quanto previsto dalla direttiva PSD2 (Payment Services Directive 2) attraverso il modello Open Banking. In Italia, tuttavia, il percorso di apertura alle fintech e più in generale quello di digitalizzazione potrebbe essere più lungo che altrove. Vero è che la disponibilità di nuove tecnologie per i clienti italiani continua e che l’adeguamento alla PSD2 probabilmente favorirà la trasparenza e l’ingresso di nuovi operatori sul mercato. Il forte attaccamento verso i fornitori di servizi finanziari tradizionali e un certo conservatorismo dei clienti italiani nell’approcciare nuovi servizi finanziari rappresentano due ostacoli all’adozione di massa dell’Open Banking, spiega S&P Global Ratings. Inoltre c’è un altro problema da considerare: a tendere, alcuni prodotti bancari “core” diventeranno sostanzialmente delle commodity, dunque non rappresenteranno un valore aggiunto spendibile per attrarre e conservare clienti. Cambiare sarà un obbligo, più che una scelta. S&P Global Ratings ritiene dunque che nei prossimi anni emergerà una chiara biforcazione tra le realtà capaci di crescere in modo significativo e quelle ancorate al passato. Le grandi banche, dotate di maggiori economie di scala, potranno sfruttare la solida capacità di investimento per strategie di innovazione digitale, miglioramento dell’efficienza e diversificazione dei prodotti. Allo stesso tempo alcune realtà più piccole,

L’ESPERIENZA DEL CLIENTE FARÀ LA DIFFERENZA Vincerà chi punta sull’esperienza, o sulla experience che dir si voglia. Soltanto le banche capaci di mettere il cliente al centro delle proprie offerte di prodotti e servizio potranno garantirsi fidelizzazione in uno scenario sempre più competitivo. Eppure tutte, chi più e chi meno, nei loro slogan e nelle loro campagne di marketing affermano di farlo, ma è davvero così? In Italia pare proprio di poter affermare che no, non lo è. Dall'annuale studio di Bain & Company sulle tendenze del retail banking visti dalla prospettiva dei clienti (130mila quelli intervistati in 22 Paesi del mondo) è emerso che nel nostro Paese i progressi sono molto lenti. Dal 2016 al 2019 il Net Promoter Score, un indice che misura la qualità della relazione tra azienda e cliente con valori compresi -100 e +100, per le banche italiane è migliorato solo di nove punti. In parole povere, in tre anni è cambiato ben poco nella complessiva capacità delle banche di rendere i propri clienti più soddisfatti e fedeli. Di contro, è aumentata la distanza tra il Net Promoter Score delle banche che

con modelli di business più agili e costi ridotti, potrebbero riuscire ad adattarsi rapidamente all’evoluzione delle preferenze dei clienti e a soddisfare esigenze specifiche, riempiendo nuove nicchie di mercato. Chi rischia di più, probabilmente, sono le realtà collocate a metà strada. “Dal nostro punto di vista”, spiega l’analista Mirko Sanna, “un

lo studio etichetta come “leader” della buona esperienza del cliente e quelle definite “follower”: oltre cinquanta punti. “Nell’era di Amazon, Google e Facebook, la leadership anche per le banche potrà essere tale solo se sarà una leadership di esperienza e non di prodotto”, spiega Luigi Esposito, partner di Bain & Company. Come dovrebbe essere, allora, una buona customer experience? Innanzitutto, dovrebbe puntare sugli strumenti digitali per le operazioni più semplici, come la richiesta di una carta di credito o l’apertura conto, e riservare le interazioni umane ai prodotti bancari maggiormente complessi, come l’apertura di mutui e le consulenze sugli investimenti. In secondo luogo, spiega Bain & Company, dovrebbe essere ottimizzata per l’interazione attraverso i dispositivi mobili, ancor prima che attraverso il Pc. Bisognerà, infine accettare la sfida di un mercato più aperto, visto che i clienti (in particolare gli under-35) si dicono tendenzialmente disponibili ad acquistare prodotti finanziari da aziende fintech.

certo numero di altri istituti, ovvero le banche di dimensioni medio-piccole più deboli e alle prese con il loro passato, saranno più esposte al rischio di una disruption perché potrebbero non riuscire a gestire la crescente pressione competitiva inevitabilmente creata dalla digitalizzazione”. Valentina Bernocco 31


EXECUTIVE ANALYSIS

Il settore dei servizi finanziari in Italia è tra i più colpiti dagli attacchi informatici. Nelle realtà di piccole dimensioni, molto legate al territorio, il problema viene spesso delegato all’esterno.

BANCHE MEDIO-PICCOLE, DIFENDERSI È CRITICO

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tentativi di attacco osservati dalle aziende italiane crescono di anno in anno e, in un numero sempre maggiore di casi, gli incidenti informatici comportano conseguenze gravi. Lo dimostra la recente ricerca "Cyber Risk Management 2020" di The Innovation Group (Tig), che evidenzia come le identità degli utenti e gli endpoint aziendali siano gli ambiti più colpiti, ma i problemi non si limitino al perimetro noto dell’azienda: anche il cloud e l’Internet degli oggetti sono bersagli in forte ascesa. Gli attacchi più osservati sono il phishing, il malware e il ransomware, sperimentati rispettivamente dal 71%, 58% e 43% delle aziende, con percentuali in crescita per le prime due categorie rispetto alla situazione di due anni fa. Oggi l'attenzione dei 32 |

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responsabili dell’information security in azienda si sta concentrando in particolare su alcuni ambiti. La priorità numero uno sembra essere quella di potenziare il consapevolezza di dipendenti e collaboratori, sapendo che il fattore umano resta l'anello più debole della catena di protezione. In parallelo, l’evoluzione delle minacce può trovare una risposta più efficace solo tramite capacità avanzate di detection e di cyber threat intelligence. Il machine learning diventa una necessità

Nell'ultima edizione del suo rapporto annuale, Clusit (Associazione italiana per la sicurezza informatica) pone ancora il comparto finanziario tra quelli più colpiti nel nostro Paese, accanto alla sanità

e alla Pubblica Amministrazione. Le macrocategorie di attacco più utilizzate sono i malware e il social engineering, ricomprendendo in quest'ultima il fenomeno del phishing. In generale, più complessi sono gli attacchi e più è difficile individuarli: l’analista umano fa del suo meglio, ma appare sempre più necessario introdurre tecnologie di automazione basate su machine learning. Ovviamente i malintenzionati tendono a indirizzare le proprie azioni soprattutto verso le banche di grandi dimensioni, ma le problematiche di sicurezza riguardano ogni categoria di istituto. Technopolis, nel suo più recente progetto di ricerca qualitativa, ha concentrato l'attenzione sulle realtà di medie e piccole dimensioni, interpellando una quindicina di soggetti per capire quali si-


ano oggi gli elementi di preoccupazione più sentiti, come venga gestita la questione della sicurezza (se internamente o in outsourcing) e dove si stiano concentrando gli investimenti gestiti in autonomia. Nel campione sono stati inseriti anche alcuni fra i principali fornitori di servizi specializzati operanti in Italia e a cui si affidano molti istituti con connotazione locale, in particolare nel mondo del credito cooperativo e delle casse di risparmio. Gli investimenti messi in campo negli anni hanno consentito in buona misura di raggiungere uno standard considerato elevato sul fronte della protezione perimetrale, mentre piuttosto diffusa è la preoccupazione riferita ai servizi di Internet banking e al conseguente comportamento dei clienti. L'introduzione della normativa PSD2, nell'autunno nel 2019, ha certamente aiutato a imporre criteri di sicurezza più stringenti (soprattutto in termini di strong customer authentication) e si cominciano a sentirne gli effetti, ma quello dei servizi di banca online resta l’ambito che più attira iniziative e investimenti. Ciò non toglie che anche il comportamento del personale interno sia oggetto di costante monitoraggio, per prevenire tentativi di frode che facciano leva su phishing e social engineering. Alcuni istituti hanno iniziato a introdurre sistemi di analisi comportamentale che registrano anomalie nel funzionamento dei sistemi rispetto ai parametri abituali, mentre per altro verso l'adozione di soluzioni Siem (Security Information and Event Management) consente di avere un maggior controllo sugli accessi. L'evoluzione dei metodi

In qualunque contesto aziendale, un'efficace sicurezza informatica non può prescindere da una completa visibilità sull’insieme delle componenti infrastrutturali. Nel caso delle banche medie e piccole della nostra indagine, ci sono alcune peculiarità da considerare: la maggior

parte di esse lavora in modo completo o parziale con fornitori esterni di servizi, tramite contratti di outsourcing. E questo vale in alcuni casi anche per le attività di core banking. La normativa di settore impone una stretta catalogazione degli asset (ciascuno di essi è un potenziale punto di esposizione) e un continuo processo di valutazione del rischio informatico (Ict risk assessment), ma solo nei rari casi di mantenimento di una componente infrastrutturale interna la responsabilità compete alla figura aziendale di riferimento, si tratti di un Cio, Ciso o altro ruolo assimilabile. Nella maggioranza delle realtà analizzate, invece, il controllo viene lasciato perlopiù al provider esterno e solo alcune di queste richiedono una visibilità diretta, con la possibilità anche di intervenire nelle scelte sulle tecnologie di monitoraggio. Va detto, inoltre, che alcuni dei soggetti interpellati appartengono a gruppi bancari più complessi, in cui quindi tali aspetti competono al dipartimento IT della capogruppo. Diversa è la situazione per quanto riguarda policy di sicurezza e strategie: qui anche le realtà più dipendenti dall’outsourcing assumono responsabilità dirette nel definire le scelte complessive. Nella maggior parte dei casi analizzati c'è una tradizione costruita sulla presenza di un sistema informativo interno e basata sulla protezione del perimetro in ottica preventiva. Ma l'evoluzione delle minacce e le esperienze maturate hanno spinto diversi istituti ad affiancare all’approccio tradizionale un approccio reattivo, incentrato sulla risposta agli incidenti. Conservare perfettamente e costantemente integri i sistemi Ict di fronte agli attacchi è impossibile, e questa consapevolezza ha convinto le banche a dotarsi di strumenti di rilevazione delle intrusioni (soprattutto sugli endpoint) o di analisi comportamentale, per poter individuare rapidamente eventuali anomalie, verificarne la natura e re-

agire prontamente. Poiché nessuno oggi può considerarsi immune agli attacchi informatici, il Security Operation Center (Soc) rappresenta un asset critico che va gestito e implementato con particolare cura e professionalità. Per le aziende del campione che propendono in generale per l'esternalizzazione anche il Soc ha seguito lo stesso destino, ma solitamente è sentita la necessità di avere piena visibilità sull'operato delle risorse dedicate e non è infrequente l'affiancamento di attività di monitoraggio su reti e sistemi eseguite in proprio. Talvolta la gestione interna del Soc, inevitabilmente assegnata a un numero ristretto di persone, porta a concentrare l'attenzione su alcune singole aree, come la gestione delle frodi. Il fattore umano è il primo pensiero

