Traghetto mangia merda

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IL TRAGHETTO MANGIAMERDA

La città e la psicosi securitaria

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la redazione non ha né un capo né una coda, solo interiora: andrea masotti, piloro; michele barbolini, duodeno; manuel gozzi, lingua; riccardo artoni, milza; enrico mazzardi, ileo; riccardo costi, melena; valeria bigardi, poplite; camilla pepe, mignolo; carlo pigozzi, pleura; filippo milani, prepuzio; ivan favalezza, monte di venere; spingitori di redattori colon, triangolo con occhio, bianconiglio, malleolo, cate, claudio antoganista, plv. Biko macchiaioli marco della fonte – pp. 22, 23 e traghettino nicola maria salerno – pp. 33, 40, 43 ivan favalezza – progetto grafico e impaginazione i versi in quarta di copertina sono di Antonio Delfini contatti www.iltraghettomangiamerda.com www.iltraghettomangiamerda.blogspot.com traghettomangiamerda@yahoo.it

indice 04 timorato editoriale 06 donna summer supercop 10 il negro di quartiere andrea masotti 12 cartolina al sindaco di bologna ermanno cavazzoni 14 risoluzione scientifica delle problematiche concernenti criminalità e sicurezza in una comunità sociale chiusa carlo pigozzi 16 ognuno di noi lato B: appunti per un inizio jonathan zenti 20 regolamento per la fognatura delle case 22 ecate andrea masotti 24 insicuri lacerti riccardo artoni 28 la signorina endorfina ha il piacere di scialacquare la sua apotropaica cucina… apotropaica cucina marta menditti 30 abqa enrico mazzardi 34 una ronda non fa primavera 38 scampolo sociologico luca zambelli 40 distanze paolo la valle 42 di strade filippo milani 44 fuck the curfew

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B

Timorato editoriale —4—

envenuti. Riponete il randello un secondo, impugnatelo di nuovo e prendete posto, prego. Perché siete qui? Che accade? Adesso vi si spiega. Accade che La Città sta subendo una mutazione strutturale e architettonica nuova e antica, dettata da ragioni non ergonomiche, non urbanistiche, non funzionali al comodo abitarci. Due facce di una stessa medaglia determinano questa mutazione: la paura e la volontà di controllo. Lentamente, subdolamente accade, che dove erano fossati e ponti levatoi — chiusura di parchi e cancellazione di spazi di socialità, dove feritoie e mura merlate — tagli di panchine e traiettorie di telecamere, le milizie cortigiane e inquisitorie sono tornate in guisa di camionette militari, poliziotti di quartiere, ronde notturne. L’equazione è semplice: più paura, più bisogno di sicurezza. Più bisogno di sicurezza, più richiesta di controllo. Più controllo, più potere (di chi controlla) e meno libertà (del controllato, ovverosia di noi tutti, anche tu e tu e probabilmente anche tu). Due bivi si pongono a monte e a valle di questa equazione (terza e ultima parentesi di sostegno: due e due, fanno quattro strade). Il primo apre la questione, preludendo il primo termine della catena: la paura, da che viene? Dall’effettiva crescente pericolosità del reale, saturo di clandestiniaccattoni puttane, ballerini di tip tap e stupratori free lance — o piuttosto da una propaganda (mediatica e politica, strumentale e apposita) volta a creare paura e avversione nei confronti delle succitate categorie e del diverso in genere?

A questo interessantissimo quesito Mr. Traghetto Mangiamerda tenta di rispondere -interrompendo per un momento la conta dei suoi piedi — con questo monografico, il primo, nei modi che gli sono propri: agricoli. Senza voler anticipare nulla, si può giusto far notare che la prima possibilità - se si accettano i termini dell’equazione - costituirebbe una coincidenza quantomeno curiosa, e chi è al potere fortunello lui. Nessuna parentesi taglierà altre fettine per chiarire ciò. Il bivio che chiude la questione, blindatissimi lettori, è diverso, ci riconduce all’interrogativo di partenza, posto e non risolto. E si esce dalla teoria, cominciamo a sporcarci le mani. La domanda è: che fare? Anche qui, immotivatamente gianici, vediamo due grossolane strade: si possono combattere i motivi della paura, o si può combattere la paura. In altre parole, si può fare come sta facendo questo governo - con i vari sindaci sceriffi legaioli a fargli da braccio, i mass media maggiori a dargli volto e voce, l’opposizione comodo sedere - e offrire facili seduttive soluzioni come la militarizzazione della vita e l’individuazione di un nemico da distruggere con “cattiveria”, con fiumi di ordinanze che spesso morbosamente intrecciano sicurezza e “decoro”. Oppure no: si è deciso che esiste una questione sicurezza, supini al becero sofisma che la vuole “né di destra né di sinistra”. Ebbene, Sua Eminenza Mangiamerda ha deciso che occorre scardinare questo gioco, rifiutando di netto il “discorso sicurezza”, rifiutandone le logiche, i presupposti, la semantica, la necessità.

Non esiste il problema della sicurezza: questa è la linea d’azione per guarire una società malata di paura. Ebbene, ostrichette mie, sia questo giornaletto la prima pillola: numero gonfio come la faccia di un negro dopo un controllo parmigiano, zeppo di raccontini, nonsenso contundente, sospetti, saggi brevi, interviste, rancori, collaborazioni illustri e un vincitore, ecco a voi il quarto figlio di Lady Mangiamerda. Siete spacciati. Postilla: Questo monografico poteva uscire quasi due anni fa. Gli articoli erano tutti pronti, le rotative fibrillavano, i nostri inenarrabili muscoli stavano tesi, pronti allo scatto, le groupies cominciavano a bagnarsi. Ma. Poteri forti, in astuta guisa di vocazione redazionale alla letargia e all'inesistenza, ci hanno impedito di fare il passo. Non che tutto ciò vi debba importare, poveri voi, solo ci pare simpatico rilevare come -vedrete- nulla qua dentro sia invecchiato. È rassicurante: la psicosi securitaria non ha smesso di esistere, anzi, più pimpante di prima chiude le nostre città e i nostri paesini in una mortifera stasi, viviamo in compostiere e ci va bene così. Ecco, qui ci starebbe un agile gioco di parole tra postilla, postumo, posteriori e postribolo, un calembour che da questo richiamo alla biodegradazione e allo sterco rilanci al grande ritorno del Traghetto Mangiamerda, un mot d'esprit che sappia far sorridere il lettore e allo stesso tempo accendergli una smodata voglia di averne ancora. Ci starebbe da dio.

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Donna Summer Supercop di redazione tutta

curezza lesivo delle libertà personali e ampliato la definizione di “terrorismo” nel 2001 inserendo il reato di “eversione dell’ordine democratico”. In una società democratica è obbligatorio essere democratici? E chi decide se il mio modo di pensare e agire è congruamente democratico? E se non mi accontento di questa democrazia, se voglio una democrazia dove sia la gente a decidere per davvero, senza politici, sono eversivo?

P

ia intervista su sicurezza e società a Stefano Boni, docente di antropologia presso la facoltà di antropologia di Bologna. Uno che ne sa a pacchi, dicono.

Dov’era martedì scorso tra le 15 e le 17? Sinceramente ho una pessima memoria e non me lo ricordo. Sono convinto, però, che se i poteri giudiziari decidono di volermi in un posto, potrebbero dimostrare che ero proprio lì.

Quale rapporto c’è tra criminalità reale e pericolo percepito? Chi gira un po’ per il mondo dovrebbe rendersi conto che l’Italia è un paese relativamente sicuro (e con tassi di “crimini” tendenzialmente in diminuzione). Faccio ricerca in Venezuela dove c’è un reale problema di sicurezza (una cinquantina di morti ammazzati, solo nella capitale, ogni fine settimana) e se ne parla paradossalmente meno rispetto a qui. La realtà è che l’Italia è una società ai limiti della paranoia: i casi di violenza, in realtà rari, vengono propagandati, amplificati, drammatizzati fino al punto che la gente si immagina il pericolo ovunque, in ogni faccia che incontra. In che misura secondo lei i mass media sono responsabili? I media sono uno strumento, i responsabili sono chi li gestisce. Un manipolo di editori, giornalisti, finanzieri, professionisti dello schermo e politici decidono quali avvenimenti diventano notizia; quali sono le parole da usare nel comunicarla (e le parole sono importanti); il taglio (quasi mai riflessioni e analisi per capire ma cronaca e sensazionalismo per mettere paura). Nell’apparente libertà di espressione sono gli stessi giornalisti a censurarsi per far carriera o, di questi tempi, salvare lo stipendiuccio. Così, i messaggi mediatici si assomigliano sempre più e sono spesso finalizzati ad alimentare il fuoco, intimo e recondito, dell’ossessione e del terrore. In questo contesto emergono, sempre più, individui alienati, incapaci di rapportarsi con altri esseri umani. —6—

É lecito supporre che a chi è al potere faccia comodo soffiare sul fuoco della paura, per spingere il cittadino ad invocare maggior controllo? Ovvio! Questa strategia ha i suoi precedenti: Piazza Fontana,

Piazza della Loggia, Questura di Milano, Stazione di Bologna, Italicus, rapido 904: stragi di Stato per reprimere i fermenti di contestazione. Oggi c’è meno fermento ma i diligenti agenti delle forze repressive che paghiamo (legislatori, giudici, forze del (dis)ordine) hanno recentemente passato un pacchetto si-

Un ministro dell’interno che parla di “cattiveria”. Preti lefreviani che sfilano a braccio teso in testa a cortei di Forza Nuova. Spedizioni punitive e roghi nei campi nomadi. Ronde padane e sindaci fieri del loro razzismo. Medici spinti alla delazione... Che diamine sta succedendo? É finito per il Belpaese il tempo delle mele? Il razzismo è un vecchio vizio umano, particolarmente sviluppato tra le nazioni europee, che hanno avuto negli ultimi secoli la tecnologia per poterlo imporre con zelo. Ricordiamoci le stragi per evangelizzare, il commercio di esseri umani, forme di segregazione di neri (Sudafrica) o ebrei (ghetti, campi di sterminio), la schiavitù, il colonialismo, i genocidi, l’imposizione di lavori forzati in giro per il mondo per far marciare le industrie occidentali. Da qualche anno la situazione è peggiorata: si è consolidato un pensiero e una società razzista nel suo complesso. In questo contesto, come è ovvio, si moltiplica la distorsione massmediatica che identifica gli immigrati indiscriminatamente con i criminali e, di conseguenza, i casi di violenza gratuita contro lo “straniero”. E in alcune zone, come è successo prima di altri totalitarismi, si comincia a colpire chiunque sia diverso: chi non ha la pelle sufficientemente bianca, ma anche omosessuali, capelloni, barboni, frikkettoni. Attenzione traghettatori di merda potreste essere i prossimi a finire sotto i colpi del rinascente fascismo, e i vostri lettori i seguenti. —7—


