
CAMIONS N . 2
«Et tu trônes, Idole insensible à l’encens» P. Verlaine, Un Dahlia.
Questa plaquette è stata stampata nel giorno di san Pier Carlo da Cimo in cinquanta copie numerate da I a L COPIA N.
La stazione balneare di Gabicce Mare a pochi passi dal porto, i bagni Cartuccia, si presentava ai più come un autentico paradiso per famiglie. L’impressionante riproduzione in scala 1:10 del vascello pirata di John Rackham, meglio conosciuto come Calico Jack, giustiziato a Santiago de la Vega in Giamaica il 16 novembre 1720 dopo un processo che lo vide colpevole di rapina, saccheggio, ammutinamento e adulterio, attirava bande di bambini smaniose di testare l’ellittica dello scivolo giallo, che dall’albero maestro si snodava attraverso un repertorio non indifferente di curve a gomito, spigoli poco rassicuranti simulanti lo stretto passaggio fra Scilla e Cariddi, cunicoli cavernosi, bocche spalancate di serpenti marini e legioni di scheletri armati fino ai denti, in un tempo stimato, secondo la funzione meromorfa per cui la somma dei residui dei poli è uguale a zero, di sei secondi netti, centesimo più centesimo meno. I giovani bucanieri si spintonavano, urlando minacce vernacolari all’indirizzo dei meno rapidi, sulla scala a corda che portava al punto più alto del pennone, su cui si stagliava, nera come un tizzone d’inferno, la nota Jolly Roger di Calico Jack, con le due sciabole incrociate sotto il ghigno sardonico d’un teschio bendato. Accanto al vascello insanguinato un tappeto elasti-
co, due file di calciobalilla, un flipper e addirittura una cabina SEGA a cinquanta cents il gettone, con ogni probabilità uno sparatutto 2D, le cui manopole risultavano incrostate da spiraliformi guantate di sudore e gelato alla stracciatella.
Ai genitori, smaniosi di relax, i bagni Cartuccia offrivano massaggi diurni sia per lui che per lei, servizio bar in spiaggia convenzionato con l’ottanta per cento degli hòtel di Gabicce Mare, ricchi aperitivi per carnivori, vegani e pastafariani, acquagym e tornei di calcetto, animazione non stop per bambini dai 3 ai 12 anni, pizzata notturna (con bibita omaggio) + discoteca + bagno di mezzanotte per gli adolescenti in vacanza da nonna Teodora o da zi’ Mariuccia (che alle nove già si coricavano con rosario e tisana pregando che i loro nipoti scapestrati non disonorassero il buon nome della famiglia), flûte di benvenuto e un’accoglienza che neppure il Sultano del Brunei avrebbe osato sperare, con tanto di Maracaibo sparata a tutto volume dalle casse centrali, vassoi colmi di frutta esotica (anguria e melone), giovani animatori bellissimi e abbronzatissimi e sorridentissimi, e soprattutto lei, la vera attrazione dei due mondi, contesa sia dalle Marche che dalla Romagna (seppur la non si potesse considerare, date le sue credenziali, figlia d’un mortale), la prosperosa barista
senza tatuaggi Emilia Vaccari, la cui esse sibilante e il cui sorriso luminescente, insieme ai due impressionanti galleggianti pressanti sotto la maglietta bianca Fruit of the Loom, fungevano da letale combinazione ipno-sensoriale tanto per le anime di passaggio quanto per gli stagionali, si trattasse di uomini con la U maiuscola (gli unici in grado di indossare degli slip come costume da bagno, per intendersi), di cinquantenni con àncora verde sulla spalla e bonza da birra, di sbarbatelli il cui lessico era stato impastato col fior di farina dei peggiori trapper italiani, o di infanti ancora lontani dai rituali onanisti praticati con monacale disciplina dai loro fratelli maggiori. Persino le donne, indecise se invidiarla o ammirarla, non potevano fare a meno di constatare la perfezione di quelle curve, che dal petto, traslando per i fianchi, portavano al lato B, rotondo e solido come un paracarro di porfido, sorretto da due còscie monolitiche, ambrate e tornite sotto il costume Sundek color arcobaleno, disegnando una serie di circonvoluzioni da sudori freddi che neppure lo scivolo di Calico Jack avrebbe saputo ottenere. L’Emilia, come si può facilmente immaginare, era oggetto di costanti attenzioni da parte di tutti i bagnanti, i colleghi, i musicisti che suonavano il sabato sera1 1. Tra i quali, preme ricordarlo, spiccavano Ted Salamandra e i
e persino dalla fauna marina che, di tanto in tanto, si arenava sul bagnasciuga. Sovente gli aficionados, infatti, amavano ri-raccontare davanti a un bianco col Campari l’ormai nota leggenda che vide l’Emilia, in un afoso mezzogiorno d’agosto di qualche anno prima, rinfrescare i suoi pregiati glutei sulla battigia, circonfusa da una nebbia vulcanica rosso-fuoco, quand’ecco giungerle in braccio una stella marina (si trattava in realtà di una medusa non urticante, nello specifico una Cassiopea dai tentacoli color prugna, ma i cantari dei bagni Cartuccia non ritenevano degna la versione data dal bagnino, un burino ossigenato di Cattolica) poi prontamente rituffata da lei medesima in un secchiello dei Pigiamask, fra gli sguardi adoranti dei bambini e dei maschi adulti che li accompagnavano – per l’occasione tutti laureati in botanica marina con specializzazione, guardacaso, in Echinodermi Asteroidei, capaci pertanto di protrarsi in lunghe e affascinanti discussioni sull’anello periesofageo o sui pedicelli ambulacrali del povero invertebrato, che nel frattempo giaceva sul fondo del secchiello, in attesa che l’Emilia ne concedesse benignamente il ritorno a casa.
