Technopolis 21

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NUMERO 21 | MAGGIO 2016

Storie di eccellenza e innovazione

il gigante flessibile e digitale Andrea Campora, responsabile di cyber security e Ict solutions in Leonardo-Finmeccanica, racconta la trasformazione e gli investimenti dell'azienda.

smart working

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Lo scenario e le soluzioni che ci permetteranno di lavorare meglio, in mobilità e in totale sicurezza.

speciale printing

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Alla semplice stampante, oggi le aziende preferiscono i dispositivi multifunzione. E si affidano ai servizi di gestione documentale.

internet delle cose Dall'industria alle smart city, dall'agricoltura alla domotica: il mondo degli oggetti connessi è sempre più popolato. Distribuito gratuitamente con “Il Sole 24 ORE”


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SOMMARIO Storie di eccellenza e innovazione

N° 21 - MAGGIO 2016 Periodico bimestrale registrato presso il Tribunale di Milano al n° 378 del 09/10/2012.

4 storie di copertina

Leonardo-Finmeccanica: il gigante flessibile e digitale

9 IN EVIDENZA

La trasformazione che non può aspettare

Dal matrimonio dell’anno nasce Dell Technologies L’intervista: Banda ultralarga e infrastrutture da condividere

Direttore responsabile: Emilio Mango Coordinamento: Gianni Rusconi Hanno collaborato: Alessandro Andriolo, Piero Aprile, Camilla Bellini, Valentina Bernocco, Luca Failla, Carlo Fontana, Paolo Galvani, Michele Lamartina, Agostino Santoni, Carlo Maria Eugenio Vaiti Progetto grafico: Inventium Srl Foto e illustrazioni: Dollar Photo Club, Istockphoto, Adobe Stock images, Martina Santimone, Alberto Ferrero

Con l’open source i Big Data non fanno più paura

16 SCENARI

Più pregi che difetti per il lavoro agile

Lo smart working supera i vincoli di luogo e di orario

Il futuro è liquido

Aziende italiane: a che punto siamo?

Svolta tecnologica: Pmi convinte a metà

25 speciale PRINTING

Un mercato a due facce Il cliente ha sempre ragione

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40 OBBIETTIVO SU

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Ricoh

38 italia digitale Il bilancio dell’Agenda? In attivo

45 VETRINA HI-TECh

Il Sole 24 Ore non ha partecipato alla realizzazione di questo periodico e non ha responsabilità per il suo contenuto.

49 I QUADERNI

Pubblicazione ceduta gratuitamente.

Bellezza a forma di tavoletta

Internet of Things


STORIA DI COPERTINA | Leonardo-Finmeccanica

La trasformazione digitale inizia dal cuore tecnologico delle imprese. Finmeccanica, ora Leonardo, ha rinnovato i propri data center rendendoli software-defined e aumentando anche le difese dai cyber attacchi.

F

inmeccanica si trasforma. Cambia nome, è stata recentemente ribattezzata Leonardo, ma cambia anche infrastrutture e offerta. Per stare al passo con la “digital trasformation”, ma anche per aiutare i propri clienti nella stessa delicata fase di cambiamento evolutivo. La divisione Security & Information Systems si occupa di sviluppo di soluzioni, hosting di sistemi, servizi e applicazioni sia per il mercato sia per i clienti interni, con un’attenzione particolare agli aspetti della sicurezza. “È una transizione importante”, dice Andrea Campora, senior vice president della linea di business Cyber Security & Ict Solutions, “e la divisione, consapevole che avrebbe dovuto affrontare un’evoluzione di mercato, ha avviato nel 2014 un percorso di trasformazione di processi e tecnologie rilevanti per il nostro business”. Si trattava di costruire un “core” digitale più agile e integrato con le esigenze dell’azienda e del mercato, un software-defined data center per abilitare un maggior livello di flessibilità e automazione, riducendo quindi tempi e costi per l’attivazione di nuovi progetti e assicurando la sicurezza di sistemi, reti e applicazioni. Da qui è nata la collaborazione con Vmware per quanto riguarda la realizzazione in Leonardo di un’organizzazione “cloud-oriented”. “Nel corso del 2015 abbiamo parlato con quasi tutti i player in grado di offrire soluzioni di virtualizzazione e cloud computing”, ricorda Campora. “Vmware non ci ha offerto soltanto le soluzioni tecnologiche più adatte alle nostre necessità, ma anche 4

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flessibilità vuol dire sicurezza


una visione dei processi, dell’organizzazione, dei modelli necessari per sfruttare appieno i benefici delle nuove tecnologie. Gli specialisti di Vmware Professional Services con cui ci siamo confrontati ci hanno trasferito la loro visione di come affrontare i cambiamenti organizzativi quale condizione necessaria per passare a un’organizzaizone cloud-oriented: un approccio consulenziale, a complemento della fornitura di tecnologie, che si è rivelato di importanza decisiva”. Verso il software-defined data center

Una squadra di circa 50 persone di Leonardo, in collaborazione con il team Emea di Vmware, è al lavoro su un progetto in continua evoluzione. Una prima versione del software-defined data center

è già stata attivata; alcune piattaforme sono in fase di migrazione mentre altre arriveranno successivamente, secondo una roadmap di progetto di circa 18 mesi. Grazie alla tecnologia vRealize di Vmware il nuovo datacenter promette di automatizzare l’erogazione di It “as-aservice” per qualunque tipo di progetto, dalla gestione della posta elettronica, ai sistemi Erp, a progetti di outsourcing. “Conoscevamo il layer di virtualizzazione dei sistemi operativi, considerando che nel datacenter di Finmeccanica erano già operativi almeno tremila server virtualizzati con tecnologie Vmware”, precisa Campora. “Con questo progetto inseriamo i componenti che consentono l’automazione e l’orchestrazione delle attività e ottimizzano la gestione dei costi,

rispettivamente con vRealize Automation e con vRealize business”. Più spinta all’innovazione

“La nuova architettura realizzata con Vmware consentirà a Leonardo-Finmeccanica di spingere con molta più decisione la leva dell’automazione, il che si tradurrà in un risparmio in termini di costi di gestione e di startup per l’erogazione di nuovi servizi”, spiega Campora. “La flessibilità che il framework di rete virtuale fornisce ha già dato evidenza di quanto sia più semplice per noi gestire l’evoluzione dei nostri servizi”. Nel caso di un sistema da erogare ex novo, Leonardo ha ora una maggiore rapidità di risposta, poiché si abbreviano drammaticamente i tempi di disponibilità del

A sinistra, la control room del Soc di Chieti. A destra, la centrale allestita per Expo. Sotto, il quartier generale di Leonardo-Finmeccanica.

Leonardo, one company Leonardo–Finmeccanica (che nel 2017 assumerà ufficialmente la denominazione Leonardo) è un player globale nel mercati ad alta tecnologia e tra i maggiori operatori mondiali nei settori dell’aerospazio, difesa e sicurezza. Il gruppo progetta e realizza prodotti, sistemi, servizi e soluzioni integrate, destinati sia al comparto della difesa sia a committenti pubblici e privati del comparto civile, in Italia e nel resto del mondo. Nella prima metà del 2014 il nuovo management ha avviato un percor-

so di profondo cambiamento, con l’obiettivo di creare un gruppo più coeso, omogeneo ed efficiente, nel quale tutti i processi siano centralizzati e integrati. Il nuovo modello organizzativo include nel perimetro le società possedute al 100% del core business aerospazio e difesa, che vengono trasformate in divisioni della nuova Leonardo. Una grande realtà industriale integrata, che opera nei settori elicotteri, aeronautica, elettronica, difesa, sistemi di sicurezza e spazio.

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STORIA DI COPERTINA | Leonardo-Finmeccanica

servizio. Al contempo il costo di hosting della piattaforma è molto più competitivo. Se parliamo, invece, di migrare l’applicazione di un cliente, la flessiblità della rete virtuale semplifica le fasi di progetto, riducendo tempi e costi. Uno degli aspetti prioritari per Leonardo – non a caso l’area di riferimento è denominata Ict Secure Infrastructure – riguarda la sicurezza. Grazie alla micro segmentazione, la tecnologia Vmware Nsx è in grado di offrire una solida sicurezza delle reti, gestita a livello di policy in modo molto flessibile e affidabile. “Con le tecnologie Vmware abbiamo già potuto risolvere in modo semplice problemi di sicurezza che in precedenza si rivelavano molto onerosi da gestire”, precisa Campora. La redazione

A fianco, la sala controllo del Soc; sopra, una vista del supercalcolatore Hpc (High Performance Computing) di Chieti.

LA SOLUZIONE La divisione Security & Information Systems di Leonardo-Finmeccanica ha intrapreso un cammino di trasformazione che parte dall’evoluzione della componente tecnologica infrastrutturale per traguardare obiettivi di agilità e semplificazione nell’erogazione di servizi It. Leonardo ha individuato in Vmware il fornitore di riferimento per le migliori soluzioni tecno-

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logiche e per un approccio consulenziale che sposa le linee evolutive proposte dall’azienda nella realizzazione di un software-defined data center. Il progetto è in corso ma i benefici sono già evidenti, soprattutto per quanto riguarda la sicurezza, oggi molto più facile da gestire grazie alla segmentazione delle reti con Nsx. A ciò si aggiungono flessibilità e agilità della componente infrastrutturale, che ben si adattano a un

business in continua trasformazione e consentono di erogare servizi It di nuova generazione in un quadro di affidabilità e sicurezza, riduzione dei costi e semplificazione delle procedure di gestione. Il software e la tecnologia forniti da Vmware comprendono la suite vRealize, la piattaforma Nsx, vCloud Air e i servizi professionali erogati dal team messo a disposizione di Leonardo da parte della multinazionale.


La vocazione per la ricerca aiuta anche l'indotto Quasi un miliardo e mezzo di investimenti in ricerca e sviluppo. Una cifra che, indirettamente, influisce sulla digital transformation di tutte le imprese italiane. Andrea Campora è responsabile della cyber security & Ict solutions di Leonardo, un ruolo che gli assegna un punto di vista privilegiato per osservare la trasformazione del colosso industriale, ma anche delle aziende e organizzazioni che gravitano attorno a esso.

Andrea Campora

Quanto conta l’innovazione per Leonardo-Finmeccanica?

Leonardo-Finmeccanica guida la classifica delle imprese italiane che investono in alta tecnologia ed è il quinto gruppo mondiale e il secondo in Europa per investimenti in ricerca e sviluppo nel settore dell’aerospazio e difesa. Ogni anno la società impiega circa l’11% dei ricavi per attività di ricerca e sviluppo (circa 1.426 milioni euro nel 2015), focalizzando l’attenzione sulla realizzazione di piattaforme e soluzioni a uso duale, utilizzabili sia in ambito militare sia in ambito civile. Questi investimenti, ovviamente, ricadono anche sull’indotto, favorendo anche l’innovazione e la trasformazione digitale delle piccole e medie imprese. In Leonardo, inoltre, lavorano circa 13mila tecnici specializzati e circa 11mila ingegneri, e questo dà un contributo essenziale alla crescita di una “cultura tecnologica” all’interno del nostro sistema economico. Quali sono le nuove aree in cui si stanno concentrando le vostre attenzioni?

Leonardo-Finmeccanica è impegnata a consolidare e accrescere le proprie competenze nelle piattaforme, nei sistemi, nei sensori, nei servizi e nella capacità di integrazione per creare soluzioni orientate alle

diverse esigenze del mercato. In ambito sicurezza, e in particolare sul fronte cybersecurity e Ict, da tempo sviluppiamo le nostre capacità e risorse guardando ai macrotrend di evoluzione economica e sociale in atto: la digitalizzazione diffusa dei processi e quella che chiamiamo Industria 4.0, che prevede l’integrazione sempre più stretta delle tecnologie digitali nei processi industriali manifatturieri. Cito tre aree del nostro sviluppo rispetto a queste direttrici: open data, Internet of Things e cloud computing, per far comunicare tra loro macchine, organizzazioni e individui; Big data, analytics e machine learning, per ricavare valore dai dati raccolti; cybersecurity e servizi di threat intelligence, per garantire la sicurezza a 360 gradi. State puntando su aree strategiche come intelligence, analytics, Big Data?

Da tempo stiamo investendo in questi ambiti. Sul fronte dei Big Data, prima ancora che si chiamassero così, abbiamo realizzato soluzioni per l’analisi del traffico per operatori di comunicazioni mobili, sistemi di monitoraggio energetico di building e control room per la protezione del territorio con concentrazione di segnali video, audio, sensori perimetrali e collegamenti con operatori sul campo. Con le nostre competenze e soluzioni di analytics e intelligence supportiamo pure le agenzie di law enforcement nella ricerca, raccolta e analisi delle informazioni critiche per le operazioni nazionali di investigazione, di interdizione del crimine e di prevenzione e gestione delle cyberminacce nell’ambito di programmi di sicurezza nazionale e internazionale. Come affrontate il tema della cybersecurity?

Come specialisti della cybersecurity riteniamo fondamentale, oggi, combinare sicurezza informatica e intelligence per fare un salto di qualità nella protezione di asset e infrastrutture critiche dalle sempre più sosfisticate minacce. Con i Threat Intelligence Services, grazie a algoritmi di machine learning e tecnologie high performance computing, siamo in grado di offrire alle imprese la possibilità di rilevare e individuare nuove vulnerabilità, attacchi informatici in preparazione e informazioni sottratte illegalmente e pubblicate in rete. Lo facciamo attraverso il controllo continuo delle fonti Web e darknet e l’analisi in real time di grandi quantità di dati, alla ricerca di possibili indizi. E.M. 7


IDC MOBIZ MOBILITY FORUM 2016

Dalla Mobile Enterprise all’Enterprise of Everything 22 Giugno | Milano, Centro Svizzero

Scenario Lavorare fuori sede e in movimento è diventato uno dei volani di crescita per le aziende di ogni dimensione. Una “mobile-first enterprise” può oggi infatti aspettarsi tangibili miglioramenti nel modo in cui interagisce con i dipendenti, i clienti e i partner, con benefici visibili nella produttività interna, nella customer satisfaction, nei processi di business. Tuttavia, IDC coglie ancora alcune criticità, soprattutto lato IT, che ostacolano il pieno sviluppo della mobility: mancanza di competenze interne, incertezze circa la sicurezza, investimenti, scarsa conoscenza di ROI e TCO. Due fenomeni aiuteranno le aziende a superare questa impasse: uno demografico, ovvero il ricambio generazionale della forza lavoro IT; l’altro tecnologico, l’Internet of Things. Sensori e dispositivi intelligenti connessi creeranno reti di persone e oggetti che rivoluzioneranno tutti i settori industriali e il nostro modo di vivere. La “mobile enterprise” di oggi diventerà la “enterprise of everything” di domani.

Key Words Enterprise Mobility Management (EMM), Mobile Device Management (MDM), Mobile Application Management (MAM), Mobile Enterprise Application Platform (MEAP), BYOD/CYOD, Mobile security, Cloud, IoT, M2M, Wearables, Smart working, #GenMobile

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PER INFORMAZIONI Nicoletta Puglisi, Senior Conference Manager, IDC Italia npuglisi@idc.com · 02 28457317

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IN EVIDENZA

l’analisi

IL MONITO DI RENZI E LA TRASFORMAZIONE DIGITALE CHE NON PUÒ ASPETTARE Il capo del Governo esalta il piano per la banda larga. Ma c'è chi chiede un impegno chiaro, per fare dell’Italia un Paese realmente connesso.

L’annuncio, l’ennesimo di Matteo Renzi in materia tecnologica, è arrivato il 29 aprile in occasione delle celebrazioni per il trentesimo anniversario del primo collegamento Internet italiano. Il messaggio inviato ad addetti ai lavori e opinione pubblica può essere sintetizzato così: “Lo Stato mette i soldi, miliardi di euro, e dopo tante chiacchiere si parte. La principale infrastruttura è la banda larga: siamo in presenza di una rivoluzione, l’Italia vuole viverla e non subirla, governare e non seguire”. Per digitalizzare il Paese si inizia, dunque, con il portare le autostrade telematiche ad altissima velocità ovunque. Giusto. Ma forse questo non basta. E c’è chi – come Associazione Stati Generali dell’Innovazione, Anorc, Iwa Italia e Cittadinanza Attiva – lo ha scritto a Renzi in una lettera aperta pubblicata proprio nel giorno dell’Internet Day tricolore. Cinque sono le priorità da soddisfare per rendere possibile “l’Internet EveryDay” secondo gli scriventi, che

ricordano come non sia un caso che l’Italia viaggia “in ultima posizione in Europa in base agli indicatori sull’uso di Internet”. Cinque, quindi, le tappe da seguire per “costruire un percorso in cui l’Italia diventi terra di produzione del futuro e non di mero consumo digitale. Possiamo farlo. Ma per farlo dobbiamo essere consapevoli del ritardo che abbiamo oggi in molti settori del digitale, a cui ancora purtroppo non si associa una decisa e forte azione governativa”. L’appello rivolto a Renzi è per un “impegno ad avviare

iniziative con obiettivi chiari e misurabili e con risorse adeguate, prima di tutto sulle aree che vengono ritenute prioritarie”. Quali? Cultura e competenze digitali, innovazione delle Pmi, innovazione del territorio, crescita digitale e trasformazione della Pubblica Amministrazione. I comuni denominatori a queste “misure” sono l’organicità dei piani e delle politiche di sviluppo (le iniziative non coordinate sulle smart city sono un esempio negativo da superare), la necessità di un quadro di interventi strutturato volto a creare ecosistemi di settore e territoriali, l’unicità della governance di progetti e processi chiave interni, l’identificazione chiara delle risorse accessibili e, infine, la definizione di profili professionali nuovi. “Sono mesi decisivi per evitare che questa sia l’ennesima occasione perduta e per intraprendere un vero percorso di trasformazione”, si legge nella lettera: soprattutto su questo assunto, non possiamo che essere d’accordo. Gianni Rusconi

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IN EVIDENZA

L’Emc World 2016 di Las Vegas ha segnato la fine di un’era per il colosso dello storage: la fusione con la società texana si completerà in ottobre. Joe Tucci lascerà l’incarico di numero uno della federazione.

Joe Tucci e Michael Dell

Dal matrimonio dell’anno nasce Dell Technologies L’unione fa la forza, ma quando due colossi si fondono inevitabilemente qualcosa deve cambiare. Emc rinascerà sotto l’ombrello di Dell Technologies, nome che farà la sua comparsa a ottobre, a processo di acquisizione concluso. Nasce quindi la “federazione” di aziende completamente privata più grande del settore It, un gigante che porterà sul mercato soluzioni e servizi in praticamente tutti i segmenti dell’informatica, dai Pc ai server, dallo storage alla virtualizzazione. Il brand Emc comunque non scomparirà, in quanto la nuova realtà guidata da Michael Dell offrirà le soluzioni enterprise con il marchio congiunto Dell Emc. L’annuncio è stato uno dei più importanti dell’Emc World 2016 di Las Vegas, andato in scena a inizio maggio nella città del Nevada. Nell’occasione il numero uno della società texana, “ansioso” di svelare al mondo la propria visione per i prossimi vent’anni, ha preso il testimone da Joe Tucci, attuale vertice del gruppo Emc (chairman, presidente e Ceo), che lascerà l’incarico a fusione completata. La nuova azienda opererà con portafogli “estremamente complementari, in grado di rispondere alle esigenze attuali delle aziende impegnate nel percorso della trasformazione digitale”, ha spiegato Dell, aggiungendo che la nuova “federazione” 10

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terrà vivi tutti gli altri brand del gruppo di Hopkinton, vale a dire Emc Information Infrastructure, Vmware, Pivotal, Rsa e Virtustream. “I nostri punti di forza principali sono l’accesso al mid market e la supply chain globale, mentre Emc ha dalla sua soluzioni per il mercato enterprise e un’innovazione rilevante”, ha aggiunto il Ceo texano, sottolineando come le dimensioni della nuova realtà non saranno un problema (in un momento storico in cui le aziende tendono a ridimensionarsi e le startup dominano la scena). La compagnia sarà privata e potrà decidere senza condizionamenti esterni la propria strategia. Questa si comporrà sicuramente di nuove soluzioni utili per le sfide del cloud e dell’Internet of Things, tecnologie che richiederanno anche sistemi di storage sempre più evoluti, per riuscire a gestire in modo efficiente quantitativi di dati in costante crescita. Tra le novità, a Las Vegas si è fatto spazio Unity, sistema rack configurabile anche in modalità all-flash (secondo Emc, il 2016 è l’anno di questa tecnologia) che presenta funzionalità di storage a file e a blocchi, indirizzandosi soprattutto ai dipartimenti It di medie dimensioni. Anche dal punto di vista dei costi, che partono sotto i 18mila dollari per 75 Terabyte di capacità. A.A.

ed Ericsson si allea con aws Annunciata a febbraio al Mobile World Congress di Barcellona, quella tra Amazon Web Services ed Ericsson è un’alleanza su scala globale destinata a cambiare il profilo dell’offerta mondiale di cloud, soprattutto nel segmento delle telecomunicazioni, nel nome della digital transformation. “L’alleanza riguarda sia l’offerta tecnologica, sia l’attività commerciale, sia i servizi”, spiega Antonio Autolitano, core and cloud director di Ericsson Regione Mediterranea. “Loro mettono in campo la più grande infrastruttura di cloud pubblico al mondo, noi la specializzazione nei servizi e una presenza capillare che conta 65mila dipendenti in oltre 180 Paesi”. Una presenza storicamente rivolta alle telco, ma negli anni più recenti anche alle imprese di altri settori. Il pilastro dell’offerta di questa nuova partnership è quello che Ericsson chiama “trusted cloud”. “Il 70% delle aziende che ancora non hanno iniziato progetti sulla nuvola”, spiega Autolitano, “motivano la loro decisione con la paura legata al tema della sicurezza dei dati. Con le nostre competenze e con le tecnologie comuni siamo in grado di far toccare con mano ai clienti la solidità delle nostre infrastrutture, anche attraverso Innovation e Demo Center in tutto il mondo”. Antonio Autolitano


AMAZON web services va in fuga Già leader in termini di potenza erogata, la società di Bezos continua a investire sul cloud pubblico. “Cloud computing has become the new normal”. Ha esordito così Werner Vogels, Cto di Amazon Web Services di fronte al folto pubblico che lo attendeva a Milano in occasione dell’Aws Summit di aprile. Con più di un milione di utenti attivi ogni mese e con un fatturato di 9,6 miliardi di dollari nel 2015 (che, Vogels tiene a precisare, si riferisce ai servizi effettivamente utilizzati), Amazon ha staccato di parecchie lunghezze gli altri competitor nel segmento del cloud pubblico, creando una situazione già vista in altri ambiti dell’It, ovvero un regime di quasi monopolio. “Anche in Italia aumentano sempre di più le startup che chiedono i nostri servizi”, ha proseguito Vogels, “ma ci sono pure molte grandi imprese, come Lamborghini, Mediaset ed Enel”. Quest’ultima, in particolare, ha realizzato un progetto di dimensioni stupefacenti, portando fuori dall’azienda il 75% della capacità di calcolo prima erogata dai data center interni. “Le aziende si rivolgono sempre di più al cloud”, ha spiegato il Cto di Aws, “perché in questa fase di trasforma-

zione digitale utilizzare le architetture sulla nuvola è diventata una questione di sopravvivenza, semplicemente non si può fare altrimenti. Ovviamente è anche una questione di efficienza, in un mondo dove le risorse finanziarie diventano sempre più scarse e la velocità dei nuovi modelli di business customer-oriented è sempre più elevata”. Tra i tanti successi inanellati dalla multinazionale, Vogels annovera anche Redshift, che secondo il manager è diventato di fatto il data warehouse basato su cloud di riferimento per le aziende di qualsiasi settore e dimensione. “Il cloud pubblico”, gli fa eco Nicola Previati, a capo di Aws Italia, “è il modello destinato a crescere di più in futuro. Molte aziende stanno riprogettando le loro architetture completamente fuori dal perimetro aziendale, anche le componenti strategiche”. Aws e Microsoft: visioni differenti

Al successo di Aws, fotografato in occasione del Summit di Milano, fa da contraltare una crescita costante anche del principale competitor mondiale, Microsoft con il servizio Azure. Le visioni delle due multinazionali sono,

Werner Vogels

al momento, decisamente distanti: mentre la prima auspica ovviamente un mondo It costruito sul cloud pubblico, la seconda insiste sul modello ibrido, convinta del fatto che le aziende vogliano e debbano decidere di volta in volta se utilizzare capacità di calcolo e memorizzazione interna o esterna. Se l’approccio di Microsoft sembra più aderente alla realtà della trasformazione digitale nel breve termine, sul lungo la possibilità che Aws abbia centrato la strategia appare concreta, alla luce del già citato caso di Enel in Italia ma anche di quello di General Electric a livello mondiale. La multinazionale ha, infatti, deciso di esternalizzare 30 dei suoi 34 data center nei prossimi tre anni. E.M.