Non crede che se abitassimo a Gotham City tutti ci sentiremmo più tranquilli? Non avevo pensato a questa soluzione: assoldiamo Batman o, in alternativa, quei poliziotti, quelli veri, con i coglioni, come quello che ha sparato a Carlo Giuliani o quel valoroso che ha sedato una rissa dall’altra parte dell’autostrada sparando sul gruppo. Un po’ di forza per garantire la tranquillità, fino alla morte. Affidiamoci agli eroi!!!! L’individuazione di un nemico interno alla società è un processo inevitabile? Auspicabile? Utile, per contrasto, ad unire il resto della società? Oppure, sospettiamo, non sia forse una dinamica deliberata e strumentale, dalle conseguenze a dir poco nefaste? Risponda con calma, preferibilmente sorseggiando un infuso di erbe madri. C’è chi ha interesse ad occultare le reali ragioni del malessere e indicarne altre, che non c’entrano niente, ma su cui la popolazione può comodamente sfogare la propria rabbia, tanto si tratta di emarginati. L’individuazione di un nemico interno alla società (l’untore, le streghe, gli ebrei, il terrone, l’omosessuale, i rumeni, l’adultera, i terroristi, etc.) è solo un illusorio tentativo di eliminare la differenza da parte dei settori più potenti, arroganti, repressi e violenti che sperano di risolvere così i propri problemi. La differenza c’è sempre stata e sempre ci sarà: ogni circuito culturale è necessariamente diversificato al proprio interno. In situazioni in cui l’umanità pensa e interagisce senza eccessive paranoie, spesso scopre che conversare, mangiare, bere e divertirsi (nei vari modi che ci risultano piacevoli) con qualcuno che è portatore di storie, gusti, pensieri e modalità che si discostano da quelle con cui siamo abituati ad interagire, può giovare all’intelligenza. Almeno non si passa l’ennesima serata a vedere la partita, gli stucchevoli dibattiti televisivi, spogliarelli e altre stantie porcherie nostrane. Italiano, mi ascolti? Marco Aime nel suo libro Eccessi di culture afferma che “le culture non sono pietre” —8—

riferendosi al rischio di etichettare gli stranieri semplicemente come portatori di un’altra cultura e non come persone con una propria individualità. I quali finiscono, paradossalmente pure in contesti dove maggiore sarebbe la loro tutela - pensi ai fanciulli a scuola, protetti dalla capace ala dei mediatori culturali - col trovarsi incastrati, secondo una strana forma di pregiudizio, a recitare la propria parte di “cinese”, “peruviano”, ecc. Lei che ne pensa? Esiste un rischio simile? Non è un rischio, è la normale prassi di interazione malata e discriminatoria. Spesso non ci rapportiamo con un singolo, ma con una persona immaginaria, frutto della nostra classificazione stereotipata e semplicistica (un africano, uno con il SUV, una donna islamica, uno studente medio, etc.). Dovremmo imparare a interagire con le soggettività, senza pretendere di aver già capito chi abbiamo davanti solo perché li consideriamo appartenenti ad una classe sociale. Staremo meglio noi, e loro, e il rapporto che condividiamo. Cosa risponde a chi la accusa di botanica? Di imparare l’italiano o, perlomeno, l’uso del dizionario. Può descrivere una situazione in cui lo straniero o il diverso era lei? Trova la domanda arguta? Ben posta? Abbastanza diretta? Fuori luogo? Siamo degli insicuri. Oh redattori del Traghetto Mangiamerda, raramente in vita mia ho trovato siffatti e siprofondi stimoli dialogici! Vivi e sinceri complimenti per la domanda, che più che un quesito è un’intuizione audace e perspicace! (Basta così per rassicurarvi o volete un premio letterario?) Sono straniero in continuazione, sia altrove (immaginatevi vivere un par d’anni come unico bianco in posti dell’Africa dove non ce ne erano attorno per decine di chilometri) ma anche qui, di fronte a buona parte della cittadinanza italica perbenista. Una volta mi hanno perfino preso per zingaro (avevo commesso il crimine grave di dormire in un camper un po’ sfasciato). Per diventare straniero basta spostarsi un po’ dai circuiti in cui ci sentiamo a casa. Esperienza

consigliata, da assumere in dosi regolari, perlomeno mensilmente, e senza intenzioni turistiche o fotografiche ma ritagliandosi il tempo per conversare, da persona a persona, con l’altro che ci sta davanti. Si consiglia di allontanarsi sempre più dai comodi e rassicuranti spazi in cui tutti ci assomigliano ed esplorare. Buon antidoto al pregiudizio. Effetti collaterali: un senso di estraniamento quando si ritorna a casetta. Ci spieghi perché non dobbiamo avere paura. O perché dobbiamo averne. Non dobbiamo avere paure indotte o immaginifiche, sono semplicemente un freno alla nostra felicità e libertà. Le uniche paure che hanno senso sono quelle che ci difendono da un pericolo reale. Si può distinguere tra le une e le altre affidandosi alla nostra esperienza e spegnendo quella scatola diabolica che ci fa confondere le une con le altre. Qualche domanda da tenere a mente per orientarsi: ci tratta male il datore di lavoro o l’immigrato? Il pericolo è al-Qaeda o il graduale inquinamento di ogni spazio vitale che provoca cambiamenti climatici, cancro, aria irrespirabile? Chi minaccia la nostra partecipazione alla vita democratica: le scritte sui muri o i politici?

Me piace… Mi ricordo da ragazzino... Ma perché me lo chiede? Vogliono metterla in prigione o l’ha chiesta il papa tedesco (ex nazi) come concubina? Perché mai non ha rifiutato di farsi intervistare dal Traghetto Mangiamerda? Perché ogni spazio per invitare a riflettere va usato. Non vedo merda nel Traghetto ma tutto intorno a noi. Il Traghetto, anzi, spero ci porti da qualche parte dove ci sia un po’ meno puzzo.

Un suggerimento per superare questa empasse sociale, che non contempli l’uso delle bombe al fosforo? Ci dia la soluzione. Guardandomi in giro faccio difficoltà a rispondere. Assestarsi sulle montagne? Prepararsi ad emigrare? Sabotare le nocività che ci opprimono? Partecipare al comitato cittadino contro l’ennesimo scempio sotto casa tua? Sicuramente la soluzione non è nel voto, ormai dovremmo averlo capito, ma nel consolidamento di una capacità di organizzarsi e di riflettere collettiva, di cui oggi si vedono scarsi segni. Mentre siamo ancora qui, parzialmente liberi, certamente vale la pena usare ogni spazio per ricostituire collegamenti tra persone pensanti e sovvertire ogni menzogna, nei modi che ci sono ancora disponibili, usando come arma politica la nostra vita quotidiana. Adora Donna Summer? A me fa impazzire in quel live del giugno ‘85 a Tolosa in Brasile. —9—


Il negro di quartiere di andrea masotti

C'

è un negro nel mio quartiere. Tutte le mattine e tutte le sere questo negro passa in strada, sotto la mia finestra. Io mi affaccio e gli sputo in testa. A volte lo prendo, a volte no. Lui avrà pure il cazzo più lungo, se è vero quello che dicono, ma io ce l'ho più duro. E glielo dimostro così. Il mio dirimpettaio un giorno mi nota, incrociamo lo sguardo e vedo che mi sorride. Il negro è appena passato sotto il mio balcone, il mio sputo l'ha sfiorato di poco, adesso sta passando sotto il balcone del vicino, lo vedo sporgersi, prendere la mira e sputare: lo prende in pieno, in mezzo ai riccioli negri. Mi guarda e mi sorride ancora. Gli sorrido anch'io. Il giorno dopo sul balcone insieme a lui c'è sua moglie. É un peperino sempre in vena di scherzi, mi guarda e mi saluta, è visibilmente su di giri. Quando passa il negro, appena dopo il mio sputo arriva il suo. Lo colpisce, è raggiante, si gira verso di me e mi fa l'occhiolino. Subito dopo sputa ancora, insieme a suo marito, tutti e due i colpi vanno a segno. Carina, la moglie. Il negro è regolare, tutti i giorni alle 7,20 di mattina e alle 19,30 di sera, probabilmente va al lavoro e torna. Il peperino deve aver sparso la voce, nel frattempo: con l'andare dei giorni le finestre e i balconi della via si riempiono di mezzibusti, alcuni sono solamente curiosi, la maggior parte non esita a cimentarsi. In poco tempo la testa del negro diventa un appuntamento fisso per l'intero quartiere, una specie di piccola festa quotidiana, intere famiglie si affacciano a sputare, al risveglio e prima di cena, bambini, coppiette e pensionati. E tutti, a quanto pare, sono più felici. A me invece accade il contrario: mi accorgo che poco a poco esco a sputare con meno gusto, con distrazione. Forse è che il mio piccolo intimo rituale è diventato una cosa pubblica, mi è stato portato via. Ma poi capisco che non è per questo, mi piace vedere via XV Settembre rinata e non ci tengo a prendermi il merito.

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No, a chi voglio darla a bere, la colpa è tutta del peperino. La moglie del vicino. Da un po’ di tempo ormai esco alla finestra o sul balcone solo per intercettare un suo sguardo, per rispondere a un suo sorriso, per cogliere un altro occhiolino. Sputo, certo, ma se un segnale non arriva, dal balcone vicino, rientro sempre con un senso di vuoto in pancia. Poi una mattina cambia tutto. Vado alla finestra presto, il negro deve ancora passare, mi volto: lei è già lì. Sola. Per un po’ rimango incantato a guardarla, le guardo la gonna a fiori e il seno prosperoso, finché anche lei alza gli occhi e mi guarda. Due occhi che sento un brivido dal cervelletto ai talloni. Mi riscuoto, rientro e vado al balcone. Sono sempre stato un uomo risoluto, deciso, quando c'è da agire agisco. Esco, lei è ancora lì. Faccio per parlarle, mi fa un cenno con la testa: giù in strada sta arrivando il negro. Dalle finestre intorno cominciano ad uscire teste, i primi sputi disegnano traiettorie arcuate nell'aria della via, da una parte e dall'altra della strada piovono sulla testa del negro con grazia di rondine, mi volto di nuovo. Mi sta fissando, adesso, negli occhi di lei c'è un fuoco. Ho capito cosa vuoi, peperino. Metto le mani sulla ringhiera e mi sporgo, si sporge anche lei, tutti ci possono vedere ma non ce ne curiamo, cerco di controllare l'emozione, il negro è esattamente tra il mio balcone e il suo. Sputiamo, insieme. Una volta, due volte, tre. Tutti gli sputi colpiscono il negro, uno lo prende su una spalla. Torniamo a fissarci in silenzio, riprendiamo fiato. Sorridiamo. Da quel giorno, tutte le mattine e tutte le sere vado al balcone. Passa il negro, già ricoperto di saliva, e io gli sputo in testa. Sono diventato un virtuoso, il mio sputo sale verso l'alto e poi scende leggero come una stella filante. Tutti mi ammirano, ma a me interessano solo due occhi. E il negro passa, e da quel giorno il mio sputo non è più solo, quello di lei lo raggiunge a mezz'aria e in una danza verticale e bellissima scendono, abbracciati, rapiti, sulla testa del nostro negro di quartiere. — 11 —


di Bologna

al sindaco

Cartolina

Egregio sindaco, io sinceramente ammetto le merde di cane, so che non è lei che le fa; non avrebbe neanche il tempo, mi dicono; in genere lei fa politica, e mi dicono che la fa un po’ ovunque. Però dico che se per ogni merda di cane ci fosse qualcosa di letterario o musicale eccetera in questa città, o qualcosa che promuovesse lettere e arti, sparso sul territorio e a portata di tutti, come sono a portata le merde di cane (che però non è lei direttamente a farle e neanche io credo gli assessori, tranne qualcuno che è stato visto in via Petroni accucciato mentre si sforzava di fare cultura), ecco io dico che in questo caso rifiorirebbero le molte e varie pubbliche e piccole iniziative; e non solo quelle poche ufficiali e pompose che mi dicono lei faccia assieme a tutta la giunta con il contributo anche dell’opposizione. Ermanno Cavazzoni