Rapaci di Lignano, la dimenticabile cover band di Tullio De Piscopo, il cui frontman, nonostante l’orecchino a croce e le sopracciglia disegnate, aveva da tempo superato le sessanta primavere.
Tra realtà e finzione, gavettoni e creme abbronzanti, questa era insomma la situazione ai Bagni Cartuccia quando la famiglia Desti-Magellini vi mise piede durante le ultime due settimane di luglio. La famiglia Desti-Magellini era, a onor di cronaca, composta da:
1. padre docente di letteratura alla Normale di Pisa, un uomo le cui basette all’Ambrose Burnside e la cui pedantissima capacità oratoria avevano reso sopportabile agli studenti del triennio quanto un eczema alle parti intime curato con un quotidiano sfregamento di panno imbevuto d’aceto e liquido per la difesa personale tipo JPX;
2. madre (oramai) casalinga, la cui bellezza era sbiadita parallelamente al suo dottorato in filologia romanza sulle lettere inedite di Giulio Cesare Cortese (lettere programmatiche in cui si constatava l’effettiva portata eroicomica della Vaiasseide) e la cui noia, amarezza e frustrazione la ricordavano, a oggi, ironicamente simile alle protagoniste del suo stesso (ex) dottorato;
3. figlio maschio diciottenne senza amici e senza fidanzata in vacanza con la famiglia a Gabicce Mare quando tutti i suoi (ex) compagni stavano festeggiando il diploma di maturità in qualche locale del-
la costa iberica in preda all’alcool e alla deboscia, postando ogni singolo bacio con lingua e passo di reggaeton su almeno tre piattaforme social, taggando contemporaneamente gli (l’) assenti (assente) con tanto di smorfie e commenti poco lusinghieri;
4. last but not least, il fiore all’occhiello della Fam. Desti-Magellini, la giovane Aurora, candida come un fiore sbocciato nel deserto in una notte di plenilunio, elegante e cortese, dedita alla lettura di autori americani omosessuali morti suicidi, e anch’ella permeata, in fondo, di vacue velleità letterarie. Di tanto in tanto (seppur si schermisse di fronte agli ingombranti peana paterni, surtout quando imbevuti di grappa da due soldi all’annuale tavolata da ventiquattro posti a sedere all’Osteria del Gambero Rozzo in Corso Sempione) autrice di modesti sonetti dal tono vagamente crepuscolare, anche se, va riconosciuto, carichi di un’ironia mordace ammiccante più a Wallace che a Gozzano.
Una famiglia irreprensibile la Desti-Magellini, dedita alla cultura e alla beneficenza, ma che sotto una coltre apparentemente inattaccabile di pudore nascondeva ben più di un’incrinatura. Stare insieme trent’anni, comprare casa, fare carriera, crescere dei figli, esige pur sempre uno scotto da pagare. Spesso si tratta della fiam-
ma della passione, che lentamente si estingue per fare posto a quella che molte coppie definiscono “stima reciproca”, ma che altro non è se non un’inappagata fame sessuale. Una fame che giace in attesa di essere ripescata, prima o poi, come la fasulla stella marina dell’Emilia, dal fondo del secchiello parentale: pena la morte, non solo dell’echinoderma, ma dell’intero ecosistema. Orbene, all’altezza cronologica della vacanza in questione, il professor Alfio Desti e la sua nobile consorte, la diafana Irene Magellini, dopo innumerevoli estati passate a visitare rovine e anfiteatri, necropoli e fortezze, templi e moschee, si ritrovarono quasi completamente d’accordo2 a recuperare il loro rapporto, decisamente sul viale del tramonto, là dove tutto era iniziato. Le ferie a Gabicce Mare dovevano servire a questo. Non più a intervallare un percorso di scoperta del mondo e a rilassarsi in vista del ritorno a casa, ma a rendere la coppia quel mondo di cui entrambi avevano bisogno per essere felici. E in effetti un antipasto 2. In realtà il pater familias non lo era affatto e ancora la rimenava con la necessità di visitare l’unico sito archeologico che gli mancava per completare la collezione, alias la leggendaria città di Petra, in Giordania, suggestiva capitale della tribù dei Nebatei, da raggiungere a dorso d’asino alla piacevole temperatura di 45 gradi centigradi lungo un interminabile canyon di arenaria, in una zona battuta sia dalle truppe dell’ISIS che da quelle, ben più efficienti, di Jabath al-Nusra.