IN EVIDENZA

l’intervista

banda ultra larga: Condividere le infrastrutture esistenti L’assegnazione dei primi bandi di gara è alle porte. Ecco perché esistono le condizioni per operare ed ecco che cosa è cambiato.

Appuntamento a giugno. L’inizio dell’estate, salvo intoppi imprevisti, segnerà la pubblicazione del primo o dei primi bandi di gara, e a seguire l’assegnazione della gara stessa all’operatore selezionato da Infratel. Il piano ultrabraodband da 12 miliardi di euro (di cui tre già stanziati) entra dunque nel vivo. Il premier Renzi lo ha di recente, ancora, eletto a tassello fondamentale per la trasformazione in chiave digitale del Paese e gli operatori sono pronti a muoversi di conseguenza. Ne parliamo con Federico Protto, Ceo di Retelit. I lavori per la banda ultralarga sono ai nastri di partenza: che cosa ne pensa? Occorre, secondo me, fare una distinzione fra i progetti che interessano le aree bianche a fallimento di mercato, e quindi i cluster C e D, dove è previsto il contributo pubblico e dove sono destinate le risorse finanziarie stanziate dal Governo, e quelli in cui gli operatori si muoveranno in funzione delle opportunità di mercato. Il premier Renzi ha tenuto a battesimo l’ingresso in campo di Enel… L’endorsement del primo ministro si può leggere anche come un indiretto messaggio di sollecito destinato a Telecom Italia e riafferma l’intenzione del Governo di procedere a passo spedito sull’ultrabroadband. Enel sarà sicuramente più attiva nelle aree A e B, poiché è lì che ci sono le maggiori possibilità di sviluppare new business: considero la nascita di Open Fiber

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Federico Protto

una buona notizia perché la competizione fra gli operatori si deve giocare essenzialmente sui servizi e non sull’infrastruttura. Per noi è un’opportunità e non una minaccia. Non c’è, dunque, il rischio di un “nuovo monopolio”? No, se gli operatori si muoveranno con lungimiranza, sviluppando piani di rete per le connessioni Ftth (Fiber to the home, ndr) basati sull’utilizzo delle infrastrutture esistenti. Rispetto al passato, qual è l’elemento di svolta per accelerare sulla banda larga in Italia? Oltre alle risorse messe in campo per finanziare il piano, credo che il punto di svolta sia il nuovo quadro regolatorio. Il cosiddetto “decreto scavi” pubblicato a marzo, che recepisce una direttiva europea del 2014, regola l’utilizzo delle infrastrutture esistenti e obbliga gli operatori che le detengono a metterle a disposizione degli altri. Si

tratta di un provvedimento che, almeno sulla carta, rimuove gli ostacoli che spesso hanno impedito, soprattutto a livello locale, di procedere con l’avvio delle reti ad alta velocità. Quindi è fiducioso? Sì, anche perché l’Agcom ha appena pubblicato le linee guida delle condizioni di accesso all’infrastruttura finanziata, elemento imprescindibile per un virtuoso utilizzo della stessa. L’ingresso di Enel, l’azione di Agcom e le decisioni prese dal Governo vanno a determinare un quadro di manovra chiaro, in cui gli operatori possono lavorare insieme per lo sviluppo delle nuove reti. Faccio un esempio: l’offerta residenziale di Enel può appoggiarsi all’infrastruttura di backhauling di un provider come Retelit. Perché non ha senso fare la guerra sulla infrastrutture e perché la componente servizio è vitale sotto il profilo della profittabilità. Possibili intoppi all’orizzonte? Le condizioni per operare sembra che ci siano, anche se i rischi non mancano. Penso per esempio alla burocrazia che rallenta il corso delle gare Consip e, di conseguenza, quello dei lavori. La lungimiranza degli operatori, aziende municipalizzate e non, è un requisito vitale per evitare che alcuni soggetti rafforzino la propria posizione di mancata condivisione delle infrastrutture. Serve, in definitiva, un approccio culturale che superi i limiti del modo di fare business tipicamente italiano. Gianni Rusconi


INVESTIMENTI IT IN FRENATA

On-premise e cloud, due porte di accesso ai dati

La spesa mondiale per le tecnologie digitali calerà quest’anno di mezzo punto percentuale. Il dato lo ha rivelato di recente Gartner, stimando per il 2016 un giro d’affari di 3.492 miliardi di dollari, meno dei 3.509 dello scorso anno. Le imprese, insomma, ridurranno dello 0,5%, su scala globale, i budget dedicati alle tecnologie, mentre la razionalizzazione degli investimenti rimarrà una priorità. Così commentano gli analisti della società di ricerca americana: “Una corrente sotterranea di incertezza economica sta spingendo le aziende a stringere la cinghia e la spesa in information technology è una delle vittime”. Le risorse verranno destinate soprattutto ai servizi (in crescita del 2,1%) e ai prodotti strategici per la trasformazione digitale, mentre verranno tagliati gli acquisti di dispositivi hardware (in calo del 3,7%) e le spese per le telecomunicazioni, il cui giro d’affari si contrarrà di due punti percentuali per efffeto del continuo calo di tariffe dei servizi Internet e di telefonia (e non tanto come una minore propensione alla spesa). Il cloud computing, invece, continuerà a trainare gli investimenti sui sistemi per i data center (in salita del 2,1%) e per il software di classe enterprise (in aumento del 4,2%).

Conciliare sicurezza, flessibilità, accesso ai dati da qualsiasi luogo e strumento è la missione di Acronis. Un’azienda specializzata in software per la protezione dei dati e la mobility, guidata da una Ceo dai natali russi e domicilio in quel di Monaco, a testimonianza dell’importanza del mercato tedesco. La società pensa, però, anche al nostro Paese. Telecom Italia è, infatti, il primo di una lista (ancora da annunciare) di service provider con cui Acronis proporrà diverse varianti delle sue soluzioni. Tali soluzioni, nella forma attuale, presuppongono una custodia dei dati e delle applicazioni aziendali su risorse on-premise: si possono utilizzare smartphone, tablet o Pc per accedere da qualsiasi luogo e in modo sicuro ai dati, mentre questi ultimi restano custoditi sui server interni all’organizzazione. Nella nuova forma, invece, si potrà sfruttare la nuvola come base dello storage. “Alcuni clienti continueranno a usare le nostre soluzioni on-premise. Altri le useranno in parte nel cloud, con un approccio ibrido. Altri passeranno completamente al cloud”, ha commentato il Ceo, Serguei Beloussov,

Serguei Beloussov

Acronis intraprende una "seconda via" per le sue soluzioni di backup e di accesso mobile. sottolineando l’esistenza di un’unica architettura tecnologica fondante. La strategia è quella di lasciare ai partner le attività di custodia e gestione dello storage dei clienti, mentre Acronis continuerà a focalizzarsi sulla data protection e sulle soluzioni di “mobile content management”, cioè di accesso ai dati, condivisione e collaborazione. L’applicazione finale potrà essere personalizzata dal service provider con i propri logo, colori e grafica. V.B.


IN EVIDENZA

Con l’open source, i grandi dati non fanno più paura L’open source è una strada preferenziale per le aziende che vogliano accelerare su più corsie: quella della gestione dei Big Data, ma soprattutto quella degli analytics e della Business Intelligence. Ne sono convinti gli sponsor dell’Hadoop Summit (Yahoo, Microsoft, Emc, Oracle e Sas, per fare qualche nome), evento che in aprile ha riunito a Dublino 1.400 partecipanti arrivati da 46 Paesi. “Già nel primo summit di Hadoop avevamo parlato dell’ambizione di gestire i dati del mondo e oggi questo slogan non è cambiato”, ha ricordato Herb Cunitz, presidente di Hortonworks, società statunitense che sviluppa piattaforme per la gestione dei dati e per la creazione di applicazioni. Ispirandosi rigorosamente all’open source. Fra i diversi annunci di prodotto e di progetti (anche indirizzati alla community degli sviluppatori) a Dublino è emerso un tema di fondo, o meglio una convinzione: solo con l’approccio aperto, privo di barriere fra le tecnologie, si possono creare piattaforme per la conservazione e l’analisi dei

Herb Cunitz

Per analizzare grandi volumi di dati di diversa natura, l'unico approccio sostenibile è quello "aperto". Parola di Hortonworks. dati capaci di sostenere carichi Big Data. Quelle che Hortonworks chiama “connected data platform” si distinguono da tutti i precedenti perché possono eseguire analisi su ogni tipo di dato: sia quelli statici (tipicamente, contenuti e ordinati nei database) sia il flusso continuo prodotto dalle intera-

zioni Web, dai social network, dalle immagini, dai sensori dell’Internet of Things, dai log di sicurezza e dalla geolocalizzazione. Sul palco del summit, il chief technology officer Scott Gnau ha illustrato alcuni dei vantaggi dell’open source applicato agli analytics per specifici settori. Per il retail, ad esempio, si stima di poter ricavare con le piattaforme di dati connessi circa 70 milioni di dollari di risparmi sui sistemi It, un aumento di fatturato sulle vendite compreso fra il 3% e l’8%, oltre alla possibilità di ottenere indicazioni preziose per ottimizzare la supply chain. Le assicurazioni automobilistiche, invece, saranno in grado di ridurre del 4% le perdite analizzando in tempo reale e più velocemente i comportamenti di guida dei loro clienti. “Le aziende che non adottano le connected data platform scopriranno di essere rimaste indietro e di non aver portato valore aggiunto ai loro clienti”, ha detto Gnau. “C’è un incredibile valore da sfruttare ed esiste un incredibile ecosistema per sfruttarlo”. V.B.

IL SUPERCOMPUTER PER LA RICERCA È partita a metà aprile l’avventura del nuovo “cervellone italiano” destinato alla comunità scientifica: un sistema progettato dal Cineca sulla piattaforma NeXtScale di Lenovo e frutto di un piano di investimenti di 50 milioni di euro. La prima fase di sviluppo del supercomputer (il cui nome logico è “Marconi”) sarà progressivamente completata in poco più di un anno, entro luglio 2017. Dapprima è prevista l’entrata in produzione di un siste-

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ma capace di raggiungere una potenza di calcolo di 2 Petaflops. Nel corso dell’anno prossimo la potenza computazionale a disposizione dei ricercatori sarà di circa 20 Petaflops e sarà abbinata a una capacità di memorizzazione dati di oltre 20 Petabyte. La seconda fase del progetto inizierà poi nel 2019 e avrà come obiettivo l’incremento della potenza disponibile per raggiungere i 50 o 60 Petaflops entro il 2020.


l’opinione

DevOps, strumento vincente per tagliare gli insuccessi Un nuovo approccio è necessario, sia nello sviluppo software sia in alcune dinamiche dell'It aziendale.

Alcuni studi di psicologia hanno evidenziato un aspetto interessante: una perdita provoca reazioni emotive il doppio più intense rispetto a una vincita. Insomma, odiamo perdere più di quanto amiamo vincere. Immaginate di lavorare nell’ambito dello sviluppo software e di essere sotto pressione per il rilascio di un aggiornamento. Siete consapevoli che potrebbero verificarsi problemi di performance o qualità, ma l’idea di dover rimandare il rilascio non puà essere presa in considerazione. E dunque, proprio come chi scommette al casinò, accettate il rischio. Ma, considerando che il banco vince sempre, che probabilità di successo avete? L’avversione per la sconfitta non riguarda solo lo sviluppo software, ma anche le operazioni It e la gestione dei servizi. Spesso si osserva un approccio molto rigido rispetto al cambiamento, ma difficile da abbandonare perché è ciò che ha garantito sbocchi di carriera e sicurezza del posto di lavoro. Pensiamo, per esempio, a un sistemista che per anni ha ricevuto un ottimo compenso per i suoi

Michele Lamartina

straordinari e reperibilità. Come possono, dunque, le aziende che si avventurano nel DevOps proteggersi dagli effetti della paura della perdita dello status quo? Una prima risposta è liberare lo sviluppo del software dal “fattore scommessa”, per esempio adottando tecniche come lo sviluppo test-driven, che consentono ai programmatori di avere riscontro immediato sulla qualità del software. A questo si aggiungano strumenti di ultima generazione che rimuovono alcuni limiti del testing, permettendo di ottenere un ottimo livello qualitativo dei test in meno tempo ed evitando inutili rischi.

In secondo luogo, non vanno trascurati fenomeni come quello delle “shadows ops”, che nell’era dello sviluppo Agile stanno divenendo sempre più frequenti e che consentono di interrompere tanti vecchi processi mirati ad assicurare compliance e resilienza, i quali ostacolano l’innovazione. Invece di opporsi a tutto questo, le aziende dovrebbero analizzare a fondo il fenomeno e incoraggiare l’adozione di tali strumenti all’interno dei confini dell’organizzazione, e il tutto naturalmente sotto la governance dell’It. Ciò permetterebbe di incrementare la qualità e la user experience, agendo sin dalle prime fasi del disegno e sviluppo delle applicazioni. Terza e ultima risposta è dare incentivi in base ai risultati di business. Piuttosto che ricompensare lo staff in base agli “output” (line di codice, numero di problemi risolti), si può considerare l’introduzione sistematica di metriche con cui misurare il personale e incentivarlo sulla base del contributo ai risultati aziendali. Michele Lamartina country leader Ca Technologies


SCENARI | Smart working

La maggior parte delle imprese associa al modello "smart" un incremento di produttività dei dipendenti e un miglioramento della reputazione aziendale. Ma solo in pochi si preoccupano di aiutare i manager a gestire questo cambiamento.

Più pregi che difetti per il lavoro flessibile

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mico o nemico? Il dibattito sul lavoro flessibile, sulle modalità di gestione dei dipendenti che esulano da orari canonici e postazioni fisse è sempre più attuale. E non solo perché al tema è dedicato un disegno di legge di recente emanazione (ne parliamo nell’articolo di pag. 18). L’impatto delle tecnologie sui processi aziendali, sul ruolo, sulle mansioni e responsabilità dei dipendenti è oggetto di diversi studi. La ricerca “Flexible Work: Friend or Foe?” realizzata da Vodafone intervistando ottomila professionisti (dipendenti, manager e dirigenti di imprese private e organizzazioni del settore pubblico, di diversi Paesi) evidenzia che il 75% delle aziende ha in16

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trodotto politiche di lavoro flessibile per consentire ai propri addetti di organizzare in modo più autonomo, da casa o in mobilità, la loro giornata. Chi ha adottato pratiche di smart working conferma di aver visto un significativo miglioramento delle prestazioni e, in particolare, individua tre assi lungo i quali si evidenziano i maggiori effetti positivi: l’aumento della produttività (citato nell’83% dei casi), la crescita dei profitti (nel 61%) e l’impatto sulla reputazione aziendale (nel 58%). Se tecnologie come le reti mobili e device di ultima generazione, servizi cloud e banda ultralarga fissa sono l’anima del lavoro “intelligente”, quali sono le barriere alla sua adozione? Le risposte, come facilmente immaginabile,

sono diverse. Lo studio di Vodafone, per esempio, mette in evidenza come esistano pregiudizi culturali nei confronti di questo strumento e come, in altri casi, la flessibilità non si sposi con la mentalità dell’organizzazione. Le preoccupazioni relative all’equa distribuzione del lavoro e i possibili attriti fra i dipendenti (cioè fra quelli che operano in modo flessibile e quelli che non lo fanno) sono ulteriori criticità. Per contro, fra i lavoratori che non usufruiscono ancora di politiche di smart working emerge come l’introduzione di questo modello avrebbe un impatto positivo sulla motivazione dei dipendenti (lo pensa il 55% di questi soggetti), sulla produttività (il 44%) e sui profitti (il 30%).


strumento utile, ma snobbato Secondo una ricerca condotta a febbraio dalla società di recruitment online InfoJobs, su un campione di oltre 40mila lavoratori e 400 aziende, lo smart working in Italia è considerato uno strumento utile ai fini della produttività e del “work-life balance”, cioè dell’equilibrio fra vita privata e lavorativa. C’è però un (preoccupante) rovescio della medaglia: il 64% delle aziende ignora i contenuti della proposta di legge varata a fine gennaio su questo tema, il 39% non è al corrente nemmeno della sua esistenza e solo l’8% ne conosce approfonditamente gli elementi. Eppure il lavoro agile è uno dei temi più caldi del dibattito sulla riforma del mercato delle professioni. L’indagine fa emergere un quadro sfaccettato, in cui cultura aziendale, tecnologia e normativa si intersecano. Aziende e lavoratori, in ogni caso, concordano sull’impatto positivo dello smart working sull’operatività e sull’equilibrio tra vita privata e professionale: per il 25,6% delle organizzazioni, in particolare, migliorerebbe le condizioni lavorative dei dipendenti, oltre a incidere positivamente sulla produttività. Solo l’11% è di parere opposto. A tutt’oggi, le aziende che ricorrono al lavoro agile sono il 44% del totale, ma quelle che lo adottano in maniera strutturata sono meno del 14%. Oltre il 30% applica invece politiche mirate di flessibilità limitatamente ad alcune aree e solo il 28,5% ne ha in programma l’attuazione entro i prossimi tre anni. Interessante, infine, il dato che vede il 49% delle aziende dichiararsi impreparate a mettere in campo lo smart working dal punto di vista dell’infrastruttura tecnologica.

Interessante, per capire l’eterogeneità della diffusione del fenomeno, è la sua distribuzione a livello di singoli Paesi: il Regno Unito è al comando nella classifica della fiducia tra datori e dipendenti, mentre il 52% dei dipendenti tedeschi ha rivelato di non essere a conoscenza delle policy di sicurezza della propria azienda in merito al lavoro flessibile. E in Italia? Secondo l’indagine, solo il 31% dei lavoratori della Penisola ha beneficiato di strategie di lavoro flessibile e tale percentuale ci colloca al penultimo posto tra tutti i Paesi coinvolti nella ricerca, seguiti solo da Hong Kong. Più incoraggianti sono i dati che fotografano l’approccio al tema delle aziende italiane. Il 70% conferma di aver abbracciato lo smart working, una larga fetta si mostra potenzialmente favorevole e solo il 6% risulta contrario. Più formazione per i manager

Sebbene il lavoro agile si stia diffondendo sempre di più anche nelle imprese italiane, c’è però un “gap” da colmare per renderlo un beneficio sistemico e trasversale a ogni organizzazione: la scarsa formazione del management. Una ricerca condotta da Regus su un vasto panel internazio-

nale di imprese clienti (44mila interviste in 105 Paesi) ha infatti evidenziato delle palesi contraddizioni fra la valutazione, molto positiva, che i manager danno del lavoro degli “smart worker” e la limitata propensione degli stessi ad acquisire competenze utili per adeguarsi ai nuovi processi organizzativi. Più precisamente, il 74% dei manager italiani intervistati (rispetto al 79% della media globale) dichiara che la propria azienda misura la produttività dei lavoratori flessibili attraverso la definizione di specifici obiettivi condivisi, anziché effettuare un tradizionale controllo del tempo dedicato alle mansioni aziendali. Nella maggior parte dei casi, inoltre, si riscontra una maggiore produttività in chi lavora da remoto in modo flessibile. Se gli investimenti in tecnologie addizionali per ottimizzare la gestione degli “smart worker” non difettano (li confermano il 51% delle imprese italiane), il vero problema è la penuria di iniziative per la formazione del management. Solo poco più di quattro imprese su dieci ha destinato budget a tale attività, e l’unica consolazione è che su questo dato il nostro Paese è in linea con la media delle altre nazioni. Piero Aprile

Con il mobile AUMENTA L’EFFICIENZA “The Mobile Employee Impact’, ricerca condotta a livello globale da The Economist Intelligence Unit per conto di Aruba Networks (divisione di Hpe) conferma l’esistenza di un effetto misurabile delle tecnologie mobili (smartphone, tablet e app) sulla qualità del lavoro svolto. Dei 1.865 dipendenti oggetto di indagine, il 60% ha affermato di essere più produttivo grazie alla mobilità, mentre il 45% attribuisce a quest’ultima un aumento della propria creatività. La possibilità di lavorare sempre e ovunque è l’elemento che più incide sull’operosità dei

dipendenti (lo sostiene il 49% degli intervistati) mentre il 38% identifica questa condizione come la più importante per ritenersi soddisfatto della propria azienda. Ma qual è la situazione reale? La percentuale di organizzazioni che mettono a disposizione un ambiente di hotdesking e connettività mobile è più alta in alcuni Paesi, in particolare nel Regno Unito (54%), in Australia e Germania (53%). La media globale è del 46%. Una curiosità: le app di messaggistica come WhatsApp sono diffuse nel 31% delle aziende, con un picco del 66% a Singapore.

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SCENARI | Smart working

I vincoli legali di luogo e di orario? Superabili Tempi e modalità di lavoro possono diventare più flessibili, a vantaggio della produttività, all’interno di un’adeguata cornice normativa. Al principio del controllo “a vista” si sostituisce un più forte rapporto fiduciario tra datore e dipendente.