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Risoluzione scientifica delle problematiche concernenti criminalità e sicurezza in una comunità sociale chiusa di carlo michele pigozzi

S

cienziati che hanno preso parte all’esperimento: dott. Minority, dott. Klakson, dott. Thompson, prof. Ernandes, prof. Alvares, signor Benelli. Sono stati presi in esame 100 criceti, 50 di sesso maschile e 50 di sesso femminile, inseriti in un ambiente artificiale idoneo alle loro necessità vitali per un periodo temporale non inferiore ai 150 giorni per ciascuna fase sperimentale. Scopo dell’esperimento è individuare quali siano gli elementi esterni che, inseriti in una comunità sociale, ne riducano la criminalità e ne aumentino il livello di sicurezza reale e percepita dalla comunità stessa. Fase 1: Osservazione neutra I criceti sono stati osservati per 150 giorni, provvedendo alla somministrazione di cibo e acqua, ma lasciandoli liberi di esprimersi senza alcun vincolo. Alla scadenza del termine si è osservato quanto segue: Livello di criminalità: 70% (per la maggior parte stupri e omicidi) Livello di sicurezza reale: 30% Livello di sicurezza percepito: 5% Fase 2: Isolamento Ciascun criceto è stato inserito all’interno di una sfera di vetro allo scopo di consentirgli il movimento e la visione del mondo esterno ma impedendogli di commettere o subire attività delittuose. Dopo 40 secondi il 30% dei criceti erano morti, dopo 60 secondi il 67%, dopo 90 secondi tutti i criceti erano morti. Si è deciso così di fornire le sfere di vetro di piccoli buchi per permettere ai criceti di respirare. 100 nuovi criceti sono stati inseriti nelle suddette sfere. Dopo tre giorni i criceti presentavano sintomi inspiegabili quali: magrezza, debolezza, lingua gonfia, disidratazione. Il dott. Klakson ha ipotizzato che tali sintomi indicassero una grave crisi depressiva collettiva. Dopo sette giorni tutti i criceti erano morti. Si è quindi osservato quanto segue:

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Livello di criminalità: 0% Livello di sicurezza reale: 100% Livello di sicurezza percepito: 0% (non essendoci più nessun individuo in grado di percepire). Se quindi il livello di criminalità e di sicurezza reale sono più che soddisfacenti, la sicurezza percepita è invece disastrosa. Da segnalare inoltre l’effetto collaterale dell’estinzione dell’intera comunità sotto osservazione. Risultato Fase 2: Non soddisfacente Fase 3: Comunismo Ai criceti è stato spiegato con parole chiare e semplici che nella loro comunità tutti sono fratelli e uguali, non esistono leggi ma solo la libertà di fare ciò che si vuole, e che non esiste la proprietà ma solo i beni della comunità. Dopo 150 giorni si è osservato quanto segue: Livello di criminalità: 80% (per la maggior parte spaccio di droga, prostituzione e incesti) Livello di sicurezza reale: 0% Livello di sicurezza percepito: 100% (dato ritenuto comunque non attendibile in quanto i criceti erano tutti sotto l’effetto di droghe) Risultato Fase 3: Il comunismo non funziona Fase 4: Autodifesa Armata A ciascun criceto è stata data una pistola Beretta calibro 45 per provvedere alla propria difesa personale. Il Dott. Thompson ha asserito che eravamo dei pazzi a credere che dei criceti fossero in grado di maneggiare armi da fuoco, ma la sua protesta è stata messa a tacere da un colpo di pistola sparatogli in pieno petto da un criceto maschio di 15 cm di lunghezza dal manto pezzato. Il criceto è stato soprannominato Cz-03. Dopo 150 giorni si è osservato quanto segue:

Livello di criminalità: 60% (per la maggior parte omicidi perfettamente comprensibili) Livello di sicurezza reale: 80% Livello di sicurezza percepito: 90% (tutti i criceti erano molto felici di poter sparare ai criminali, in particolar modo Cz-03) Risultato Fase 4: Non del tutto soddisfacente in quanto Thompson è morto. Fase 5: Ronda Civica Ad un gruppo di criceti volontari sono state date delle torce elettriche e dei telefoni cellulari. Si è spiegato ai criceti volontari che il loro compito era quello di sorvegliare gli altri criceti e in caso di crimini telefonare a noi scienziati con il cellulare e attendere il nostro intervento. Il Prof. Ernandes ha fatto notare che il Dott. Thompson non credeva che un criceto potesse usare un cellulare. Cz03 ha sparato in testa al Prof. Ernandes. Il signor Benelli ha detto che forse era meglio togliere la pistola a Cz-03. Cz-03 ha sparato in testa anche a lui. Dopo 150 giorni si è osservato quanto segue: Livello di criminalità: 0% Livello di sicurezza reale: 100% Livello di sicurezza percepito: 100% Risultato Fase 5: Perfezione. Individuata la soluzione ideale alla problematica in esame. Inoltre Ernandes e Benelli stanno bene dopo essersi sciacquati la ferita con un po’ d’acqua fredda.

X

Dott. Albert Minority

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Ognuno di noi – lato B: appunti per un inizio di jonathan zenti

Io e Raffaele siamo cresciuti nello stesso paese, San Giovanni Lupatoto. Si trova nell’immediata cintura sud-est di Verona. gnuno di Noi è un progetto che nasce Ha circa 21mila abitanti e una zona commerciale-industriale dalla penna e dal microfono di Jonathan in continua espansione. È il luogo dove nascono i tortellini di Zenti nel maggio 2008. La notte Giovanni Rana e i pandori Melegatti. Dopo tangentopoli la del primo maggio cinque ragazzi, politica amministrativa è stata dominata dalla Lega Nord con di cui almeno quattro erano le sue caratteristiche fondanti: l’evasione fiscale come diritto frequentatori della Curva Sud dell’Hellas inalienabile dell’imprenditore, una identificazione culturale nel Verona e di movimenti di estrema destra, dialetto e nelle tradizioni popolari, una xenofobia che va dai aggrediscono tre ragazzi in piena centro a Verona, terroni ai Rom senza alcuna distinzione. Ma nelle campagne si causando la morte del ventinovenne Nicola trova una concentrazione altissima di lavoratori extracomuniTommasoli. tari clandestini in nero. Ognuno di Noi nasce come documentario A San Giovanni Lupatoto la maggioranza degli alunni delle radiofonico e si trasforma, poco dopo, scuole medie decide di frequentare gli istituti tecnici o profesin un racconto dal vivo, fatto di cronaca sionali. Status symbol come “la macchina” o “la marca” degli e documenti sonori. È diviso in due parti: un Lato abiti hanno ancora una grande presa, quindi gli adolescenti A, che cerca di spiegare perché Nicola Tommasoli puntano a un rapido accesso al mondo del lavoro, e quindi a è Ognuno di Noi, ossia quali sono le dinamiche uno stipendio. Io e Raffaele abbiamo scelto di fare il liceo classociali, storiche e politiche che fanno sì che ognuno sico, nonostante fossimo soli a intraprendere quella strada. di noi potrebbe morire, in una sera qualsiasi, Una scelta che comporta il distacco, nel giro di un’estate, da di una morte simile. Il Lato B, invece, cerca tutte le amicizie locali coltivate dai tempi della scuola materna. di spiegare perché al posto degli aggressori Quando io arrivai nel grande e prestigioso Liceo Classico poteva esserci Ognuno di Noi. Questo omicidio Scipione Maffei mi portai dal paese tutto il bagaglio educativonon è frutto del seme della follia, ma è un delitto culturale nel quale ero cresciuto, sintetizzato in una penna dalla biologico per questa città, un effetto collaterale quale si poteva estrarre una piccola bandiera della Lega Nord. di una struttura sociale e culturale forse Qui forse è intervenuto il primo scambio, del tutto fortuito. Il calcolato, sicuramente atteso. Per avere maggiori mio primo compagno di banco fu Alas Iou Muddei, un ragazzo informazioni potete visitare la pagina somalo. Con Alas come compagno di banco scoprii una cosa www.myspace.com/suoniquotidiani o scrivere rivoluzionaria per me a quell’epoca: un negro, uno che si vede a suoniquotidiani@gmail.com a distanza di un centinaio di metri che è diverso da me, non solo era simpatico, ma mi ci potevo pure affezionare davvero, potevamo diventare amici. Io e Raffaele Dalle Donne siamo due treni partiti dallo stesso E se non fosse stato Alas il mio compagno di banco? Se binario, a qualche anno di distanza. Io sono nato nel 1981, lui avessi incontrato un ragazzo che, come io ero leghista per nel 1989. Ad un certo punto però devono essere intervenuti emulare mio padre, fosse stato un agguerrito tifoso dell’Hellas degli scambi che hanno portato i due treni in direzioni opposte. Verona? Se quell’affetto che cercavo, quel bisogno di conquiIl mio ad essere un giovane autore, il suo ad essere un detenuto starmi nuove amicizie, avesse dovuto assecondare una figura con l’accusa di omicidio preterintenzionale in concorso aggra- che aveva nel suo tessuto educativo la violenza, la prevaricavato dai futili motivi. zione dell’altro, il disprezzo per la diversità?