di cozze alla tarantina, una bottiglia ghiacciata di Bianchello del Metauro, il sole che si tuffa nel mare mentre gli orecchini color blu di Prussia riflettenti l’iride accesa e ancora innamorata di quella donna meravigliosa che al dottorato aveva anteposto la famiglia, che al successo aveva preferito l’oblio, che alla voglia di vivere aveva privilegiato il desiderio di conoscenza del calvo rubicone che ora le sedeva davanti (e che aveva passato dieci minuti buoni del loro appuntamento galante a lamentarsi della bassa protezione della crema solare), avevano innescato in quest’ultimo sentimenti latenti ma ancora vivi, palpitanti, che si manifestarono in un repentino rigonfiamento dei pantaloni, quella fatidica sera di mezza estate, quando dopo aver pagato il conto, mano nella mano, si diressero verso la loro alcova, una casa di vacanze con le tende azzurrine affacciata sull’Adriatico.
Mentre camminavano, l’Alfio con la mano sinistra agganciata al fianco della moglie, l’Irene con la testa teneramente reclinata sulla spalla del marito, a nessuno dei due sovvenne che forse, in quello stesso istante, il letto in cui avrebbero consumato il loro amore potesse essere già occupato dal primogenito, anch’egli (e a chi sarebbe venuto in mente?) in dolce compagnia.
Il Federico, soprannominato affettuosamente Fofi
(o Fofò) dal pater3, non aveva mai goduto della benché minima attenzione di una donna, se non di quella della Bragozzi, la decrepita professoressa di italiano4, che una volta, di fronte alla classe, lo paragonò, menchemeno, a Giacomo Leopardi.5 Eppure, per qualche strano assioma astrale, per le
3. Senza che a quest’ultimo sorgesse il dubbio, mai una volta che fosse una, che quel nomignolo potesse vagamente ricordare l’appellativo (tipico, peraltro) dato a un barboncino nano e, del resto, se anche per un’epifanica folgorazione il pater se ne fosse accorto, si sarebbe giustificato tirando fuori dal cilindro una serie di cani da riporto tutt’altro che ignobili: il fedele Atma di Schopenhauer, per esempio, o il ben più noto Moustache, mascotte del 40° Reggimento di Fanteria di Linea francese, eroico quattrozampe stroncato da una palla di cannone spagnola durante l’assedio di Badajoz l’11 marzo 1812.
4. Inutile dire che la Bragozzi, letteralmente, venerava l’Alfio Desti, di cui aveva in casa l’opera omnia, comprensiva dell’ormai introvabile silloge Quando Carlo Dionisotti mi prese a schiaffi, una serie di confronti epistolari (tutt’altro che amichevoli) tra i due grandi filologi.
5. La Bragozzi, pensando di rendere omaggio al suo allievo prediletto, ne distrusse completamente l’autostima. La secchezza e il pallore del Federico, congiuntamente alla sua passione per l’Ellade, indussero la miope professoressa ad azzardare una similitudine che scatenò dapprima l’ilarità dei compagni, in seguito il motteggio e infine, da parte di due o tre energumeni il cui lessico era limitato a millecinquecento parole (di cui trecento derivate dalle altre milleduecento), una cattiveria che neppure la peste del 1348 seppe instillare nel cuore dei più mostri.