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l Consiglio dei Ministri del 28 gennaio 2016 ha varato un nuovo disegno di legge recante “misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato”. Si tratta di un provvedimento per lo più ispirato al ddl. “Mosca” (ddl. n.2014/ 2014) e che si inserisce nell’ambito della legislazione sulle tematiche della conciliazione tra vita privata e lavoro. Una legislazione finalizzata a superare, in chiave derogatoria, alcuni vincoli di natura giuridica alla diffusione del cosiddetto smart working. È bene chiarire che non si tratta dell’ennesima nuova forma contrattuale, ma di una modalità di svolgimento della prestazione lavorativa, più vantaggiosa sia per l’aumento della produttività e la conseguente riduzione dei costi sia per la conciliazione tra sfera personale e professionale. Lo smart working implica un forte ripensamento dei tradizionali vincoli legati a luogo e orario di lavoro, puntando su una maggiore autonomia del dipendente nel definire i termini delle sue prestazioni a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati. In particolare, il “lavoro agile” viene definito come una pre-

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Luca Failla

stazione subordinata che si svolge con le seguenti modalità: l’esecuzione della mansione lavorativa in parte all’interno dei locali aziendali e in parte all’esterno, senza alcuna indicazione di percentuale massima o minima di orario; la possibilità di utilizzare strumenti tecnologici; l’assenza di una postazione fissa per le attività svolte all’esterno dei locali aziendali. L’obiettivo per il 2016 del legislatore è quello di superare le rigidità che sono state causa del conclamato insuccesso del telelavoro, per lo più determinate dalla stringente applicazione del Testo Unico in materia di salute e sicurezza. Nel disegno di legge è stata quindi delineata la struttura generale di tale nuovo strumento contrattuale, lasciando ancora una volta spazio alla contrattazione collettiva di ogni livello per meglio dettagliare tale istituto. L’ulteriore vantaggio derivante dall’eventuale sottoscrizione dell’accordo sindacale in tema di lavoro agile è l’applicabilità degli incentivi di carattere fiscale e contributivo, eventualmente riconosciuti in relazione agli incrementi di produttività ed efficienza del

lavoro subordinato. In realtà fino a oggi è stata proprio la contrattazione collettiva – specie di secondo livello – a disciplinare il lavoro intelligente. Numerose aziende, soprattutto multinazionali, hanno ritenuto di adottare tale modello pur in assenza di una normativa legislativa, mutuando da esperienze ormai molto diffuse in altri Paesi. Si pensi, per esempio, che nella Silicon Valley lo smart working rappresenta la norma e non l’eccezione. Nella maggior parte dei casi il lavoro agile è stato implementato per soddisfare una maggiore necessità di conciliazione familiare e personale, ma oggi si assiste a una sua graduale evoluzione tesa ad ampliarne le finalità verso tematiche diverse (dall’impatto sociale ai consumi, fino alla mobilità). La sfida dello smart working si gioca, dunque, da un lato sulla estrema valorizzazione del rapporto fiduciario tra datore e lavoratore, che esegue la propria prestazione professionale al di fuori del luogo aziendale e senza vincoli di tempo, e dall’altro sul fronte del rendimento. Quest’ultimo deve essere posto al centro della prestazione stessa, mentre diventano elementi marginali il rispetto dell’orario e l’individuazione di un luogo di lavoro. Si tratta dunque di una sfida di non poco conto e che necessita anche di un cambiamento culturale, non solo da parte di chi usufruisce di tale modalità, ma anche e soprattutto del management aziendale, finora per lo più abituato a esercitare un controllo “a vista” della prestazione lavoro. Luca Failla, founding partner di LabLaw


SCENARI | Smart working

il futuro è liquido L'80% dei professionisti apprezza i vantaggi di produttività e di libertà organizzativa legati alle tecnologie. Lo svela una ricerca di Adp, che segnala però anche qualche timore.

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a tecnologia è uno dei principali motori dei cambiamenti che si stanno verificando sul posto di lavoro. Ma i dipendenti sono pronti ad accettare questa evoluzione? Secondo una ricerca condotta dall’Adp Research Institute su oltre 2.400 addetti aziendali in 13 Paesi (Italia esclusa), la cosiddetta "forza lavoro” è aperta a un mutamento, anche radicale, sebbene rimangano numerosi dubbi. L’81% degli intervistati, per esempio, accoglie positivamente il fatto di poter essere produttivo da qualsiasi luogo e il 79% pensa che la tecnologia rafforzerà le relazioni interpersonali malgrado la distanza. L’automazione dei processi potrebbe però colpire la stabilità del lavoro, già duramente messa alla prova dalla lunga crisi economica. La ricerca ha evidenziato e classificato cinque bisogni dei professionisti di oggi: libertà, conoscenza, stabilità, autogestione e significato, con differenze sostanziali tra le quattro macroregioni geografiche prese in considerazione. Rispetto al resto del mondo, l’Europa si dimostra più apprensiva nei confronti del cambiamento a causa anche dell’età media più avanzata della sua popolazione. Gli europei temono infatti una riduzione dei livelli occupazionali e la spietata concorrenza di altri mercati, come quello asiatico. Ma questo non vuol dire che la tecnologia non sia pervasiva e accettata. Gli olandesi sono i più ottimisti sul fatto che in futuro sia possibile definire con maggiore libertà il proprio orario di lavoro: ne è convinto l’88% degli intervistati, mentre si scende all’83% tra i britannici, al 75% tra i francesi e al 73% tra i tedeschi. Un quarto degli europei pensa che la facoltà di svolgere quasi tutti i compiti dai dispositivi mobili sia un processo già

in corso, anche se il 33% non si è dimostrato entusiasta di questa possibilità. La mobilità, ovviamente, avrà ripercussioni dirette anche sugli uffici, storico punto di riferimento della vita aziendale. La crescente diffusione di smartphone e tablet, unita all’adozione delle tecnologie cloud, porterà allo spopolamento di questi luoghi o alla loro trasformazione in strutture più leggere. Dal punto di vista della conoscenza, la maggior parte dei lavoratori del Vecchio Continente ritiene che la tecnologia stia già favorendo relazioni personali più strette, grazie in particolare ai social media. Secondo il 31% dei tedeschi, in proposito, la collaborazione professionale tramite piattaforme social è un trend ben consolidato e, in generale, quasi sei europei su dieci pensano che in futuro questi strumenti diventeranno fondamentali. Anche tale dato, però, è inferiore rispetto alle altre aree del mondo.

La “liquidità” del lavoro si rispecchierà inoltre anche sulla conoscenza, che dovrà continuamente cambiare. È questo uno degli aspetti che più preoccupa gli europei: il 52% teme di essere obbligato ad apprendere rapidamente nuove competenze. Nell’area Asia-Pacifico, invece, medesime ansie sono state espresse da soli due intervistati su dieci. L’altro bisogno fondamentale per gli europei è quindi la stabilità: l’ipotesi che le imprese possano assumere solo collaboratori a contratto o a progetto spaventa il 65% dei lavoratori, anche se il 69% pensa di non subirne personalmente le conseguenze. La maggior parte degli intervistati, infine, ritiene che la transizione verso un’occupazione con un senso personale più profondo sia già in atto, così come sembra essere accettato il fatto che le imprese usino la tecnologia per misurare e incrementare il benessere dei dipendenti. Alessandro Andriolo 19


SCENARI | Digital transformation

A CHE PUNTO SIAMO IN ITALIA? L’evoluzione delle piccole e medie imprese è ancora frenata da diversi fattori: dalla carenza di connessioni mobili ad alta velocità, che inibisce la diffusione del paradigma industria 4.0 nel manifatturiero, allo scarso uso di Internet per attività di e-commerce. E l’assenza di un cultura tecnologica, in molte aziende, certo non aiuta.

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a anni si parla di “digital transformation” ma ancora oggi, soprattutto nel confronto con i Paesi esteri, sembra che in Italia ci sia ancora molto da fare. Questo è oltremodo vero se si pensa al processo di digitalizzazione delle Pmi, la miriade di piccole e medie attività che costituiscono le basi del nostro sistema industriale ed economico. Realtà che sempre più spesso vengono lasciate in balia dei processi di trasformazione, senza avere una chiara visione delle strategie e delle motivazioni che stanno alla base del cambiamento. Sicuramente il nostro è, in molti casi, un Paese di imprenditori illuminati ma, molto più spesso, i “Brunello Cucinelli” del caso fanno fatica a emergere dalle routine gestionale di un’attività rallentata dal prolungato momento di crisi, dalla mancata comprensione delle potenzialità delle tecnologie e da scarse competenze disponibili. Se, quindi, ci si chiede a che punto siano le Pmi italiane nel processo di digitalizzazione, rispondere diventa complesso: sia perché il numero e la varietà di imprese rendono difficile una lettura univoca dei risultati, sia perché spesso (nel leggere le risposte a domande su temi tecnologici) si fatica a comprendere quali sia davvero il ruolo del di20

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gitale all’interno di un’azienda. Qualche considerazione si può comunque trarre guardando all’ultima rilevazione dell’Istat sulle realtà nostrane da dieci e quarantanove addetti, un sottoinsieme che tralascia volontariamente le micro-imprese e quelle unipersonali che meriterebbero un discorso a parte. Lo studio esamina, dunque, solo le circa 187mila aziende che hanno una massa critica sufficiente per parlare di funzioni aziendali e internazionalizzazione. Dai dati emerge come quasi tutte dispongano di una connessione Internet, benché una piccola parte (circa il 2%) rimanga ancora completamente offline; la percentuale aumenta al 6,1% se si considera invece l’assenza di una connessione a banda larga (fissa o mobile) mentre quasi il 40% non possiede una linea mobile (almeno su rete 3G). Quest’ultimo parametro assume una connotazione particolarmente negativa nell’ottica dello sviluppo di un modello per l’industria 4.0 in Italia e della creazione di sistemi cyber-fisici all’interno delle fabbriche. In tal senso, la mancanza di una connessione mobile ad alte prestazioni inibisce la diffusione di questo paradigma all’interno delle Pmi in ambito manifatturiero, che rappresentano circa il 34% delle imprese analizzate.


Il Web, questo sconosciuto

Un altro dato interessante riguarda la presenza online di queste aziende, o tramite un sito Internet o, più genericamente, con una pagina Web (il presidio dei social network da parte delle Pmi è invece quasi nullo). In questo caso, emerge come poco meno di un terzo delle aziende non sia presente su Internet, mentre chi lo è utilizza il sito a fini informativi (il 40,2% delle imprese) o per dare visibilità a cataloghi e listini prezzi (il 32,2%). Solo poco più del 12% sfrutta il canale online per gestire ordini o prenotazioni di prodotti. Quest’ultimo aspetto introduce il tema dell’e-commerce e della diffusione di questo strumento tra le

Parte della responsabilità della défaillance digitale delle nostre Pmi è da attribuire a una relativa debolezza dell’offerta tecnologica a loro riservata, e in particolare del canale e delle terze parti

Ue: 300 milioni per l’innovazione Il Fondo Europeo per gli Investimenti Strategici (Feis) e il Banco Popolare Società Cooperativa hanno firmato di recente un accordo a vantaggio delle Pmi italiane più innovative per stanziare, attraverso lo strumento di finanziamento InnovFin, 300 milioni di euro. Tali risorse sono destinate, nello specifico, al sostegno diretto di 1.500 imprese attive in progetti ad alto contenuto tecnologico in settori chiave per la Ue, quali istruzione e conoscenza, innovazione ed economia digitale, energia e infrastrutture di trasporto, risorse naturali e ambiente.

Pmi. Ancora i dati Istat dicono come le aziende con 10-49 addetti non siano attive in modo significativo in questo canale: solo il 9% ha concluso delle vendite per via digitale, mentre se si guarda agli acquisti effettuati in Rete la percentuale di aziende che si sono dimostrate attive nel corso dell’anno precedente alla rilevazione (nel 2014, quindi) sale al 36%. Perché, dunque, le piccole e medie imprese italiane sembrano così restie ad intraprendere un percorso di trasformazione digitale? Uno dei temi centrali, molto spesso presente anche all’interno delle grandi aziende, sicuramente riguarda la scarsa diffusione di una cultura digitale: in molti casi regna una sorta di disillusione e di marginalizzazione del ruolo della tecnologia, percepito sostanzialmente come estranea al core business aziendale. Va comunque tenuto presente che parte della responsabilità di questa “défaillance digitale” delle nostre Pmi è da attribuire a una relativa debolezza dell’offerta tecnologica a loro riservata, e in particolare del canale e delle terze parti. Negli ultimi anni di difficoltà nello scenario economico, infatti, si sono accentuati gli effetti di alcune criticità di queste aziende, quali la sottocapitalizzazione e le dimensioni limitate, che hanno reso più difficoltosa la loro capacità di trasferimento tecnologico e di “consulenza” innovativa. Da dove ripartire, quindi? Forse in primo luogo dalla “riforma” del canale, anche da parte dei grandi vendor Ict, in un’ottica di sviluppo delle competenze e delle tecnologie che poi vengono concretamente portate nelle aziende e nei loro sistemi informativi. Occorre poi sviluppare un meccanismo di diffusione e condivisione delle esperienze e delle buone practiche, per mostrare in modo chiaro e trasparente che un percorso verso la digital transformation esiste ed è percorribile. Camilla Bellini, analista di The Innovation Group 21


SCENARI | Digital transformation

svoltA tecnologicA: PMI CONVINTE a metà Secondo uno studio di Idc, l’adozione degli strumenti digitali è vista anche dai dipendenti come un passaggio fondamentale per la sopravvivenza delle piccole e medie imprese. I ritorni sugli investimenti sono tangibili, ma la vera trasformazione dei processi è appena iniziata.

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e piccole e medie aziende che hanno adottato gli strumenti digitali mostrano uno sviluppo del proprio business più rapido rispetto a quelle che non lo hanno ancora fatto. Un assunto forte, certo non nuovo se pensiamo al fatto che da anni i vendor Ict provano a valorizzare la componente tecnologica come un asset vitale dell’impresa e non come un mero costo da iscrivere a bilancio. Ma il messaggio emerso da una recente ricerca condotta su scala globale da Idc non va trascurato, per il semplice motivo che, a dichiararsi convinte dell’efficacia della digitalizzazione, siano innanzitutto le aziende. L’indagine, infatti, mostra come le Pmi stiano iniziando a comprendere e a beneficiare del valore delle tecnologie, e

in modo particolare degli stumenti di analytics, dei software di collaborazione e di queli per la gestione della relazione con i clienti (dal Crm in avanti). Soluzioni, in generale, che permettono ai manager di gestire il business più facilmente e di reggere la sfida competitiva anche con le aziende di grandi dimensioni. Fra gli indicatori più significativi emersi dallo studio spiccano quelli riguardanti il tasso di adozione e i benefici ottenuti attraverso le tecnologie di ultima generazione. Oltre il 39% del campione concorda, per esempio, sul fatto che la partecipazione attiva nella digital economy sia fondamentale per la sopravvivenza dell’impresa nei prossimi tre o cinque anni. Circa un terzo del totale (e oltre il 45% delle aziende che impiegano dai


nologia”, meno lo è la preoccupazione, lamentata da un terzo abbondante di imprese (principalmente realtà medio-grandi), di dover fare troppo affidamento sui dati per prendere decisioni di business efficaci. Ma a preoccupare veramente è soprattutto il fatto che quasi un quarto (il 24,7% per la precisione) delle piccole e medie imprese del Nord America dichiari di aver fatto “poco o niente” in termini di trasformazione digitale. Una cattiva abitudine molto diffusa anche alle nostre latitudini. I dipendenti tifano per il digitale

500 ai 999 dipendenti) ha confermato inoltre di aver registrato un fatturato in crescita del 10% nell’ultimo anno anche in virtù dell’adozione di strumenti innovativi che connettono persone, dispositivi e la rete di clienti e partner. E non parliamo ancora di intelligenza artificiale, realtà aumentata o sistemi robotici: il 50,6% delle aziende interpellate utilizza delle comuni applicazioni di collaboration per accompagnare il proprio processo di trasformazione digitale, mentre il 38% e il 37% del campione, rispettivamente, ricorre a soluzioni di Crm e di business analytics. Tecnologie consolidate e facilmente accessibili (anche in cloud), che in circa la metà delle Pmi intervistate hanno permesso di migliorare il flusso di lavoro, semplificare le operazioni e aumentare la produttività. Il vero problema sta dunque nella modalità con cui gli strumenti digitali sono recepiti e compresi. Se è accettabile il fatto che circa un terzo (tra il 30,4% e il 36,6%) delle aziende pensi che “le relazioni personali tra i dipendenti non sono state rafforzate dall’adozione della tec-

Il dato potrebbe trarre in inganno, aprendo a ottimismi non completamente giustificati: il 66% delle Pmi italiane ha rinnovato o sta rinnovando i propri processi It e il 68% dei dipendenti punterebbe su cloud computing e mobility a supporto del business. L’indicazione arriva da una ricerca di Microsoft e Ipsos Mori di qualche mese fa, la quale ha messo in evidenza come gli addetti delle medie e piccole imprese della Penisola si dichiarino come i più pronti a livello europeo ad abbracciare con forza e fiducia gli strumenti digitali per ottimizzare il proprio lavoro e l’equilibrio fra vita privata e professionale. Più precisamente, è opinione diffusa fra gli intervistati che software e applicazioni più smart, insieme ai device mobili, potrebbero semplificare il loro lavoro e migliorare la produttività. L’importanza attribuita alla tecnologia si evince anche dal 40% e oltre di dipendenti convinti che il ricorso ai sistemi digitali debba essere una priorità per ridurre i costi e per aiutare la propria azienda a crescere. Lo studio, infine, sconfessa anche il luogo comune che descrive le Pmi italiane come poco sensibili alla necessità di innovare: il 33% dei dipendenti in Italia lavora in aziende che seguono logiche “paperless” e che sono connesse online in modo adeguato, mentre un’identica percentuale ritiene che la propria impresa si stia muovendo verso un modello digitale. Piero Aprile

imprese innovative: i criteri sono equi? Quali strategie ha adottato l’Italia per incentivare (dal punto di vista fiscale, innanzitutto) il passaggio delle imprese innovative dallo statuto di startup e vere e proprie aziende? L’analisi di Carmelo Cennamo, docente dell’Università Bocconi di Milano, è impietosa. Il Governo, osserva l’esperto, ha predisposto un’intera architettura di incentivi all’innovazione per le diverse fasi di vita delle organizzazioni che la promuovono. E se questo tentativo può considerarsi positivo, dice Cennamo, molti aspetti della disciplina, ma soprattutto della ratio (oscura) alla base della stessa lasciano perplessi. I dubbi riguardano i criteri che determinano lo status di impresa innovativa, legati perlopiù a requisiti di “possesso” (della laurea per un terzo del personale, per esempio) o di natura economica (il fatturato o la percentuale di spesa in ricerca e sviluppo) e non di merito sul processo d’innovazione portato avanti (per esempio la produzione di macchinari di precisione che automatizzano la lavorazione del legno). Il rischio del vincolare lo status a criteri di possesso, a detta del docente della Bocconi, è che qualsiasi soglia determinata possa risultare arbitraria e portare all’esclusione di casi meritevoli. Se il numero di Pmi oggi iscritte nell’apposito registro, circa 140, è inspiegabilmente esiguo a fronte delle migliaia di iscrizioni attese, una ragione ci deve pur essere. E la domanda sul che cosa si voglia veramente incentivare sotto il cappello dell’innovazione, intanto, rimane senza risposta.

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TECHNOPOLIS PER WOLTERS KLUWER TAX&ACCOUNTING

IL VALORE DELLA COLLABORAZIONE

Il mondo dei professionisti è in evoluzione. Wolters Kluwer Tax&Accounting lo affianca per sostenere la crescita della professione in modo efficace e sostenibile. La collaborazione come strategia di progresso e di sviluppo. Lavorare al servizio di un mondo imprenditoriale e produttivo che si evolve e cambia rapidamente è impegnativo. I professionisti devono mettere in gioco risorse e flessibilità. Il loro universo è chiamato a prendere decisioni altamente critiche ogni giorno e necessita del supporto di strumenti tecnologici per un’attività svolta in piena sicurezza. Wolters Kluwer da sempre è vicina al mondo professionale e, conoscendolo molto in profondità, ne anticipa i bisogni. Wolters Kluwer ha costruito proprio sulla collaborazione il suo rapporto di fiducia con il mondo professionale. Wolters Kluwer Tax&Accounting è protagonista del mercato del software con una importante presenza territoriale che raccoglie e sviluppa l’eredità di marchi storici, tra cui Ipsoa, Orsa e Artel, e offre al mercato italiano la partnership di un’azienda inserita in un grande gruppo internazionale, quotato in Borsa, presente in oltre quaranta Paesi e che ha fatto dell’informazione e dei servizi ai 24

professionisti e alle aziende la propria missione. Pierfrancesco Angeleri, managing director di Wolters Kluwer Tax&Accounting Italia sa che la chiave di volta per lo sviluppo del professionista è nel digitale: “Nello studio professionale bisogna liberare risorse qualificate e restituirle alle attività di maggiore valore aggiunto, a beneficio della clientela. È necessaria una visione della capacità di affiancamento alla clientela e certamente bisogna gestire gli adempimenti, ma è opportuno toglierli dalla centralità delle attività. Più consulenza, condivisione e collaborazione sono le nuove frontiere dello studio professionale”. Per realizzare questo ambizioso progetto servono strumenti adeguati. Direzione Studio SMART di Wolters Kluwer, per esempio, rappresenta un vero stacco dal passato e consente al professionista di ottenere in automatico un quadro realistico delle attività dello studio. Direzione Studio SMART non è uno strumento di controllo ma una soluzione “ready to use” che permette da subito e in automatico al professionista “l’ascolto” del proprio studio. In questo modo offre la possibilità di eseguire un’analisi approfondita, che porterà alla maggiore efficienza dell’organizzazione e del lavoro, nonché a un rapporto ancora più stretto con il suo cliente, grazie alla neutralità dell’analisi. Si tratta, dunque, di uno strumento digitale in grado di rendere il lavoro dello studio più efficace e qualificato, perché in prospettiva libera risorse da dedicare ad attività a maggiore valore aggiunto. Per favorire la collaborazione e per liberare il potenziale ancora inespresso dei professionisti, ecco che Wolters Kluwer propone strumenti quali “webdesk”, un portale di comunicazione fra lo studio professionale e la clientela. Un contenitore di servizi e di comunicazioni integrato con le soluzioni gestionali del Gruppo Wolters Kluwer, che può favorire la condivisione e la collaborazione e può rendere flessibile e ancor più intelligente l’organizzazione del lavoro del professionista. Le soluzioni digitali Wolters Kluwer non servono più solo a elaborare, ma fanno parte di un insieme reingegnerizzato che consentirà al professionista una gestione delle attività e del tempo condivisa e razionale. La collaborazione potrà, così, assumere un valore reale e tangibile poiché il professionista “digitalizzato” potrà dedicare molto più tempo ai servizi a maggiore valore aggiunto e potrà offrire alla sua clientela un rapporto di partnership ancora più attivo.


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UN MERCATO A DUE FACCE Le aziende spendono meno in soluzioni hardware e in consumabili, mentre si affidano sempre di più ai servizi gestiti. Cloud e mobile sono i due trend principali, ma si fa spazio anche il green.