Il fattore umano è in assoluto la principale preoccupazione per i responsabili della cybersicurezza delle banche. Ancora troppo spesso le vulnerabilità nascono da comportamenti poco accorti di personale interno (spesso anche rivestito di ruoli rilevanti) che si fa ingannare da messaggi ben congegnati. Per questo motivo, una quota significativa di investimenti è indirizzata su iniziative di sensibilizzazione, tanto più accurate quanto più diretto è l'appoggio di un management consapevole della criticità delle problematiche di sicurezza, anche in ragione delle recenti normative e sanzioni. Piuttosto diversificate sono le indicazioni di investimento sulla sicurezza per il 2020. Alcune realtà mettono in cima alle priorità le nuove sfide imposte dall'open banking e, quindi, hanno indirizzato parte del budget specifico verso la modernizzazione dei sistemi di pagamento e verso la mobility. Sempre in quest'ottica, il potenziamento delle soluzioni anti frode e anti intrusione è al centro delle pianificazioni di molti istituti, in particolar modo per rafforzare la protezione delle attività legate all'Internet banking. Roberto Bonino 33


EXECUTIVE ANALYSIS

DIVERSITÀ A CONFRONTO Insieme ai fornitori dei quali ci avvaliamo, realizziamo costantemente attività di penetration test e audit per verificare l’affidabilità delle procedure di sicurezza adottate. Certamente è più facile controllare gli aspetti tecnologici, sui quali abbiamo costruito la nostra solidità, mentre stiamo lavorando per rafforzare la consapevolezza delle persone. Riccardo Renna, chief operating officer di Banca Generali I nostri sviluppi più recenti sono ispirati ai processi di trasformazione digitale, per definizione molto più rapidi oggi rispetto a un tempo. Questo riguarda anche l'aggiornamento delle soluzioni che servono a proteggere da esposizione a potenziali rischi. Guardiamo con estrema attenzione alle intrusioni, ma soprattutto alla fuga di dati. Giuseppe Coiro, responsabile sviluppo IT sistemi direzionali di Banca Popolare di Bari Pratiche consolidate negli anni e certificazioni come ISO 27000 ci rendono ben strutturati di fronte alle principali sfide della cybersecurity. Le maggiori preoccupazioni derivano dal comportamento dei clienti che accedono all’Internet banking, ma confidiamo che normative come la PSD2 aiutino a migliorare la situazione. Giampiero Raschetti, Ciso di Banca Popolare di Sondrio L’approccio alla sicurezza non può che essere globale e legato sia alle misure di prevenzione, atte a ridurre i rischi di incorrere in situazioni indesiderabili, sia a quelle di tipo reattivo, attraverso la predisposizione di meccanismi di risposta a eventi non prevedibili o straordinari. 34 |

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Antifrode e analisi del rischio si sommano per noi alla gestione della continuità operativa, presidiata attraverso specifici piani d’azione, regole di funzionamento e risorse dedicate. Vittorio Sorge, vice direttore generale di Banca Popolare di Puglia e Basilicata

mo sviluppato internamente un motore antifrode. Grazie ai meccanismi integrati di machine learning abbiamo potuto via via raffinare il livello di scoring su ogni operazione. Marco Lafauci, responsabile architettura e sicurezza IT di Gruppo Banca Carige

Oltre ad aver avviato un’opera di monitoraggio puntuale degli alert di sicurezza in chiave reattiva, siamo passati a una programmazione triennale degli investimenti, una sorta di piano strategico che porta a cercare di anticipare come si evolverà il nostro business e quindi, di conseguenza, anche le architetture. Massimo Barazzetta, responsabile organizzazione e sistemi informativi di Banco di Desio e della Brianza

Dopo il focus degli ultimi anni su investimenti connessi alla protezione perimetrale e applicativa, oggi stiamo assistendo a un cambio di paradigma, ormai compreso anche dalle figure apicali, in base al quale occorre dare importanza anche alla cultura della sicurezza in azienda. Stefano Vaccaneo, responsabile ufficio Ict di Cassa di Risparmio di Asti

Il controllo interno sulla sicurezza è solido, mentre l’operato dei clienti crea maggiori preoccupazioni. Per questo, abbia-

Forniamo servizi a circa sessanta banche, svolgendo anche le funzioni di un vero e proprio security operation center. Il nostro piano industriale prevede di rafforzare questa componente, per poter aiutare


i nostri clienti in modo più integrato. Abbiamo la percezione che il livello di sicurezza interno di ogni banca possa sicuramente essere migliorato e quindi vogliamo poter fare di più. Michele Rivieri, Ciso di Cedacri Seguiamo un approccio di tipo olistico, che si estende dalla vecchia logica del presidio dei confini aziendali ai più innovativi concetti di security e privacy by design, con un modello che si applica a tutti gli stakeholder della componente organizzativa, compresi i clienti. Andrea Berneri, responsabile information security e business continuity di Fideuram – Ispb Stiamo standardizzando un processo di gestione della cybersecurity attraverso la certificazione Nis, legata all'omonima direttiva che indica un insieme di procedure da attivare per gestire tutti i fenomeni rilevati e produce una valutazione annuale sul livello di maturità della banca. Egis Ligorio, responsabile governance e sicurezza IT di Findomestic Banca Una parte maggioritaria dell’infrastruttura e delle applicazioni è gestita on premise, in modo totalmente controllato da noi. La parte residente sul cloud (di diversi provider) viene anch’essa gestita dal personale Ict. Questo ci fornisce un’elevata visibilità sul comportamento e sullo stato della nostra tecnologia. Rappresentiamo un’anomalia rispetto al resto delle banche medio-piccole in Italia, ma riteniamo il nostro modello più affidabile. Gianluca Martinuz, Cio di Fineco Bank ll profondo assessment che abbiamo fatto sulla nostra infrastruttura e sulle politiche di sviluppo software, oltre che sull'architettura di rete e sulla visibilità dei nostri server, ci ha portati ad adottare un approccio “misto” alla sicurezza,

modulando una componente preventiva con una di tipo reattivo. Daniele Cericola, servizio Ict management & innovation di Ibl Banca Siamo passati da un approccio di tipo “red team”, nel quale un gruppo di specialisti tiene sotto controllo i Siem e rileva i problemi, all'estremo opposto, rappresentato dal “blue team”, in cui l'approccio è più proattivo. Qui, anche grazie a strumenti di intelligence sul deep Web, si intercettano tutte le informazioni potenzialmente utili per prevenire i rischi anche più recenti.

Marco Palazzesi, responsabile Ict & Security di Iccrea Banca Il nostro focus sulla sicurezza è testimoniato dal fatto che nel 2019 abbiamo iniziato un percorso graduale di implementazione di soluzioni perimetrali con tutti i layer di firewall verso l'esterno. Lo scorso anno abbiamo anche introdotto un nuovo Soc, che sarà potenziato in questo periodo, con funzioni soprattutto di monitoraggio. Infine, abbiamo introdotto nuovi sistemi di intrusion detection. Alberto Prior, Cio di Sparkasse – Cassa di Risparmio di Bolzano

LA PREVENZIONE PASSA PER LA VISIBILITÀ I cyberattacchi rappresentano un pericolo costante per il settore finanziario e sugli investimenti fatti pesano in modo notevole anche le stringenti normative intervenute sul tema della sicurezza. Le soluzioni evolvono verso concetti di intelligenza artificiale, machine learning e analisi del comportamento degli utenti. La vera sfida, per chi gestisce la sicurezza, è avere tutto sotto controllo. Adottare diverse soluzioni crea difficoltà nella gestione delle risorse e del personale, poiché implica una conoscenza approfondita delle tecnologie e dei prodotti utilizzati. Spesso non esiste una gestione unica e centralizzata in termini di console e diventa difficile proteggere l’intera infrastruttura estesa e avanzata. La disomogeneità delle soluzioni adottate incide sulle performance, sulla capacità di deployment, controllo e semplicità d'uso di ambienti articolati. Il comportamento degli utenti è un fattore di preoccupazione e le falle create per comportamenti errati

possono essere corrette solo con formazione e consapevolezza, in base all'approccio “zero trust, trust no one”. Un aspetto non negoziabile, su cui Panda Security è da sempre molto attenta, riguarda la rapidità di detection e remediation: la tecnologia in caso di attacco dev’essere a supporto dell’azienda, suggerendo immediate ed efficaci azioni di intervento e successivi comportamenti da adottare. Il nostro team di supporto, interamente italiano, fornisce assistenza totale 24/7, mentre gli esperti dei PandaLabs intercettano minacce sconosciute e con attività di hunting prevengono attacchi imminenti. Panda Security considera l'assoluta visibilità fondamentale per monitorare ciò che accade nell’ambiente IT. Le informazioni, sotto forma di reportistica immediata e dettagliata, sono una ricchezza che ogni cliente può analizzare in termini di sicurezza e non solo. Nicola D’Ottavio, country manager Italia e Svizzera di Panda Security

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ARTIFICIAL INTELLIGENCE

L’EUROPA NON SARÀ IL FAR WEST DELL’A.I. Un documento programmatico della Commissione Europea elenca i principi da rispettare: regole chiare, trasparenza sull’uso dei dati, privacy. Ma la realtà non è troppo idilliaca.