inafferrabili cabale del destino, nel corso di quella straordinaria vacanza a Gabicce Mare l’aspetto svagato del Fofi aveva attratto, con la potenza d’un magnete, er core de ferro dell’Emilia, i cui occhi da gatta selvatica avevano preso inconcepibilmente a sondare, giorno dopo giorno, ogni anfratto di quella creatura clownesca. L’Emilia, di retro al suo bancone agghindato di corone hawaiane et esclamazioni in stampatello6, fissava l’ignara schiena biancolatte della sua vittima, scandagliandone, come un palombaro assassino, i desideri, e prefissandosi (buon Dio!) di concupirla alla prima occasione. Occasione che si presentò, come spesso accade nelle fiabe, al gran ballo di fine anno, la megafesta analcolica presidiata da re e regine, dame e cavalieri, in cui la sventurata protagonista, scarrozzata al party da una zucca guidata da roditori, si presenta al ciambellano di corte del tutto sobria e ansante, mortificata e con una fiducia nei propri mezzi pari a zero, pronta (si fa per dire) a giocarsi tutto in un paio d’ore prima che la lancetta del grande orologio della torre scocchi la mezzanotte, costringendola a interrompere l’ultimo lento di Ed Sheeran e a fuggire senza una scarpa, col trucco slavato,
6. Fra cui spiccavano i MOJITOS A TRE EURI! e PIADINA FANTASIA PORTAMI VIA!
nell’oscurità.
In questo caso il gran galà fiabesco era il Gabicce Song Contest, vale a dire il rozzissimo karaoke organizzato dai bagni Cartuccia, che annualmente riscuoteva il plauso del reparto geriatrico della spiaggia. Le arzille signore, provenienti dalle più remote paludi della potente Repubblica di Venezia, battevano le mani al ritmo di Motocicletta, ondeggiavano scomposte sulle note di Acqua e sale e si univano in un coro da accapponare la pelle anche ai non udenti7 nell’attimo esatto in cui Ted Salamandra accennava, serafico e un po’ sbronzo, il devastante attacco neomelodico di Su di noi.
A quel punto era il caos. Chiunque si fosse trovato nel raggio di cinquanta metri dal palcoscenico poteva dirsi spacciato. Mani verminose e aggranchiate uncinavano il malcapitato, che solitamente perdeva, oltre alla dignità, tutto ciò che aveva in mano in quel momento (sigarette, cocktail, ticket per la porchetta), per essere scaraventato in una dimensione onirica spaventosamente priva di senso. Che si trattasse di trenini senza capo né coda, di trojke scoordinatissime o di flessuose sfide all’ultimo mambo, la vostra volontà da sola non sarebbe bastata a liberarvi dal sortilegio. E in ogni caso la vostra anima, ormai barattata a caro prezzo, sarebbe stata ri7. Ombrelloni 120-134, quelli incollati allo scivolo di Calico Jack.
consegnata al mondo degli under sessanta soltanto in cambio di un’altra (una sorta di catena di Sant’Antonio in cui non si fanno prigionieri).
Fu quello che successe al Fofi quando, complice un mezzo spritz, si ritrovò nel bel mezzo del macello ghermito da tre furie infernali, tre parrucchiere di Pergine Valsugana che da più di quarant’anni prenotavano lo stesso identico lettino vista mare, e che attendevano la serata karaoke come un musulmano attende la fine del Ramadan. Quelle tre erano davvero scatenate e, da almeno un anno a questa parte, avevano giurato a loro stesse che la notte del ventitré luglio, succedesse quel che succedesse, avrebbero messo a dura prova le energie dei paladini più coraggiosi.
Il Fofi, in realtà, non solo non aveva il physique du rôle del paladino, ma non era neanche il tipo da uscire la sera. I suoi genitori, però, avevano insistito talmente tanto, facendo leva addirittura (questo fu un colpo bassissimo da parte del pater) sulle conseguenze devastanti di uno «studio matto e disperatissimo» alla JL, che il Federico, pur di scrollarsi di dosso quella pesantissima etichetta, dopo ben più di un tentennamento, accettò. Munito di contanti (consegnati in due mazzette8 da venticinque euro l’una dall’Alfio, il cui sorriso soddisfatto 8. Nel caso una delle due fosse andata persa.
ricordava quello di un allibratore marsigliese a fine giornata) e di spray anti-asma, il Fofi indossò pantaloncini puliti, t-shirt in tinta con le ciabatte, e finalmente, per nulla convinto di ciò che stava per fare, varcò il cancello di casa Desti-Magellini. Unica mèta possibile, vista la sua totale diffidenza nei confronti del cosmo, il karaoke dei bagni Cartuccia. Lì, perlomeno, avrebbe scambiato due chiacchiere con i Giorgetti, forse addirittura fatto il segnapunti a un minitorneo di calciobalilla, bevuto un’acqua tonica e alle undici sarebbe stato di ritorno in tempo per i Bellissimi di Rete Quattro.