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n totale fanno 3,2 miliardi di euro. È questo il valore dell’office printing oggi in Italia per Asso.it, l’Associazione dei produttori di sistemi di stampa e di gestione documentale, secondo cui il segmento office/business rappresenta il 40% dei volumi e oltre il 90% del valore complessivo. Numeri e cifre che, se scomposti, evidenziano però due tendenze inversamente proporzionali: una è l’appiattimento o il calo contenuti, ma abbastanza costanti, del business delle soluzioni hardware e dei consumabili; l’altra, parallela, è la regolare crescita dei servizi di stampa gestiti. Nel primo caso, secondo Asso.it si dovrebbe passare dal giro d’affari di 2,58 miliardi di euro del 2015 ai 2,55 di quest’anno, per scendere ancora a 2,51 miliardi

nel 2017. Il mercato del printing nella Penisola è quindi trainato sempre più dai servizi, in procinto di passare dai 620 milioni di valore dell’anno scorso ai 686 del 2016, con tassi di crescita annuali del 10%. In totale, per il 2017 Asso.it stima un volume d’affari di 3,27 miliardi di euro per l’intero settore, con i servizi che contribuiranno al 23% del business complessivo. “Il loro merito è la certificata capacità di ottimizzazione e razionalizzazione apportata all’organizzazione”, spiega Teresa Esposito, marketing director business group di Canon Italia. “L’attuale tendenza per i managed print service è l’allargamento a nuovi segmenti di mercato, ovvero dalla grande azienda verso la media impresa”, aggiunge Esposito. Fra le tendenze puramente tecnologiche, inMAGGIO 2016 |

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vece, vanno citati il cloud e il mobile printing, che più di tutti soddisfano l’esigenza di poter lavorare ovunque e virtualmente da qualsiasi dispositivo. Secondo stime di Idc, la stampa da mobile è cresciuta dal 2008 a oggi a un tasso annuale composto del 20%, con una decisa accelerazione nell’ultimo quadriennio, ed entro il 2018 il 75% della forza lavoro sarà costituito da dipendenti “mobili”. Technavio punta ancora più in alto, calcolando una crescita globale del 32,5% nel periodo 2014-2019. Un cambiamento scaturito anche dall’ingresso nel mondo del lavoro delle nuove generazioni “digitali”. I numeri positivi traineranno in parallelo anche una maggior richiesta di soluzioni per la sicurezza e di tecnologie di stampa wireless, come per esempio la Near Field Communication (Nfc). La nuvola e le soluzioni senza cavi, sempre più pratiche ed economiche, stanno vivendo un ottimo momento anche nel segmento Soho (small officehome office), dove si tende a preferire il “tutto in uno” per garantirsi bassi costi iniziali e di esercizio, funzionalità elevate e una grande affidabilità. “L’utente è sempre più esperto ed esigente e l’abbandono progressivo di fasce di prodotto economiche da parte di diversi vendor ha spostato l’asticella del valore verso l’alto”, sottolinea Marco Zanella, marketing product manager di Brother. Diversa la situazione tra le Pmi del nostro Paese, che rappresentano la quasi totalità delle aziende tricolori e che nel 2015 hanno contribuito al 77% del valore totale del printing italiano. “L’utilizzo del WiFi nella piccola e media impresa non è ancora così diffuso, in quanto realtà di questo genere si affidano molto alla connessione cablata, soprattutto per garantire la sicurezza”. Nell’ambito delle grandi imprese (18% del giro d’affari complessivo) si riscontra invece un’altra esigenza: ottimizzare il parco macchine, integrando facilmente i dispositivi all’interno della rete aziendale e personalizzandoli a se26

conda dei bisogni specifici. Ma sempre con l’obiettivo finale di razionalizzare la spesa e di rendere più efficienti anche i flussi di lavoro. “In ufficio si stampa sempre meno e si riducono i documenti cartacei in favore di quelli elettronici, in tutti i segmenti di business”, spiega Nicola Vargiu, products & channel marketing manager, value products and solutions di Oki Systems Italia. “E, in contemporanea, si stampa meglio, con una conseguente razionalizzazione del parco macchine aziendale.

snelliscono e ottimizzano la comunicazione delle aziende clienti fornendo loro supporto a livello di consulenza, di software e di implementazione. Il tutto in un’ottica di riduzione dei volumi di stampa, sia per esigenze di taglio di costi sia per diminuire l’impatto ambientale. Il secondo aspetto “è confermato da una ricerca condotta durante il Cebit 2016: l’89% dei professionisti europei dell’It intervistati ha affermato che nel corso degli ultimi tre anni le considerazioni ambien-

Da qui la crescente necessità di integrare la stampa e la gestione documentale all’interno dei sistemi e dei processi aziendali”. È chiaro quindi come il mercato sia oggi in costante trasformazione, malgrado possa essere percepito dall’esterno come statico e ancorato a logiche tradizionali. Ne è prova la prossima incarnazione dei servizi gestiti che, secondo le imprese, si trasformeranno presto nei più ampi “managed content service”: soluzioni che razionalizzano,

tali sono diventate più importanti o si sono comunque mantenute costanti”, aggiunge Flavio Attramini, head of business sales di Epson Italia. Le dimensioni dell’impresa contribuiscono, tuttavia, a cambiare la percezione della forza lavoro. “Nelle aziende con oltre cinquecento dipendenti il 62% dei partecipanti pensa che la sostenibilità sia sempre più rilevante, mentre si scende al 41% nelle realtà con meno di dieci persone”. Alessandro Andriolo


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IL CLIENTE HA SEMPRE RAGIONE I vendor devono soddisfare aziende sempre più esigenti, costrette a contenere i budget ma in cerca di soluzioni con funzionalità avanzate: dall’hardware al software, passando per l’integrazione dei sistemi e la gestione documentale.

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a mobilità, il cloud e un approccio al lavoro più flessibile e smart hanno ormai spinto i principali produttori di stampanti a fornire soluzioni in grado di adattarsi al meglio alle aziende di oggi. Aziende in cerca di una netta riduzione dei costi, ma che non vogliono rinunciare alle funzionalità più avanzate e che sembrano seguire sempre più la tendenza ad acquistare dei dispositivi multifunzione piuttosto che delle semplici stampanti. “La nostra gamma di soluzioni e prodotti per la gestione

documentale è molto ampia e viene rinnovata di continuo per rispondere a nuove tendenze ed esigenze”, sottolinea Stefano Gelmetti, product marketing manager di Ricoh Italia. Nel corso del 2016 il produttore lancerà 52 nuovi modelli di dispositivi multifunzione e di stampanti, sia a colori sia in bianco e nero. “Abbiamo da poco introdotto le soluzioni monocromatiche Mp 305+Sp e Mp 305+Spf, due modelli A4 che dispongono però di funzioni di stampa, copia e scansione A3. Proprio per agevolare tendenze quali la MAGGIO 2016 |

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ottenere l’ultima versione del dispositivo multifunzione senza doverlo sostituire: con un semplice aggiornamento software gratuito si possono aggiungere nuove funzionalità, come patch di sicurezza o applicazioni, utili a risolvere in modo semplice le esigenze del cliente”. Esigenze che riguardano anche tutta la gestione dei flussi documentali, in particolar modo nell’ambito del printing professionale. “Prisma è un vero e proprio Erp di tutto il centro stampa, che permette di gestire in modo efficace i flussi in entrata e in uscita, sia cartacei sia digitali”, spiega Teresa Esposito, marketing director business group di Canon Italia. L’offerta del colosso giapponese tocca poi altri tre settori, vale a dire l’information management (con soluzioni verticali e dedicate a risolvere specifiche esigenze per facilitare il cammino verso la trasformazione digitale); la gestione dell’output per traghettare le imprese verso i managed content service (il fiore all’occhiello, in questo caso, è la piattaforma uniFlow) e, infine, il printing di nuova generazione. “Abbiamo appena lanciato la Generation 3 delle nostre stampanti Office imageRunner Advance, dispositivi con funzioni avanzate di scansione che consentono anche il riutilizzo delle informazioni provenienti dai documenti”, continua Esposito. “Oggi su tutti i modelli possiamo convertire un cartaceo in diversi formati, come Ooxml, Pptx o Docx, per riutilizzarlo con Powerpoint o Word. È inoltre presente di serie la funzionalità di scansione che permette

LUCA MOTTA - HP

DANIELE PUCCIO - XEROX

FLAVIO ATTRAMINI - EPSON

mobilità e il lavoro intelligente, sono dotati entrambi di Ricoh Smart Operation Panel, uno schermo touchscreen da 10,1 pollici simile a quello di un tablet, che grazie a un’interfaccia intuitiva e personalizzabile semplifica e velocizza le attività. Il pannello si collega direttamente con i dispositivi mobili utilizzando la connessione Nfc, il Bluetooth oppure con la lettura di un codice Qr”. Si è concentrata molto sul lato software Brother, che “negli ultimi anni ha arricchito sempre di più i terminali di stampa con funzioni legate al cloud, interfacce aperte personalizzabili e molteplici kit di sviluppo software per venire incontro alle esigenze specifiche di vari utenti finali, inclusi quelli ‘sul campo’”, illustra Marco Zanella, marketing product manager di Brother. “Poniamo grande attenzione alla facilità di utilizzo, alla gestione flessibile della carta e all’affidabilità dei dispostivi, ormai parte integrante delle attività svolte negli uffici. Si va quindi dalle stampanti e dai multifunzione professionali laser monocromatici, laser a colori e inkjet, fino ad arrivare alle stampanti portatili a tecnologia termica e agli scanner”. Anche Xerox, oltre ad aver perfezionato di recente la componente hardware del proprio portafoglio, ha lanciato la tecnologia software Connect Key. “Abbiamo pensato di garantire l’investimento dei nostri clienti nel tempo”, commenta Daniele Puccio, presidente, amministratore delegato per l’Italia e general manager, Ecg Southern Region. “Connect Key permette di


PIETRO RENDA - LEXMARK

NICOLA VARGIU - OKI SYSTEMS

MARCO ZANELLA - BROTHER

di rilevare le pagine bianche all’interno dei documenti acquisiti. Infine, ma non meno importante, è la dotazione di un ‘remote operator’ che consente all’It manager di interagire con il pannello del dispositivo da remoto, per scopi di helpdesk, configurazione o service”. La parola d’ordine, comunque, è una soltanto: integrazione. Un obiettivo perseguito ormai a tutti i livelli e tradotto, dal punto di vista dell’hardware, nel costante abbandono delle stampanti più piccole in favore delle multifunzioni dipartimentali “intelligenti”. Una tendenza condivisa anche da Oki Systems: il futuro del printing sta proprio nell’integrare i sistemi di stampa con i flussi di dati. “I dispositivi della serie Mc800 dispongono, compreso nel prezzo della macchina, della soluzione Sendys Explorer, un sistema documentale light”, illustra Nicola Vargiu, products & channel marketing manager, value products and solutions del gruppo nipponico. “Quest’applicazione permette di acquisire documenti da varie fonti e di convertirli, distribuirli o caricarli su server, oltre a salvarli sulle più diffuse piattaforme cloud come Google Drive, Microsoft SharePoint, OneDrive e Dropbox. In questo modo si ha una maggiore flessibilità per modificare, accedere, stampare, recuperare e condividere i file, oltre che per operazioni di ricerca nei contenuti appena digitalizzati. Oggi quindi il multifunzione non serve più solo a stampare e a copiare, ma anche a elaborare dati in modo intelligente, a navigare in Inter-

net e ad archiviare e condividere dati sul cloud”. È, invece, un’offerta unica nel suo genere quella proposta da Hp, che ha investito molto per lanciare sul mercato la tecnologia PageWide: un brevetto diventato poi una vera e propria linea di prodotto, a fianco delle classiche inkjet e laser. Grazie all’impiego di oltre 200mila ugelli montati su una barra di stampa fissa che copre l’intera ampiezza della pagina, PageWide riduce i tempi di produzione, in quanto i dispositivi non devono più spostare il foglio per riposizionarlo continuamente. Utilizzando più barre assemblabili insieme è, inoltre, possibile adattare questa tecnologia a fogli e stampanti di diverso formato. “Per quanto riguarda l’inkjet, spaziamo dal mondo consumer a quello home office, fino a quello delle Pmi”, illustra Luca Motta, printing business director di Hp Italia. “Ad esempio, l’ultima serie Hp OfficeJet Pro 8000, caratterizzata dal nuovo design Hp Print Forward, fornisce ai clienti produttività ad alte velocità, in un design compatto che aiuta a preservare spazio in ufficio. Sul fronte della tecnologia laser, invece, abbiamo presentato un’importante innovazione per le cartucce, denominata JetIntelligence: una nuova formulazione del toner Hp ColorSphere 3 incrementa le performance in termini di produttività, garantendo consumi e costi di gestioni ridotti”. È la medesima promessa di Epson, che ha scelto però di puntare con decisione sulle soluzioni a getto d’inchiostro, proponendo in par29


ticolare due tecnologie molto simili ma destinate a diversi tipi di utenze. “La linea Workforce Pro Rips (Replaceable Ink Pack System) è dotata di sacche di inchiostro ad altissima capacità, al posto delle tradizionali cartucce, che permettono di stampare fino a 75mila pagine prima di doverle sostituire”, chiarisce Flavio Attramini, head of business sales di Epson Italia. A detta di Attramini, in questo modo si possono abbattere i costi di gestione (energetici e di manutenzione) anche dell’89%. Senza rinunciare ai vantaggi della serie di multifunzione Workforce Pro: produttività, efficienza e ridotto impatto ambientale. La seconda linea, la Ecotank, è pensata per il segmento small office-home office ed è costituita da multifunzione per i piccoli uffici che “stampano elevati volumi e che desiderano bassi costi e alta qualità. Grazie ai serbatoi ricaricabili ad alta capacità, con una autonomia sino a 11mila pagine, le Ecotank coniugano convenienza, praticità, qualità e affidabilità in un’unica soluzione”. Per seguire e alimentare il mercato della stampa laser (circa un milione di macchine circolanti in Italia) declinato su dispositivi all-in-one, Lexmarx ha lanciato infine il tutto in uno “smart” CX860, definito dallo stesso vendor come “A3 killer”. “Il celebrato formato A3 resta un prodotto di nicchia, utilizzato soprattutto in ambito finance e advertising”, commenta Pietro Renda, channel and supplies sales director di Lexmark. Il CX860 “è un A4 che sfida le A3. Per noi è un 30

STEFANO GELMETTI - RICOH

TERESA ESPOSITO - CANON

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mercato nuovo, tuttavia per come è posizionato offre due vantaggi. Il primo è per gli utenti finali, che possono beneficiare del costo per copia a colori più economico del mercato rispetto a prodotti della stessa fascia. Sebbene vi siano segnali di ripresa, infatti, la crisi economica è ancora attuale e costringe le aziende con budget ridotti sa tenere più a lungo le stesse stampanti

e multifunzione. I rivenditori, invece, realizzano un margine maggiore rispetto a qualsiasi prodotto della concorrenza venduto a parità di prezzo. Lo evidenziano i dati di una nostra recente analisi. Questo perché nel costo dell’hardware sono inclusi le parti di ricambio, il kit per il mantenimento e le unità fotoconduttore”. Alessandro Andriolo


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LA NUOVA ERA DEI SERVIZI gestiti Riduzione dei costi, sicurezza e flessibilità sono i tre principali vantaggi dei managed print service, che ormai possono essere tagliati su misura per aziende di qualsiasi dimensione e per vari settori di mercato.

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l mercato dei servizi di stampa gestiti si caratterizza per un alto tasso di crescita e per la numerosa casistica di riconferma dei contratti”. È netto il giudizio di Marco Zanella, marketing product manager Brother, sullo stato attuale dei managed print service (Mps), che stanno contribuendo sempre più a sostenere il mercato generale del printing grazie a tassi di crescita annuali del 10%. Gli Mps sono quindi i veri protagonisti di oggi e vengono richiesti dalle aziende perché consentono di monitorare il parco macchine installato e, di conseguenza, di ridurre i costi anche in maniera sensibile. Il secondo vantaggio evidente è la flessibilità dei programmi offerti dai

vendor, che si possono adattare alle esigenze delle singole realtà. Anche di quelle più piccole. “Brother dispone di un programma dedicato proprio alle piccole e medie imprese”, aggiunge Zanella. “Le offerte di Mps di Brother lavorano infatti con la formula ‘acquista e stampa’: l’hardware può essere escluso dal servizio. Il programma viene gestito con un portale semplice e completo, che permette di monitorare e amministrare in maniera immediata le periferiche di stampa”. Una corretta gestione dell’installato non può, ovviamente, escludere le funzionalità di sicurezza, basilari per consentire ai manager It di avere sempre sott’occhio la situazione. La protezione dei dati, infatti, si conferma ancora la princiMAGGIO 2016 |

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pale preoccupazione per i responsabili aziendali. “Con la nuova offerta di Mps focalizzata sulla sicurezza, chiamata Hp Secure Managed Print Services, vogliamo fornire un servizio che dia agli esperti la possibilità di aiutare i clienti a salvaguardare il proprio ambiente di stampa con le più potenti protezioni disponibili nel settore”, chiarisce Luca Motta, printing business director di Hp Italia. “Mantenendo, quindi, la sicurezza nel tempo per affrontare le minacce in continua evoluzione e garantendo i requisiti di conformità”. Si divide, invece, in due livelli di servizio differenti l’offerta di

Print 365, nuovo programma pensato per i partner meno strutturati che verrà attivato nei prossimi mesi. La grande vitalità attuale dei servizi gestiti si traduce anche in un’innovazione continua, che sta portando già oggi gli Mps a evolversi in un modello ancora più avanzato, capace di rispondere al cambiamento notato dall’associazione Asso.it: il perimetro del mercato si sta modificando, in quanto si stampa meno in favore di una diversa gestione documentale. Ecco, quindi, che per Canon si arriverà a breve all’adozione di managed content service (Mcs): “Un supporto a tutto tondo

Epson, erogata attraverso un capillare sistema di rivenditori partner, fondamentali per raggiungere soprattutto le piccole e medie imprese del nostro Paese. “Le formule sono di due tipi: la massima personalizzazione sviluppata dai nostri Rips Premium Partner che si rivolgono alle medie e grandi aziende con contratti ad hoc dopo audit approfonditi e, per i rivenditori che dialogano con le Pmi, uno strumento Web che garantisce semplicità e immediatezza”, sottolinea Flavio Attramini, head of business sales di Epson Italia. La seconda formula è basata su Epson

per gestire la trasformazione digitale”, spiega Teresa Esposito, marketing director business group di Canon Italia. “Il mercato italiano è molto ricettivo alla razionalizzazione e sempre più vediamo Mps ed Mcs come aree di grande sviluppo e di progressiva diffusione, sia nelle grandi aziende sia, progressivamente, nelle realtà medie e piccole”. I vantaggi principali di un buon servizio gestito spaziano, per il vendor nipponico, dalla determinazione congiunta delle policy di stampa alla definizione e al monitoraggio delle Sla, per arrivare alla creazione di cruscotti analitici

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che permettano una continua osservazione e la verifica periodica dell’infrastruttura per valutare i miglioramenti dei processi. La chiave è la consulenza costante. “La tecnologia fine a se stessa non permette alle aziende di ottenere benefici nel lungo periodo e di guadagnare vantaggio competitivo”, commenta Stefano Gelmetti, product marketing manager di Ricoh Italia. “Sono l’innovazione e l’ottimizzazione delle informazioni, rese possibile dai managed document service e dall’approccio di Ricoh, a portare vero valore aggiunto. Un valore che si estende nel tempo, dal momento che i nostri servizi prevedono consulenza lungo tutta la durata contrattuale, per individuare ulteriori aree di miglioramento e proporre al cliente nuove opportunità”. Ovviamente, a scenari differenti si devono applicare logiche e soluzioni ritagliate su misura per uno specifico settore. “Oki offre diverse formule Mps, spesso chiamate anche programmi costo copia, ognuna delle quali è cucita su misura per il mercato di riferimento”, conclude Nicola Vargiu, products & channel marketing manager, value products and solutions di Oki Systems Italia. “Nelle graphic arts il programma prevede soluzioni tipiche del settore come ad esempio la copertura delle stampe, mentre nel mercato dell’office esistono diverse formule applicabili a singoli dispositivi o all’intero parco macchine. A fronte di un contratto con canone mensile, Oki offre una serie di servizi che vanno dalla razionalizzazione della flotta di stampa, alla fornitura di consumabili e all’assistenza onsite. Attualmente stiamo studiando nuove soluzioni Mps dedicate al mercato It, dove i dealer hanno solitamente competenze ed esigenze diverse rispetto agli operatori del segmento office. Il canale, dal quale stiamo ricevendo importanti riconoscimenti, è prezioso per veicolare queste soluzioni alle piccole e alle grandi aziende”. A.A.


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ECCELLENZE.IT |

Gruppo Miroglio

La tecnologia non passa di moda grazie al re-hosting Utilizzando software e servizi di Dell, il gruppo titolare di undici marchi di abbigliamento (fra cui Elena Mirò, Motivi e Oltre) ha eseguito il re-hosting delle applicazioni di mainframe, salvaguardando i precedenti investimenti e riducendo le spese It.

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entre sulla passerella e nelle vetrine dei negozi i modelli, i colori e i tessuti cambiano di stagione in stagione, la tecnologia può anche non passare di moda. Purché si riesca a modernizzarla, sfruttando il software e i servizi. Così ha fatto Gruppo Miroglio portando a termine un progetto di re-hosting delle sue applicazioni di mainframe. Fondata nel 1947, oggi l’azienda è un nome importante nel mercato internazionale del tessile e dell’abbigliamento, con undici brand prodotti e distribuiti (fra cui Elena Mirò, Motivi, Dream, Oltre, Caractère) e con circa 1.300 negozi monomarca in Italia e altri 33 Paesi, oltre a cinquemila clienti multimarca e a una significativa presenza nei centri commerciali. Sul fronte dei costi dell’It, la situazione di partenza non era certo ottimale: l’infrastruttura consisteva in sistemi hardware di Ibm su cui poggiava la piattaforma software Cobol aziendale, mentre l’esecuzione di tutti i servizi It era stata affidata in outsourcing fin dal 2010, nell’intento di convertire le spese di capitale in operative. Tale assetto, tuttavia, comportava lo svantaggio della scarsa flessibilità (insufficiente per poter gestire i picchi di carico) ed elevati costi di outsourcing (fino a quattro volte 34

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LA SOLUZIONE La soluzione di re-hosting è stata allestita dai servizi di modernizzazione delle applicazioni di Dell e include un ambiente per lo sviluppo applicativo (Dell Enterprise Cobol), un software per l’esecuzione e l’aggiornamento (Dell Transaction Processing Environment), uno per la migrazione rapida delle applicazioni batch a sistemi aperti (Dell Batch Processing Environment) e uno per la gestione di basi di dati dati relazionali e non relazionali tramite Sql (Dell Toad). Attraverso il servizio Dell ProSupport il cliente ha garanzia di intervento entro quattro ore dalla segnalazione.

superiori a quelli di gestione interna). Da qui è nata l’esigenza, duplice, di ottenere maggiore flessibilità e ridurre le spese It. Puntando a questi due obiettivi, l’azienda desiderava anche poter salvaguardare i suoi precedenti investimenti ed evitare interruzioni di attività, conservando tutti i dati dell’ambiente di programmazione Cobol. Dopo una prima scrematura, la scelta è ricaduta su Dell. Come spiega Luciano Manini, chief technology officer di Gruppo Miroglio, “Lo staff Dell ha visitato il nostro ufficio diverse volte, eseguendo dimostrazioni pratiche, perfezionando l’insieme di specifiche e ascoltando attentamente le nostre esigenze. La soluzione prospettata era una delle più competitive, ma ciò che ci ha convinti è il grande numero di funzionalità e l’alta qualità”. L’implementazione ha richiesto meno di un mese ed è stata realizzata senza ripercussioni sull’attività dell’azienda, dal momento che non sono state necessarie modifiche di configurazione e che il periodo di inattività del sistema è stato racchiuso in un fine settimana. In parole povere, il processo è passato inosservato, anche perché i dipendenti di Miroglio hanno continuato a usare gli stessi applicativi, con la medesima interfaccia. Al contrario, i vantaggi del cambiamento si sono visti chiaramente: “Dell ci ha consentito di proteggere i nostri investimenti It preesistenti”, sottolinea Manini. “Poiché possiamo riutilizzare l’hardware, stiamo sfruttando al meglio le nostre risorse di budget e le competenze esistenti: Il rehosting è più prevedibile e ci aiuta a evitare problemi in futuro”. Tenendo conto dei costi di hardware, servizio, licenze software e interventi tecnici, Gruppo Miroglio stima di dimezzare la propria spesa It nell’arco di cinque anni.


ECCELLENZE.IT |

European Space Agency

linux aiuta gli esploratori dello spazio Spostando le applicazioni finanziarie in un nuovo ambiente software, basato su Suse Linux, l’Esa ha tagliato i costi di manutenzione e i consumi energetici.