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In ogni caso anche il mio passaggio non è stato radicale: ha impiegato circa due anni di tempo. Al mio paese rimanevano gli amici del bar, quelli che avevano scelto gli istituti tecnici e i corsi di formazione professionale. Ricordo una domenica pomeriggio di quando avevo 15 anni. Il mio motorino era sparito e venne fuori che un tizio di un paese vicino, tale Nereo, era il responsabile del furto. I miei amici mi portarono a casa di Nereo e vedemmo il mio motorino azzurro metallizzato nel suo cortiletto. Suonammo il campanello e Nereo uscì. Gli sguardi degli amici erano su di me. Non potevo semplicemente riprendermi il motorino; avrei dovuto dare un segno di autorità. E così feci. Qualche cazzotto trattenuto, niente di più. Poi ripresi lo scooter e andai a godermi le birre e le pacche sulla spalla che quella sera gli amici mi dedicarono.

Raffaele Dalle Donne non incontra un ragazzo somalo, quando arriva al ginnasio. Incontra però alcuni ragazzi di Blocco Studentesco, che all’epoca era l’ala giovanile di Fiamma Tricolore. Per Raffaele il passo da fare dal leghismo di paese all’ideologia di Blocco studentesco è molto breve: il disprezzo per lo straniero, un cameratismo giocoso e goliardico, un’esaltazione dei simboli identitari, un richiamo alla tradizione cattolica che si può anche non praticare. Cose che conosce, con le quali è cresciuto. Inoltre entrare nel giro di Blocco studentesco è davvero emozionante e divertente. Ci sono molto spesso dei concerti organizzati in località segrete dove suonano gruppi Oi-Punk di destra, come i vicentini-veronesi Gesta Bellica e i romani Zeta Zero Alfa. Si ha sempre l’impressione di essere sul limite del rasoio. Essere di estrema destra in Italia non è come essere di — 17 —


estrema sinistra. Anche la Costituzione vieta la ricostituzione sotto qualsiasi forma del partito fascista. Bisogna vivere sempre nella semi-clandestinità. E questo è eccitante. Inoltre a Blocco Studentesco non si parla di concetti astratti come la patria, l’onore… né fronte rosso né nazione, Terza Posizione. Si lotta per cause che chiunque sottoscriverebbe: il mutuo sociale, le morti sul lavoro, la crisi economica in cui versano le famiglie più povere… E poi ci sono quei simboli pop in cui riconoscersi: Homer Simpson, Capitan Harlock, i Blues Brothers, Hello Kitty. L’intesa tra Raffaele e il movimento é immediata, i compiti importanti arrivano subito. È contento, si sente inserito e accettato. Finalmente sente ripagata la sua scelta azzardata di fare il liceo classico. Iniziano i primi ruoli da attivista. Attacchinaggi notturni, azioni “futuriste”. Sa che non rischia un gran— 18 —

ché, perché l’attuale amministrazione comunale ha più volte appoggiato e lodato le azioni del Blocco. Poi arrivano le grandi occasioni dentro la scuola. C’è una assemblea di istituto sulla strage di Bologna: occasione per alzarsi e urlare l’innocenza di Luigi Ciavardini fino a farsi trascinare fuori. C’è la presentazione del libro “All’estrema destra del padre” di Emanuele Del Medico, occasione buona per mettere lucchetti ai cancelli, buttare le chiavi e distribuire volantini. C’è una gita in Germania, dove non entra in una sinagoga come gesto simbolico contro l’invenzione storica dell’olocausto. Raffaele si sente sempre più intrecciato nel tessuto del gruppo. Il motto di Blocco Studentesco Verona è “un Blocco in faccia al sessantottino”. La faccia e la testa sono i punti da colpire. Un calcio in pancia o nella schiena o nelle costole non si vede. Il gesto deve essere evidente. Se riesce a colpire la faccia o la testa avrà il suo giusto

riconoscimento, gli occhi degli amici attorno a lui saranno saziati. Per questo giovani punk come “il benda” devono essere picchiati ad ogni occasione, e sempre in testa o in faccia. E ad ogni colpo, crescono le birre offerte e le pacche sulle spalle. Poi qualcosa inizia a non funzionare. Gli attacchinaggi notturni cominciano a non essere più così emozionanti. Ma non solo. La Procura di Verona apre un’indagine su Raffaele e su altri 16 ragazzi, le cui passioni si incrociano tra Curva Sud, Forza Nuova, Blocco studentesco e Fiamma tricolore. Sono colpevoli di diverse aggressioni e pestaggi. Dai suoi genitori iniziano ad arrivare le strigliate, i rapporti sono sempre più tesi. Per stare dietro alle azioni deve tralasciare il latino e il greco. Arrivano i 4, e arriva la bocciatura. Un colpo duro che lo costringe a lasciare indietro le amicizie che si era costruito in quattro anni e a ricominciare da zero, da dove era partito. E poi il tempo è passato. La diversità comincia a sembrargli un concetto meno rigido. Sua sorella fa l’attrice teatrale, ha vinto un’importante premio con uno spettacolo che prende in giro i vizi degli italiani, tra cui il razzismo. Si era sempre imposto di non andare a vedere un suo spettacolo. Ma comincia a sentire che il razzismo non sa bene cos’è. Decide di mollare Blocco Studentesco. Riporta indietro il materiale del gruppo; sa che questo strappo non verrà accettato ed è pronto a subirne le conseguenze, anche fisiche. Vorrebbe cambiare qualcosa della sua quotidianità, ma non sa come. Non sa con chi parlarne. Prova con le piccole cose. A scuola prova a studiare di più. Ma le amicizie, i legami, gli affetti, sono difficili da scogliere. Vuole cambiare, ma non vuole rimanere solo. È la notte del I maggio. Raffaele si trova al bar Malta, vicino a Piazza delle Poste. Ci sono i suoi amici degli ultimi anni. C’è Niccolò Veneri, anche lui nella sua stessa inchiesta, anche lui bocciato, per di più dalle suore. C’è Federico Perini che è proprio un politico ormai, si è anche candidato alle ultime amministrative con Forza Nuova. C’è Guglielmo Corsi, che viene da Illasi, un paesino simile al suo. E si è portato uno nuovo, un suo amico, si chiama Andrea Vesentini. Iniziano a bere, la capacità di controllarsi comincia ad essere evanescente. Cominciano ad uscire riflessioni sul fatto che il giorno dopo sarebbe stato

il primo maggio, la festa dei comunisti, che sarebbe stato figo fare qualcosa di dimostrativo. Un paio di pugni in faccia come al solito, niente di che. Prima spintonano un giovane punk, gli rubano le spillette. Poi vedono tre che stanno rollando. Tabacco, canne, chi se ne frega. Uno ha i capelli lunghi, l’altro è vestito da skater. Guglielmo inizia a provocarli, da lì partono due spintoni, due schiaffi. Raffaele se la sta prendendo con uno dei tre. Con la coda dell’occhio vede uno che cade a terra, vede due calci che gli arrivano in testa. Ben fatto. No, aspetta. Ben fatto un cazzo, quello non si muove più… scappano, di corsa. Nell’estate del 2008, dopo essersi consegnato per primo alla Polizia, Raffaele Dalle Donne viveva le sue giornate in una cella d’isolamento. Io, nel frattempo, cercavo di entrare in contatto con lui, con il suo mondo. Le traiettorie dei due treni sono ora molto distanti. Ma il nostro passato che per molti aspetti ci lega, mi obbliga a ricordare a Raffaele che, almeno per lui, ci sono ancora molti scambi davanti. .

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Regolamento per la fognatura delle case Testo approvato con deliberazione del 3 aprile 1934 approvato dal prefetto e s.m. articolo 1 Sono aboliti nel perimetro della città i pozzi neri ed i pozzi assorbenti di acque di rifiuto di qualsiasi natura dovunque esistano fogne pubbliche in esercizio. Nelle località ove manchino le fogne pubbliche, ovvero non è possibile, o non può permettersi di usufruire di esse, le materie e le acque immonde delle latrine delle case, dei laboratori, dei magazzini, ecc., degli orinatoi privati, le acque domestiche dei lavandini, dei bagni, ecc., debbono essere scaricate in pozzi neri impermeabili od in bottini mobili. [...] articolo 2 La fognatura pubblica della città è distinta in canali neri e canali bianchi. I liquidi provenienti da latrine, da orinatoi, da acquai, da lavatoi, da bagni, da scaricatoi dell’acqua potabile, insomma tutte le materie liquide di rifiuto dell’abitazione, comprese quelle delle stalle, saranno a mezzo di appositi condotti scaricati nei canali neri stradali. [...] articolo 3 Non potranno scaricarsi direttamente in nessun canale stradale le materie fluide di rifiuto di stabilimenti industriali, quando contengano sostanze che possano alterare la superficie delle pareti della conduttura, se prima non siano stati praticati quei trattamenti ed adempiute quelle prescrizioni che il Municipio, avuto riguardo all’esigenza dell’Igiene ed alla conservazione delle opere di fognatura, si riserva di stabilire caso per caso, in relazione alle disposizioni della Legge sulla sanità pubblica e del presente regolamento. [...]

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Il testo intero è reperibile sul sito o nei meandri più nascosti della vostra coscienza articolo 7 In quelle case dove le acque domestiche di rifiuto e le materie immonde si volessero immettere in bottini mobili, i rispettivi proprietari devono ottenere speciale permesso dal Sindaco. I bottini mobili debbono essere di facile trasporto e formati di legno ben resistente e stagionato, oppure di metallo ed a perfetta tenuta. [...] articolo 9 La vuotatura dei pozzi neri, salvo casi speciali, deve praticarsi con mezzi inodori. [...] Tutte le vuotature dovranno praticarsi preferibilmente nelle ore notturne, e precisamente dalle 24 alle 5 nei mesi da maggio ad ottobre, e dalle 23 alle 6 negli altri mesi. Potrà però praticarsi, con speciale permesso, lo spurgo dei pozzi neri anche fuori orario e magari di giorno, nei rioni eccentrici della città e nei sobborghi, purché si adottino dagli interessati adatti apparecchi pneumatici ed altri mezzi che servano ad impedire le mefitiche esalazioni delle fogne e qualsiasi disperdimento di liquidi sul suolo abitato. [...] articolo 14 È vietata la immissione nei tubi delle latrine, degli acquai e simili, dei corpi solidi, dei residui di cucina, dei rottami, ecc. che possano ingombrarne la circolazione. [...]