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intelligenza artificiale non può più essere un territorio senza regole, in cui ognuno fa ciò che vuole in base alla propria coscienza e onestà. O almeno non in Europa. Servono regole chiare, definite, e l’obbligo di maggiore trasparenza e tracciabilità sull’uso dei dati, specialmente in ambiti che toccano da vicino la privacy, la sicurezza e i diritti civili, come la salute, i poteri delle forze dell’ordine e i trasporti. Questo è il succo del documento programmatico con cui la Commissione Europea lo scorso febbraio ha presentato le proprie linee guida sull’adozione dell’intelligenza artificiale, accanto a quelle riguardanti la “strategia sui dati” dell’Ue. I due temi naturalmente sono intrecciati e rientrano sotto a un’unica visione: quella di realizzare un’Europa, si legge nella nota stampa diffusa, “alimentata da soluzioni digitali che mettano al primo posto le persone, che apra nuove opportunità per le aziende e acceleri lo sviluppo di una tecnologia degna di fiducia, per alimentare una società aperta e democratica e un’economia vivace e sostenibile”. In questa visione il digitale non è solo un propulsore dell’economia ma anche un fattore cruciale per “combattere il cambiamento climatico e raggiungere una transizione green”. Opportunità e rischi da valutare

Nel white paper si illustra lo scopo di incentivare lo sviluppo dell’AI anche nelle aziende di medie e piccole dimensioni, 36 |

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che senza sostegno non potrebbero avvicinarsi a questo mondo. Sarà quindi necessario “movimentare risorse lungo tutta la catena del valore”, lavorare con gli Stati membri dell’Ue e con i centri di ricerca, attivare partnership tra settore pubblico e privato. Non bisognerà sottovalutare la complessità e i “rischi significativi” che l’AI può creare in determinati ambiti. Per questo vanno create regole chiare sulla tutela dei dati personali e della privacy e più in generale sui sistemi “ad alto rischio”, come quelli riguardanti la salute, la regolamentazione e il controllo sociale (applicazioni usate dalle forze dell’ordine) e i trasporti. In tutti questi casi, i sistemi di AI dovranno essere trasparenti e tracciabili, nonché garantire una “supervisione umana”. Bias e biometria, le questioni spinose

Il documento tocca anche, di striscio, il problema del bias: “Le autorità”, si legge, “dovranno poter testare e certificare i dati usati dagli algoritmi così come possono controllare cosmetici, automobili o giocattoli. Dati senza pregiudizio sono necessari per allenare i sistemi ad alto rischio affinché agiscano in modo corretto e rispettino i diritti fondamentali, specialmente l’assenza di discriminazione”. Quanto al delicato tema del riconoscimento facciale, l’Europa ha un atteggiamento di apertura. Il suo uso attualmente è ammesso solo in casi eccezionali e laddove ne sia dimostrata la necessità, ed è soggetto a diverse legislazioni nazionali o comunitarie. Ora, però, la Commissione desidera aprire “un ampio dibattito su quali circostanze, eventualmente, possano giustificare tali eccezioni”. Come noto, Stati Uniti e Cina sono in testa alla classifica mondiale dei Paesi che non solo adottano maggiormente le tecnologie di AI in ambito aziendale e pubblico, ma che più vi investono con stanziamenti, capitali privati, sostegno alle startup. E se l’Europa non può competere con i nu-

L’ALGOR-ETICA CHE PIACE AL PAPA

Sull’intelligenza artificiale, vendor tecnologici e Chiesa stanno cercando di trovare l’intesa: è stato firmato a Roma a inizio marzo il documento programmatico “Call for an AI Ethics”, con cui il Vaticano, la Fao, Microsoft e Ibm si impegnano a promuovere uno sviluppo dell’AI ispirato a principi di trasparenza, responsabilità, equità e privacy. Il documento certifica l’impegno a sostenere un approccio etico all’intelligenza artificiale e a promuovere tra organizzazioni, governi e istituzioni un senso di responsabilità condivisa. Nel suo discorso (letto dall’arcivescovo Vincenzo Paglia), Papa Francesco ha definito la tecnologia come un “dono di Dio”, sottolineando però la contraddizione di un mercato in cui “gli utenti sono spesso ridotti a ‘consumatori’, asserviti a interessi privati concentrati nelle mani di pochi”. Il Pontefice ha affrontato il problema della disparità di conoscenza e di potere fra chi crea tecnologia e chi ne è destinatario e oggetto: “Dalle tracce digitali disseminate in Internet, gli algoritmi estraggono dati che consentono di controllare abitudini mentali e relazionali, per fini commerciali o politici, spesso a nostra insaputa. Que-

sta asimmetria, per cui alcuni pochi sanno tutto di noi, mentre noi non sappiamo nulla di loro, intorpidisce il pensiero critico e l’esercizio consapevole della libertà”. Francesco dà ovviamente un’interpretazione religiosa al problema dell’etica applicata all’AI, richiamandosi ai principi della Dottrina della Chiesa: dignità della persona, giustizia, sussidiarietà e solidarietà, che possono contribuire alla definizione di una “nuova frontiera che potremmo chiamare algor-etica”, nella quale le persone possono conoscere e verificare i processi determinati dagli algoritmi. Visti da un punto di vista più laico, questi principi sono coerenti con la visione di un’intelligenza artificiale “umano-centrica”, così come recentemente illustrata dal documento programmatico della Commissione Europea. Secondo gli enunciati della “Call for an AI Ethics”, i sistemi di intelligenza artificiale devono essere trasparenti, inclusivi (cioè prendere in considerazione le esigenze di tutti gli esseri umani), responsabili in merito alle loro possibili conseguenze, imparziali, affidabili nel loro funzionamento, e infine sicuri e rispettosi della privacy. V. B.

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meri, allora lo farà con la qualità ovvero, come si legge nel documento, diventando il “leader dell’intelligenza artificiale degna di fiducia”. Esempi non troppo virtuosi

Le idee chiare ci sono, ma la strada da fare è ancora lunga e molte applicazioni già in uso dovranno correggere il tiro per non cozzare con i principi etici difesi dall’Ue. Recentemente il governo olandese è stato criticato per via di SyRI (l’acronimo sta per “sistema indicatore del rischio”), un programma usato per valutare le richieste di sussidi e per assegnare case popolari ai meno abbienti. Concepito nel 2014, finora è stato usato da quattro autorità statali come sistema di digital welfare antifrode, capace di identificare le situazioni potenzialmente truffaldine sulla base di dati precedentemente raccolti e analizzati per creare dei “profili di rischio”. L’algoritmo analizza i dati di persone che in passato hanno commesso delle frodi ai danni dello Stato per catalogare i cittadini che fanno nuove richieste, i quali dunque sa-

ranno sottoposti a particolari verifiche. In sostanza, il sistema può inserire nelle categorie dei “sospettabili” delle persone perfettamente incensurate, purché definite da alcuni criteri di residenza (in quartieri “poveri” di alcune città) e di reddito. Inoltre non è mai stato dichiarato dalle autorità statali quali dati, esattamente, vengano analizzati e come, secondo quali modelli matematici di analisi, né si è mai saputo se qualche frode effettiva sia stata scoperta con tale metodo. Tutto ciò non è piaciuto a sindacati, gruppi di tutela della privacy e privati cittadini, che hanno sporto denuncia, trovando poi soddisfazione nella sentenza espressa da un tribunale de L’Aia: SyRI, a detta della corte, è in conflitto con l’articolo 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, che tutela il diritto alla privacy e vieta le ingerenze pubbliche nella vita privata se non per ragioni di sicurezza o interesse collettivo. In secondo luogo, il sistema antifrode attua delle discriminazioni in base a criteri come la ricchezza e l’etnia. La mancanza

di trasparenza intorno al progetto, inoltre, a detta del giudice rende difficile monitorare e controllare il corretto funzionamento di SyRI. Altro governo poco virtuoso è quello britannico. Una recente relazione della Commissione sugli Standard della Vita Pubblica (Committee on Standards in Public Life) a cui hanno contribuito accademici, pubblici ufficiali e rappresentanti di gruppi di tutela dei cittadini, lo accusa di scarsa trasparenza nell’uso dei dati e di poca attenzione a evitare il bias. “Quando ho avviato il progetto ho chiesto ai miei ricercatori di scoprire dove gli algoritmi fossero impiegati nel settore pubblico, e non sono stati in grado di farlo”, ha spiegato in un’intervista a Zdnet il presidente della Commissione sugli Standard della Vita Pubblica, Lord Evans (già direttore dell’MI5, l'ente britannico per la sicurezza e il controspionaggio). “I giornalisti provano a scoprirlo e raramente ci riescono. Il governo non pubblica nemmeno alcun audit sugli scopi dell’utilizzo dell’AI”. Valentina Bernocco

LA “QUESTIONE MORALE” HA UN RISVOLTO ECONOMICO L’intelligenza artificiale dovrebbe avere un’etica? Non si tratta di un puro quesito filosofico. L’anno scorso il Capgemini Research Institute ha intervistato 4.400 consumatori di sei Paesi (Stati Uniti, Cina, Francia, Germania, Paesi Bassi, Regno Unito) e 1.580 professionisti di società da oltre un miliardo di dollari di fatturato annuo di dieci Paesi (Italia inclusa) interpellando un po’ tutte le figure aziendali, tra alti dirigenti, manager, responsabili HR e marketing, informatici, esperti di data science e di AI. Dal risultante report (“Why Addressing Ethical Questions in AI Will Benefit Organizations”) è emer-

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sa una sostanziale spaccatura tra i dirigenti: uno su due (51%) pensa che garantire regole morali e trasparenza nei sistemi di AI sia importante per aziende e consumatori. A giudicare dai problemi già sperimentati, però, la percentuale dovrebbe forse essere ben più alta. La schiacciante maggioranza delle grandi imprese, nove su dieci, negli ultimi due o tre anni ha avuto almeno un problema con i propri dipendenti o clienti a causa della scarsa trasparenza dell’AI. Tra i consumatori interpellati, tre su quattro desidererebbero maggiore trasparenza nei servizi basati su AI, come quelli di marketing personalizzato e chatbot.