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nche chi ha lo sguardo perso fra le stelle, non per sognare ma per ragioni di scienza, deve fare i conti con questioni materiali. La European Space Agency (Esa), presente in 22 Paesi e in Italia con un centro per l’osservazione terrestre ubicato a Frascati, ha utilizzato intelligentemente la tecnologia per tagliare alcuni costi e guadagnare efficienza operativa. Pur nell’unicità della propria missione – raccogliere dati sulla Terra e nell’ambiente spaziale vicino e lontano, LA SOLUZIONE L’ambiente basato su Suse Linux Enterprise Server for Sap Applications gestisce l’Erp e altri software finanziari utilizzati dall’agenzia spaziale. L’infrastruttura include circa 500 server virtualizzati, in funzione su hardware x86. Suse Manager è usato per il eseguire il provisioning automatico, il monitoraggio e la distribuzione di patch e aggiornamenti. L’Esa sfrutta anche l’assistenza del Linux Enterprise Server Priority Support.

per sviluppare servizi e tecnologie satellitari e programmi di esplorazione – l’Esa ha a che fare con attività comuni a tutte le aziende. Per esempio, le quotidiane operazioni di gestione finanziaria, come fatturazione, contabilità, analisi di dati e pagamenti ai fornitori. “Le nostre applicazioni finanziarie, in maggioranza basate su Sap, venivano eseguite in un ambiente eterogeneo composto da sistemi operativi differenti”, illustra Mauro Del Giudice, application infrastructure service manager dell’Esa. “Per questo motivo i costi erano molto sostenuti e la fluidità delle operazioni era ostacolata”. Più precisamente, una parte delle applicazioni poggiava sull’Erp di Sap, e per questa ragione il vendor tedesco ha collaborato con l’agenzia spaziale per capire quale fosse, tra quelle disponibili sul mercato, la miglior soluzione per virtualizzare le applicazioni. “Per poter massimizzare l’efficienza del reparto finanziario mantenendo i costi ai minimi termini, sapevamo che un consolidamento e un’armonizzazione completa del sistema rappresentavano fattori di primaria importanza”, precisa Del Giudice. Dalla selezione è emersa vincente Suse, con il suo sistema operativo Linux Enterprise Server, adottato

nella versione specifica per il software di Sap. L’Erp, dunque, è stato spostato su macchine virtuali e con esso tutte le altre applicazioni finanziari, mentre per la gestione dei server virtualizzati è stato adottato Suse Manager. Ciliegina sulla torta sono i servizi di supporto (Linux Enterprise Server Priority Support) di Suse, scelti dall’Esa per avere assistenza sia su problemi estemporanei, sia nel lungo termine per future versioni dei software. Con questo progetto l’agenzia spaziale ha raggiunto l’obiettivo del taglio dei costi, oltre ad aver centralizzato, consolidato e armonizzato i suoi sistemi. Dal precedente, eterogeneo insieme di 150 server fisici si è passati, infatti, a un ambiente virtualizzato di 500 server funzionanti su hardware x86. “Implementando Suse come il nostro sistema operativo principale”, sottolinea Del Giudice, “abbiamo ottenuto un consolidamento completo delle operazioni finanziarie tagliando del 40% i costi di manutenzione. Questo ci permette di portare avanti i nostri processi finanziari molto più rapidamente e accuratamente. Eliminando così tante macchine fisiche, inoltre, abbiamo potuto tagliare i costi energetici e di raffreddamento del 10%”. MAGGIO 2016 |

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ECCELLENZE.IT |

Hdi Assicurazioni

PROTEZIONE, risparmi e libertà con la virtualizzazione La società specializzata in polizze per auto, per protezione della persona e delle attività ha adottato la tecnologia di Citrix nella sua sede direzionale e nelle circa 600 agenzie. Sia per l’accesso da desktop, sia da mobile.

C’

è una tecnologia che mette insieme le promesse di maggiore efficienza, sicurezza, flessibilità di lavoro e risparmi energetici: si chiama virtualizzazione. L’italiana Hdi Assicurazioni, parte del gruppo tedesco Talanx, l’ha abbracciata completamente nella sua sede direzionale e nelle circa 600 agenzie sparse lungo lo Stivale. Prima di questo passaggio tecnologico, l’azienda aveva a che fare con le tipiche complessità delle organizzazioni distribuite e alcune specifiche del suo settore: gestire un’infrastruttura tecnologica frammentata, mantenendo ovunque un elevato livello di sicurezza e protezione dei dati sensibili dei clienti. Hdi, infatti, opera prevalentemente nell’ambito delle polizze auto, dei fondi pensione, delle assicurazioni sulla vita e sulle attività. Il personale delle agenzie adopera oltre 1.500 postazioni di lavoro e mille stampanti, messe a disposizione tramite il servizio di outsourcing dell’integratore di sistemi Hitachi Systems Cbt. Ma fa pure ricorso ai propri device personali, anche mobile. Il passo in avanti è giunto con la tecnologia di Citrix, scelta dopo una fase di test il cui duplice obiettivo era quello di verificare la normale fruizione di applicazioni di Office Automation e l’erogazione di altre applicazioni, cruciali per il busi36

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ness. Sulla selezione hanno giocato sia il buon posizionamento di mercato di Citrix, sia il rapporto con Hitachi Systems Cbt (un Solution Partner del vendor), sia la validità in termini di prestazioni e sicurezza dimostrata durante il test. In particolare, le tecnologie hanno funzionato bene anche nelle agenzie non raggiunte da una connettività stabile e veloce. In quattro mesi di lavori, la società ha adottato sia la soluzione di Virtual Desktop Infrastructure di Citrix, XenDesktop, sia quella per la distribuzione virtuale di applicazioni, XenApp: entrambe oggi sono usate da circa 1.200 utenti. Avendo già precedentemente adottato alcuni servizi di cloud computing, disaster recovery e business continuity di Hitachi Systems Cbt, la società assicurativa li ha poi estesi anche alle postazioni virtualizzate. “Grazie a Hitachi Systems Cct e alla tecnologia Citrix, Hdi Assicurazioni si è dotata di una piattaforma che ha permesso di razionalizzare a livello aziendale e agenziale la gestione del proprio patrimonio hardware e software”, ha affermato Luca Lanzon, direttore organizzazione, sistemi informativi e servizi accentrati della compagnia. “Tale soluzione ha peraltro permesso di adottare un modello, in linea con la filosofia del Bring Your Own Device, abilitante all’uso delle pro-

prie soluzioni ‘core’ in mobilità lungo tutta la catena assicurativa, massimizzandone ulteriormente affidabilità ed efficienza”. Accanto ai vantaggi di sicurezza e alla flessibilità del Byod, ricorrendo a terminali thin client è stato ottenuto un risparmio energetico. Oggi, inoltre, all’azienda bastano tre giorni (invece dei 3045 prima necessari) per avviare una nuova agenzia. E si guarda già al futuro: Hdi Assicurazioni sta valutando l’adozione di Cotrox Sharefile come strumento per la collaborazione a distanza. LA SOLUZIONE I dipendenti degli uffici direzionali e degli ispettorati accedono a dati e applicazioni utilizzando Citrix XenDesktop e la relative interfaccia Vdi (Virtual Desktop Infrastructure), mentre il personale delle agenzie fruisce le applicazioni “core business” attraverso XenApp. Hdi Assicurazioni ha anche realizzato un’app store aziendale, tramite cui gli utenti possono personalizzare il proprio ambiente di lavoro. I servizi sono frubili sia da postazione desktop, sia da smartphone e tablet.


ECCELLENZE.IT |

Gala

L’energia viaggia IN SICUREZZA ma a tutta velocità Il fornitore di energia elettrica e gas ha scelto Retelit per collegare tramite fibra ottica le sue cinque sedi principali, potendo contare anche su servizi di sicurezza, housing e backup. LA SOLUZIONE Un servizio Vpn Mpls ultra-broadband di ultima generazione collega fra di loro le cinque sedi principali di Gala, includendo un accesso a Internet ad alta capacità associato a un servizio di sicurezza personalizzato basato su firewall avanzati. L’azienda sfrutta anche i servizi di housing e di backup nel cloud di Retelit, e si avvale dell’assistenza di un customer care dedicato. Tutte le soluzioni rispettano gli standard di sicurezza previsti dalle certificazioni internazionali (Iso 27001).

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omunicazioni e cloud senza inefficienze, senza rischi per la sicurezza e anche senza pensieri. Gala, un fornitore di energia tra i primi dieci in Italia per volumi di elettricità venduta, ha scelto di affidarsi a Retelit per la realizzazione e la gestione della propria infrastruttura tecnologica. Un’infrastruttura composta sia da tecnologie e servizi di connettività fra le diverse sedi sia da risorse allocate su data center esterni, e protetta in ogni suo punto. Fondata nel 2001, l’azienda è cresciuta e ha differenziato le attività associando all’energia elettrica anche il gas, fino a raggiungere nel 2013 ricavi superiori a 1,3 miliardi di euro e a diventare poi, l’anno scorso, il fornitore ufficiale di elettricità di Expo 2015. Gala era alla ricerca di un vero e proprio “partner strategico”, un soggetto del mondo Ict che le consentisse di “focalizzare le nostre risorse sul core business e garantisse gli stessi standard di

trasparenza, qualità ed efficienza elevati che noi offriamo ai nostri clienti”, come spiega Filippo Tortoriello, presidente e amministratore delegato di Gala. “Ci siamo rivolti a Retelit perché ci ha permesso di poter fruire di una soluzione personalizzata, affidabile e sicura con tempi di esecuzione rapidissimi e a costi competitivi”. Il vendor poteva contare anche su altre buone carte: una rete in fibra ottica proprietaria estesa lungo più di novemila chilometri e oltre 16mila metri quadrati di data center, certificati Iso 27001. Il primo passo del progetto è stata la realizzazione di una Virtuale Private Network ad alte prestazioni e a larghissima banda, con cui sono state collegate fra loro le cinque sedi principali di Gala: su questa infrastruttura poggia non soltanto un accesso a Internet ad alta capacità, ma anche un servizio di sicurezza basato su firewall. Quest’ultimo è stato personalizzato in funzione delle specifiche esigenze

del cliente e prevede un controllo end-toend di tutti i servizi. Gala ha così potuto ottenere una maggiore sicurezza in merito alla gestione degli accessi e alla prevenzione delle minacce. A tutto questo si sono, poi, aggiunti servizi di housing e di archiviazione nel cloud per i dati di backup. Il valore strategico della soluzione è la sua scalabilità: l’infrastruttura potrà essere ampliata in base alle esigenze che potranno sorgere in futuro, per supportare l’aumento del traffico senza interventi costosi, lunghi e invasivi. Il contratto di fornitura ha una durata di tre anni. Si potranno, inoltre, aggiungere ulteriori sedi semplicemente collegando, attraverso la fibra ottica, i nuovi siti all’architettura esistente. “Abbiamo fornito a Gala una soluzione personalizzata e scalabile, funzionale alle specifiche esigenze di business del cliente”, sottolinea Giuseppe Sini, direttore commerciale di Retelit. MAGGIO 2016 |

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ITALIA DIGITALE

Il bilancio dell’Agenda? in attivo, ma... Dal premier Matteo Renzi e dal ministro della Pubblica Amministrazione, Marianna Madia, giungono nuove rassicurazioni circa i progetti di digitalizzazione del Paese, dai lavori per la banda larga a Spid. Ma non mancano, come sempre, le contraddizioni.

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opo tante chiacchiere si parte con la banda larga. E banda larga significa arrivare almeno con connessioni a 30 megabit dappertutto e con 100 megabit a molte realtà”: il messaggio che il capo del Governo, Matteo Renzi, ha proferito collegandosi con il Cnr di Pisa in occasione dell’Internet Day dello scorso 29 aprile, per celebrare i trent’anni del primo collegamento italiano alla Rete, suona ancora una volta come un annuncio farcito di eccessivi toni propagandistici. Nel dare il via all’iter tecnico per la messa a punto dei bandi di gara per la ultrarbroadband nelle aree bianche a fallimento di mercato (i cluster C e D), il numero uno di Palazzo Chigi ha rassicurato tutti sul fatto che il Governo farà la sua parte “in una sfida che è senza colore politico, ma di tutta l’Italia”. Renzi ha ricordato che nelle zone A e B (aree nere) non c’è bisogno dei soldi pubblici: qui, gli operatori privati si muoveranno secondo la libera concorrenza. Nelle più “sfortunate” zone C e D, invece, le linee guida per avviare i lavori del piano ultrabroadband in aprile sono finalmente arrivate in Consiglio dei Ministri e saranno oggetto di consultazione fino alla fine di maggio, con l’obiettivo di mettere il Ministero dello 38

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Sviluppo Economico nelle migliori condizioni possibili per elaborare i bandi di gara. Compiuto questo primo passo, e a meno di intoppi “burocratici” dell’ultima ora, a giugno si dovrebbe concretizzare la pubblicazione del primo bando. A seguire, arriverà, la valutazione delle proposte tecnico-economiche che gli operatori invieranno a Infratel: calendario alla mano, l’assegnazione della prima commessa si perfezionerà probabilmente subito dopo l’estate. Dalle parole ai fatti, insomma, nella migliore delle ipotesi passano dei mesi perché i tempi tecnici dell’iter normativo-procedurale che regola i piani per la digitalizzazione sono questi. Sperando che la Commissione Europea (al momento in cui scriviamo, non ha ancora dato l’ok al piano italiano per la banda ultralarga) non metta i bastoni fra le ruote, magari appellandosi al rischio di possibile monopolio o distorsione di mercato nell’ipotesi di un unico maxi bando che potrebbe comprendere realizzazione e gestione della nuova rete in macro-regioni. Ipotesi che, di fatto, restringerebbe la partita per le gare a due soli grandi operatori, e cioè Telecom Italia ed Enel. Renzi, però, sulle possibili criticità del piano soprassiede e sul tema del digital divide rilancia la necessità di

“dare accesso a chi non ha accesso agli strumenti digitali per creare più democrazia e partecipazione in Italia”. La banda larga diventa, dunque, emblema del cambiamento e chissà se Renzi ha preso in considerazione l’appello inviatogli tramite lettera aperta dall’Associa-

Abbiamo rispettato oltre il 90% delle scadenze previste dall’Agenda per la semplificazione della Pa

zione Stati Generali dell’Innovazione, Anorc e Iwa Italia. Parlando di crescita digitale, il timore di chi chiede al primo ministro un impegno forte e concreto è legato al rischio di una digitalizzazione inefficace e non autonoma per l’Italia, in mancanza di un piano industriale per la


crescita che includa realmente il settore Ict tra gli ambiti strategici, favorisca gli investimenti privati e abbracci un anche la ricerca. E la tanto sbandierata trasformazione della Pa? Il partito degli scettici fa notare come i decreti legislativi di attuazione di quanto previsto dall’Agenda Digitale sembrino persi fra le maglie di una burocrazia che resiste e che impedisce il vero cambio di passo. Chi guida il Ministero competente in materia, invece, è di parere molto diverso Prossimo obiettivo: Italia Login

“Abbiamo rispettato oltre il 90% delle scadenze previste dall’Agenda per la semplificazione”. Le parole pronunciate a fine aprile in Parlamento dalla titolare del Ministero della Pubblica Amministrazione, Marianna Madia, sono esplicite e supportate anche da numeri. Sessantasei i semafori verdi ad azioni previste su carta e ora veri “work in progress”, a cui se ne aggiungono una quarantina di gialli, segno secondo la ministra di “lavori che stanno proseguendo in linea con i programmi”. Il semaforo rosso resta, invece, solo su sei azioni previste nel documento di programmazione

digitale. L’avvio a metà marzo del Sistema Pubblico per l’Identità Digitale (Spid) e quindi del Pin unico per l’accesso ai servizi online della pubblica amministrazione è per Madia un passaggio importante, perché costituisce il pilastro del progetto Italia Login. Ad oggi sono circa 240 i servizi delle Pa centrali e locali accessibili con le credenziali Spid, e fra questi spiccano quelli dell’Inps, dell’Inail e dell’Agenzia delle Entrate. Prima della fine del 2017, come da programma, tutte le pubbliche amministrazioni aderiranno al sistema offrendo ai cittadini l’accesso all’insieme completo dei servizi online. C’è insomma ottimismo, dentro le istituzioni, per lo stato di avanzamento dei lavori e ancora la Madia ha tenuto a precisare come fra i pilastri del cambiamento nei rapporti tra cittadini e Pa ci siano l’anagrafe unica della popolazione (che andrà a sostituire le ottomila banche dati dei singoli Comuni) e i pagamenti elettronici negli enti pubblici. Opinione del tutto condivisibile, ma – da tempo – non è più il momento dei proclami bensì quello di agire. Bene e in fretta. Gianni Rusconi

COMPETENZE DIGITALI: DIGITAL INNOVATION OFFICER CERCASI In Italia si fa ancora troppo poco per sviluppare le competenze digitali. La loro diffusione è a macchia di leopardo: sono presenti nel 73% delle aziende tecnologiche, ma solo nel 37% degli enti locali. Alle attività di training si dedicano, in media, solo 6,2 giornate l’anno nelle imprese Ict, quattro nel settore pubblico e tre nella maggior parte delle aziende. I dati sono quelli dell’Osservatorio delle Competenze Digitali, promosso dall’Agenzia per l’Italia Digitale e dalle principali associazioni Ict italiane (Aica, Assinform, Assintel e Assinter) e realizzato da NetConsulting Cube. Il quadro che emerge è quello

di un Paese che rischia di non tenere il passo con la trasformazione digitale e di non soddisfare occasioni di lavoro qualificato, proprio per la scarsa cura rivolta alla costruzione di competenze digitali, specialistiche e non. E questo accade nonostante grandi percentuali (dall’80% al 90%) sia di aziende sia di Pa si dichiarino consapevoli dell’impatto della “digital transformation” e della necessità di adeguare le competenze soprattutto alla luce di trend quali il mobile, l’IoT, il cloud e i pagamenti elettronici. Tra i profili più ricercati nelle aziende attive in campo tecnologico spiccano quelli del security specialist, dell’en-

terprise architect e del business analyst. Nelle aziende che, invece, fruiscono di tecnologie e negli enti pubblici, in cima alla lista ci sono gli ultimi due ruoli citati e poi Cio, security manager, amministratori di database, digital media specialist, business information manager e consulenti Ict. Ma ciò che forse più manca ai vertici di aziende ed enti pubblici sono una specifica cultura digitale e professionisti preparati a guidarla. Non a caso sta emergendo il profilo del cosiddetto “digital innovation officer”, che rappresenta l’evoluzione del Cio. Una figura assai ricercata, ma difficile da reperire.

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OBBIETTIVO SU | Ricoh

il design sposa il digitale Ricoh aiuta artisti e designer emergenti a scatenare la propria creatività. Non solo con le periferiche di stampa, ma anche con lavagne interattive, fotocamere a 360 gradi e nuovi videoproiettori verticali.

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a crasi tra fisico e digitale, “phygital”, non è proprio il massimo della poesia, ma il concetto alla base è decisamente più affascinante: la fusione, in questo caso nel campo dell’arte, tra mondo fisico e digitale. è stato questo il tema di una mostra organizzata da Ricoh e dalla rivista di design Frame a Milano, nel corso della Design Week di aprile. Il titolo, “What’s the matter”, evocava la commistione di elementi materici e virtuali, mentre le scenografie realizzate dallo Studio Laviani davano ancora più risalto ai lavori dei giovani artisti e

designer autori delle opere “phygitali” in scena. Le tecnologie su cui hanno fatto affidamento i creativi digitali fanno parte dell’offerta dei Communication Services di Ricoh, e hanno incluso in particolare le lavagne interattive, i proiettori di nuova generazione (con proiezione verticale e ottica ultra-corta, ma allo stesso tempo piccoli e trasportabili) e le fotocamere Ricoh Teta, in grado di realizzare foto e video a 360 gradi. “Le nostre tecnologie per la comunicazione visiva”, ha detto Alberto Mariani, director of It infrastructure


Servizio fotografico: Alberto Ferrero

Il proiettore utilizzato per la mostra è il Ricoh Pj 4152N, con proiezione verticale e distanza ridotta dallo schermo (da 11 a 25 centimetri).

services di Ricoh in Europa, “rappresentano la naturale evoluzione del nostro percorso, che ci vede protagonisti dell’aiutare le aziende a innovarsi ed entrare nell’era digitale”. 41


OBBIETTIVO SU | Ricoh

I nuovi proiettori Ricoh sono in grado di generare immagini con dimensioni da 48 a 80 pollici, con una luminositĂ di 3.500 lumen.

da tempo esiste una fertilizzazione reciproca tra il mondo dell'arte e quello delle tecnologie

luogo immersivo Progettato dallo studio di Ferruccio Laviani, lo spazio che ha ospitato la mostra "What's the matter" è stato realizzato all'interno de La Posteria, un luogo dedicato agli eventi nel cuore di Brera.

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i nativi digitali non riconoscono la natura immutabile degli oggetti fisici e amano miscelarli con la dimensione virtuale

Piccoli e trasportabili, i proiettori Ricoh della nuova serie Pj Wx41 pesano meno di tre chilogrammi e si accendono, pronti all'uso, in soli tre secondi.

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VETRINA HI-TECH

Bellezza a forma di tavoletta Mentre continua l’avanzata dei portatili “ibridi”, con tastiera in dotazione, i vendor non smettono di proporre modelli “puri” che puntano sulle caratteristiche multimediali e sul design.

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rotagonisti della rivoluzione touch, da loro portata per la prima volta su uno schermo più grande di quello del telefono. Leggeri, colorati, giocosi, molto più “smart” di un tradizionale computer. Eppure i tablet, dopo pochi anni di gloria, hanno già cominciato a perdere popolarità: limitando lo sguardo all’Europa Occidentale, nel 2015 gli acquisti sono calati del 10,1% rispetto al 2014, passando da 41.668 a 38.910 unità. Questi numeri, di Idc, tengono conto non dei soli modelli “puri” ma anche di quelli equipaggiati con tastiera “detachable”, spesso definiti come ibridi o due-in-uno. Questi ultimi, all’interno del generale trend negativo, sono invece cresciuti e proprio a loro in parte si deve parte la sofferenza delle tavolette. La restante colpa, se tale si può definire, va al successo degli

smartphone di grandi dimensioni o phablet che dir si voglia. Schiacciati sui due fronti, da un lato i notebook convertibili e dall’altro i maxi-telefoni, i tablet oggi non sono in testa alle priorità di acquisto dell’utente medio. A questo si aggiunga l’aggravante (o il merito, a seconda dei punti di vista) di rappresentare una tipologia di prodotto di non rapida obsolescenza, che può svolgere il suo lavoro per due o tre anni prima di essere sostituito. Nonostante questo o forse proprio per questo motivo, il tablet oggi può dirsi il gadget tecnologico per eccellenza, riservato agli amanti del bello e delle innovazioni. E anche come strumento di produttività conserva una ragione d’essere, specie per chi è sempre in viaggio o necessita di uno schermo su cui visualizzare e mostrare contenuti, più che di un dispositivo per la scrittura. Non è certo

un caso, allora, se i nuovi modelli di fascia alta o medio-alta puntano spiccatamente sulla multimedialità. Senza dimenticare il design, che deve coniugare leggerezza e peso piuma. Il primato della Mela e i follower

Secondo i conteggi di Idc, nel 2015 in Europa Occidentale il primato di diffusione è spettato ancora una volta all’iPad di Apple, che pure ha perso un po’ di market share rispetto all’anno precedente (da quasi 29% a meno di 25%). Ma la Mela ha anche un secondo primato, quello del miglior intreccio di estetica, innovazioni funzionali ed eccellenza tecnica: lo dimostra il più recente iPad Pro, declinato nelle versioni da 12,9 e da 9,7 pollici. Oltre a rendere i suoi modelli sempre più leggeri e sottili, l’azienda di Cupertino ha migliorato l’autonomia della batteria MAGGIO 2016 |