articolo 23 I tubi di scarico delle latrine, degli orinatoi, degli acquai, dei lavandini, delle vasche da bagno ed ogni smaltitoio di acqua domestica nei pozzi o canali neri, devono essere impermeabili, e preferibilmente fatti di grès verniciato internamente o di altro materiale approvato dall’Amministrazione, ed inoltre essere ben connessi nei giunti, in modo da impedire qualsiasi filtrazione od esalazione. I tubi delle latrine, dei lavandini o di qualunque scarico, quando debbano collocarsi nell’interno dei muri, si disporranno in cassonetti bene intonacati, distaccati dalle pareti di essi e sostenuti con adatte grappe di ferro. [...] articolo 29 Allorché per una casa, o parte di essa, si reputi impossibile od assai malagevole il costruire sotto la strada uno speciale fognolo o cunicolo con tubolatura che metta capo direttamente nella fogna pubblica, giusta le prescrizioni degli articoli precedenti, i proprietari della casa, o di una parte di essa, hanno diritto di scarico nei tubi o canali sottostradali più prossimi, appartenenti ad altro proprietario, il quale non potrà negare lo scarico, previ ben inteso, la determinazione e il pagamento dell’indennità o contributo per le spese fatte o da farsi per la costruzione dei medesimi e di ogni altro accessorio, dal punto ove incomincia la comunione, oltre a contribuire in seguito nel mantenimento. [...] articolo 39 Sono abrogate tutte le disposizioni regolamentari che siano contrarie a quelle stabilite nel presente regolamento ed in quello edilizio. — 21 —


Ecate

Illustrazione di Marco Della Fonte

di Andrea Masotti

“Q

uesta è la mia ultima città” disse Marco, staccando delicatamente le labbra dal pene grassoccio del Khan. “Pensavo fossero finite da tempo” rispose il sovrano. “Mancava questa. E come accade con le persone, non potevo parlarne con verità se non una volta lontano”. Kublai Khan guardò negli occhi il mercante veneziano. “Questo significa”, disse pensieroso, “che non potrai mai parlarmi della grande capitale, la mia città, quella in cui stiamo adesso”. Marco Polo distolse lo sguardo, si sedette a gambe incrociate sulle maioliche e rispose: “Ho detto che questa è l’ultima, sire. Ma per guadagnare la distanza esistono due modi. Posso andarmene io, oppure può andarsene la città”. “Questa città non è una carovana di nomadi”. Lo interruppe secco Kublai, “non se ne va e non arriva”. “Sdraiato nelle tue sete finisci per non capire. Io ti racconto il tuo regno senza muovermi dalle tue stanze, così come tu lo governi. Posso farlo perché ho imparato a leggere i suoi segni, percorro la catena di traduzioni che ogni sua pietra mi propone, e in ogni sua pietra riesco a vedere dove conduce questa catena”. Marco rialzò lo sguardo. “Una città se ne va quando muore, sire”. Chi vi arriva non ne esce più. Questo è quello che si sente dire su Ecate, la più perfetta delle città. E ad arrivarci non si stenta a crederlo: palazzi bellissimi dividono canali di acqua cristallina, guglie scintillanti e statue smeraldine si stagliano contro il cielo limpido. Ovunque ruscella la serenità, le coppie procedono senza fretta, mano nella mano, i bambini corrono liberi per le strade, il selciato splende come mille specchi. Ma quando scende la sera, per un attimo su quell’argentina perfezione alita un momento di inquietudine. Tanta ricchezza, pensa il viandante alla sua prima notte, deve nascondere un contraltare. Ladri, invidiosi, predoni, chi vela l’oscurità? Ma è — 22 —

solo un attimo, il viandante si deve ricredere: ancora a notte fonda, innamorati sorridenti vagheggiano nella luce della luna, le balaustre e i lampioni riflettono le stelle, i bambini non hanno smesso di capriolare nei cortili, con strilli di diamante. Non vi è in effetti nessun pericolo: da secoli la città è protetta da una milizia speciale, forse l’istituzione più antica, una confraternita che si tramanda il compito di generazione in generazione, invisibile e pure presente ovunque, vigile e infallibile in ogni momento. Grazie ad essa, Ecate non sa cosa sia il

delitto, i suoi vicoli e i suoi suburbi non conoscono brutture né violenza, si è persa memoria di torti, assassinii, ruberie. É questo il segreto di Ecate? Il trascorrere delle lune reca al viaggiatore, assieme alle lusinghe della sedentarietà, anche un sottile presentimento, l’eco di una lontana angoscia. Perché andarsene? chiede a sé stesso a mezza voce. Fuori non c’è questa pulizia, questa sicurezza: oltre le mura, vi è solo il pericolo. Così è questo che accade a chi mette piede a Ecate: l’as-

senza della cosa di cui aver paura insinua piano, nelle ossa, il senso di una minaccia imminente, che non si vede, da là fuori. E questo fuori divora a poco a poco lo spazio, la paura dell’indefinito che incombe riduce inesorabilmente il perimetro del dentro, spinge il viandante dalle mura al centro cittadino, dalla strada alla casa, dall’uscio alla stanza più interna, inghiottito dentro il suo dentro, schiacciato dall’immenso fuori. Da una fenditura nella finestra sbircia, in strada, i visi sereni dei giovani e dei fanciulli - sempre solamente loro per le strade, sempre gli stessi - e solo allora con l’ultimo lume di ragione intuisce: essi sono la confraternita dell’ordine. Ma è ormai troppo tardi: vi è entrato, e non ne uscirà più, condannato come tutti i veri abitanti di Ecate - la più sicura e la più impaurita delle città - a tremare per nessuna insidia, per sempre, con la testa sotto il lenzuolo. “Le tue città sono iperboli”. Il Khan parlava tra le spire del fumo, che tirava e fluiva dalla lunga pipa di mogano. “Sono esagerazioni. Il tuo sistema mi è chiaro. Prendi le minime storture che ricordi, gli accenni di degrado che vedi, e li ingigantisci per i tuoi racconti. Esistessero le città come tu le dici, non saresti qua a raccontarle”. “Ogni città, sire” rispose Marco estraendo piano il pene dal culo di Kublai Khan, “è allo stesso tempo l’iperbole e la diminuzione di sé stessa. In ogni sua pietra è già disegnata la sua gloria e la sua perdizione. Io ti racconto il tuo regno senza mai muovermi dalle tue stanze, così come tu lo governi. Ma non esagero mai, né sottraggo alcunché alle mie descrizioni: se fossi partito dalla tua reggia, non avrei saputo dirti niente di più. Come accade con le cose: non si può parlarne con verità se non dall’interno del loro cuore pulsante. La città è come il tuo palazzo, il muscolo cardiaco del potere. La tieni nel poderoso palmo della tua mano, e lei allo stesso tempo ti contiene. Sdraiato nelle tue sete finisci per dimenticarlo, ignori i segni che ti suggerisce, e la morsa delle tue dita si stringe attorno alla tua gola. Sei tu a creare l’iperbole che temi, grande Khan, conducendo a morte la città, e in lei te stesso”.

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Insicuri lacerti di riccardo artoni chiedo scusa, non ho un posto dove sedermi a scrivere rassegna stampa “Padova, sindaco ds come i leghisti: via le panchine” Panchine di legno e tavolini di marmo “sradicati” nottetempo... la sicurezza non è di destra né di sinistra... ...Un solo applauso di cortesia, alla fine. (riportarlo tutto, in sintesi) “Verona sperimenta le panchine anti-barbone” La città scaligera installerà panchine con i braccioli in mezzo per impedire che siano usate per dormire. Hanno i braccioli sia alle estremità e soprattutto in mezzo: sono le nuove panchine che il Sindaco di Verona, Flavio Tosi, sta facendo sistemare in città. Spariranno quindi le classiche panche, dove sbandati, barboni e poveri, si sistemavano per riposare. Il prototipo, scrive oggi il quotidiano diretto da Ugo Savoia, il «Corriere del Veneto», è stato installato ieri nei giardini di piazza Indipendenza, in quella che diventerà un’area pic-nic legale vista l’ordinanza che in città vieta di mangiare in molte aree storiche, per questione di decoro. «Diamo seguito a quanto annunciato nei mesi scorsi in tema di decoro e ordine pubblico: le aree pic-nic - afferma il sindaco Flavio Tosi - sono la logica conseguenza all’ordinanza che vietava di consumare cibi e bevande in prossimità dei monumenti più importanti della città». Ma le panchine dei sei punti di ristoro hanno delle particolarità e ricalcano quelle sistemate nella città di Belluno: «Le strutture in ferro - spiega l’assessore ai Giardini e all’Arredo Urbano Paolo Tosato - oltre a riprendere lo sti— 24 —

le delle panchine già presenti, non si prestano ad imbrattature, scritte di vario genere e gesti vandalici. Inoltre, hanno una sorta di bracciolo a metà per evitare che possano essere usate per sdraiarsi o per dormire. Prossimamente, analoghe soluzioni verranno estese anche per altre panchine in giro per la città». proposta di digressione Punto di partenza la panchina. Però bisogna farla traghettica.

A

Parte prima

lcune tra le più grandi opere letterarie degli ultimi due secoli cominciano con una panchina. Bouvard e Pecuchet, di Gustave Flaubert, e Il Maestro e Margherita, di Michail Bulgakov, iniziano con due personaggi che si incontrano su una panchina, nella calura estiva. L’incontro è foriero di una serie di eventi, nel primo caso l’amicizia tra Bouvard e Pecuchet e le avventure parascientifiche dei due che accumulano un sapere da enciclopedia i cui risultati sono a dir poco scarsi, ma che termina con l’affermazione della pochezza del sapere enciclopedico borghese. Nel secondo caso è l’incontro della coppia con un terzo, il Diavolo, a scatenare il demoniaco plot del libro. Excerpt. Ricordare gli incipit di Bouvard e Pecuchet di Flaubert e del Maestro e Margherita. Due uomini su una panchina nella canicola (probabilmente Bulgakov citava Flaubert, non so ma mi pare plausibile, ma qua che ci frega). Parte seconda Ora, noi siamo qui, in questa regione dove il potere, che spesso si mostra con un ghigno beffardo vantandosi della propria ignoranza, fa della panchina un simbolo, il simbolo della Microcriminalità.

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Sartre scriveva: Appoggio la mia mano sulla panchina, ma la ritiro subito: essa esiste. Questa cosa sulla quale sono seduto, sulla quale appoggiavo la mano si chiama una panchina. L’hanno fatta apposta perché ci si possa sedere, hanno preso del cuoio, delle molle, della stoffa, si sono messi al lavoro, con l’idea di fare una sedia e quando hanno finito era questo che avevano fatto. L’hanno portata qui, in questa scatola, e ora la scatola viaggia e sballotta, con i suoi vetri tremolanti, e porta nei suoi fianchi questa cosa rossa. Mormoro: è una panchina, un po’ come un esorcismo. Ma la parola mi rimane sulle labbra: rifiuta di andarsi a posare sulla cosa. Essa rimane quello che è, con la sua peluria rossa, migliaia di zampette rosse, all’aria, diritte, zampette morte. Questo enorme ventre girato all’aria, sanguinante, sballottato rigonfio con tutte le sue zampe morte, ventre che galleggia in questa scatola, in questo cielo grigio, non è una panchina. Potrebbe benissimo essere un asino morto, per esempio, sballottato nell’acqua e che galleggia alla deriva, il ventre all’aria in un grande fiume grigio, un fiume da inondazione; e io sarei seduto sul ventre dell’asino e i miei piedi bagnerebbero nell’acqua chiara.