Altrettanti approvano l’idea che l’intelligenza artificiale sia regolata da leggi aggiuntive a quelle esistenti, mentre solo il 6% dissente (il 18% ha espresso incertezza o non ha saputo rispondere). Insomma, per tre persone su quattro è preferibile avere più regole e meno libertà, piuttosto che rischiare impieghi dell’intelligenza artificiale discriminatori, opachi o non verificabili. Quel che più conta per le aziende è che essere etici, e percepiti come tali, possa avere impatti sul giro d’affari: circa sei consumatori su dieci sono spinti a utilizzare con maggior frequenza ed entusiasmo un servizio percepito come “etico”.


DOVE CI PORTERÀ L’AI IN FUTURO? Gli analisti di Cb Insights tracciano alcune previsioni sulle tendenze del 2020 e oltre.

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utte le previsioni sulle tendenze dell’anno 2020 fatte prima dell’esplosione dell’epidemia di coronavirus dovranno essere, probabilmente, rivedute e corrette. Nondimeno, è interessante leggere quello che la società di analisti Cb Insights immagina per il futuro immediato dell’intelligenza artificiale. Trend che sembrano ancora validissimi anche alla luce dello sconvolgimento mondiale della pandemia, e che anzi si intrecceranno forse proficuamente con le nuove esigenze di ricerca medico-scientifica e di analisi dei dati emerse nei primi mesi dell’anno. Commentiamo insieme alcuni degli “Artificial Intelligence Trends to Watch in 2020”.

Deepfake al servizio delle aziende

I video modificati con algoritmi di intelligenza artificiale finora hanno fatto parlare di sé per via di applicazioni ludiche, sulla scia della famigerata app cinese Zao, e per gli sciagurati utilizzi nella pornografia, nella diffusione di bufale e nella propaganda politica sleale. La tecnologia deepfake è di per sé controversa, come fa notare Cb Insights. Potrebbe però rappresentare una risorsa sia per l’industria cinematografica (per la “risurrezione digitale” di star non più viventi) sia per il retail (applicazioni che permettono all’utente di sostituire il proprio volto a quello di chi indossa un capo d’abbigliamento, per esempio).

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Lo spoofing vocale

L’impatto ambientale dell’AI

L’AI è sempre più usata nelle soluzioni di sicurezza informatica, dai sistemi di prevenzione delle minacce ai controlli antifrode. Purtroppo anche i “cattivi” possono trarre vantaggio dagli algoritmi: per esempio per realizzare sofisticate azioni di spoofing, cioè attacchi basati sulla falsificazione dell'identità, creando messaggi audio che imitano alla perfezione la voce di una persona di cui la vittima si fida. Questo genere di “spoofing vocale” è stato osservato per la prima volta nel 2019, in attacchi che falsificavano la voce di dirigenti d’azienda per richiedere trasferimenti di denaro.

L’intelligenza artificiale contribuirà, purtroppo, ad aumentare le emissioni di gas serra: la grande potenza di calcolo e lo storage richiesti dalle sue applicazioni si traducono in necessità di infrastrutture, consumi, energia (non sempre green). Ma proprio l’AI potrà contribuire a ridurre questo impatto in vari modi. Per esempio, grazie a modelli di analisi predittiva delle esigenze energetiche, già da tempo impiegati da Google nei propri data center. Anche smartphone, smart speaker e altri dispositivi iniziano a sfruttare l’apprendimento automatico per minimizzare i consumi.

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La progettazione automatizzata

L’intelligenza artificiale alimenterà l’intelligenza artificiale, rendendola più democratica. Usando le reti neurali è possibile progettare in modo relativamente facile e automatizzato dei modelli di apprendimento automatico, per i quali altrimenti sarebbero richieste competenze tecniche alla portata di pochi. Google ne parla già dal 2017 come di “autoML”, cioè machine learning automatizzato.

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I progressi della medicina

Si continuerà a usare l’AI in diversi campi di indagine scientifica e in particolare negli studi sul Dna. Gli algoritmi di apprendimento delle reti neurali, eseguiti senza supervisione, stanno già dimostrando di poter servire nello studio delle strutture delle proteine, fatto utile per lo sviluppo di nuovi farmaci.

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CYBERSECURITY

RANSOMWARE DANNOSO E TRASFORMISTA Chester Wisniewski, principal research scientist di Sophos, racconta come sta cambiando il fenomeno degli attacchi con richiesta di “riscatto”, e quali minacce si nascondono nel cloud.

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li attacchi informatici si trasformano e si arricchiscono continuamente. In gran parte non è possibile prevederli, ma è anche vero che gli errori umani e le debolezze di alcune tecnologie (o del modo in cui vengono adottate) contribuiscono ad accentuare i rischi. Quelli legati al cloud computing, per esempio. E poi ci sono i ransowmare, una tipologia di attacco che sta mostrando il suo vero potenziale aggressivo, al di là delle singole richieste di riscatto, e che nel 2019 ha mandato in tilt sistemi informatici di enti pubblici, città e ospedali. Che cosa ci aspetta nel futuro? Ne abbiamo discusso con Chester Wisniewski, prin40 |

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cipal research scientist di Sophos. Come è cambiato il fenomeno dei ransomware?

Nel 2019 si è osservato un importante cambiamento, in quanto gli attacchi ransomware hanno diminuito il focus sul Pc che avevano in precedenza e si sono rivolti con maggiore decisione verso i server aziendali. Questo è avvenuto per due motivi: da un lato, gli endpoint sono oggi molto protetti a livello di soluzioni e processi, mentre i server lo sono di meno e risultano maggiormente vulnerabili per il ritardo nelle attività di patching. Spesso in azienda ci si preoccupa per aspetti come uptime e affidabilità dei server, e si

rimanda il patching, che in Europa – una volta che una vulnerabilità è nota – avviene normalmente in un periodo compreso due settimane e un mese per quanto riguarda i Pc e dopo oltre 90 giorni per i server. Se parliamo poi di ambienti business-critical come Erp o altro, si arriva ad aggiornamenti effettuati una sola volta all’anno. In aggiunta, si assume che i server siano protetti dalla rete aziendale, ma questi attacchi viaggiano criptati, la decriptazione avviene a livello di server e sulla rete passa tutto. Infine, in alcuni casi le imprese sono restie ad aggiungere livelli di sicurezza ai server perché vogliono ridurne le prestazioni. Tutto questo porta ad avere in alcuni casi un livello di sicu-


rezza veramente basso per i server aziendali, e gli attaccanti lo sanno: nella prima fase di attacco effettuano una scansione, individuando tutte le macchine vulnerabili e prive di aggiornamenti di sicurezza.

IL CORONAVIRUS VIAGGIA IN SPAM

Qual è la conseguenza se ad essere preso di mira è un server aziendale?

Gli attaccanti puntano oggi a bloccare i server con attacchi molto più studiati e con un forte coinvolgimento del “fattore umano”, ossia dell’hacker in grado di individuare la realtà da colpire, verificarne le vulnerabilità, muoversi lateralmente nel network in modo da individuare le macchine e i dati più sensibili. Il tutto per chiedere un riscatto più alto: siamo infatti passati dai 400 euro per un laptop a richieste di milioni di euro che l’azienda, l’ospedale, la municipalità, saranno costrette a pagare per non subire danni economici, di reputazione, mancato business, di uguale portata. E se i server sono virtualizzati o in cloud, cambia qualcosa?

In realtà non cambia niente: anche virtualizzati sono poco sicuri, e se sono in cloud è ancora più difficile capire cosa sta andando storto, perché di norma nella nuvola non ho strumenti di sicurezza. Anzi, le aziende assumono – sbagliando – che la sicurezza sia responsabilità del cloud provider. Questi ultimi gestiscono la sicurezza a livello di infrastrutture, non di software del cliente che gira su queste, e la conseguenza è che alcune attività, come ad esempio l’analisi dei log (da cui possono capire, ad esempio, se sia in corso un tentativo di “password guessing”) semplicemente non sono possibili. Qual è oggi la situazione di sicurezza del cloud?