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VETRINA HI-TECH

(circa dieci ore), la fotocamera (con un nuovo flash che aiuta a catturare tinte più naturali), la resa dei colori (con fino al 25% di saturazione in più) e la definizione dello schermo. La tavoletta da 12,9 pollici visualizza infatti sei milioni di pixel, la più alta risoluzione mai proposta su un oggetto marchiato Apple. Nei conteggi di Idc per il mercato dell’Europa Occidentale, la classifica allinea poi, nell’ordine, Samsung, Lenovo, Asus e Amazon, con il suo Kindle Fire. Fra le più recenti proposte della casa sudcoreana spicca il Galaxy TabPro S, un modello di fascia alta che punta su efficienza e produttività: bastano, infatti, due ore e mezza per realizzare una ricarica completa, garantendosi dieci ore e mezza di funzionamento senza alimentazione. E strizzano, ugualmente, l’occhio ai professionisti elementi come il sistema operativo Windows 10, il connettore Usb Type-C e il processore Intel Core M. Il colpo di teatro è, però, un altro: uno schermo da 12 pollici Super Amo-

led, su cui si può interagire anche con il pennino stilo incluso in dotazione. Fra chi, invece, continua a scommettere su Android anche su formati non piccolissimi c’è Acer: l’azienda ha rinnovato il suo Iconia Tab 10 (con la variante A3-A40, che succede alla A3A30) migliorandone sia caratteristiche tecniche sia il design, più elegante e curato. L’attenzione, in questo caso, si concentra sulle capacità multimediali del tablet, che dà il meglio di sé nella riproduzione di musica e film grazie a quattro altoparlanti frontali. Hp sta azzardando alcune innovazioni di forma, come quelle dell’Elite x3: un phablet da 6 pollici che funziona su Windows 10 e che, abbinato a un accessorio, può trasformarsi in un sistema desktop o laptop. L’azienda statunitense non rinuncia, però, alle tavolette più “tradizionali”, ma anzi ha recentemente lanciato un modello ambizioso e di fascia alta, adatto a diventare strumento di lavoro, il Pro Tablet 608 G1. Si tratta di un dispositivo da 7,9 pollici basato su Windows, con processori e

grafica Intel e dotato di porta UsbC. Lo schermo di dimensioni risicate può essere un limite, ma d’altra parte è possibile collegare il dispositivo a una docking station portatile (acquistabile a parte, al pari della tastiera). Decisamente sui generis è il nuovo Yoga Tab 3 Pro di Lenovo, e lo è sia per ragioni di design, sia di funzionalità: questo modello da 10,1 pollici non solo ha un ottimo corredo tecnico (processori Intel Atom, 32 GB di storage, batteria che promette 18 ore di utilizzo) ma può essere usato in quattro modalità, a seconda di come si posizioni il cavalletto di sostegno. Integra, inoltre, un proiettore grazie al quale una parete o soffitto si trasformano in uno schermo per fotografie, video e film. La più recente proposta di Huawei, il MediaPad M2 10.0, racchiude invece nella scocca monoblocco in alluminio uno schermo da 10 pollici e si distingue per due elementi: la buona fotocamera posteriore da 13 megapixel e il lettore di impronte digitali integrato. Valentina Bernocco

ACER ICONIA TAB 10 (A3-A40)

APPLE IPAD PRO

HP PRO tablet 608 G1

Display: 10 pollici (1920x1080 pixel) Sistema operativo: Android 6.0 Marshmallow Processore: MediaTek MT8163A quad-core a 64-bit Storage: 16/32/64 GB

Display: 12,9” (2732x2048 pixel) o 9,7’’ (2048x1536 pixel) Sistema operativo: iOs 9 Processore: A9X Storage: da 32 a 256 GB

Display: 7,9” (2048x1536 pixel) Sistema operativo: Windows 10 Processore: Intel Atom x5-Z8500 Storage: 32/64/128 GB

Prezzo: da 229 euro

Prezzo: da 689 euro

Prezzo: da 519 euro

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CON SURFACE PRO 4 MICROSOFT PUNTA A SOSTITUIRE I NOTEBOOK Molti strenui critici della tecnologia e delle scelte di Microsoft hanno dovuto almeno ammettere un certo interesse per le caratteristiche del nuovo due-in-uno della casa di Redmond. Il più recente gradino della scala evolutiva dei Surface Pro ha infatti, so-

prattutto grazie a Windows 10, liberato finalmente molta della potenza e mantenuto molte delle promesse che i precedenti modelli non erano riusciti a offrire, specie quella di essere una seria alternativa ai computer portatili. “La categoria dei tablet e dei due-inuno è cresciuta del 70% nell’ultimo anno”, dice Evita Barra, direttore della divisione Windows di Microsoft Italia, “e il gruppo dei due-in-uno in particolare si è distinto per la miglior dinamica, arrivando a pesare in pochi mesi il 10% dell’intero mercato dei Pc. Il nostro merito è stato quello di aver creato questo con-

cept di prodotto, che poi anche altri hanno sposato, e ora disponiamo del prodotto di riferimento, che finalmente unisce sul serio la portabilità di un tablet e la produttività di un notebook”. Il Surface Pro 4 ha uno schermo touch Pixelsense da 12,3 pollici e risoluzione 2.736x1.824, che insieme alla gamma di processori (fino a Intel Core i7) e naturalmente a Windows 10, rappresenta il punto di forza del dispositivo. Questi, insieme alla tastiera (opzionale), sono gli elementi che hanno trasformato la quarta versione del due-in-uno in un vero “notebook-replacement”. Disponibile in diverse configurazioni di processori e di memoria Ram (da 128 a 512 GB), il Surface Pro 4 ha un prezzo di partenza di 1.029 euro (Iva compresa), senza tastiera ma con penna inclusa. Il peso è di 766 grammi. E.M.

HUAWEI MEDIAPAD M2 10.0

LENOVO YOGA TAB 3 PRO

SAMSUNG GALAXY tabPRO S

Display: 10” (1920x1200 pixel) Sistema operativo: Android 5.1 Processore: Hisilicon Kirin 930, doppio quad-core Storage: 16/64 GB

Display: 10,1” (2560x1600 pixel) Sistema operativo: Android 5.1 Processore: Intel Atom quad-core Storage: 32 GB

Display: 12,0” (2160x1440 pixel) Sistema operativo: Windows 10 Processore: Intel Core M dual-core Storage: 128 GB

Prezzo: da 399 euro

Prezzo: da 449 euro

Prezzo: da 1.099 euro

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VETRINA HI-TECH

multifunzione da record Più rapida e più economica di una laser, la nuova stampante multifunzione a getto d'inchiostro Pagewide arriva fino a 55 pagine al minuto.

PA GE H MF WIDP P4 EP 77d RO w

LE CARATTERISTICHE A COLPO D’OCCHIO Funzioni: stampa, fax, copia, scanner Tecnologia: getto d’inchiostro a colori

A4 (Pagewide) Velocità: 55 pagine al minuto (bozza) Risoluzione: 1.200x1.200 dpi Display: touchscreen da 4,3 pollici Connettività: Usb 2.0, Ethernet, WiFi Caratteristiche: fronte/retro automatico, wireless direct, Nfc Consumo: (stampa standard): 100 W Rumorosità: (stampa standard): 51 dB Dimensioni: 530x407x467 mm Peso: 22,15 kg Prezzo: 549 euro

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Il dispositivo multifunzione Pagewide Pro M477dw fa parte della nuova linea di periferiche presentate da Hp. Si tratta per la multinazionale di un prodotto strategico, tanto da essere posizionato, insieme agli altri modelli della linea Pagewide, in una categoria a sé stante e di pari dignità rispetto alle “gloriose” Inkjet e Laserjet. Pagewide è a tutti gli effetti una tecnologia a getto d’inchiostro (con i pregi e difetti dei pigmenti liquidi), ma la sua unicità consiste nell’aver adottato una testina di stampa larga tanto quanto un foglio A4, che consente quindi di eliminare un motore (quello che fa muovere la testina stessa in orizzontale rispetto al foglio) con notevoli risparmi in termini di tempi, layout e consumi energetici. A dirla tutta, la Pagewide è una tecnologia già nota: viene applicata da anni con successo alle stampanti a bobina, ma aveva addirittura fatto già il suo esordio sui modelli da ufficio di Hp. La novità, però, è che ora la multinazionale ne ha fatto una vera e propria linea, su cui punta molte delle sue carte. Le soluzioni innovative che gli ingegneri di Hp hanno integrato nella linea di periferiche non si fermano alla testina, ma coinvolgono anche le funzioni di connessione (con Wifi e Nfc tra gli altri) e quelle di sicurezza, ormai indispensabili negli uffici. I progettisti hanno fatto uno sforzo notevole, tanto che il posizionamento di stampanti e multifunzione Pagewide è piuttosto aggressivo: si va dai piccoli uffici e gruppi di lavoro alle situazioni in cui una quindicina di utenti fanno affidamento su una singola macchina, con volumi mensili di pagine compresi tra ottocento e seimila. Diciamo subito che la caratteristica di questo prodotto che colpisce maggior-

mente è la sua velocità: sia la rapidità di installazione e configurazione, davvero ai vertici della categoria, sia quella di stampa, soprattutto del primo foglio (meno di sette secondi). Anche senza usare il cronometro, la sensazione che la Pagewide Pro M477 batta in velocità le laser di pari categoria (e quindi anche le InkJet) è netta. Il percorso carta, che prevede ovviamente il fronte/retro automatico, è semplice ma il multifunzione risulta leggermente più rumoroso rispetto alle periferiche laser (comunque meno delle InkJet), un piccolo difetto che viene perdonato vista la rapidità di uscita dei fogli stampati. Per quanto riguarda la qualità di stampa, siamo sicuramente ai più alti livelli tra i dispositivi a getto d’inchiostro (le testine Pagewide, sulle grandi macchine da stampa Hp, sono già in grado di funzionare in altissima definizione). Ovviamente le pagine risentono dei classici problemi dell’inchiostro liquido: si inumidiscono, e quindi la carta comune si “imbarca” leggermente, oltre a non offrire colori particolarmente brillanti. Complessivamente, comunque, l’obiettivo di Hp ci sembra centrato: la Pagewide Pro M477 è un’ottima alternativa ai multifunzione laser, rispetto a essi più veloce ed economica da gestire. Pregi • Velocità • Facilità di configurazione • Flessibilità di utilizzo • Bassi costi di gestione Difetti • Rumorosità • Resa non ottimale


NUMERO 07 | MAGGIO 2016

Storie di eccellenza e innovazione

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Scenari Tutte le strade del mondo iperconnesso

Tecnologie Una tappa verso la trasformazione

Esperienze Competenze e visione per reggere l’impatto del cambiamento

Internet of Things OGGETTI E DISPOSITIVI CONNESSI CAMBIERANNO FACCIA ALLA SOCIETÀ, ALLE IMPRESE, ALLE CITTÀ. ECCO COME


SCENARI

CON EFFETTO DOMINO, L’INTERNET DELLE COSE AVRÀ UN IMPATTO SUI PROCESSI AZIENDALI E INDUSTRIALI E POI SUI SERVIZI E SUI PRODOTTI. SECONDO IDC, NEL 2025 ARRIVEREMO A CONTARE 80 MILIARDI DI OGGETTI CHE DIALOGHERANNO IN RETE. MA RESTANO ALCUNI PUNTI INTERROGATIVI.

Testo di Valentina Bernocco

R

obot industriali, elettrodomestici, automobili, terminali Pos, televisori, bracciali per il fitness, videocamere, sistemi di monitoraggio per l’edilizia e l’agricoltura. Apparati e apaprecchi che comunicano fra di loro, con la Rete, con le persone: l’elenco non basta a descrivere il variegato mondo dell’Internet delle cose. Un mondo che quotidianamente si popola di circa 5,5 milioni nuovi “oggetti connessi”, secondo i rilevamenti di Gartner riferiti al 2016. Il numero rende l’idea di quanto l’IoT sia ufficialmente uscito dalle nicchie di mercato in cui esiste da tempo per diventare fenomeno di massa, che accelera la tra50

Tutte le strade del mondo iperconnesso sformazione delle fabbriche, la gestione dell’energia, l’agricoltura, l’automotive e le smart city, oltre che il lavoro di diverse categorie professionali (dai medici ai magazzinieri, dagli ingegneri edili ai commessi di negozio). A detta di Verizon e del suo ultimo report (“State of the Market: Internet of Things 2016”), mentre il 2015 è stato l’anno della legittimazione dell’IoT, adesso si può parlare di un’adozione “mainstream”. I vuoti ancora da riempire, certo, sono moltissimi, ma già oggi il 72% delle aziende lo considera come un elemento fondamentale per acquisire un vantaggio competitivo rispetto alla concorrenza.

“I dispositivi indossabili sono il volto consumer dell’Internet of Things”, ha ben riassunto un analista di Idc, Vernon Turner, “ma le vere opportunità riguardano le aziende e il settore pubblico. L’effetto domino dell’IoT sta facendo muovere i modelli di business tradizionali”. A detta di Idc, la tecnologia delle cose connesse ha dato il “colpetto iniziale” impattando sui processi aziendali e industriali, mentre ora – proprio come accade nelle reazioni a catena – stanno per crollare le tessere del domino successive: prima i servizi e, infine, i prodotti. Ma quanto vale, tradotta in denaro, questa evoluzione? Secondo le stime della stessa


SCENARI Oracle, Huawei, Ericsson e altri ancora) ma anche i colossi delle telecomunicazioni (come Vodafone) e del Web.

L‘adozione dell‘IoT è oggi mainstream: il mondo dell’Internet delle cose si popola quotidianamente di circa 5,5 milioni di nuovi oggetti connessi. Entro il 2025 si potrebbe arrivare a 80 miliardi di dispositivi dialoganti in Rete. Idc, nel 2020 il mercato IoT arriverà a valere 1.700 miliardi di dollari, crescendo a un tasso del 16,9% l’anno. Oltre due terzi del giro d’affari saranno generati dalla vendita di dispositivi, sensori, software e servizi informatici necessari a raccogliere, spostare, conservare e analizzare dati.

Vista la ghiotta opportunità, non è certo un caso se molti grandi nomi dell’Information e Communication Technology stanno investendo massicciamente in questo settore, in particolare i vendor specializzati in reti, sistemi e apparati per data center (come Cisco, Fujitsu, Schneider Electric,

La cornucopia delle opportunità Un esempio su tutti sono i 3,2 miliardi di dollari spesi da Google nel 2014 per acquistare Nest, la società creatrice dell’omonimo termostato intelligente. Ma gli ultimi anni sono tappezzati di operazioni, più o meno onerose, nell’ambito degli oggetti connessi: la più recente (già annunciata e valutata 170 milioni di euro, ma non ancora effettiva) è l’acquisizione da parte di Nokia della francese Withings, un produttore di dispositivi (smartwatch, bilance “intelligenti” e misuratori di pressione del sangue) per il monitoraggio della salute e della forma fisica. Per gli operatori di telecomunicazioni, invece, le opportunità di guadagno derivano dal far viaggiare sulle loro reti fisse o mobili servizi di vario tipo, come quelli di infotainment delle automobili o come i sistemi di localizzazione di treni e mezzi pubblici. Negli Usa, per esempio, la rete di AT&T conta attualmente più di 26 milioni di oggetti connessi, mentre Verizon lo scorso anno ha guadagnato dai servizi di connettività IoT circa 690 milioni di dollari. In mezzo al generale ottimismo galleggia, tuttavia, qualche dubbio. Le ipotesi non sono tutte concordanti: basti pensare che le previsioni fatte da Cisco nel 2011 immaginavano per la fine questo decennio il raggiungimento della soglia dei 50 miliardi di dispositivi dialoganti in Rete, mentre Idc stima per il 2020 un numero intorno ai 30 miliardi. Salvo poi pronosticare un boom per il lustro successivo, con l’idea di arrivare a 80 miliardi nel 2025. Sul perché della maggior prudenza degli analisti sul futuro più immediato si può intuire qualcosa dalle parole pronunciate da Turner durante una recente convention tenutasi a San José, in California: “In assenza di network scalabili, non ci si potrà connettere. Le nostre reti dovranno essere in grado di gestire tutto questo”. Non solo sulle opportunità di mercato ma soprattutto sulla progressione delle infrastrutture si gioca, dunque, il futuro del mondo iperconnesso. 51


SCENARI

LA PENISOLA È PIÙ SMART CON 10 MILIONI DI OGGETTI CONNESSI Fabbriche, abitazioni, automobili, intere città sono sempre più connesse. Anche in Italia, dove lo scorso anno gli investimenti in tecnologie e servizi di Internet of Things hanno raggiunto i due miliardi di euro, crescendo del 30% rispetto al 2014. Il dato arriva dall’Osservatorio Internet of Things della School of Management del Politecnico di Milano, che ha anche conteggiato lungo lo Stivale un “esercito” di 10,3 milioni di oggetti connessi tramite rete cellulare (+29%), a cui vanno aggiunti i dispositivi che sfruttano altre tecnologie di comunicazione. La lista include 36 milioni di contatori elettrici collegati mediante i cosiddetti controllori a logica programmabile, e poi 500mila contatori gas che sfruttano la radiofrequenza wireless, e ancora 600mila lampioni che inviano dati in rete attraverso l’uno o l’altro metodo. Numeri che in parte (almeno per quanto riguarda i contatori gas) sono l’effetto dell’adeguamento a obblighi normativi. Le soluzioni di smart metering, per la misura dei consumi, e quelle di smart asset management (nelle utility, la gestione in remoto per rilevare guasti, manomissioni, localizzazione e altro ancora) rappresentano le fette più grandi nella torta dell’IoT tricolore. Al terzo posto si piazzano le tecnologie per i veicoli connessi: oggi in Italia si contano 5,3 milioni di auto connesse, un settimo del totale parco circolante. L’opera di colonizzazione dell’Internet delle cose è più acerba, ma in avanzamento, in settori come l’edilizia smart, la videosorveglianza e la gestione degli impianti fotovoltaici, la logistica, la gestione di flotte aziendali e antifurti satellitari. Ancora scarsa la diffusione della domotica, sebbene con buone prospettive di crescita: il 79% dei consumatori italiani si dice interessato ad acquistare prodotti per la smart home, ma solo uno su quattro lo farà entro i prossimi dodici mesi. V.B.

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L’impatto sul Pil dei principali Paesi al mondo, a fronte dell’aumento degli investimenti nei sistemi interconnessi, sarebbe di qualche punto percentuale e varrebbe miliardi. Il ruolo dei vendor tecnologici. Testo di Gianni Rusconi

Quanto vale l’economia dell’Iot? O gni euro investito nell’Internet of Things ne potrà generare fino a 12 e permetterà all’Europa di guadagnare sette punti di Pil da qui al 2025. Lo dice uno studio a firma di At Kearney, secondo cui l’economia creata dalle cose e dagli oggetti connessi potrebbe aggirarsi intorno ai mille miliardi di euro. Un valore che andrà ad alimentare la crescita non solo delle aziende impegnate in questo settore ma anche i tagli sulle spese degli utenti finali, singoli cittadini o imprese che siano. Il saving sui consumi energetici derivante da un uso ottimizzato degli apparecchi domestici, per esempio, è stimato nell’ordine dei 300 miliardi di euro mentre per le imprese si calcola un au-

mento di produttività equivalente a 430 miliardi di euro. A livelli di investimenti effettuati, invece, in Italia si parla per il 2015 di circa 1,95 miliardi di euro, con una crescita del 28% rispetto al 2014. Quelle sopra descritte sono comunque solo alcune delle tante facce dell’Internet of Things. In ambito industriale, infatti, il fenomeno potrebbe avere un impatto economico a livello mondiale di 14,2 trilioni di dollari entro il 2030 mentre in Italia questo incremento potrebbe valere fino all’1.1% del prodotto interno lordo. A dirlo sono i dati di una ricerca di Accenture, che evidenziano uno scenario sì in forte evoluzione, ma vincolato a un necessario cambio di rotta nelle iniziative da dedica-


SCENARI

LE INDUSTRY CHE GUIDANO L’ADOZIONE Il 2016 è l’anno della svolta per l’Internet delle cose, almeno dal punto di vista della sua diffusione nelle aziende. Ne sono certi gli analisti di Gartner, sulla base di un sondaggio condotto su 465 fra professionisti It e manager. Secondo lo studio, il 43% delle imprese adotterà una soluzione IoT entro la fine dell’anno, con una decisa crescita rispetto al 29% del 2015. E tale percentuale salirà al 4% a fine 2017. Oltre sei compagnie su dieci hanno pianificato di adottare sensori, oggetti e dispositivi intelligenti e connessi, mentre il 36% delle realtà intervistate non ha dimostrato interesse e tra queste solo il 9% non crede di avere alcun buon motivo per dotarsi di questi sistemi. I settori più attratti dall’Internet of Things, secondo la ricerca, sono il petrolifero, il manifatturiero e le utility: il 56% delle imprese che operano in queste industry, infatti, adotteranno soluzioni IoT entro la fine del 2016. In futuro potrebbero essere segmenti verticali più “leggeri” a ricorrere in modo significativo ai servizi dell’Internet delle cose, soprattutto per migliorare la customer experience e i processi che interessano i clienti finali.

re alla diffusione su larga scala delle nuove tecnologie digitali. Gli analisti sono comunque convinti che i nuovi modelli aziendali basati su dispositivi e macchine intelligenti potranno potenziare in modo decisivo la crescita nei mercati maturi. Gli Stati Uniti, aumentando del 50% gli investimenti in tecnologie di Industrial IoT, potrebbero aggiungere 7,1 trilioni di dollari al proprio Pil, crescendo del 2,3%. Una prospettiva di crescita importante interessa anche due delle locomotive europee, Germania e Regno Unito, checon l’IoT potrebbero far lievitare le rispettive economie, nei prossimi quindici anni, dell’1,7% e dell’1,8% rispetto alle previsioni. Anche la Cina potrebbe avere grossi vantaggi nell’investire nelle tecnologie interconesse (più degli altri Paesi del Bric, e cioè Russia, India e Brasile), con un impatto potenziale sul Pil di 1,8

trilioni di dollari entro il 2030. L’Italia, invece, si trova in coda alla classifica dei Paesi maggiormente predisposti a cogliere le potenzialità dell’Industrial Internet of Things. Secondo Accenture, gli investimenti aggiuntivi in questo settore porterebbero un aumento di produttività stimabile in 197 miliardi di euro, pari adun salto in avanti dell’1,1%. Ma per ambire a questi obiettivi servono come detto piani concreti, soprattutto da parte delle aziende, che dovranno essere capaci di andare oltre l’obiettivo del miglioramento dell’efficienza, riconoscendo il valore di business dei dati generati dalle cose connesse. Gli investimenti dei vendor hi-tech Dal 2011 al 2015, gli attori telco e quelli del comparto tecnologico hanno speso 31 miliardi di dollari nell’Internet delle cose.