Forse bisognava dirci, a quel fanfarone là, che si era dimenticato di dire qual è la virtù principale della panchina, ciò per cui è tristemente famosa. Essa è il covo dei criminali (tutti in coro: aah!) che vi si siedono (o mio dio!) per attentare alla nostra SI-CU-REZ-ZA (ripetuto un po’ di volte). (nda così ha finito il suo comizio Veltroni a Verona, se non sbaglio) Son tutte balle: la sicurezza non è di destra né di sinistra, invece le panchine son tutte criminali! Dimentichiamo poi il fatto che sono ricettacolo di barboni

ed emarginati dalla società, che se sono emarginati ci sarà un motivo eh! Se si chiamano così vuol dire che qualcosa hanno fatto! Per questo siamo con il compagno Gentilini e il camerata Zanonato, nella loro lotta alla criminalità da panchina! Abbasso la panchinocriminalità! Ma soprattutto evviva Tosi che inventò la panchina sicura. Se uno è stanco che vada a casa sua! E se non ce l’ha una casa. Che se la trovi perdio! Introduzione situante il discorso in un’attualità Gentilini prima di tutti Zanonato poi Molti altri Le hanno tolte Tosi ha costruito sti scafandri. Parte terza Ora, pensiamo ad un mondo migliore e più sicuro in cui le panchine siano assenti o irte di punte, come opere postmoderne, più cilici per tutti. Nella Città non può esservi spazio di sosta, divagazione, riposo, accoglienza se non tra le mura della propria casa. Come nel castello di Atlante (orlando furioso canto XII), i personaggi dei libri, senza panchine ove sedersi, girano a vuoto ognuno in cerca dello svolgimento della propria storia senza riconoscersi: (32)Era così incantato quello albergo, ch’insieme riconoscer non poteansi. Né notte mai né dì, spada né usbergo né scudo pur dal braccio rimoveansi. (11)E mentre or quinci or quindi invano il passo movea, pien di travaglio e di pensieri, Ferraù, Brandimarte e il re Gradasso, re Sacripante ed altri cavallieri vi ritrovò, ch’andavano alto e basso, né men facean di lui vani sentieri; e si ramaricavan del malvagio invisibil signor di quel palagio. — 25 —


(12)Tutti cercando il van, tutti gli dànno colpa di furto alcun che lor fatt’abbia: del destrier che gli ha tolto, altri è in affanno; ch’abbia perduta altri la donna, arrabbia; altri d’altro l’accusa: e così stanno, che non si san partir di quella gabbia; e vi son molti, a questo inganno presi, stati le settimane intiere e i mesi. Non si riconoscono, non si vedono, accusano il governo ladro di avergli sottratto il bene che cercano. Bouvard si siede forse per un momento, poi la panchina è scomoda, allora inveisce contro il governo magari, poi si alza e torna a casa. Manca Pecuchet per un soffio, il quale fa per sedersi, ma la panchina non c’è più, e va gambe all’aria. Pecuchet s’incazza pure lui, e s’incazza magari un po’ di più con il padrone dell’ufficio dove lavora da impiegato, ma non vede Bouvard che se n’è andato, visto che non c’è posto dove sedersi, e non posssono decidere insieme di lasciare il posto di lavoro per tentare un’avventura. Non han da sedersi a mangiare il gelato X e Y, e il diavolo se li pigli pure, ma prima dovrà trovarli, visto che non si possono fermare da nessuna parte. Flaubert e Bulgakov si guardano sorpresi: - ma che razza di storia vuoi raccontare in una città dove se ti vuoi fermare un attimo devi andare a casa tua? Belle storie non di sicuro, magari storie di chiusura, di violenze domestiche, ma io volevo raccontare una storia diversa… - eh guarda, Gustavo, che i fannulloni son sempre mal visti. Io volevo raccontare una storia sui regimi e sul bene e il male, ma mi sa che cambio città, qua c’è solo grigiore e tristezza, mediocrità. - ora capisco cosa voleva dire Shakespeare: non c’è nulla fuori dalle mura di Verona, cioè Verona è una città di mura, una città murata, dentro e fuori. I personaggi vagano senza sosta, senza riposo, ma senza mai iniziare la loro ricerca. Infatti il movimento non basta a se stesso, è lo scambio e il passaggio di proprietà delle cose, la — 26 —

proprietà volubile mai raggiunta (né raggiungibile) il motore del poema ariostesco (Ariosto, Calvino). Se andiamo a vedere Flaubert, ci ricordiamo che all’inizio “Tutto sembrava intorpidito nell’ozio della domenica e la tristezza delle giornate estive”. Nel piattume della canicola, è il fermarsi a generare la scintilla del movimento. Nella città irreale, invece, folle di morti viventi fluiscono, testa a terra (waste land), senza mai fermarsi, senza mai incontrarsi. Etc etc Unreal City Under the brown fog of a winter dawn, A crowd flowed over London Bridge, so many, I had not thought death had undone so many. Sighs, short and infrequent, were exhaled, And each man fixed his eyes before his feet. Flowed up the hill and down King William Street, To where Saint Mary Woolnoth kept the hours With a dead sound on the final stroke of nine. traduzione Non v’è sosta né momento di scambio, tutto è coperto dall’ignorante e grigio ghigno del potere. Non v’è conoscenza (né coscienza) senza scambio. Forse si potrà obiettare che Bouvard e Pecuchet rovinano tutto ciò che intraprendono, ma è lo scambio tra loro e tra l’autore e la sua materia che genera l’opera, l’ironia come scambio di battute tra il testo e l’autore. E finire con Bulgakov, in qualche modo. Oppure: ban-lié Un buteloto del Congo (non negrissimo) con cui gioco a calcio, un giorno lo sento dire: “A parigi i veri francesi, i veri parigini li trovi nelle banlieue.

In città sono tutti stranieri, giapponesi”. Cosa vorrà mai dire mi chiedo. Io che sono straniero il centro di Parigi mi piace. E allora pensa e pensina mi viene in mente che in una recente lettura di un libro sulle panchine per scrivere un pezzo sulle panchine per il traghetto mangiamerda, che tra parentesi a me quelli del traghetto mangiamerda tolto me mi stanno poco simpatici, dicevo che mentre leggevo questo libro sulle panchine per scrivere sto pezzo sulle panchine, che tra parentesi mentre lo leggo scopro che proprio questo libro, non so a che livello della mia coscienza ma da qualche parte di sicuro, proprio questo libro in qualche sua forma surrogata, ha ispirato l’idea per un pezzo sulle panchine, che tra parentesi non so perché a parte i fatti di cronaca, giacché io sulle panchine non mi ci siedo mai, insomma proprio sto libro a un certo punto tira in ballo le banlié. Beh a sto punto meglio se vado a riprendermelo, orcocàn, e vedere cosa diceva. Diceva: “ma tutte le panchine sembrano oggi in via di estinzione. Come se la loro gratuità [...] fosse assolutamente da bandire. Bandire, la stessa parola da cui viene banlieue, luogo bandito.”. E allora son andato lì dal buteloto congoleso a dirci. “Com’è, come non è che banlié vien da bandito? Ecco, che i veri parigini sarebbero dei banditi? Non me la conti giusta tu, caro il mio non negrissimo...”. E lui per tutta risposta mi dice, che sembra la definizione di Uichipedia: “Banlieue ha due possibili e dibattute etimologie. La prima è quella di «espace (d’environ une lieue) autour d’une ville, dans lequel l’autorité faisait proclamer les bans et avait juridiction». La seconda invece fa riferimento al senso di esclusione che la periferia evoca rispetto al centro cittadino e fa quindi risalire l’origine del termine alla messa al bando (lontano dalla città) degli individui più poveri e ritenuti più pericolosi.” “E quindi?” “E quindi i veri francesi vivono nelle banlieue, cioè laddove si respira il paradigma biopolitico della modernità”. Ah. — 27 —


LA SIGNORINA ENDORFINA HA IL PIACERE DI SCIALACQUARE L A S UA A P OT R O PA I C A CUCINA… La mia ricetta dell’oggi, per far gravitar le viscere e far cadere in sogni profondi le vostre molle menti, sarà l’integerrimo TIRAMISÚ ALLA FRAGOLA!! Orbene: tiramisù alla fragola… per sperimentar con il peso del biscotto annegato e la leggerezza dell’albume montato, la duplice e contraddittoria natura dell’ImbarazzatO... rovinosamente scivolato, che chiede… Tiramisù?! per ricordare che il principio di non contraddizione è tutta un’aristotelica invenzione, non applicabile al mondo apotropaico dell’essere uno e molti, di cui anche tu e pure lui e anche lei e forse noi facciam parte… perché affondare le radici in villi addormentati e ancor prima in papille inebetite serve a aleggiar fronde di serotonina e beata melatonina… evitando incontri con la saccente medicina… immaginando viaggi nella pampa argentina… Asì encantada, voy a llamar la… Posologia.

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POSOLOGIA: per 5 pazienti — Fragole svuotate da quattro cestini. Plantae Magnoliophyta Magnoliopsida Rosales Rosacee Rosoideae Fragaria. — Pavesini o Savoiardi o lady fingers o dita di dama da una confezione. — Uova, cellula germinale femminile animale da cinque unità. — Mascarpone, formaggio fresco ricavato dalla lavorazione di crema di latte, panna e acido citrico o acido acetico, il tutto calcolato in cinquecento grammi.

di marta menditti

Per la crema di mascarpone, separate gli albumi dai tuorli in 2 diverse terrine. Montate a neve gli albumi con frusta manuale o elettrica finché una spuma bianca e nuvolosa riempirà la terrina e sosterrà la forchettina (prova dell’avvenuta montatura). Unite poi 2 cucchiai di zucchero mescolando piano, evitando che il montato si smonti. Nell’altra terrina unite ai tuorli lo zucchero restante e frustate fino ad ottenere una cremina giallina. Unite poi albumi montati e tuorli zuccherati e infine il mascarpon, mescolando saggiamente e mollemente.

Ora prendete la casseruola o teglia che preferite. Iniziate a stratificare con primo strato di biscotti annegati nel succo di fragole e poi con crema di mascarpone e sopra pezzi di fragole tagliate. Così per 2 o 3 strati. Nel finale sopra all’ultimo strato di mascarpone picchiettate gocce del succo restante e pezzi di fragole a decorar la cima. Ponete in frigo alcune ore e poi chiamate l’amico suicida… ad assaporar la delicata fatiga!!

—Zucchero, cinque cucchiai molecolari di disaccaride saccarosio C12H22O11. Preparate il succo di Fragaria spremendo 2 cestini di fragole con frullatore tipo minipimer e filtrando in un passino se vi infastidiscono i grumi. Il restante di fragole tagliatelo a fettine, decoreranno il tutto.