L’adozione è in forte crescita, ma la sicurezza del cloud è qualcosa di ancora nuovo e immaturo, e il motivo principale è che si tratta di un tema complesso da

Chester Wisniewski

affrontare. Servono competenze e un’attitudine corretta. Va detto anche che al momento neanche gli attaccanti sono molto focalizzati sul cloud, come se loro stessi stessero ancora imparando a fare attacchi rivolti a questi ambienti. In questo momento la maggior parte dei breach che coinvolgono il cloud sono legati ad errori di configurazione, per i quali i dati sono effettivamente disponibili a tutti. Lo vediamo di continuo: basti pensare al caso recente di Microsoft: 250 milioni di record dei clienti accessibili per errori di configurazione. Al momento è molto facile che succeda, potrebbe capitare a chiunque: da parte dei cloud provider, servirebbe rendere più sicuro l’uso del cloud fin dall’inizio, mentre per gli utenti e in particolare gli sviluppatori (che posizionano in cloud i propri test dello sviluppo in modo poco sicuro e poi li lasciano lì quando invece dovrebbero cancellarli) servirebbe un’attività di formazione su questi temi. Per quanto riguarda i veri attacchi rivolti al cloud, cominciamo solo ora ad osservare alcuni tentativi, molto sofisticati e focalizzati su specifiche istanze: in questo momento solo pochi hanno le competenze per farlo. È però solo questione di tempo prima che queste attività siano svolte su larga scala. Oggi vediamo solo la punta dell’iceberg. Elena Vaciago, research manager di The Innovation Group

Il dramma del coronavirus ha avuto un risvolto tecnologico che, se non tragico, è stato quantomeno dannoso per le vittime cadute nella truffa. Molte quelle circolate, con vera escalation di settimana in settimana. Kaspersky già a fine gennaio aveva scoperto campagne di spam a base di messaggi spacciati per documentazione medica, informazioni su come proteggersi dal virus o come scoprire sintomi di contagio: in realtà, le email diffondevano diversi tipi di attacco informatico, fra cui trojan e worm, in grado di cancellare, bloccare, modificare o copiare i dati. All’inizio di marzo, poi, i ricercatori di Sophos segnalavano una campagna di spam attiva anche in Italia: i messaggi si presentavano come inviati dall’Oms o da altra autorità in campo sanitario e includevano link diretto verso un documento (una presunta lista di precauzioni da adottare per prevenire l’infezione) contenente un malware. Sempre in marzo i laboratori di CyberArk hanno scoperto un ransomware che sfrutta il nome Coronavirus o covid-19 e che infetta i Pc a partire dal sito di phishing WiseCleaner[.] best. In un nuovo sondaggio internazionale di Check Point, invece, il 71% dei professionisti intervistati ha osservato parallelamente alla pandemia un aumento di minacce e attacchi rivolti alla propria azienda. V.B.

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CYBERSECURITY

L’ALLARME INFINITO Non cala il numero di attacchi rilevati dal Clusit: nel 2019 quelli classificati come “gravi” sono stati 1.670 quelli gravi, il 7,6% in più rispetto al 2018. Crescono ransomware e phishing.

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gni anno va sempre peggio. Tecniche di difesa e consapevolezza degli utenti sono in costante miglioramento, ma i criminali informatici sono sempre più organizzati, lavorano con logiche industriali e riescono a colpire con crescente efficacia. E il loro principale scopo rimane il guadagno illecito. La conferma arriva dal rapporto annuale del Clusit, l’Associazione Italiana per la Sicurezza Informatica, che ormai da diversi anni (siamo alla quindicesima edizione) analizza l'andamento degli attacchi con gravi conseguenze avvenuti nelle aziende pubbliche e private di tutto il mondo. Nel 2019 ne sono stati rilevati 1.670, con una media mensile di 137 e un numero complessivo in crescita del 7,6% rispetto all'anno precedente e addirittura del 91,2% in rapporto al 2014. "La situazione sta peggiorando e riteniamo che i nostri dati rappresentino la punta di un iceberg più esteso", commenta Andrea Zapparoli Manzoni, membro del comitato direttivo del Clusit. “Lo dimostra il fatto che il 46% delle vittime sia americana, effetto diretto di un obbligo di public disclosure più consolidato rispetto all'Europa, dove le normative Gdpr e Nis non hanno ancora prodotto i risultati sperati". Il cybercrime domina la scena come principale motivazione di attacco, rappresentando l'83% delle rilevazioni e con un numero assoluto (1.383) che è il più alto di sempre e segna un aumento del 162% rispetto al 2014. Calano le altre categorie, in particolare

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l'hacktivismo, che solo tre anni fa aveva un peso del 30% circa sul totale, sceso ora al 3%. Il dato dimostra che ormai gli attaccanti agiscono in modo organizzato e soprattutto allo scopo di ottenere denaro dalle proprie vittime. “I gruppi più organizzati hanno natura transnazionale e un fatturato complessivo misurabile in miliardi di dollari”, avverte Zapparoli Manzoni. “Tutto è potenziale bersaglio, dalle infrastrutture ai device mobili, dalle piattaforme social e di messaggistica agli oggetti Internet of Things”. All'interno della macrocategoria del cybercrime, il malware è lo strumento più utilizzato (44%), con la sottotipologia del ransomware, in particolare, a dominare la scena. In notevole crescita sono il phishing e il social engineering, con un aumento dell'81,9% rispetto al 2018 e un peso totale del 17%, anche grazie alla quota crescente delle azioni di Business Email Compromise.

Sale anche il numero di attacchi di tipo zero day (basati su vulnerabilità ancora non note) e quelli di account cracking, a dimostrazione del fatto che il “fattore umano” è l’anello debole che i criminali cercano frequentemente di spezzare. Diminuiscono invece le tecniche d’attacco sconosciute, lo sfruttamento di vulnerabilità note (effetto di una maggior attenzione alle patch da applicare ai software) e le Advanced Persistent Threat (Apt). Chi sono le vittime di tutta questa attività? Nel 24% dei casi gli attacchi mirano a bersagli multipli, così da massimizzare il risultato. Fra i settori più colpiti direttamente spiccano la sanità (quasi esclusivamente con fini estorsivi) e a seguire le strutture governative, che cui è indirizzato il 15% degli attacchi (un dato però in calo di oltre il 19% anno su anno). Un settore in forte ascesa, invece, è quello dei servizi online: + 91,5%. Ulteriori dati sull'Italia arrivano dall'osservatorio di Fastweb, realizzato sulla base del traffico di rete controllato direttamente. “Abbiamo rilevato un'ascesa degli attacchi Ddos, anche se mediamente di minor durata e con un'occupazione di banda media di 140 Gbps”, racconta Marco Raimondi, marketing manager per le aree security e IoT. “Gli attaccanti tendono a utilizzare piattaforme in grado di distribuire galassie di malware di vario genere originate da un solo ceppo. Cala la Pubblica Amministrazione come bersaglio mentre cresce notevolmente il gaming come settore colpito, soprattutto nell'ultima parte del 2019”. R.B.


CYBERSECURITY

EMAIL: VERO O FALSO? Social engineering basato su intelligenza artificiale, spear-phishing con payload malevoli, furto di credenziali: nuove tecniche, raccontate da Darktrace, rendono più pericolosi gli attacchi.

L'

email è il porto sicuro dei cybercriminali. Una destinazione facile, planetaria e capillare, una porta aperta su dispositivi personali e aziendali, uno strumento che permette di sparare nel mucchio così come di mirare a bersagli specifici. Non necessariamente si arriverà a realizzare un furto di dati o di denaro, ma tentare offensive tramite posta elettronica è ancora molto proficuo. Come segnalato da Darktrace nel suo ultimo report dedicato agli attacchi informatici (“Cyber AI: An Immune System for Email”), quelli che hanno origine dalle caselle di posta veicolano il 94% delle minacce esistenti. E diventa sempre più difficile accorgersi delle truffe, considerando le ultime evoluzioni nelle tecniche dei cybercriminali. Tra quelle in ascesa c’è l’account takeover, in cui gli attaccanti ottengono le credenziali di una casella di posta e la usano per inviare messaggi ad altre vittime, per esempio colleghi o clienti. Nella variante detta supply chain account takeover, per esempio, ci si spaccia per un fornitore con cui i dipendenti di quell’azienda intrattengono abituali scambi di email: è un modo per conquistare la fiducia dell’utente e abbassare la sua soglia di allerta.

Attacchi con o senza malware

Va anche detto che non necessariamente, anzi quasi mai, le email malevole contengono dei malware: accade solo nel 2% dei tentativi di attacco. Molto più spesso si tenta di indurre la vittima a compiere delle azioni esterne alla posta elettronica, per esempio dei trasferimenti di denaro. Questo è il caso degli attacchi di social engineering, in cui gli aggressori fingono di

essere qualcun altro (la tecnica è detta “impersonificazione”) per richiedere un’azione al destinatario. Darktrace racconta di aver individuato in una multinazionale del settore tecnologico un attacco di questo tipo, rivolto a una trentina di dipendenti: l'oggetto di ogni email era personalizzato includendo il nome del destinatario, mentre il mittente era un indirizzo Gmail con un nome di dominio molto somigliante a quello di un dirigente dell’azienda. Altro attacco particolarmente insidioso è quello che associa lo spear-phishing alla consegna di payload che installano software dannoso. Darktrace cita l’esempio di un un’università di Singapore bersagliata da messaggi che si spacciavano per notifiche di WeTransfer e contenevano un link malevolo: per il modo in cui erano confezionate (indirizzo mittente, testo interno, link) sono riuscite a sorpassare i sistemi di sicurezza informatica dell’ateneo. Tra le nuove tendenze c’è poi lo spear-phishing creato con il minimo della fatica, ricorrendo all’intelligenza artificiale per generare automaticamente messaggi che imitano lo

stile di scrittura di contatti personali, colleghi o fornitori della vittima. Alla ricerca della verità

C’è un aspetto comune a queste differenti tecniche: per tutti noi sta diventando sempre più difficile distinguere il vero dal falso. I tentativi di truffa si fanno più sofisticati e, complici la fretta e l’intasamento a cui sono sottoposte le inbox personali e aziendali di molti, i criminali sanno di poter contare su errori, ingenuità o distrazioni. “I sistemi di controllo tradizionali, come gli antivirus standard basati sulla reputazione e sulle signature come e l’anti-spam, possono funzionare per le campagne diffuse ma non sono abbastanza efficaci contro gli attacchi più mirati, sofisticati e avanzati”, ammonisce Peter Firstbrook, analista vicepresidente di Gartner. “Oggi più che mai, nella progettazione dei sistemi di sicurezza della posta elettronica, è necessario un cambiamento di mentalità per stare al passo con l’evoluzione del panorama delle minacce in rete". Valentina Bernocco APRILE 2020 |

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ECCELLENZE.IT | Acantho

POTENZA E SICUREZZA VANNO A BRACCETTO La società di servizi di colocation e connettività del Gruppo Hera ha ampliato il data center di Imola, corredandolo di Ups di Vertiv per garantire continuità ai carichi di lavoro.