Il Fofi aveva giustappunto iniziato a deambulare masticando nervosamente una gomma all’anice quand’ecco, una volta messo piede fuori dalla contea, una strana sensazione farsi largo tra le pieghe dell’anima e prendere lentamente possesso del cuore agitato del nostro. La timidezza, la percezione gollumiana del proprio aspetto fisico, man mano che la sagoma dei bagni Cartuccia si disegnava oltre le lenti appannate dell’occhiale, venivano improvvisamente controbilanciate da bordate di adrenalina e fischi da stadio stridenti nel petto come un inno mamelico alla libertà.
Libertà.
Era forse questa la parola abusata da poeti e filosofi, quel sentimento incompreso che ora gli stava martellan-
do le tempie, facendolo sudare copiosamente sotto le ascelle? Era questa la sensazione provata da JL quando lasciò Recanati? Non lo sapeva, ma un’esaltazione nuova lo fece camminare, ciondolante, verso la folta schiera di festaioli.
Non appena Tesifone, Megera e Aletto videro quel novello Teseo avanzare verso di loro senza scudo e senza calzari alati ai piedi, presero, simultaneamente, a percuotersi il petto e a gridare in preda all’eccitazione. Tutto questo mentre il Fofi guadagnava – scostando i sudaticci ballerini con una pressione quasi impercettibile delle palme – il bancone. Del resto, anche i più trepidi sanno come un buon modo per iniziare un baccanale sia quello di osservare, bicchiere alla mano, i movimenti altrui. Così, benché quasi del tutto astemio (se si esclude il brindisi di capodanno col Rimuss), il Fofi, preso dall’euforia, ordinò menchemeno uno spritz intero tutto per lui, pensando che se i suoi lo avevano provocato, invitandolo a divertirsi sul serio, tanto valeva farlo fino in fondo.
Fu a quel punto che una voce cavernosa, rauca per le troppe sigarette, lo invitò a prestare attenzione. «Ragazzo, so che sai badare a te stesso, ma fossi in te mi guarderei le spalle».
Il Fofi, in preda all’agitazione, si girò bruscamente
e vide stagliarsi la figura snella e rugosa dello Stelvio, il capo-bagnino dei Cartuccia, un cinquantacinquenne dotato di baffo color nicotina e capelli retro-craniali, capace di appendersi supinamente alla trave in legno dell’edicola ed effettuare una serie impressionante di trazioni verticali, tali da far venire le caldane alle dame veneziane del lido, già ampiamente irrorate dal solleone e dalla menopausa.
Lo Stelvio, ammirato da tutti per il suo passato da marinero, era la guida dei bagni, sempre prodigo di consigli e di battute divertenti, mai sopra le righe, un uomo d’una volta, capace di adattarsi ai tempi che mutano come muta il vento d’Oriente. Alla vista di quell’adolescente in difficoltà, ingobbito pel troppo studio, lo Stelvio avrebbe voluto, come già aveva fatto in passato con i suoi tredici figli illegittimi, far scivolare dai passanti la fibbia del cinturone con quel movimento fluido, perfetto, quasi invisibile, tipico del frustatore da galea – per il quale mano e cinghia sono un unico, devastante, strumento di morte – per poi calare el cinturòn sulla schiena Ikea del nostro, spezzandola definitivamente. Invece no.
Lo Stelvio, dall’alto del suo fisico antico colmo d’esperienza, pensò bene che quel ragazzo aveva bisogno di liberarsi, certo, ma anche che quelle tre sanguisu-
ghe non lo avrebbero aiutato in questo senso. Anzi, lo avrebbero (con tutto il rispetto per l’astinenza del Federico) ridotto a un celenterato. Solo lo Stelvio era in grado, da solo, di reggere il confronto simultaneo con la Wanda, la Nara e la Gianna. Un colpo di bacino di là, una lingua biforcuta di qua, un ditino puzzone di su, una pacca veemente di giù, e le avrebbe sistemate tutte e tre nella medesima notte senza luna (non senza fatica, va detto), ma il Fofi no, era ancora troppo imberbe, troppo inesperto, troppo fuori luogo per soddisfare le maliarde, che avevano bisogno d’un uomo (e che uomo!), mica d’un ragazzo.
«Mi perdoni, capo-bagnino, ma non capisco» esalò il giovine, cercando ulteriore sicurezza nello spritz, aspirando con esagerata ostinazione dalla cannuccia fluorescente. «Perché dovrei guardarmi le spalle?». Percepì un fiotto caldo imporporargli le guance, mentre lo Stelvio inarcava il sopracciglio in un modo che al Fofi non poté non ricordare lo Sean Connery dei primi Bond, cosa che lo mise, se possibile, ancor più in soggezione.
«Intendo dire, figliolo» cominciò il maestro, abbrustolendo sulla fiamma la trentottesima Marlboro della giornata, «che quelle tre ti hanno notato e, conoscendole, posso dirti che non molleranno l’osso fino a quando non lo avranno rosicchiato un centimetro alla volta.