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Abqa di Enrico Mazzardi Abqa — La Rotonda Il centro non è ovunque. Napza, III 6.12 Guarda sempre dove metti i piedi, il cielo sta su lo stesso anche se non lo guardi! Proverbio abqiano

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a città è immersa in un contesto tranquillo e verdeggiante, circondata da quattro lievi colline, dolci come dune di sabbia su cui sono germogliati splendidi prati d’erba. Arrivando nel centro abitato non s’incontrano case di periferia, bensì subito le prime eleganti villette residenziali, precedute da una magnifica scritta formata da siepi ornamentali circondate da splendide rose e azalee che tracciano il nome della città in questione: Abqa. Un nome apparentemente ostico da pronunciare, data la compresenza di una “b” e una “q” accostate. La cittadinanza è abbastanza concorde tuttavia sulla soluzione fonetica adottata: fin dalle scuole materne s’insegna a pronunciare la “bq” come “cc”, con una duplice “c” possibilmente pronunciata col massimo della dolcezza, quasi fosse una “cci”, evitando accuratamente che degradi in una doppia “k”. Questa decisione sulla pronuncia era arrivata vent’anni or sono al termine di una storica seduta del consiglio comunale, durante la quale fu anche stanziato un fondo per la costruzione di una spettacolare rotonda in centro. Tutti favorevoli, un vero plebiscito, e venne sfiorato il 100% dei presenti e dei voti, se non fosse stato per l’assenza di uno dei membri più anziani della giunta. Era in ospedale, in quel ridente angolo di paradiso popolato di sorrisi e carezze che qui ad Abqa preferiscono chiamare “ricovero”, o genericamente “residenza”. La pianta della città permette di ammirare il piano urbanistico che vede l’intersezione delle due direttrici stradali (nordsud ed est-ovest) come punto centrale della città. Abqa si sviluppa insomma intorno ad una grande croce. Munendosi di — 30 —

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un elicottero o di un aereo, entrambi agevolmente noleggiabili presso l’aeroporto locale Georges Becnaria, situato a nord-est della città, dall’alto si potrebbe contemplare la perfetta specularità e simmetria degli edifici, delle strade, persino di buona parte degli alberi spontaneamente cresciuti intorno al centro. Qualche purista del Centro Studi sulla Città di Abqa ha avanzato a ragione un’affascinante ipotesi: che i grafemi stessi della parola Abqa abbiano suggerito il destino di specularità riversatosi poi così perfettamente nella costruzione della città. Gli stessi studiosi, per dimostrare a tutti di credere ciecamente nella loro teoria, scrivono abqa con l’iniziale rigorosamente minuscola, per rendere ancora più simmetrico il termine. Il motivo che ha spinto alla costruzione della rotonda era riconducibile non tanto alla questione del decoro urbano – argomento che molto sta a cuore alla cittadinanza – quanto, in un certo qual modo, al problema fonetico appena trattato. Come lo scontro lievemente cacofonico tra le consonanti di Abqa era stato ovviato nella pronuncia, così la netta intersezione tra le due strade principali della città andava addolcita. Il duro incrocio coi suoi quattro angoli retti, che peraltro si trovava nel punto più centrale del paese, sotto gli occhi di tutti, sarebbe stato così trasformato in una dolce curva continua. «Non c’è nulla di più armonioso di una bella circonferenza per delineare il punto centrale del nostro paese» disse infatti il Sindaco libertario dell’epoca, Fulvio Ardtami, il giorno dell’inaugurazione della nuova rotonda stappando lo champagne davanti alla folla esultante in compagnia della consorte, paralizzata in un ineccepibile sorriso a trentadue denti per tutta la durata della cerimonia. Così, da vent’anni a questa parte, una magnifica isola floreale occupa il centro di Abqa, allietando la vista degli automobilisti e l’olfatto dei pedoni. Intorno ad essa si sviluppa la piazza centrale, luogo di ritrovo abituale degli abqiani, sulla quale si affacciano ben quattro diverse chiese di confessione vatquiana. Il numero dei luoghi di culto non deve però sembrare spropositato: si consideri che la cittadinanza (trattasi di ben 59.000 anime) è interamente composta da praticanti. Il Vatquianesimo è una religione che conta pochi adepti, avendo preso piede solo nella città di Abqa. Tale credo si rifà agli insegnamenti scritti nel libro della Napza, testo sacro

scritto molti anni fa, quando ancora “le stagioni arrivavano in orario”, come amano osservare ad ogni piè sospinto le persone più mature del paese. La mattina presto è facile incontrare e scambiare quattro chiacchiere con questi simpatici cittadini canuti, accomodandosi magari al Bar Sportivo che dà sulla Piazza della Rotonda. Così è stata ribattezzata la vasta piazza centrale, punto nevralgico della città, dove sono sempre animate le giostre per i più piccoli, le bancarelle di zucchero filato e i chioschetti presso i quali sono soliti fermarsi alcuni tra i cittadini più in vista – come l’architetto Jules De Spdani o lo scrittore Emilio Scrampli – per degustare infusi e bevande. Una precisazione: bevande analcoliche, ché di alcolici non se ne vendono ad Abqa. Questo pare non sia un divieto imposto dall’amministrazione locale di turno, bensì un gusto comune a tutti gli abitanti. Se infatti si andasse a chiedere ai passanti cosa ne pensano di un buon bicchiere di vino, si sentirebbe una sincera e sorridente risposta: “No grazie, non ci piace”. E pensare che le colline che circondano la città si presterebbero bene ad ogni tipo di coltivazione vinicola. Invece quei colli sono zone protette, tenute a prato inglese, a cui si può accedere esclusivamente indossando scarpe apposite che non rovinino il manto erboso e solo in determinati orari mattutini. Abqa — Le panchine e le gonne Abqa gode di un clima temperato, con inverni abbastanza rigidi. La maggior parte delle cartoline in vendita presso i tabaccai e i negozi di souvenir raffigurano Abqa imbiancata da una sottile nevicata, coi tetti ricoperti ma le strade comunque prontamente ripulite dall’azione congiunta di spazzaneve e spargisale. Sarà ormai chiaro che a muovere questa amena città è il senso dell’ordine, della pulizia, della perfetta armonia tra le parti. Questi principi fungono da guida tanto per l’urbanistica quanto per i ceti sociali. O per meglio dire, il ceto sociale, dato che l’abqiano medio è l’unica realtà presente in città, con la sua dispendiosa station wagon, i suoi occhiali dalla montatura sottile, i suoi capelli castani pettinati con la riga a destra, il suo posto fisso come impiegato quadro e i suoi due figli (so-

litamente un maschio e una femmina) nati a florido suggello del suo saldo matrimonio. Sua moglie ha i capelli fissati dalla permanente, un vasto assortimento di gonne lunghe color pastello, il sorriso bianco e incondizionato, un gran talento per gli affari di casa e i bonari rimproveri ad indice alzato indirizzati al pestifero primogenito. Una società del genere non prevede eccezioni, e a dimostrazione di ciò si può citare un episodio: un forestiero molto particolare, arrivato in città cinque anni or sono, se n’era andato dopo poco tempo, senza che se ne sapesse più nulla. Aveva lunghi capelli incolti, un eschimo sgualcito, pantaloni larghi rinsecchiti e accartocciati come un sacchetto del pane utilizzato più volte. Vagava per le vie del centro, e una domenica mattina era addirittura arrivato nella piazza centrale trascinando i suoi scarponi incrostati di fango davanti alle severe braccia conserte della Polizia Abqiana e sotto gli occhi di bambini ben vestiti per la messa, che dopo due parole sussurrate dalle loro madri mutavano la loro espressione da incuriosita a terrorizzata. Si era seduto su una delle panchine davanti al Bar Sportivo, una di quelle nuove che non usa nessuno, tanto sono belle, con il loro ferro battuto laccato da una copiosa mano di vernice verde scuro. Di questo misterioso uomo, la mattina della sua scomparsa, rimase solo una scarpa slacciata in una via del centro, prontamente rimossa dallo zelante Nucleo Operatori Ecologici. La stessa scarpa che, a detta di alcune signore impellicciate assidue frequentatrici del Caffè del Centro, aveva osato calpestare un’aiuola nei pressi di via Belrtisi, una traversa di viale della Pace, una delle quattro strade che confluiscono nella piazza della Rotonda. Il traffico intorno alla rotonda era affidato ad una curata e visibilissima segnaletica orizzontale: i dentati simboli del “dare precedenza” dipinti per terra con uno squillante bianco ripassato mensilmente con una nuova, precisa mano di colore. L’educazione civica e stradale sono due argomenti sui quali la cittadinanza abqiana non transige mai. Fin dalle scuole d’infanzia la gioventù viene sensibilizzata al rispetto ineludibile delle regole della convivenza civile e del galateo stradale: è preferibile fermarsi quando la luce semaforica diventa gialla, — 31 —


Illustrazione a fronte di Nicola Maria Salerno

gli automobilisti devono dare sempre la precedenza tassativa a chi proviene dalla loro destra, a costo di fermarsi e mimare con la mano un cortese gesto di “passare” sporgendosi dal finestrino, e rallentare e fermarsi qualora un pedone manifesti anche solo l’intenzione di attraversare la strada, pur lontano dalle strisce pedonali, sulle quali ovviamente bisogna sempre porgere il braccio per aiutare gli anziani – pardon - le persone mature che vogliano attraversare. I pensionati rappresentano il 29% della popolazione di Abqa. Una percentuale notevole, certo, ma corrispondente ad una parte della cittadinanza tutt’altro che improduttiva. La maggior parte degli anziani si mantiene giovane nella mente e nel corpo, prestando servizi volontari a favore della collettività: arruolati come riservisti tra gli Operatori Ecologici, aiutanti dei vigili urbani, supervisori della sicurezza notturna e diurna nelle strade pur tranquillissime della loro città. Non amano essere appellati “anziani”, “vecchietti” men che meno, prediligono di gran lunga eufemismi come “maturi” o meglio ancora “saggi”, qualora esibiscano una barba particolarmente curata. «Quando ci sono loro mi sento sicura... e sono dei ragazzi tanto cari...» Questa è la frase che più diffusamente ricorre sulle secche labbra delle mature signore che passeggiano per il centro la domenica mattina, quando a coppiette passano davanti alle larghe spalle dei corpulenti poliziotti abqiani. Sono un corpo molto vigile, sempre di pattuglia in tutte le zone della città, mai gli sfugge niente stando alle statistiche – e poco gli può sfuggire, dato che la criminalità è pressoché nulla, e la situazione di emergenza più elevata, nella maggior parte dei casi, corrisponde ad un gatto che di tanto in tanto si arrampica imprudentemente tra le fronde di un albero. Viale Perscati, uno dei punti più pittoreschi della città, è costeggiato da una lunghissima fila di peschi, i cui petali cadono per terra durante la primavera, colorando di rosa il manto stradale. I marciapiedi sono però prontamente sgomberati dall’intervento dei gruppi cittadini di Formiche e Millepiedi, due organizzazioni giovanili che, distinguendosi per sesso, raggruppano schiere di bambini per impartire loro l’insegnamento pratico dell’educazione civica. I vestiti dei due corpi sono colorati con una tinta verde marcio, e sarebbero identici — 32 —