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ontinuità operativa, sicurezza ed efficienza energetica: i data center oggi non possono rinunciare a nessuno di questi requisiti, se vogliono garantire il miglior servizio ai propri clienti. Queste esigenze hanno spinto Acantho, la società digitale del Gruppo Hera, ad adottare particolari tecnologie a corredo di una delle infrastrutture da cui eroga servizi di colocation, connettività e telefonia verso le principali città dell’Emilia-Romagna. Il network dell’azienda si estende su 4.200 chilometri, metà delle quali su rete metropolitana, e sfrutta integrazioni con i principali operatori telco nazionali e internazionali. Uno dei due data center, cioè quello di classe Tier III di Imola (l’altro, Tier IV, è ubicato a Siziano, nell’hinterland milanese), recentemente è stato ampliato con una sala macchine aggiuntiva per far fronte alla crescita della clientela: qui sono stati installati 48 nuovi armadi rack. Ma l’aggiunta di capacità di calcolo e archiviazione è solo una parte del progetto realizzato. Acantho voleva potenziare l’affidabilità del data center, il suo funzionamento continuativo, insomma desiderava un'architettura “a prova di guasto”: a tal fine ha avviato una fase di test sui prodotti disponibili sul mercato, giungendo poi alla scelta delle soluzioni di Vertiv. Vendor, quest’ultimo, di cui l’azienda era già cliente da oltre quindici anni. Nei primi mesi del 2019, dunque, sono stati installati due gruppi di continuità (Ups, Uninterruptible Power Supply) della gamma Liebert con potenza da 400 kVA, scalabili fino a 800 kVA, e un Ups Libert da 800 kVA, scalabile fine o 1600 kVA. Tale architettu44 |

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ra, associata alla manutenizione dinamica e alla scalabilità a caldo, permette di garantire al data center un funzionamento e una protezione continuativi. “Sapevamo che l’ampliamento del nostro data center di Imola sarebbe stata una sfida in termini di continuità ed efficienza energetica LA SOLUZIONE La nuova sala macchine è equipaggiata con tre gruppi di continuità: due Ups Liebert Trinergy Cube da 400 kVA, scalabili fino a 800 kVA, e un Ups Liebert Trinergy Cube da 800 kVA, scalabile fine o 1600 kVA, tutti dotati di funzioni di rilevamento, misurazione e registrazione dei dati. Sono state installate anche due unità di condizionamento ad acqua refrigerata Liebert Pcw. Il servizio di diagnostica remota Vertiv Life permette di effettuare attività di analisi degli eventi e manutenzione predittiva.

dell’intero sistema”, racconta Massimo Bombardi, responsabile data center management di Acantho. “Per questa ragione ci siamo rivolti a Vertiv, con cui si è ormai instaurato un rapporto di fiducia, data l’expertise e la professionalità dimostrata in questi ultimi quindici anni”. L’azienda ha così raggiunto due obiettivi di miglioramento dell’infrastruttura: ha massimizzato sia la potenza sia l’affidabilità sia la scalabilità del data center. Sul fronte dell’efficienza energetica, poi, è stato ottenuto un risparmio dei consumi in linea con le aspettative e un conseguente contenimento dei costi di esercizio. “Il plus dell’offerta Vertiv”, aggiunge Bombardi, “si è rivelato il servizio di diagnostica remota e monitoraggio preventivo Life, che ci garantisce la totale reperibilità di un’assistenza qualificata 24/7, 365 giorni l’anno, con intervento entro un massimo di quattro ore dalla chiamata e una visita di manutenzione annua programmata”. Ora non è escluso un ulteriore potenziamento dell’infrastruttura, con l’aggiunta di altri tre Ups entro la fine del 2020.


ECCELLENZE.IT | Maire Tecnimont

IL LAVORO SMART MIGLIORA LE GIORNATE E LA PRODUTTIVITÀ L’azienda multinazionale attiva nel settore degli idrocarburi ha realizzato con Microsys un progetto di rinnovamento degli spazi e ha adottato le tecnologie di Microsoft per il lavoro flessibile.

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n grande operatore dell'industria petrolchimica, dei fertilizzanti e della raffinazione di petrolio e gas. Un operatore storico, ma anche aperto all’innovazione e alla sostenibilità ambientale. Maire Tecnimont si occupa di ingegneria impiantistica, principalmente nel settore degli idrocarburi, con una presenza ramificata in 45 Paesi e controllo diretto o indiretto su una cinquantina società operative. Le radici storiche dell’attività affondano nel 1973, anno di nascita di Tecnimont, entrata poi a far parte del Gruppo Maire nel 2005. Il Gruppo Marie Tecnimont da allora si è allargato attraverso acquisizioni di società estere, con una nuova strategia di innovazione tecnologica nel campo della trasformazione degli idrocarburi, e con la progressiva apertura alle energie rinnovabili e alla green chemistry. Nella sua sede di Milano recentemente è stato avviato un progetto di smart working basato sia sulla creazione di nuovi spazi di condivisione sia sull’uso di tecnologie collaborative. L’iniziativa, battezzata “Be adaptive”, mirava a di introdurre in azienda nuovi modelli e logiche organizzative, che potessero aumentare il benessere dei dipendenti e la qualità delle loro giornate, ma anche la produttività e l’efficacia del loro lavoro. Non a caso, benché promosso dall’amministratore delegato, il progetto è

LA SOLUZIONE La piattaforma Microsoft 365 permette ai dipendenti di Maire Tecnimont di accedere alle applicazioni indipendentemente dal dispositivo usato. La piattaforma di comunicazione e collaborazione unificata Microsoft Teams racchiude funzioni di chat, videoconferenza, archiviazione e file sharing. La nuova area di coworking include circa duecento postazioni e aree riunioni.

stato gestito dalle divisioni IT e risorse umane. Il primo passo è stato il coinvolgimento dei dipendenti: a loro è stato chiesto, attraverso un contest, di proporre idee e best practice sulle innovazioni potenzialmente più utili per migliorare le attività lavorative. In seguito è stata ingaggiata Microsys, società di consulenza informatica milanese (con una seconda sede a Torino), che ha saputo orientare il suo cliente verso la selezione delle soluzioni più adatte. Per garantire accesso ubiquo alle applicazioni aziendali, sia in sede sia da casa, la scelta naturale è stata il cloud: è stata adottata, quindi, la piattaforma Microsoft 365 (già nota come Office 365), con cui è stato creato un nuovo “ambiente di lavoro digitale”, come si suol dire. Ma anche gli ambienti fisici sono stati riprogettati in un’ottica multimediale e polifunzionale, per favorire la collaborazione e lo scambio di idee, ed è stata creata una nuova area di co-working. Attraverso la propria piattaforma di e-learning (Learning 365), Microsys si è anche occupata di aiutare il personale di Maire Tecnimont ad avvicinarsi a queste nuove soluzioni e ad adattarsi ai cambiamenti. Il progetto ha dunque richiesto un’intensa attività di formazione rivolta sia ai manager sia ai dipendenti, portando a ottimi risultati. A fine 2019 infatti, sebbene i lavori siano tuttora in corso e il progetto non ancora terminato, il 99% del personale aveva già aderito al piano di smart working e utilizzava le soluzioni digitali rese disponibili. Grazie all’adozione del lavoro agile Maire Tecnimont ha riscontrato un aumento delle ore lavorate e della produttività, mentre i dipendenti possono organizzare con più libertà la propria giornata, collaborando anche da remoto attraverso chat, videochiamate e videoconferenze. APRILE 2020 |

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ECCELLENZE.IT | Marcolin Group

VEDERCI CHIARO NELLA SUPPLY CHAIN DEGLI OCCHIALI L’azienda veneta, a cui si appoggiano decine di marchi dell’eyewear, ha adottato la tecnologia di Aptos per gestire i livelli di magazzino e gli assortimenti di negozi e catene in tutto il mondo.