Non so se mi spiego».
Invitato dalla teatralissima inarcatura del mento a fossetta dello Stelvio, il Fofi ruotò il capo e vide, dietro di sé, la Wanda, la Nara e la Gianna vibrare al ritmo di Maniac, dimenando anche e deretano in un inquietante rituale tribale di corteggiamento. «Mio Dio» sgomentò il Fofi, ingollando un altro sorso dalla coppa, e percependo, quasi contemporaneamente, un movimento sospetto all’interno delle brache da collegiale. A quel punto, stando ai referti medici, il Fofi si sarebbe fatto incatenare in un sabba a quattro, spupazzato ora da una ora dall’altra fattucchiera, in una girandola di cori e abbracci e palpatine (apparentemente) innocenti, mentre il tasso alcolico del nostro impennava pericolosamente verso gli zero punto quattro grammi per litro (che per il Fofi equivaleva a un mezzo coma etilico), in una corrida inversamente proporzionale al grado d’inibizione, ormai giunto, va detto, a livelli bassissimi. E infatti, a un’iniziale riduzione del coordinamento motorio, manifestata attraverso il celebre passo del gallo di Mick Jagger, presero a comparire, uno dopo l’altro, i segni dell’incantagione procurata dalle feroci Erinni. Nell’ordine: i. compromissione della facoltà di giudizio e di autocontrollo, palesatasi nel valutare la Gianna una fo-
tocopia sputata di Anna Magnani e nel ritenere se stesso un Clark Gable postmoderno (e nel riferire tutto questo alla Gianna un minuto dopo averla conosciuta, mentre le di lei mani, rovistanti il petto ossuto e completamente glabro del paladino, lo invitavano a fare lo stesso col suo, tutt’altro che ossuto e, ehm, glabro, di petto);
ii. cambiamenti repentini dell’umore, intuibili dall’esagerata commozione mostrata dinnanzi a una coccinella precipitata nel vin bianco della Nara (cui si accompagnava il tentativo di restituirla alla vita soffiando copiosamente sulle alette intirizzite) e dall’inneggiare, un secondo dopo, alla lapidazione collettiva del folle che aveva richiesto ai Rapaci di Lignano la versione pop di Bella ciao;
iii. alterazione della capacità di reazione agli stimoli sonori e luminosi, evidente nel momento in cui il Fofi si mise ad abbracciare il woofer sotto al palco, fissando con occhi vitrei e impassibili il violentissimo strobo psichedelico da millecinquecento Watt amputargli, in un flash satorico, almeno cinque diottrie delle sei rimaste;
iv. comportamenti socialmente inadeguati e linguaggio mal articolato, che lo videro protagonista, spinto
sul palco da una forza che non credeva di avere, di un siparietto divertentissimo con la Guadalupe Menestrelli (terza corista, in ordine d’importanza, dei Rapaci), costretta suo malgrado a cedere il microfono e ad assistere, in qualità di accompagnatrice vocale, a una terrificante esibizione biascicata di Peter Pan di Enrico Ruggeri;
v. altri sintomi procurati dalla brodaglia magica furono, stando al rapporto ciclostilato dal Cervesi di Cattolica, difficoltà marcata a stare in piedi, stato di inerzia generale, ipotermia, vomito, allucinazioni, cessazione di ogni attività cerebrale, vomito, incontinenza, vomito e, infine, un terrificante stato di morte apparente.
Fu l’Emilia Vaccari, sempiterna luce del cielo, a recuperarlo, senz’occhiali, coi vestiti a brandelli e l’alito pestilenziale, da sotto il lettino dei Gerenzano, sepolto sotto un cumulo di sabbia e gusci di conchiglia. Nonostante l’apparenza lo indicasse come una gigantesca alga azzurrognola, l’Emilia, che aveva seguito con una certa trepidazione le mille prove cui era stato sottoposto, riconobbe in quella massa informe e maleodorante il povero Federico, brutalmente spupazzato dalle meschine di Pergine Valsugana, stoppate per l’appunto dall’intervento provvidenziale dello Stelvio, che si sacrificò lì,
sul lettino dei Gerenzano, pur di permettere al Fofi di inalare quelle poche boccate d’aria che ne avrebbero consentito il coma e non il decesso. L’Emilia, recuperatolo con l’aiuto di due animatori, lo fece portare al consultorio medico, dove, tra l’imbarazzo generale, venne effettivamente constatato che il Fofi non raggiungeva la soglia minima di tasso alcolico per essere considerato ubriaco. Droghe? Macché. Contagio? Impossibile a quella velocità.