Qualcomm, Intel, Vodafone e Google guidano un interesse sempre più strutturato in questo mercato e lo prova il fatto che il numero di acquisizioni è salito dalle quattro del 2011 alle 19 nel 2015. La fotografia l’ha scatta la società di ricerca inglese Ovum, che ha contato nel complesso 76 accordi in diverse aree specifiche dell’IoT o in qualche modo legate a questo comparto, dai servizi It ai dispositivi indossabili per arrivare alle auto connesse. Di questi accordi, alcuni costituiscono passaggi chiave nelle strategie dei singoli vendor, come l’acquisizione di Altera da parte di Intel, che ha messo sul piatto la cifra record di 16,7 miliardi di dollari per portarsi a casa la tecnologia alla base di chip programmabili impiegati in una vasta gamma di apparati e dispositivi in campo automotive, industriale, medicale e militare. 53


SCENARI

Progresso possibile, fra business ed etica il 70% delle aziende pensa di ottenere dall'Iot benefici in tempi brevi. Ma questa rivoluzione tecnologica avrà impatti anche sulla società e sulla riduzione dell'impatto ambientale. Testo di Valentina Bernocco

È

uno strumento formidabile per il business, in tanti e variegati ambiti, ma può prestarsi a finalità ancor più nobili. L’Internet delle cose può diventare un mezzo al servizio del benessere individuale (nelle tecnologie healthcare), sociale (per soluzioni di smart city, trasporto e sicurezza cittadina) e ambientale. Si può fare: sensori, monitoraggi e analytics sono i presupposti per ottenere un uso più razionale delle risorse (quelle idriche in agricoltura, per esempio) e dei combustibili fossili. Secondo una stima di Frost & Sullivan, per esempio, i sistemi di gestione delle flotte automobilistiche basati sull’Internet of Things e sui veicoli connessi permetterebbero di tagliare i consumi di petrolio di un 20% o 25%. Questa visione di progresso è condivisa da molti dirigenti e manager aziendali, convinti che entro una manciata di anni le soluzioni IoT saranno usate per affrontare le sfide ambientali e sociali del nostro tempo: così emerge dall’indagine “IoT 2020 Business Report”, commissionata a Redshift Research da Schneider Electric e basata su circa 2.600 interviste a decisori di business di medie e grandi aziende di dodici Paesi, Italia inclusa. La sola tecnologia, senza politiche nazionali e internazionali che la promuovano, non

basterà. Ma sarà il fondamentale mezzo per raggiungere obiettivi come il contenimento del surriscaldamento globale (entro i due gradi, in base all’accordo raggiunto da 196 Paesi all’ultima conferenza di Parigi sul cambiamento climatico) tramite la riduzione dei gas serra, oppure il più equo utilizzo delle risorse idriche e agricole. “L’Internet of Things”, commenta Davide Zardo, vice president della divisione It di Schneider Electric Italia, “ha in sé una serie infinita di possibilità per aiutare i Paesi e le loro economie a rispondere alle sfide planetarie, fra cui il riscaldamento globale, la scarsità di acqua, l’inquinamento. Per la maggioranza degli intervistati, infatti, uno dei principali vantaggi dell’IoT per la società sta proprio nella possibilità di usare

Davide Zardo

Manifattura, il traino degli investimenti Non meno di 70 miliardi di dollari entro il 2020, rispetto ai 29 miliardi del 2015 e ai 40 miliardi previsti per il prossimo anno: a tanto ammontano gli investimenti in soluzioni IoT del settore manifatturiero secondo un recente studio di Business Insider. Significativi incrementi di budget li segneranno in particolare l’industria automobilistica, quella dei prodotti elettronici, il tessile, l’agricoltura, la sanità e l’aerospaziale. Le diverse applicazioni delle tecnologie connesse vanno dalla robotica alla realtà aumentata, dall’additive manufacturing ai sistemi di monitoraggio automatico e di manutenzione predittiva. L’IoT catturerà un crescente interesse nel variegatissimo mondo della produzione e attirerà investimenti importanti, spesso accompagnati da ritorni misurabili. Stando alle rilevazioni di Tata Consultancy Services, infatti, i produttori che sfruttano l’IoT fra il 2013 e il 2014 hanno osservato, in media, un incremento di fatturato superiore al 28%. P.A.

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meglio le risorse”. Schneider Electric sta attualmente sviluppando tecnologie per la raccolta, misurazione e gestione dell’energia per diversi ambiti, “dall’Industry 4.0 al Data Center Infrastructure Management, dal Power Metering ai sistemi software di Energy Management, solo per citarne alcuni”, illustra Zardo. A completare il quadro mondiale del futuro ridisegnato dalla tecnologia, citiamo una ricerca di McKinsey secondo cui nei nei prossimi anni il 40% del giro d’affari delle soluzioni IoT sarà generato da Paesi in via di sviluppo. Questi, addirittura più di quanto sapranno fare le economie avanzate, potranno sfruttare rapidamente i vantaggi dell’Internet of Things senza avere sulle spalle il peso di infrastrutture preesistenti.


SCENARI Il traino dei settori verticali Che si tratti di etica, progresso o profitto, siamo in un’epoca di trasformazione. “È passato il momento di domandarsi se l’Internet of Things produrrà valore”, ha sottolineato Prith Banerjee, chief technology officer di Schneider Electric. “Per le aziende è il momento di prendere decisioni e posizionarsi nel modo giusto per sfruttare al massimo il valore dell’IoT”. Nella già citata indagine, il 75% delle aziende interpellate si è detto ottimista sui vantaggi che si potranno ottenere già nel futuro immediato. Il 63% delle organizzazioni, in particolare, pensa di poter utilizzare già nel corso di quest’anno soluzioni IoT che permettano di migliorare l’esperienza del cliente e il customer service, mentre analoghe percentuali si attendono risparmi in ambito edile e industriale grazie a nuove tecnologie di automazione. “Non tutti gli ambiti industriali”, precisa Davide Zardo, “hanno colto con la stessa prontezza l’innovazione insita nelle tecnologie IoT e quindi non tutti cresceranno rapidamente come sarebbe pos-

sibile. Nel futuro immediato le prospettive di crescita maggiori si concretizzeranno nei settori che sono oggi all’avanguardia, e cioè in quelli dei servizi energetici, dell’automazione industriale e dell’autotrasporto”. Lo scenario generale, in ogni caso, è quello di una progressiva adozione dell’IoT come strumento di trasformazione del business. Un’indagine di Verizon (“State of the Market: Internet of Things 2016”) svela come il 72% delle aziende lo ritenga fondamentale per acquisire un vantaggio competitivo sulla concorrenza, mentre il 50% è concretamente impegnato a sfruttare i dati raccolti da sensori e app per scopi di analytics, con progetti da realizzarsi al massimo entro tre anni. “Per lungo tempo si è pensato che IoT fosse una combinazione di tecnologie complesse usata solamente da early adopter”, ha dichiarato Mark Bartolomeo, vice presidente IoT connected solutions di Verizon. “Nell’ultimo anno abbiamo invece avuto la prova di come IoT sia utilizzato da una vasta gamma di aziende, imprenditori, enti pubblici e sviluppatori”.

NEL SEGNO DELLA PRIVACY “L’Internet of Things è una rivoluzione che può dare vita a un asse portante del mercato digitale europeo e che implica dei cambiamenti radicali nella creazione del valore”. Parole di Antonio Preto, commissario dell’Agcom, secondo cui la fluidità permanente della connessione richiede un approccio uniforme. “Il rischio è la frammentazione dei mercati e il lock-in degli utenti ed è indispensabile tutelare i diritti degli utenti stessi, a partire dalla tutela dei dati personali”, ha detto ancora Preto sull’argomento. A inizio aprile, intanto, il Garante della Privacy italiano (insieme alle Authority di altri 28 Paesi riunite nel Global Privacy Enforcement Network) ha annunciato l’avvio dell’annuale “privacy sweep”, indagine a tappeto che analizzerà il fenomeno IoT per stabilire quali rischi comporti per la vita privata dei cittadini. Il raggio d’azione dell’analisi (i cui risultati saranno resi noti il prossimo settembre) è decisamente ampio e copre i dispositivi più diversi, dai contatori intelligenti ai termostati regolabili via Web, dalle auto connesse agli orologi intelligenti che misurano il battito cardiaco e la pressione sanguigna, fino al controllo a distanza degli ascensori e ai frigoriferi che segnalano la scadenza dei cibi. Il Garante italiano, sotto la guida di Antonello Soro, si occuperà in modo particolare della domotica, verificando se le condizioni d’uso dei dispositivi prodotti da aziende anche multinazionali rispettino le norme sulla riservatezza del consumatore e dei suoi dati. Se da un lato è necessaria piena trasparenza sulle modalità di trattamento delle informazioni personali, dall’altro rimane il grande punto interrogativo sul futuro dell’IoT in Europa in base alle nuove regole Ue in materia di privacy dei dati. Un’interpretazione troppo rigida della normativa da parte dei singoli Garanti, dicono alcuni esperti, potrebbe rallentare drasticamente il progresso dell’IoT. G.R.

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TECNOLOGIE

Una tappa verso la trasformazione L’intelligenza artificiale fa fare un salto evolutivo agli oggetti connessi. Ma l’IoT è solo un passaggio all’interno di un percorso più lungo, quello della digital transformation. Come ci spiega l’amministratore delegato di Fujitsu in Italia.

Testo di Valentina Bernocco

P

iù che di oggetti connessi e tecnologie, per le aziende ha senso parlare di trasformazione digitale. L’Internet delle cose è soltanto una tappa di un viaggio verso il futuro, un futuro che è fatto di ottimizzazioni e risparmi 56

(pensiamo ai vantaggi della manutenzione preventiva di impianti o edifici, grazie ai dati raccolti dai sensori), di un uso più razionale delle risorse (in agricoltura o nella gestione dell’energia), di responsabilità sociale (con le tecnologie di assistenza e monitoraggio per malati e anziani), ma anche di applicazioni di robotica e intelligenza artificiale. In Giappone, per esempio, da un lavoro a sei mani dei ricercatori di Fujitsu, dell’Università di Nagoya e dell’Istituto Nazionale di Informatica, è nato Todai: un robot capace di rispondere correttamente a quesiti su varie materie. Dopo anni di “studio”, cioè di machine learning, ha saputo superare diversi test di ingresso di atenei nipponici. Ne abbiamo discusso con Bruno Sirletti, presidente e amministratore delegato di Fujitsu Italia. Quali vantaggi possono ottenere le aziende con l’Internet of Things? Per noi l’IoT non è un obiettivo fine a se stesso bensì è parte di qualcosa di più

grande, che ha come scopo finale la digital transformation. È un elemento abilitante. Ma dobbiamo capire che i dati raccolti da sensori e oggetti connessi non sono sfruttabili immediatamente: serve la mediazione di software e strumenti di analytics per trasformarli in informazioni utili, e serve il supporto del cloud come infrastruttura di sostegno. Oggi osserviamo già nel concreto alcune realizzazioni di questa “tappa”, che in futuro includerà sempre di più anche i robot e l’intelligenza artificiale. Studi di settore e analisti citano spesso il problema dell’interoperabilità. Può essere un ostacolo? Non penso che questo sia realmente un problema. Gli standard sono in via di definizione e credo che per l’IoT accadrà quello che è successo nel mondo dell’informatica con ogni innovazione: inizialmente emergono alcune tecnologie, quelle più avanzate, poi si va verso l’apertura e


TECNOLOGIE

PROGETTI IOT: PREVALE LA LINEA CONSERVATIVA Sistemi di sicurezza, tracciamento di dipendenti e beni aziendali, gestione dei consumi energetici e controllo di qualità. Sono questi, oggi, i principali ambiti di applicazione dell’Internet of Things, con progetti portati avanti da imprese e organizzazioni che si limitano, nel 58% dei casi, al collegamento di circa mezzo migliaio dispositivi. Non di più, perché la gestione dell’architettura potrebbe altrimenti diventare troppo complessa. Lo scenario descritto porta la firma della società di ricerca Current Analysis, che ha intervistato mille manager già coinvolti in progetti IoT. Secondo lo studio, il 43% delle iniziative è su base nazionale, il 24% locale, il 23% regionale e solo il 10% si estende su scala globale. L’idea di una serie di oggetti intelligenti che comunicano in tempo reale con una piattaforma centralizzata è, al momento, una mera utopia: soltanto un quarto del campione, infatti, ha già portato a termine o sta realizzando progetti che prevedono dispositivi in grado di trasmettere dati in real time. Nella maggior parte dei casi considerati, inoltre, i device comunicano una volta al giorno o solo quando vengono rilevate anomalie ai sistemi. Una peculiarità che si può intravedere anche nelle singole voci di spesa. Le aziende investono poco in telecomunicazioni, preferendo al momento concentrarsi soprattutto sui servizi in cloud e sulle soluzioni software mirate a estrarre valore dai dati. Current Analysis ha identificato, quindi, quattro tipologie di fornitori tecnologici che possono aiutare un’impresa nella corretta implementazione di una strategia IoT: software vendor, hardware vendor, provider di telecomunicazioni e specialisti in servizi professionali. A dominare è per ora quest’ultima categoria, vista dalle aziende come referente principale poiché le scelte da compiere riguardano ancora il business, piuttosto che le tecnologie in senso stretto. Il merito riconosciuto ai fornitori di servizi è quello di poter svolgere un ruolo determinante nel superare i tre maggiori ostacoli nella realizzazione di progetti IoT: sicurezza, dimostrazione del valore delle singole iniziative e giustificazione dei costi. G.R.

Bruno Sirletti

la progressiva interoperabilità, finché in modo quasi autonomo e senza decisioni dall’alto il mercato seleziona le alternative destinate a imporsi. Quali sono, allora, le criticità che osservate? Non basta l’esistenza di miriadi di oggetti connessi per risolvere ogni problema. Molte aziende e clienti ci dicono che vorrebbero intraprendere la digital tran-

sformation ma che non sanno come fare. Altre hanno messo in campo dei progetti, rivelatisi però dei fallimenti. L’Internet of Things funziona se si comprende quale sia la specifica esigenza da soddisfare e se i progetti sono realizzati da persone esperte. Parlo di esperienza “di mestiere”, del personale dell’azienda che conosce il suo lavoro e le sue necessità, e di esperienza tecnologica del vendor che deve fare consulenza e contribuire al progetto. Questi due punti di vista devono incontrarsi. Quanto è oneroso investire in progetti IoT? I costi dipendono molto dai settori. Per esempio, per una soluzione di retail analytics l’ordine di grandezza è di qualche decina o centinaia di migliaia di euro, a seconda delle dimensioni dell’attività. Si tratta, comunque, di progetti che hanno un ritorno sull’investimento entro un paio di anni e che attualmente vengono affrontati con un approccio “tailor made”, in cui

il vendor realizza una soluzione su misura per il cliente. Quale futuro immaginate per l’Internet of Things? In futuro potranno diventare più diffuse tecnologie robotiche e di intelligenza artificiale, che oggi stiamo già sperimentando. In Giappone, per esempio, i laboratori di ricerca di Fujitsu hanno creato un robot con le sembianze di un orsacchiotto, testato in due aeroporti di Tokio per vendere polizze di viaggio ai passeggeri in partenza. Ebbene, il sistema si è rivelato più efficace dei venditori in carne e ossa. Il robot pone all’interlocutore delle domande piuttosto semplici, sulla destinazione, durata e classe di viaggio, poi prosegue nel questionario differenziandolo in base alle prime risposte ricevute e in base a elementi non verbali, come il numero di battiti degli occhi (un segnale di interesse). E per finire propone una polizza assicurativa specifica per i bisogni dell’interlocutore. 57


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Come evitare il rischio di una Babele IL DIALOGO FRA DECINE DI MILIARDI DI OGGETTI CONNESSI, PIATTAFORME CLOUD E APPLICAZIONI PASSA PER STANDARD E MODELLI COMUNI. L'IMPERATIVO È ANALIZZARE IN TEMPO REALE UN IMPONENTE FLUSSO DI DATI. Testo di Piero Aprile

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i sono tanti, troppi, standard e nessuno è chiaramente vincente sull’altro. Le circa 300 piattaforme IoT in esercizio oggi nel mondo suggeriscono l’idea che ci sia un evidente rischio di confusione tecnologica, di una cacofonia di protocolli che mal si conciliano con l’esigenza di un linguaggio universale che dovrebbe facilitare e stimolare la comunicazione fra oggetti, persone e processi connessi. La normalizzazione dei dati, secondo diversi addetti ai lavori, è il compito prioritario delle piattaforme dell’Internet of Things e in particolare di quelle che offrono grande facilità di integrazione a livello di Api (Application Programming Interface, le interfacce di programmazione), che sono disegnate per favorire le funzioni di data analytics e l’interazione fra sistemi cloudbased differenti.

Dieci tecnologie a cui guardare Sicurezza, analisi dei dati, connettività, processi, sistemi operativi ad hoc e molto altro ancora. Nel calderone dell’Internet delle cose, nei prossimi anni, “cuoceranno” sicuramente parecchi ingredienti. Gartner ne ha individuati dieci esaminando il grado di interesse mostrato dalle aziende su opportunità e temi critici dell’IoT. Dieci “applicazioni” in grado di orientare le sviluppo tecnologico delle reti degli oggetti connessi nei prossimi anni. E in cima alla lista c’è la security. Entro il 2018 osserveremo progressi dell’hardware e del software mirati a soddisfare questa esigenza, ma allo stesso tempo si andrà accentuando il problema della scarsità di competenze: molti degli attuali problemi di sicurezza, infatti, derivano da errori di progettazione o di implementazione,

L’IOT “SU MISURA” E IN FORMA DI SERVIZIO Una piattaforma infrastrutturale di integrazione, un marketplace e una componente di servizi professionali. È questo il tridente messo in campo da Ericsson, in occasione della recente fiera di Hannover, per dare vita al proprio IoT Accelerator: un acceleratore tecnologico (non finanziario) che il colosso svedese andrà a proporre alle aziende per semplificarne il processo di avvicinamento al mondo dell’Internet delle cose. Nello specifico, il pacchetto racchiude soluzioni per la gestione di dati e dispositivi, per la fatturazione, per la connettività e per gli analytics. Tutto, ovviamente, è basato sul cloud e offerto in modalità as-a-Service. Il marketplace è invece sia un contenitore di app sia un portale di sviluppo collaborativo, il cui fine è quello di aiutare le imprese a realizzare applicazioni in stretta collaborazione con il proprio ecosistema dei partner. Infine, l’offerta di servizi professionali include tutto il portafoglio di Ericsson, per coprire la filiera “dalla A alla Z”: dal setup iniziale alla consulenza, passando per lo sviluppo applicativo e per l’integrazione di componenti tecnologiche e sistemi.

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risolvibili solo disponendo di personale qualificato. Il secondo tema caldo è quello degli analytics: per comprendere i dati che transitano dagli oggetti connessi saranno necessari nuovi algoritmi, nuove architetture e un approccio più strutturato al machine learning. In terzo luogo, Gartner parla di Iot Device Management, una pratica che richiede tecnologie context-aware e state-aware e in cui, nei prossimi anni, si osserveranno “significative innovazioni”. Quanto alle reti, nel lungo periodo (entro il 2025) quelle a bassa potenza e a corto raggio si affermeranno come dominanti. Le tecnologie radiomobili tradizionali, infatti, non possono garantire né le fun-


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OGGETTI RIPROGRAMMABILI E INTERFACCE TRASPARENTI Come mai c’è tanto interesse intorno all’Internet delle cose? Perché l’IoT “permette di creare prodotti più intelligenti e capaci di migliorare nel tempo”, come ci spiega Danilo Poccia, Emea evangelist di Amazon Web Services. “Qui sta uno dei vantaggi dei dispositivi connessi: un prodotto vecchio di dieci anni oggi è in grado di fare cose che al momento della sua nascita nemmeno esistevano. Con un semplice aggiornamento software si può aggiungere un servizio musicale o modificare le funzioni associate a un pulsante”. Un esempio è lo “smart speaker” di Sonos, azienda californiana che ha cominciato a vendere i primi prodotti connessi nel 2006 e che da allora ha esteso il supporto a più di sessanta servizi musicali, incluso lo streaming. Un altro caso di soluzione non immaginabile in passato è Philips HealthSuite, una piattaforma digitale che attraverso il cloud gestisce più di sette milioni fra apparati connessi, sensori e applicazioni mediche utilizzate sia dai pazienti, sia dal personale medico. Appoggiandosi alla piattaforma IoT di Amazon, Philips può acquisire, processare e reagire a dati raccolti in tempo reale da un insieme eterogeneo di dispositivi. C’è poi un altro motivo per interessarsi all’IoT: i dispositivi connessi avvicinano le aziende ai clienti perché sono in grado di fornire feedback che aiutano a capire le modalità d’uso dei dispositivi stessi, le preferenze degli utenti e ciò che gli utenti non gradiscono. “In un certo senso”, spiega ancora il manager di Aws, “questo ricorda la metodologia agile applicata allo sviluppo software, secondo la quale si implementano piccoli aggiornamenti che vengono poi messi in produzione rapidamente, in modo da usare i feedback per capire il passo successivo da compiere. Grazie ai feedback provenienti dagli oggetti connessi, il medesimo approccio agile può essere applicato allo sviluppo dell’hardware”. Un’altra interessante conseguenza dell’IoT riguarda l’interfaccia dei prodotti. “Per anni”, prosegue Poccia, “siamo stati abituati a interfacce di mediazione, come tastiere o mouse nel caso dei computer, oppure telecomandi pieni di pulsanti per i televisori. Qualche anno fa, poi, i display tattili hanno permesso di creare interfacce simulate e questo ha portato nuovi utenti, per esempio persone anziane oppure molto giovani, a interagire con dispositivi come smartphone e tablet. Adesso, con i dispositivi connessi, l’interfaccia è diretta, perché il prodotto stesso è l’interfaccia da toccare o da stringere fra le mani. E quelle sempre più sofisticate, come il riconoscimento vocale, rendono naturale la comunicazione”. Un esempio è Amazon Echo, uno smart device attraverso il quale è possibile interagire con diversi servizi usando la voce: basta chiedere, e si possono ricevere notizie o impostare un timer mentre si è impegnati a cucinare.

zionalità né i costi operativi di cui le applicazioni IoT necessitano. Serviranno, al contrario, soluzioni economicamente più vantaggiose sia a livello di infrastrutture hardware sia per la gestione delle reti stesse, in grado di supportare un’alta densità di connessioni a fronte di una larghezza di banda contenuta. Un altro tassello chiave per l’IoT di domani riguarda i processori. Entro il 2019, infatti, negli oggetti connessi spopoleranno quelli a 8-bit di fascia bassa, ma già nel 2020 i modelli a 32-bit inizieranno a sostituirli. Curiosamente, Gartner non immagina una fase di affermazione di massa per i chip “intermedi” a 16-bit. Quanto ai

sistemi operativi, l’inadeguatezza di piattaforme complesse e avide di risorse quali Windows e Apple iOs diventerà palese intorno al 2020, anno in cui si affermeranno alternative software “minimali” e poco esigenti in termini di memoria e di energia. Alcune applicazioni pensate per l’Internet of Things produrranno dati in grandi volumi, spesso legati all’esigenza di un’analisi in tempo reale. Già oggi esistono sistemi capaci di generare decine di migliaia di eventi al secondo, mentre in ambito telco e telematico (nell’automotive in primis) si arriva a milioni di eventi al secondo: per poter gestire questi numeri, saranno sempre più necessarie piattafor-

me di tipo “distributed stream computing”. C’è quindi un’altra e più generica tipologia di piattaforma che dovrà essere definita, mettendo insieme in un’unica soluzione componenti infrastrutturali diversi, sistemi di controllo e di sicurezza, piattaforme di comunicazione, aggiornamenti del firmware, modelli di acquisizione e di gestione dei dati. Non si potrà fare a meno, infine, di standard ed ecosistemi dedicati per l’IoT, ovvero di regole comuni sintetizzate in Api universalmente valide. Solo così gli oggetti connessi e le applicazioni potranno comunicare fra loro senza il rischio che l’Internet delle cose diventi una Babele. 59


TECNOLOGIE

Le mille possibilità dell’IoT e i gap da colmare L’Internet of Things non conosce confini applicativi, spaziando dall’autovettura che dialoga con i sensori a bordo strada, ai sistemi che monitorano parametri ambientali. Ma andranno definiti gli standard comuni e bisognerà creare prodotti sicuri “by design” . Testo di Carlo Maria Eugenio Vaiti, chief technologist and strategist Emea di Hewlett-Packard Enterprise

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el mondo dell’Internet of Things gli standard sono necessari per garantire interoperabilità tra i domini e all’interno degli stessi. Su questo processo influiscono le legislazioni, le regole, le procedure di qualificazione e certificazione dei prodotti. In un ambito che contempla anche l’uso contemporaneo e coordinato di tecnologie assai diverse

STARTUP ITALIANE DA ESPORTAZIONE Solair è una startup bolognese (di Casalecchio di Reno, per la precision) appena acquisita ( itermini dell’operazione non sono noti) da Microsoft. Attiva dal 2011, è specializzata in soluzioni di Internet of Things rivolte a vari settori industriali, fra cui manifatturiero, retail, food&beverage e trasporti. Più che i natali inglesi del suo Ceo, Tom Davis, ad aver stimolato l’interesse dell’azienda di Redmond è la vicinanza delle rispettive offerte. Le soluzioni Solair per la customizzazione e il deployment dell’IoT poggiano infatti sulla piattaforma di cloud pubblico Azure e, come ha sottolineato Davis, “sono progettate per aiutare le aziende di qualsiasi settore a usare l’Internet of Things per ottenere più efficienza e redditività”. La tecnologia della startup verrà gradualmente integrata nella Azure IoT Suite. Muovendosi sulle proprie gambe, Solair ha comunque già ottenuto successi. In Italia ha aiutato un produttore di macchine del caffè, Rancilio Group, a monitorare da remoto i propri dispositivi e a ottimizzare la supply chain, mentre in Giappone è stata scelta da numerose aziende del comparto manifatturiero.