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hi più di un produttore di occhiali può desiderare di “vederci chiaro” lungo l'intera supply chain? Questo era il desiderio di Marcolin Group, azienda veneta che rappresenta il made in Italy nel mondo producendo montature da vista e occhiali da sole per marchi come Tom Ford, Adidas, Moncler, Sportmax, Ermenegildo Zegna, Longines, Victoria’s Secret, Emilio Pucci, Swarovski, Dsquared2, Guess, Max&Co., Diesel e molti altri. Ubicata a Longarone (Belluno), cittadina nel cuore del distretto dell'occhialeria veneta, in sessant’anni di storia è cresciuta fino ad arrivare a vendere nel 2019 circa 14 milioni di pezzi. “Realizziamo occhiali da sole e montature da vista per marchi riconosciuti a livello internazionale. Il nostro è un portfolio diversificato e i nostri prodotti sono venduti attraverso un’ampia rete di 150 distributori, sia grandi catene sia ottici indipendenti, in Italia e all’estero”, spiega Alberto Fratantonio, responsabile del progetto More. Acronimo di Marcolin Order Replenishment Evolution, si tratta di un’iniziativa di rinnovamento tecnologico avviata con un duplice fine: ottenere una gestione delle scorte ancora più accuratamente calibrata sulla domanda e migliorare ulteriormente la collaborazione 46 |

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con la rete distributiva, estesa in 125 Paesi del mondo. Per raggiungere questi risultati, l’azienda ha scelto di adottare una soluzione di Aptos chiamata Forecasting & Replenishment, che permette di ottenere visibilità e insight sulla gestione degli approvvigionamenti nei punti vendita. Grazie a strumenti di previsione della domanda, diventa possibile comprendere se determiLA SOLUZIONE Forecasting & Replenishment fa parte della suite di Aptos dedicata al settore retail. La soluzione permette di prevedere i livelli di domanda dei prodotti nei diversi punti vendita, così da poter definire i livelli di stock ottimali, i flussi di approvvigionamento necessari e le politiche di prezzo più profittevoli. Sono inclusi strumenti di simulazione che aiutano a calcolare l’impatto di variazioni di prezzo e promozioni sulle vendite.

nati articoli siano adatti o no a un determinato negozio, se siano necessari maggiori o minori quantitativi e come gestire i rifornimenti nei centri di distribuzione. “Nel quadro del progetto More e con la recente implementazione della soluzione Aptos”, racconta Fratantonio, “abbiamo attivato un processo collaborativo di previsione della domanda, in cui i retailer che aderiscono all’iniziativa condividono direttamente con Marcolin Group i propri dati di vendita. Queste informazioni puntuali sull’andamento della domanda alimentano un processo di replenishment automatizzato, che consente di riassortire le catene di distribuzione con i giusti prodotti al momento giusto”. Il progetto, dunque, permetterà di trasformare il modo in cui l’azienda interagisce con le catene distributive e con i negozi partner. “Stabilire un processo collaborativo di domanda e un replenishment ottimizzato sarà di beneficio per tutte le parti”, sottolinea il project leader, “perché consentirà di ridurre l’eccesso di merce in magazzino e i rischi di stock out lungo tutta la rete, massimizzando la soddisfazione del cliente finale”.


ECCELLENZE.IT | Ansaldo Energia

L’INDUSTRIA 4.0 HA BISOGNO DI UNA PROTEZIONE “OLISTICA” La società protagonista sul mercato della generazione di energia ha adottato le tecnologie di Kaspersky per proteggere sia i sistemi di controllo industriale sia l’infrastruttura informatica. LA SOLUZIONE A fine 2019 è stata avviata l’adozione di Kaspersky Industrial CyberSecurity (Kicks) for Networks e di Kick for Nodes, rispettivamente per la protezione degli endpoint industriali e per il rilevamento di anomalie e violazioni. Entrambi i prodotti difendono i sistemi di automazione Scada, Dcs, Plc, Mes, postazioni di engineering e connessioni. Nell’infrastruttura IT sono state adottate tecnologie di monitoraggio passivo per scovare anomalie e intrusioni nella rete.

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n’industria solida è innanzitutto un’industria sicura, anche dal punto di vista informatico. Garantire continuità e perfetto funzionamento alle applicazioni IT e a quelle dell’OT (Operational Technology) è imperativo per una realtà come Ansaldo Energia, oggi ancor più che in passato: la società protagonista del mercato della produzione di impianti, turbine, generatori e servizi (2.500 dipendenti in Italia e 1.500 nel resto del mondo) da qualche anno ha avviato un importante percorso di trasformazione digitale, adottando dispositivi smart, sensori Internet of Things e sistemi industriali connessi. Suo è uno dei quattro “Lightouse Plant”, le fabbriche intelligenti e avanguardistiche previste nel Piano Industria 4.0 del Ministero dello Sviluppo Economico, e per tale infrastruttura Ansaldo ha definito precisi obiettivi di cybersicurezza. L’azien-

da ha deciso di rivolgersi a Kaspersky non semplicemente per adottare tecnologie di cybersicurezza da aggiungere all’esistente, bensì per definire un vero “ecosistema” fatto di apparati e impianti connessi tra loro e intrinsecamente sicuri. Fin dal 2013, tra l’altro, Ansaldo Energia conosceva questo vendor, di cui utilizza i sistemi di difesa reattiva Edr (Endpoint Detection and Response) su oltre 5.000 nodi distribuiti e centralizzati. “Abbiamo scelto Kaspersky come partner di sicurezza strategico”, spiega Luca Manuelli, chief digital officer di Ansaldo Energia, “perché gli abbiamo riconosciuto non solo la competenza adatta a proteggere i nostri sistemi e reti industriali, ma anche la capacità di creare insieme a noi un’offerta di valore per gli altri operatori del nostro ecosistema”. Per il nuovo progetto si è deciso di adottare un approccio olistico, realizzando un sistema di protezione che

comprendesse sia la componente OT (rappresentata dagli Industrial Control System, Ics) sia la rete e i dispositivi informatici. Altra caratteristica della soluzione realizzata è la flessibilità: agendo sulle impostazioni è possibile configurarla secondo le specifiche esigenze dell’ambiente industriale. Il progetto di trasformazione digitale di Ansaldo Energia non è terminato, ma anzi un prossimo passo sarà l’adozione di tecnologie di manutenzione predittiva. “Quello dell’energia è sicuramente un settore strategico”, commenta Morten Lehn, general manager per l’Italia di Kaspersky, “e necessita di un alleato in grado di garantire protezione su più fronti. E noi siamo pronti a lavorare con Ansaldo Energia per proteggere la continuità e l’integrità dei processi tecnologici dell’azienda, consentendo il raggiungimento degli obiettivi desiderati in termini di maggiore efficienza e competitività”. APRILE 2020 |

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ECCELLENZE.IT | Diana Corp

INTEGRAZIONE PERFETTA PER I DATI DELL’E-COMMERCE La società gestisce le piattaforme di commercio elettronico di marchi come Diadora, Sergio Rossi, Parajumpers, Bugatti. Grazie a Boomi ha semplificato i processi e ridotto il tasso di errore.

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dati sono la vera ricchezza delle aziende ma anche un elemento complesso da gestire. E questo è specialmente vero per chi, come Diana Corp, si occupa di creare, gestire e promuovere le vetrine online di marchi come Diadora, Sergio Rossi, Parajumpers, Bugatti e molti altri. Fondata nel 2008, l’azienda conta oggi una cinquantina di dipendenti e opera attraverso la sede centrale di Venezia e gli uffici di Milano e New York. “Gestire il canale e-commerce dei nostri clienti”, illustra Valentino Baraldo, head of technology di Diana Corp, “significa maneggiare e scambiare con loro una grande quantità e varietà di informazioni, necessarie per alimentare vari processi: la pubblicazione dei prodotti, l’evasione degli ordini, le promozioni e altro ancora”. Nelle piattaforme di commercio elettronico c’è un “dietro le quinte” in cui Diana lavora per collegare tutti i sistemi e le banche dati affinché funzionino in maniera coordinata. I processi coinvolti vanno dalla gestione dell’inventario alla pubblicazione degli articoli nei negozi virtuali, oltre alle procedure di omnicanalità come il "click and collect". A valle c’è il lavoro di reportistica, per il quale Diana in passato era costretta a gestire sistemi e metriche differenti. “Ci serviva una piattaforma che ci aiutasse a estrarre i dati, a consolidarli e anche a portarli verso sistemi esterni di analytics”, spiega Baraldo. La forte crescita di fatturato (+150%) e degli ordini (+400%) degli ultimi tre anni ha spinto l’azienda a cambiare il proprio approccio al problema dell’integrazione dei dati. “Con l’aumento del numero dei sistemi e dei volumi di transato”, prosegue Baraldo, “ci siamo resi conto che la gestione di una rete d'integrazione 48 |

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LA SOLUZIONE Boomi è una piattaforma IPaaS con approccio “low code”. Diana Corp la utilizza per gestire l'inventario, l'evasione degli ordini e i processi finanziari in diversi ambienti, tra cui NetSuite OneWorld, Sap Business One, Salesforce Commerce Cloud e Magento. Una dashboard di monitoraggio in tempo reale permette di rilevare e risolvere velocemente i problemi. fatta punto a punto non poteva supportarci verso il futuro. Inoltre non avevano visibilità in tempo reale sullo stato dei processi di integrazione e c’erano difficoltà di reazione ai problemi e anche nei deployment, perché le soluzioni risiedevano su server differenti, sia on premise sia in cloud”. È partita, dunque, la ricerca di una piattaforma che consolidasse i sistemi in uso e semplificasse le procedure di integrazione, oltre a ridurre il tasso di errore: naturale rivolgersi a una soluzione cloud, capace di garantire maggiore scalabilità. Dopo una fase di selezione durata circa tre mesi, all’inizio del 2019 è stato avviato il progetto di adozione della IPaaS (Integration Platform as-a-Service) di Boomi, partito con un periodo di training del personale e con la messa a punto dei alcuni proof-ofconcept. “Attualmente”, precisa l’head of technology di Diana Corp, “siamo giunti ad aver ristrutturato circa il 65% dei nostri flussi di integrazione, che sono in tutto un centinaio”. Boomi ha permesso di modernizzare e semplificare le operazioni di e-commerce

dei clienti, contribuendo ad automatizzare il flusso di informazioni attraverso siti Web e sistemi di back office. La soluzione viene usata per orchestrare l’inventario, l’evasione degli ordini e i processi finanziari in diversi ambienti (tra cui gli Erp di NetSuite e Sap e le piattaforme di e-commerce di Salesforce e Magento). Ora, grazie a Boomi, Diana Corp può gestire per i suoi clienti circa diecimila ordini al mese e può farlo in modo più rapido, semplice e preciso: si è ridotto il tasso di errore nei processi, è possibile implementare nuove integrazioni fino a quattro volte più velocemente, mentre il lavoro manuale per il team IT è sceso da una media di 16 a quattro ore settimanali. Con le funzioni di reportistica e monitoraggio, inoltre, si è ottenuta piena visibilità sui processi. “C’è molta sintonia tra noi e il nostro cliente Diana Corp”, sottolinea Fabio Invernizzi, sales director Emea South di Boomi, “dal momento che entrambi siamo per i rispettivi clienti degli abilitatori di cambiamento e trasformazione digitale”.