L’Emilia, visto in quel corpo bianco come un lenzuolo un segno ulteriore della virtù del paladino, pura e incontaminata, sentì palpitare sotto la sua sesta abbondante l’organo che meno di ogni altro le era stato chiesto, nel corso degli anni, di mettere in mostra. E invece lì, su quel lettino d’ospedale, ecco ciò che aveva sempre cercato e voluto. Ma... e se lui l’avesse respinta? Se non fosse stato il suo tipo? Se il Fofi fosse stato già, mio Dio!, impegnato? I dubbi svanirono nell’esatto istante in cui il suo amato riaprì gli occhi. Egli la vide, dapprima, come una figura eterea, angelica, ammantata di luce; poi, stringendo le palpebre, come la donna formosa e solida qual era veramente.
«Ma tu... chi sei?» domandò estasiato il Federico, ancora annebbiato dal mezzo spritz e in preda a un’eccitazione pregressa.
«Sono quella che ti ha trovato. Sono l’Emilia» disse lei, con una esse vellutata di marzapane al mentolo. «Come ti senti?».
«Io... bene... ma tu... perché... cosa...».
L’Emilia gli raccontò tutto, e al Fofi, seppur non credesse alle proprie orecchie, venne il tremendo rammarico di non aver approfittato delle tre arpie, ma di aver ceduto sul più bello. Questo sì, gli rodeva. Ma adesso, in fondo, non era stato ricompensato? L’Emilia, proprio lei, il sogno erotico di ogni romagnolo, era seduta al suo capezzale. «Vuoi che ti riporti a casa? O preferisci rimanere qui, in ospedale? Posso avvisare i tuoi e dirgli...».
«Riportami tu» disse il Fofi con la sicurezza del soldato che ha dato tutto alla patria e attende di essere finalmente congedato. «Cioè, solo se hai voglia...».
La Mini Cooper dell’Emilia, con quell’Arbre Magique al lime e i tappetini color panna, accolse la sagoma denutrita del nostro, ancora lievemente provata dai bagordi di qualche ora prima. In macchina parlarono di molto, non di tutto, ma di quelle due o tre questioni che ti fanno capire di essere in perfetta in sintonia con l’altro: il Fofi ascoltava, incredulo di ciò che stava accadendo. Aveva balbettato qualcosa a proposito di sua sorella, che al momento si trovava a Gabicce Monte a 24
casa di un’amica, dei suoi genitori, che avevano insistito tanto perché uscisse, e delle sue giornate in spiaggia, tra una partita a racchettoni e una lettura dell’Espresso. Ma soprattutto, aveva confessato all’Emilia di sentirsi inadeguato, fuori dal mondo, con le sue passioni che non condivideva con nessuno e la solitudine, che lentamente gli smangiucchiava l’anima come un roditore paziente e mai sazio. L’Emilia, dal canto suo, elencò al Fofi la lista, non proprio brevissima, degli uomini con cui aveva vissuto qualcosa d’importante, e spiegò con un certo livore come ognuno di essi si fosse rivelato, infine, una sorprendente testa di cazzo. Anche lei, come il Fofi, anelava ad essere riconosciuta per ciò che aveva dentro ma, ahimè, le sue curve l’avevano condannata ad essere bramata, desiderata, concupita, mai e poi mai amata. Mentre l’Emilia confessava tutto ciò, il Fofi, senza farsi sgamare, teneva gli occhi ben incollati sullo spacco vertiginoso della minigonna, sospirando di terrore e piacere alla vista di quei turgidi beni carnali. Giunti alla proprietà Desti-Magellini, l’Emilia tirò il freno mano e conficcò i suoi occhi bleu in quelli da triglia del Federico, ormai definitivamente ripresosi – grazianche alla sua costituzione molluscoidea – dall’orrenda mescita propinatagli dalle tre di Pergine. Restarono in silenzio qualche secondo, poi, dato che il Fofi non si
peritava di aprir bocca o di fare il benché minimo passo verso l’Emilia, fu lei a proporgli di accompagnarlo e rimboccargli le coperte.