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(cloud, mobile, machine-to-machine, security, networking) appare chiaro che ci si troverà di fronte a una continua evoluzione degli standard di riferimento. L’Internet of Things non conosce però confini applicativi, spaziando dall’autovettura che dialoga con i sensori a bordo strada o con i veicoli che precede, ai sistemi che monitorano parametri

ambientali, per arrivare ad applicazioni utili alla localizzazione o per identificare un paziente e monitorare specifiche patologie, anche tramite connessioni remote. Alla verticalizzazione delle soluzioni corrisponde una verticalizzazione degli standard. Un ruolo decisivo per assicurare un assessment tecnologico adeguato è


TECNOLOGIE assegnato quindi agli enti di standardizzazione come l’Aioti (l’Alleanza per l’Internet of Things, promossa nel 2015 dalla Commissione Europea), che però stanno operando da relativamente poco tempo in campo IoT. A oggi, gli standard funzionali esistenti sono estremamente frammentati: i nove principali enti hanno prodotto (a tutto febbraio 2016) 418 standard, di cui 278 dedicati all’architettura It. A questi, occorre aggiungere il contributo offerto da un’ampia tipologia di organismi associativi, pubblici o privati, finalizzati alla produzione di standard o alla creazione di un ecosistema di sviluppo di specifiche condivise. Il viaggio verso la società digitale Secondo Hpe, sicurezza e privacy sono al primo posto fra i rischi legati al pas-

BASSI CONSUMI, QUALITÀ E COPERTURA: I VANTAGGI DEL NARROWBAND IOT Un consumo energetico molto contenuto, bassi costi dei componenti e un’eccellente copertura: sono i vantaggi della tecnologia Narrowband IoT (Nb-IoT), una delle possibili strade per portare le connessioni dell’Internet of Things ovunque, anche in luoghi remoti e ostici da raggiungere. Senza scendere in tecnicismi, basti dire che questo metodo di tipo “Low Power Wide Area” ha ottenuto l’approvazione del 3Gpp, un’organizzazione internazionale che riunisce diverse alleanze ed enti regolatori nel campo delle telecomunicazioni: lo standard è in via di definizione. E l’Nb-IoT ha il pieno sostegno di Huawei, che sta lavorando al suo sviluppo fin da un paio di anni, con la collaborazione di Vodafone. L’azienda cinese si è detta certa del suo avvento già entro la fine del 2016. Secondo Zhu Cheng, il dirigente a capo della divisione Cellular IoT della società cinese, entro il 2020 si conteranno tre miliardi di oggetti connessi tramite rete mobile, e a far da traino a questi numeri saranno le applicazioni di smart metering e quelle per le smart city. Huawei non teme la concorrenza di altre tecnologie proprietarie per la trasmissione dei dati dell’IoT, tecnologie che hanno tentato di imporsi in modo “molto, molto aggressivo”, ha detto Cheng, ma che non possono vantare i medesimi vantaggi di standardizzazione, qualità del servizio, sicurezza, basso consumo e copertura del segnale. Lo scorso febbraio Huawei e Vodafone hanno annunciato l’intenzione di creare un centro di ricerca per lavorare insieme sull’Nb-IoT: aprirà i battenti nel Regno Unito, a Newbury.

saggio al paradigma dell’Industry 4.0. Per questo stiamo lavorando per offrire un’architettura IoT che sia sicura in ambito end-to-end e soprattutto “by design”, ossia sin dallo sviluppo delle applicazioni associate ai vari settori verticali, in particolare all’automotive, all’oil&gas e al manifatturiero, attualmente in testa alle nostre priorità. Nei processi industriali iniziano a delinearsi le prime implementazioni di “fabbriche intelligenti”, soprattutto con alcuni operatori delle telecomunicazioni e in cooperazione con alcune startup. Tali progetti hanno come scopo quello di dotare gli impianti produttivi di reti mobili Lte ultra-broadband dedicate, con servizi di telecomunicazione dati, video e voce, a sostegno di soluzioni di videosorveglianza, monitoraggio dei mezzi in movimento e trasmissione di allarmi (sulla base di sensori fissi o indossati dal personale). Nel settore manifatturiero si stanno sviluppando anche servizi legati alla diagnostica predittiva, al workforce management, alla sicurezza e all’efficienza dei costi di esercizio attraverso l’automazione intelligente. Nelle aziende, tuttavia, in molti casi non si sono ancora pienamente compresi i vantaggi raggiungibili con i progetti IoT, non sono state sviluppate applicazioni

concrete e molte realtà lamentano ancora una mancanza di competenze specifiche a causa della mancanza di formazione. Nell’intraprendere un percorso verso l’Internet delle cose, inoltre, oggi le aziende non considerano l’investimento in sicurezza come una solida base per salvaguardare il proprio business. E invece un attacco cybercriminale provoca nel migliore dei casi delle notevoli ricadute sul business, se non la perdita di segreti commerciali e proprietà intellettuali. Molte volte la posizione dell’azienda è reattiva e non proattiva. In ogni caso, il 2016 rappresenterà un anno strategico per l’adozione dell’Internet of Things. La vera sfida, adesso, è quella di dimostrare il ritorno sugli investimenti dei progetti che tante aziende hanno messo in campo. In Italia, in particolare, alcuni settori si dimostrano più reattivi di altri: quello della mobilità urbana e dei trasporti pubblici, per esempio, è fra i più maturi e giù sfrutta piattaforme per l’erogazione di dati in real time e per l’offerta di servizi (l’acquisto di biglietti, per esempio). Anche il comparto delle smart grid è molto ricettivo per via della normativa focalizzata sull’efficienza energetica e sulla riprogettazione delle città metropolitane in chiave di smart city. 61


ESPERIENZE

Reggere l’impatto del cambiamento L’INTERNET OF EVERYTHING RICHIEDE COMPETENZE E VISIONE. LE PERSONE DIVENTANO UNO SNODO FONDAMENTALE PER L’EVOLUZIONE TECNOLOGICA. Testo di Agostino Santoni, amministratore delegato di Cisco Italia

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on si contano più, ormai, le voci che confermano come l’Internet of Things – e per estensione l’esplosione della connettività fra oggetti, dati, processi e persone di cui l’IoT è un elemento chiave – offra un’opportunità senza precedenti a imprese, persone e interi Paesi. Allo stesso tempo, le medesime voci richiamano l’attenzione sulla necessità di prepararsi, capire il cambiamento e riflettere attentamente su come esso possa meglio applicarsi al proprio business o alle caratteri-

stiche del tessuto economico e sociale di un Paese che vuole fare dell’innovazione il propulsore della propria crescita. Come punto di partenza basti un dato, che Cisco ha reso noto già un anno fa attraverso uno studio del Global Center for Business Transformation: entro cinque anni, quattro aziende leader di mercato su dieci saranno scalzate dal loro primato da realtà più dinamiche e pronte a cavalcare la trasformazione digitale. Una trasformazione che, nella gran parte dei casi, ancora

RISAIE E VITIGNI PIù SMART GRAZIE A SENSORI E SATELLITI Per fare l’albero ci vuole il seme, questo è scontato. Ma se con le nuove tecnologie si riuscisse a seguire tutto il ciclo di vita del seme e a migliorarne la resa, riducendo i costi? L’agricoltura smart è già una realtà, in buona parte fondata sul tecnologie di Internet of Things quali i sensori e i dispositivi connessi che permettono ai produttori di raccogliere dati dal suolo e dalle piante. Oppure di ridurre l’impatto ambientale razionalizzando l’irrigazione e l’impiego di pesticidi. Nelle risaie della Tenuta Castello, a Desana, in provincia di Vercelli, la tecnologia viene utilizzata sia per la semina sia per lo spianamento. I trattori vengono collegati a un satellite e ad apparecchi laser che aiutano l’operatore a svolgere un lavoro di grande precisione. L’agricoltura smart è un pallino anche per alcuni vendor tecnologici. Ericsson, per esempio, ha recentemente annunciato che collaborerà con MyOmega, Intel e Telenor Connexion per creare un servizio di connettività sicura “punto-a-punto” per l’IoT dedicato ai produttori di vino. La soluzione che nascerà da questo sodalizio permetterà di raccogliere i dati ambientali attraverso sensori e gateway connessi a un servizio cloud, per poi usare tali informazioni per realizzare analisi predittive.

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non è arrivata all’attenzione dei board di direzione delle aziende. Nello studio si analizzavano dodici diversi settori economici, ma se volessimo trasferire questa riflessione a livello di singoli governi e di singoli Paesi non avremmo troppe difficoltà. E anche per gli ecosistemi di innovazione e per le città vale lo stesso principio. Nella corsa sempre più rapida dell’innovazione, chi si ferma è potenzialmente perduto. Questa “iperconnettività”, intrecciandosi con altre occasioni legate alla


ESPERIENZE Agostino Santoni

tecnologia (dal cloud ai Big Data, per arrivare al mobile), crea una nuova normalità fatta di accelerazione, che si può affrontare soltanto con il supporto di una visione del futuro collettiva, la quale ricomprenda l’azienda e il suo pubblico, un territorio e i suoi abitanti. Come vorrei che fosse, tra cinque anni, vivere nella città che amministro? Che cosa vorrei offrire ai miei clienti, e in che forma me lo chiederanno? Come possiamo costruire innovazione insieme? Il futuro e

le opportunità della tecnologia nell’era dell’Internet “di tutte le cose”, oggi mai come prima assumono la forma di una rete, e mai come prima mettono al centro le persone quale snodo fondamentale. Le persone ma anche le loro competenze, perché se la tecnologia trasforma ogni aspetto della vita è necessario essere pronti a utilizzarla, a domarla, a indirizzarla verso i propri obiettivi. Insieme alla capacità di elaborare una visione, le competenze sono la chiave nascosta del successo nell’affrontare l’impatto tecnologico. Venti su venticinque dei profili professionali più ricercati dalle aziende nel 2016, secondo una recente analisi fatta da LinkedIn e riportata dal World Economic Forum, sono di area tecnologica. Con salti tecnologici che in cinque anni trasformano radicalmente lo scenario, chi inizia oggi un corso di laurea quadriennale è “matematicamente” già indietro. Nel nostro Paese sappiamo che le difficol-

tà sono evidenti, soprattutto se guardiamo alla realtà della piccola e media impresa, proprio quella che corre il rischio più grande e che avrebbe le massime opportunità dal crearsi una rivoluzione tecnologica “su misura” per le proprie caratteristiche e specificità. È una situazione complessa, che però si può affrontare facendo delle competenze digitali – oltre che dell’accesso alle risorse digitali – un nuovo terreno comune di sperimentazione nella collaborazione fra un settore pubblico illuminato e un settore privato che non teme la sfida dell’innovazione. Lavorando insieme a un ecosistema che allinei sistema educativo, ricerca, condizioni favorevoli allo sviluppo di realtà innovative e il contributo di quelle imprese che siano già più avanti nella strada della digitalizzazione, a supporto di chi deve ancora intraprenderla, l’Italia non perderà il treno del cambiamento. E ritroverà, anche attraverso la tecnologia, quella capacità di eccellere che già è stata sua in passato.

L’IOE AIUTA LA MEDICINA L’Internet of Things, o meglio l’Internet of Everything (IoE), significa anche salute: dalla telemedicina di prima maniera alla raccolta dati direttamente sul corpo dei pazienti, attraverso sensori connessi, fino ai sistemi di monitoraggio a distanza. La sanità in “formato digitale” è fatta di esperienze come quella dell’Asl dell’Alto Adige, che ha realizzato un innovativo modello gestionale per la cura dei pazienti oncologi. Appoggiandosi alla tecnologia di Telepresence di Cisco, l’azienda sanitaria ha collegato sette presidi sul territorio, permettendo a medici fisicamente lontani tra loro di lavorare in tempo reale sulla medesima cartella clinica e di condividere sessioni video interdisciplinari per migliorare i percorsi terapeutici dei pazienti. Se bisognava scegliere tra fax e telefono o spendere tempo per incontrarsi in sede, oggi gli strumenti dell’IoE permettono di gestire in rete l’operatività e le informazioni.

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ESPERIENZE

Alla scoperta dei rischi cyber nascosti nelle nostre case Secondo le stime di Gartner, quest’anno nel mondo si spenderanno 348 milioni di dollari in tecnologie e servizi di sicurezza per l’IoT, e la cifra salirà a 840 milioni nel 2020. I budget da soli non basteranno: si dovranno superare errori di progettazione e di gestione degli oggetti connessi. Testo di Valentina Bernocco

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erché i sogni dell’Internet delle cose non si trasformino in incubi servono strategie, investimenti, migliori conoscenze e un bel po’ di correttivi tecnologici. La strada è lunga, ma praticabile. Pur con i distinguo necessari fra oggetti molto diversi che rientrano nel calderone dell’IoT – impianti industriali, centrali elettriche, ma anche elettrodomestici, sistemi di domotica, videosorveglianza e

dispositivi indossabili – in generale oggi il livello di sicurezza è inferiore a quello delle infrastrutture tecnologiche classiche, dei server, dei computer o degli smartphone. E c’è un primo motivo: uno strumento di protezione basilare, quale la crittografia end-to-end dei dati, è ancora scarsamente diffuso. Può dunque capitare, ed è capitato, che alcuni “connected device” da usare in abbinamento a un’app per lo smartphone vengano intercettati per spiare gli utenti, catturare immagini con la fotocamera oppure ottenere la password di una rete WiFi domestica (come nel caso di un citofono smart che non proteggeva adeguatamente tale informazione dallo sguardo degli hacker). Un fondamentale contributo per un futuro più sicuro dovrà, dunque, arrivare dai vendor di tecnologie e servizi per il mondo connesso. Ma anche i destinatari e i gestori dell’IoT dovranno cambiare approccio. Incredibilmente, se si pensa alla delicatezza della materia trattata, gli impianti di produzione dell’energia non rappresentano un’eccezione positiva, anzi.

ASSICURAZIONI A RISCHIO DISRUPTION? Le nuove tecnologie e la crescente domanda di servizi digitali possono fare saltare gli schemi delle compagnie assicurative, chiamate a raccogliere una sfida lanciata dagli attori emergenti di questo mercato, come le startup e l’universo fintech. È il messaggio, forte, emerso dal “World Insurance Report 2016” di Capgemini, secondo cui la continua evoluzione degli strumenti legati all’Internet of Things, combinata con i comportamenti e le preferenze dei clienti della Generazione Y (i cosiddetti Millennials), impone un radicale cambiamento ai tradizionali attori del mondo insurance. L’IoT e la prossima ondata di innovazioni tecnologiche relative a ecosistemi intelligenti per la casa, device indossabili, robot e automobili impongono un passaggio verso nuovi modelli di business e nuove forme di interazione con i clienti. Nel mondo connesso, infatti, i dati raccolti dai sensori e dagli oggetti intelligenti aumenteranno la “risk transparency”, impattando sulle dinamiche di offerta e di pricing, di governance e di controllo del rischio stesso. Eppure, nonostante questa minaccia incombente, le società di assicurazione stanno oggi sottovalutando in modo significativo le modalità con cui le tecnologie connesse saranno adottate. E non gioca certo a loro favore il fatto che quasi un Millennial su due (il 47%) si dica propenso ad acquistare una nuova polizza direttamente da aziende “trainate dalla tecnologia”, invece che da quelle convenzionali. P.A.

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Utilizzando il motore di ricerca Shodan, per esempio, a vari ricercatori e in tempi diversi è capitato di individuare sistemi facilmente hackerabili. In più di un caso, sia in Francia (a Tolosa) sia in Italia, l’infrastruttura Scada di piccole centrali idroelettriche è risultata tutt’altro che a prova di intrusione. Per un hacker sarebbe stato quindi possibile attivare o fermare il generatore dell’impianto, mentre nella centrale idroelettrica di Tolosa gli amministratori It non si erano premurati di impostare una password di accesso alla connessione di rete. Secondo uno studio realizzato lo scorso anno da Chatham House, un ente non governativo britannico che si interessa di politica estera, nemmeno sulle centrali nucleari possiamo dormire sogni tranquil-


ESPERIENZE

ABITAZIONI PIÙ INTELLIGENTI MA PIÙ FACILI DA ESPUGNARE

li. “Molti sistemi di controllo industriale”, si legge nel report, “sono intrinsecamente insicuri, perché la misura di sicurezza non sono state incluse nella progettazione iniziale”. Altri problemi sono il diffuso utilizzo di software commerciali di terze parti (convenienti dal punto di vista dei costi, ma più soggetti al rischio di hackeraggio) e l’insufficiente preparazione tecnica del personale. In questo scenario a tratti catastrofico c’è, però, una buona notizia. Secondo recenti stime di Gartner, in tutto il mondo la spesa per la “IoT security” salirà dagli attuali 348 milioni di dollari fino a 840 milioni nel 2020. L’incremento sarà inizialmente moderato, per poi accelerare a fine decennio grazie a migliori competenze, cambiamenti organizzativi e offerte di servizi più

scalabili. Tra i settori, quelli più impegnati nel rafforzamento della sicurezza saranno l’automotive e i trasporti su rotaia e via aerea, il mondo delle fabbriche e gli impianti agricoli. Ma per alimentare e far crescere l’IoT applicato a diversi contesti sarà necessario, dicono gli analisti, tenere il passo con le esigenze di monitoraggio, detenzione delle minacce, controllo degli accessi e con altre necessità di sicurezza. Non un’impresa da poco. La stessa Gartner, fra l’altro, ipotizza che nel 2020 oltre un quarto degli attacchi informatici diretti alle aziende coinvolgeranno l’Internet of Things. A questa ascesa delle minacce, però, non corrisponde un adeguato incremento dei budget di sicurezza aziendali, che all’IoT dedicheranno appena il 10% in più di quanto non facciano oggi.

Lavatrici, termostati, lampadine, impianti di videosorveglianza e televisori: la connettività oggi pervade le nostre abitazioni. Portandosi dietro, purtroppo, anche il rischio di intrusioni cybercriminali. Fra i novemila intervistati di un’indagine condotta da Vanson Bourne per conto di Intel in diversi Paesi (l’Italia non è stata inclusa), il 66% si è detto molto preoccupato che i dati presenti nelle smart home possano essere violati dai criminali informatici. Vista la scarsa diffusione di sistemi di crittografia “end-to-end” in molti oggetti e servizi connessi, la preoccupazione è più che lecita. Qualora anche le tecnologie di “encryption” diventino la norma, non necessariamente saranno una barriera inattaccabile. Sistemi intelligenti oggi avanzatissimi ed elitari, come i computer quantistici del Mit di Boston, stanno imparando a eseguire calcoli complessi in meno tempo e – in un futuro non specificato – potranno trasformarsi in potenti “macchine decrittografiche”. A detta di Lori MacVittie, principal technical evangelist di F5 Networks, “si dovrebbe insistere sul promuovere dei test di sicurezza per ogni applicazione a cui l’oggetto può accedere in rete. Sia che si trovi nel cloud sia nel data center, l’applicazione deve essere testata e protetta”. Un ulteriore aiuto potrà arrivare dalle tecnologie di riconoscimento biometrico, oggi appena all’esordio. Fra gli intervistati dell’indagine Vanson Bourne, tre su quattro si sono detti preoccupati dell’eccessivo numero di password da memorizzare per gli oggetti e i sistemi IoT delle smart home. In alternativa, il 54% opterebbe per l’autenticazione tramite impronta digitale, il 46% per il riconoscimento vocale e il 42% per la scansione dell’iride.

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ESPERIENZE

Gli investitori sono ancora pochi ma il movimento delle imprese innovative che operano nel mondo Iot è in fermento. Anche oltre i confini nazionali. Testo di Piero Aprile

Per le startup italiane una grande opportunità

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ase intelligenti, auto connesse, smart agriculture e smart city: questi gli ambiti di azione delle startup italiane che operano nell’ecosistema Internet of Things. Non sono moltissime (l’Osservatorio del Politecnico di Milano ne ha recensite una quarantina, rispetto alle 350 attive su scala globale) e non sanno attrarre neppure corposi finanziamenti (su una raccolta mondiale di oltre cinque miliardi di dollari) dagli investitori istituzionali. Anzi, tutt’altro. Solo una su sette è stata interessata da operazioni oltre il milione di euro e solo una su tre ha beneficiato di investimenti significativi. Ma il dinamismo del fenomeno è tale, secondo vari addetti ai lavori, da concedere di essere ottimisti. Abitazioni residenziali e veicoli connessi sono, in ogni caso, gli ambiti più vivaci: vi guardano realtà come la bergamasca Almadom.us, le pisane Laqy e Wriggle Solutions, la romana CarMe. In particolare, un terzo delle nuove imprese monitorate è attivo in campo smart home, a conferma della centralità acquisita dalla casa nell’ecosistema Internet of Things. Nomi sconosciuti al grande pubblico come iBebot, che sviluppa soluzioni per il monitoraggio dell’ambiente e della salute delle persone, Movibell, che spazia ad ampio raggio nelle applicazioni di gestione remota degli oggetti in ambito smart city, Sal Engineering e Melixa, specializzate in sistemi intelligenti per l’agricoltura, Smart-I e 66

ParkSmart, impegnate nell’ambito della mobilità sostenibile, concorrono a formare una “community” che cerca opportunità e spazi vitali di crescita in uno dei segmenti a maggior potenziale di tutto il mercato IoT. Non è un caso, infatti, che alcune startup abbiano deciso di andare a cercare (e trovare) fortuna fuori dai confini della Penisola. Empatica, che opera dalle sedi di Milano e Boston, è una di queste e ha saputo raccogliere due milioni di dollari negli Stati Uniti. Non mancano, come detto, segnali incoraggianti di un’accelerazione interna, come la maggiore consistenza degli investimenti indirizzati alle startup più giovani, a realtà come 1Control e Morpheos (nate entrambe nel 2015 e finanziate rispettivamente con 500mila e 800mila euro) o come Xmetrics e Over Technologies (capaci di catturare un milione di euro nel 2014). Le recenti acquisizioni, da parte di Intel e Microsoft, delle nostrane Yogitech e Solair sono un’ulteriore testimonianza che l’innovazione IoT “made in Italy” proveniente dal basso ha valore e può far breccia nel cuore delle grandi multinazionali tecnologiche. E non mancano, infine, progetti che guardano all’esportazione delle tecnologie dell’Internet of Things nostrane. È il caso di Ingdan Italia, joint venture italo-cinese che nasce grazie all’interesse di Cogobuy, colosso della componentistica elettronica. In pochi mesi la

compagnia ha raccolto oltre un migliaio di progetti relativi a soluzione hardware ed è in procinto di portare quattro startup nella Shenzen Valley, una delle aree di manufacturing più importanti al mondo in campo elettronico, per incontrare i produttori locali, aziende della distribuzione e potenziali investitori. Ingdan nasce come piattaforma per raccogliere innovazione e mettere in connessione startupper, maker e Pmi con la Cina, e ha un obiettivo ambizioso: creare il primo ecosistema hardware IoT europeo.

LA FAVOLA DI YOGITECH Dalla provincia di Pisa alla Silicon Valley. La storia di Yogitech, azienda nata nel 2000 e specializzata in sicurezza funzionale in ambito industriale (rivolti all’automotive, ai trasporti ferroviari e al settore medicale) ha conosciuto una svolta in aprile, quando è stata ufficializzata la sua acquisizione da parte di Intel, per una cifra non resa nota. La società entrerà presto a far parte dell’Internet of Things Group del colosso di Santa Clara, ma la sede e il team di lavoro resteranno in Italia. L’obiettivo a tendere è quello di sfruttare la tecnologia e il know-how di Yogitech per realizzare componenti avanzati per i sistemi di guida autonoma e assistita dei veicoli.



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