ECCELLENZE.IT | Dainese

NUOVA VELOCITÀ PER I LEADER DELL’ABBIGLIAMENTO TECNICO La multinazionale vicentina, specializzata in abbigliamento e accessori per motociclismo, ciclismo e sport invernali, ha modernizzato due data center con la tecnologia di Nutanix.

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otociclismo, ciclismo, sci: questi e altri sport ad alto tasso di adrenalina non potrebbero essere praticati senza il giusto abbigliamento tecnico. Come quello di Dainese, azienda fondata nel 1972 a Molvena, in provincia di Vicenza, diventata oggi una multinazionale (controllata dal fondo Investcorp) da 800 dipendenti e 200 milioni di euro di fatturato, divisa fra le tre sedi italiane, un sito produttivo in Tunisia, una filiale in California e due in Cina. Accanto all'attività di ricerca e sviluppo di nuovi prodotti, anche l’innovazione tecnologica ha un ruolo importante: lo dimostra il recente progetto che interessato l’infrastruttura informatica dell’azienda, organizzata in Italia su due data center (a Vicenza e a Molvena), per un totale di settanta server virtuali. “Avevamo la necessità di cambiare l’architettura server proprietaria, ormai obsoleta”, racconta Luca Bertollo, Ict infrastructure manager di Dainese. “Eravamo quindi alla ricerca di una soluzione nuova, che ci permettesse di migliorare la governance, di ridurre i costi di manutenzione e i tem-

pi di gestione, oltre che di abbattere limiti nelle prestazioni che ormai iniziavano a essere evidenti. La vecchia infrastruttura era anche troppo fragile per consentire all’IT di assumere un ruolo centrale nello sviluppo dell’azienda e del suo business”. Da tali esigenze è partita, dunque, una fase di studio dell’offerta di soluzioni iperconvergenti disponibili sul mercato. “Dopo un’analisi approfondita”, prosegue Bertollo, “abbiamo deciso che Nutanix era la soluzione che meglio si adattava alle nostre esigenze. Era più veloce da implementare LA SOLUZIONE Con le soluzioni iperconvergenti di Nutanix è stato installato nel data center di Molvena un cluster da tre nodi, dotato di 1 terabyte di Ram e 35 TB di spazio su disco, mentre nel data center di Vicenza è stato realizzato un cluster da tre nodi, 1 TB di Ram e 55 TB di spazio su disco.

(siamo riusciti a installare i nuovi server senza fermare i servizi), e aveva un ritorno sull’investimento chiaro e documentabile. Gli specialisti Nutanix ci hanno anche permesso, con grande trasparenza, di analizzare un’analoga infrastruttura già operativa in un’altra azienda leader di mercato”. Dainese ha quindi installato due cluster da tre nodi ciascuno, uno nel data center di Molvena e l’altro in quello di Vicenza, e ha potuto farlo in tempi decisamente rapidi: due giorni per l’installazione ogni cluster e qualche giorno per la migrazione dei dati. La soluzione adottata ha pienamente risposto alle richieste di partenza del progetto: Dainese ha ridotto i costi di gestione e manutenzione dell’infrastruttura, ha semplificato la governance e migliorato le prestazioni. A questi benefici si è sommato il fatto che ora i sistemi di backup possono completare le procedure molto più rapidamente, essendo direttamente collegati ai server. In terzo luogo, gli utenti beneficiano di significativi miglioramenti nei tempi di connessione ai dati, dovuti anche alla connettività diretta con fibra a 10 GB. Altro aspetto apprezzato da Dainese è l’help desk di Nutanix, che ha consentito di avere un unico punto di riferimento per le attività di manutenzione e risoluzione problemi. “Grazie al tempo risparmiato, il mio team può oggi dedicare più tempo a progetti strategici, come quello relativo alla cybersecurity”, assicura Bertollo. Nel futuro prossimo, l’azienda vicentina progetta di realizzare attraverso le soluzioni di Nutanix un vero e proprio sistema di disaster recovery, che sostituirà l’attuale attività di sincronizzazione tra i server delle due sedi principali. APRILE 2020 |

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APPUNTAMENTI 2020

SPS ITALIA

ITALIA 5G

dove: Fiera di Parma

dove: Spazio Novecento, Eur, Roma

quando: 28-30 settembre perché partecipare: andranno in scena le migliori soluzioni di automazione; protagonisti di questa decima edizione anche cloud, IoT, intelligenza artificiale e Big Data.

BANKING SUMMIT quando: 8-9 ottobre perché partecipare: l’evento di The Innovation Group (Tig) presenterà tendenze, dibattiti e testimonianze sulla trasformazione tecnologica delle banche.

FUTURE MOBILITY EXPOFORUM dove: Centro Congressi Lingotto, Torino quando: 20-21 ottobre perché partecipare: saranno due giornate di convegni dedicati alla mobilità condivisa, sostenibile e alternativa, tra innovazioni di design, componenti e servizi.

SMAU MILANO dove: Fiera Milano City quando: 20-22 ottobre

DIGITAL ITALY SUMMIT dove: Centro Congressi Fontana di Trevi, Roma

perché partecipare: è un appuntamento storico, il principale dell’anno per Smau, ed è la migliore occasione per conoscere le novità dei vendor Ict e una selezione di startup.

quando: 28-29 ottobre perché partecipare: si parlerà delle tecnologie, delle questioni di sicurezza e delle strategie nazionali per il lancio dei nuovi servizi di rete mobile di quinta generazione.

SMART MANUFACTURING SUMMIT dove: Royal Hotel Carlton, Bologna quando: 12 novembre perché partecipare: quello di Tig è il primo evento progettato per far incontrare i Cio, gli IT manager e gli altri interlocutori coinvolti nei processi d’innovazione della manifattura.

quando: 19-20 ottobre perché partecipare: Tig radunerà rappresentanti delle istituzioni, della politica e della Pubblica Amministrazione per parlare della trasformazione digitale italiana.

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APRILE 2020

In vista di possibili variazioni di data, suggeriamo ai lettori di consultare i siti Web degli organizzatori.


PRODUTTIVITÀ, EFFICIENZA E RISPARMIO SUI COSTI: LE AZIENDE CHIEDONO, LA STAMPA GESTITA RISPONDE. Sempre più aziende nel mondo stanno adottando soluzioni di MPS (Managed Print Services)

COSA SIGNIFICA PER UN’AZIENDA RICORRERE A SOLUZIONI MPS?

PERCHÉ NASCONO I SERVIZI MPS? Per monitorare e gestire tutte le risorse di printing in azienda (le pagine stampate, i materiali di consumo, la reportistica) seguendo un modello in cui tutti i processi risultano ottimizzati sulle esigenze produttive.

OBIETTIVI PIÙ IMPORTANTI DA RAGGIUNGERE In termini di parco stampa e gestione documentale, le PMI italiane si prefiggono:

RIDUZIONE DEI COSTI Hardware e consumabili

FATTORI CHIAVE DI SUCCESSO NEL PERSEGUIMENTO DEGLI OBIETTIVI Sono 5 i fattori di soddisfazione che determinano il successo dei servizi di stampa gestita:

Garantirsi il raggiungimento di determinati obiettivi, fondamentali per il successo nel business!

AUMENTO DELLA SICUREZZA Di documenti e stampanti

RIDUZIONE:

- del carico di lavoro sullo staff IT - dell’impatto ambientale

MIGLIORE QUALITÀ E AFFIDABILITÀ DEI SERVIZI

MIGLIORAMENTO: - dei flussi di lavoro - dei costi predittivi - del reporting/analytics

LA SOLUZIONE? BROTHER PAGINE+ È un servizio flessibile ideato da Brother per le PMI: una soluzione di stampa completa che semplifica la gestione del parco stampa e abbatte i costi.

COSTO COPIA CERTO E COMPETITIVO • Report dettagliato di stampa • Tool web incluso per monitoraggio completo

GARANZIA PREMIUM E CONSEGNA AUTOMATICA DEI TONER ORIGINALI • Parco tecnologico di ultima generazione • Funzionamento e ripristino garantiti per tutta la durata del contratto

CONSULENZA STRATEGICA • Per identificare i costi e le criticità dei processi di stampa • Soluzione personalizzata sulle esigenze reali del cliente

• Consegna automatica dei toner nella sede del cliente

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SEMPLICI

per far risparmiare tempo

SCALABILI

per crescere in base alle esigenze

SOSTENIBILI

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Ecco perché i nuovi multifunzione a colori A3 di Ricoh sono

intelligenti e consentono di lavorare in modo più smart! www.ricoh.it


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