Quando l’Alfio e l’Irene, ormai troppo coinvolti l’uno dall’altra per sottomettere la ragione al talento, rotolarono avvinghiati e slinguazzanti nel soggiorno di casa, l’Irene, mentre il marito trafficava con i ganci del reggiseno, ridendo lo invitò a smettere di grufolare, metti anche che ci fosse stato qualcuno in casa. L’Alfio, che stava arpionando il collo della consorte e infilando le mani da filologo in luoghi impensabili ai minori di tredici anni, disse qualcosa come «Nn sto gr-f-l-aa-nd» e l’Irene, sempre ridendo, «Se non sei tu, allora chi è?». Come una mattonella scagliata da un cavalcavia, la domanda dell’Irene rimase sospesa nell’aria colma di umori e nebula salivare per qualche istante, prima di disintegrare definitivamente il vetro anteriore del dubbio. Smisero di armeggiare con patte e cinture e arrampicarono, come due ninja, le scale che portavano alla camera padronale. Ora sì, i grugniti da maiale selvatico si facevano più veementi. L’Alfio, forse più per impressionare la moglie, o per l’adrenalina che ancora gli scorreva nelle mutande, afferrò una paletta di plastica – di quelle che il Fofi usava, di tanto in tanto, per edificare straordinari modellini sabbiosi del Taj Mahal o del Pa-
lazzo d’Inverno – e socchiuse la porta.
Pensa, lettore, ciò che dovettero provare i coniugi alla vista del corpo statuario dell’Emilia, girata di spalle, che gravava su quello disteso del Fofi, il quale abbranchiava il seno marmoreo dell’amazzone, mentre col pube ne accompagnava ritmicamente il movimento selvaggio.
Il Fofi, occhi semichiusi e fronte perlacea, non sembrava intimidito, tutt’altro. Quando l’Emilia si staccò e con le labbra ghermì la virilità del nostro, i cari genitori videro, in fondo, quanto il figliol prodigo non somigliasse per nulla al padre, se non per quell’amore viscerale di entrambi verso la poesia. Ma la vera poesia, a ‘sto giro, era quella creatura perfetta che armeggiava a due mani col brando (e che brando!) del paladino, a cui lo spritz aveva prima tolto, e poi ridato, linfa vitale per almeno due generazioni.
L’Alfio e l’Irene stettero così, muti e incestuosi, a osservare la destrezza con cui il paggio stava, un fendente dopo l’altro, mutando il suo destino da semplice predestinato in quello di cavaliere scelto. Risocchiusero la porta, scesero le scale e andarono a cercarsi un albergo che fosse convenzionato coi bagni Cartuccia, dove, ancora inebetiti dalla visione, optarono per ubriacarsi al bancone (prima) e giacere insieme nella vasca idro-
massaggio (poi) della stanza superlusso, unificati dalla passione, dall’incredulità e dalla sbronza. Quando le vacanze terminarono, nel giro di un paio di mesi, il Fofi non sembrava più lo stesso. Vagava per le calle cittadine con una Moto Guzzi V7 III Carbon, schiodando tra i vicoli più impervi, sgasando in faccia alle vecchiette e ruttando gli ettolitri di birra consumati in mattinata al Pub del Pescatore; si era fatto tatuare su tutta la schiena, ingrossata dalle due ore di palestra quotidiane, la Zattera della Medusa di Géricault, e portava un orecchino ad anello e una barba nostrana da carrettiere che lo faceva, come dire, un po’ più maturo rispetto a qualche tempo prima. All’università aveva tutti voti ottimi e le ragazze facevano a gara per farsi un giro sulla sua moto, gli amici avevano preso a chiamarlo non solo per farsi prestare soldi e sapienza, ma per invitarlo alle feste e alle uscite di gruppo. Il pater, dopo i primi richiami, aveva perso ogni speranza e lasciava che il figlio si divertisse, purché, questo lo ripeteva sempre al Fofi9 prima di coricarsi, responsabilmente. L’Alfio e l’Irene ripresero a viaggiare e la loro ulti-
9. Che lo ascoltava munito di cuffie bluetooth in una stanza aromatizzata da un vago sentore di lavanda, con una serie di volumi (da Jukebox all’idrogeno di Allen Ginsberg ai Poeti del Duecento di Gianfranco Contini) sparpagliati sul letto (testimone, quest’ultimo, delle inenarrabili prodezze del nostro).
ma vacanza a Petra (regalo d’anniversario dell’Irene) li vide amoreggiare in una tenda nel deserto, mentre fuori imperversava una tempesta di sabbia epocale, muta testimone del ritrovato ardore della coppia.
L’Aurora continuava a studiare e a scrivere, infastidita dall’atteggiamento del fratello, sempre più volgare e chiassoso, che ora, più che a un Giacomo Leopardi, somigliava a un Antonio Ranieri sotto MDMA, ma del resto, si diceva, passerà. E l’Emilia? Be’, l’Emilia trascorre ogni estate barricata nel suo chioschetto, venerata dagli ospiti e intenta a respingere le avances dei Proci di Mogliano Veneto e di Tavullia, disposta ad attendere l’arrivo del suo Odisseo borchiato, per passare insieme, tra un karaoke e un bagno al chiaro di luna, le tanto agognate vacanze ignoranti.