se non fosse per l’uso obbligatorio della gonna per le fanciulle e un vistoso cappellino con pennacchio calato sulle teste dei ragazzini. La gonna verrà poi indossata dalle donne anche in età adulta: di donne in pantaloni non se ne vedono e mai si sono viste per le strade di Abqa. Circa trent’anni fa, sotto una giunta di estrazione democratica si era timidamente avanzata l’ipotesi di lasciare alle donne la possibilità di scelta sul proprio vestiario tra i calzoni e le gonne. Tuttavia appena si sparse la voce di questa svolta le donne, ormai abituate - e si direbbe anche affezionate - all’uso della gonna canonica, chiesero ai rispettivi mariti di esporre la loro volontà presso gli organi competenti. Così, giustamente, si arrivò in maniera plebiscitaria alla costituzione della Giornata della Gonna, momento di giubilo cittadino in cui le donne sfoggiano le loro creazioni tessili, frutto di un intero anno di lavoro casalingo. A stabilire la data di questa festività, che cade tra la Giornata del Matrimonio e la Festa dell’Uguaglianza, è stata proprio la giunta democratica, a pronta dimostrazione dell’attaccamento di questa parte politica alla tradizione della gonna. Abqa — La politica e la sicurezza Le amministrazioni abqiane si avvicendano seguendo un’alternanza perfetta: una volta tocca ai Democratici, un’altra ai Libertari, i primi rappresentati cromaticamente dal verde, i secondi dal giallo. Sono partiti molto simili in quanto a linea politica, tanto che non si potrebbe scovare nei loro programmi di governo alcuna sostanziale differenza. Solo in una circostanza, risalente a meno di cinque anni fa, si era verificato un clamoroso caso di divisione tra gli schieramenti: al tempo si era accesa una grande bagarre sulla questione della sicurezza. La polizia abqiana, formata da un centinaio di aitanti giovani beneamati dalla popolazione, si era recentemente occupata della sicurezza durante l’annuale Sagra della Salsiccia al Pepe (orgoglio della cucina locale), imperdibile appuntamento culinario che attira buongustai da ogni parte del mondo. Durante la stessa manifestazione gastronomica il Consiglio dei Maturi, associazione filantropica i cui membri arruolano ogni anno nuovi Operatori Ecologici, aveva ravvisato, grazie alla segna-

lazione dei volontari del corpo dei Vigilanti del quieto vivere (nucleo di persone deputate al controllo del comportamento sociale altrui), un atteggiamento incompatibile con lo Statuto del Buon Costume, sorta di codice legislativo parallelo stilato dal suddetto Consiglio molti decenni addietro. La pietra dello scandalo era proprio un poliziotto, l’appuntato Sergio Scvini - assegnato al controllo dell’ingresso della sagra - che era mancato nel suo dovere non intervenendo per allontanare dalla pacifica manifestazione uno straniero, probabilmente un orientale che, in testa alla comitiva di suoi connazionali, agitava sopra il capo un ombrellino automatico color giallo canarino. “Articolo 198/bis: Durante la campagna elettorale nessun cittadino può indossare in pubblico un capo di vestiario o un qualsiasi oggetto il cui colore suggerisca la possibile appartenenza politica del cittadino in questione.” Così recita lo Statuto, la cui autorità non ha esplicito valore legale, ma grande peso sulla coscienza di ogni singolo abitante. D’altra parte la popolazione sente anche un grande attaccamento al corpo della polizia locale, tanto da non riuscire a condannare del tutto lo sbadato gesto del povero poliziotto.

La situazione era stata risolta il pomeriggio del giorno stesso nell’ambito di una conciliante seduta-lampo della giunta comunale durante la quale furono fissate le date di due nuove feste cittadine: la Giornata dello Statuto e la Festa della Polizia abqiana, divise solo da un giorno, in cui da tempo immemore cade la Festa della Coerenza. Finita la manifestazione tutti gli avventori e i turisti avevano abbandonato la sagra. Dopo qualche giorno fu rinvenuta dal Nucleo Operatori Ecologici, vicino ad un tombino nei pressi della caserma di Polizia, una macchina fotografica di marca estera, tutta rotta, da cui era stata strappata la pellicola con violenza.

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Una ronda non fa primavera di redazione tutta

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ntervista a Marco Bodini, consigliere comunale della Lega Nord a Caldiero, sorridente paesello nella provincia veronese. Il giovine politicante, sostenitore delle ronde fin dalla terza elementare, si dice pronto a scendere per le strade, telefonino carico e senza sicura, per lottare a cazzo duro contro i malvagi.

1_ Sono state finalmente approvate le ronde. Siamo più sicuri? Direi che siamo sicuramente più sicuri di prima... anche se sicuri non lo si è mai al cento per cento.. di umanamente sicuro c’è solo il fatto che ad intervalli regolari ci dobbiamo recare a visitare il primo bagno in zona... 2_ Il termine Ronda sarebbe etimologicamente legato a “rondò”, movimento conclusivo del concerto e della sonata costruito su un tema principale ripetuto e alternato con altri temi da esso derivati. Curioso, nevvero? Moltissimo!! Direi che la somiglianza è decisamente realista, anche il fenomeno della ronda è costruito su di un tema ripetuto e alternato con altri temi da esso derivati: il tema ripetuto è la volontà di garantire la sicurezza e quelli derivati ad esempio sono la prevenzione di potenziali situazioni di criminalità minorile, piccola delinquenza, danni al patrimonio pubblico e privato, ordine pubblico.. 3_ Perché le ronde? Da cosa nasce il bisogno? La polizia e i voyeurs non bastano più? O è un buon pretesto per prendere una boccata d’aria, che di questi tempi dio solo sa quanto ce n’è bisogno? Le forze dell’ordine non bastano e questo è un dato di fatto e oggettivo. Qualsiasi amministratore dovrebbe considerare questo nel gestire il proprio territorio. Spesso il servizio di Polizia Locale è usato per “far multe” e questo è un forte limite — 34 —

per la dignità dei vigili ed una mancanza di rispetto per il loro ruolo. Invece di mandarli a multare i cittadini, quando i cittadini superano di pochi km/h il limite di velocità, sarebbe opportuno sulla base di uno studio ragionato e serio, mandarli a perquisire appartamenti, ricettacolo di piccola delinquenza e prostituzione, o a prevenire sulle strade il pericolo di furti e scippi. Questo è una volontà di agire che spetta al sindaco, essendo per legge a lui delegata la funzione di controllo dell’ordine pubblico. Alcuni sindaci hanno le palle per far fare ai vigili seria e metodica prevenzione, altri si tappano gli occhi con fette di mortadella restando sordi alle lamentele dei cittadini e dimenticando chi li ha eletti e per cosa. Noi, amministratori della Lega, su questo siamo inflessibili, prima mandiamo i vigili per le case e poi a multare, prima diamo loro dignità e merito del loro ruolo, poi li mandiamo per le strade a multare. É chiaro che le ronde dimostrano evidentemente un fallimento chiaro e netto della funzione del servizio di vigilanza locale, non certo per incompetenza dei vigili, anzi! Ma per la totale incapacità di gestirli da parte di assessori e sindaci... 4_ Poniamo un caso: lei è una ronda, rondando in un parchetto le cade l’occhio su dei giovini perdigiorno pieni di capelli, dall’atteggiamento spiacevolmente sciallato. Aguzza lo sguardo: stanno rollandosi una canna. Come agisce? Le ronde non hanno potere di intervento, perché vanno intese come associazioni volontarie di cittadini con azione di supporto per le forze di polizia locale ma non di intervento diretto, e nel caso ipotizzato sarà dovere dei volontari segnalare alle competenti forze di ordine pubblico le circostanze di quanto rilevato. 5_ Illazioni sparse: farsi giustizia da sé è l’anticamera dello squadrismo fascista. Le ronde possono finire, nascostamente, prezzolate da interessi privati, personali, partitici, perfino mafiosi. Le forze dell’ordine si troverebbero a fare il doppio del lavoro, dovendo proteggere i rondìni stessi. Esiste il rischio di accanimento su

un “nemico sociale”: il rom, lo zingaro, l’accattone, la puttana. Chi fa la spia non è figlio di Maria. Risponda con frasi brevi e con pochi congiuntivi. Rispondo dicendo che parlare di fascismo, accanimento, far la spia, interessi personali ecc… sia del tutto inappropriato. Va riconosciuto merito e credito a cittadini che spendono del tempo della propria vita per garantire controllo sul proprio quartiere o sulle proprie vie. Non si tratta di accanimento verso determinate categorie sociali, perché è evidente che chi è fuori dai binari della legalità va perseguito. 6_ Poniamo un caso: lei è una ronda, rondellando in un vicolo scuro trova uno stupro. Lo raccoglie? Gli incute timore con una frase ad effetto tipo “Sono la paladina della legge, una combattente che veste alla marinara”? Telefona a chi sa che farsene? Dipende poi dalle circostanze di tale crimine. Di sicuro qualora le circostanze lo permettano occorrerà intervenire immediatamente o chiamare le forze dell’ordine. Ma è altrettanto evidente che tale comportamento di supporto a chi sta subendo violenza lo dovranno avere i rondini, così come qualsiasi cittadino che per caso si trovasse ad assistere a tale crimine. Spero ecco che tutti ci sentiremmo in quel caso nel dovere o nella possibilità di intervenire. 7_ É d’accordo con le ultime clamorose uscite di Sigmund Freud in favore della castrazione chimica? Ho visto recentemente il signor Freud in tv (un po’ invecchiato devo dire) sostenere a UNO MATTINA questa tesi. Le dirò che mi sembra un’idea rivoluzionaria e qualora legalizzata a mio modo di vedere corretta. Fatto salvo che prima gli stupratori occorrerà identificarli e acciuffarli. 8_ Poniamo un caso: lei è una ronda, rondinando incontra un malvivente vero, di quelli che ha sempre visto su CSI, diciamo a dir poco un magnaccia intento a picchiare la sua lei. Si accorge del suo occhio indiscreto e, nell’ordine, le grida, — 35 —


le sputa, le corre, le spintona, le pugna e le spara. Riuscirà, carica di Maron gaudio, ad essere più cattiva di lui? Dall’esempio questo mi sembra un serial killer più che un magnaccia.. ad ogni modo non saprei che dirle perché il mio sangue freddo a volte va a farsi friggere e no escludo il fatto di potermi addosso al magnaccia e dargli un calcio nei coglioni fatto bene... ricordo con dolce nostalgia che a 15 anni quando i ragazzi non veneti (si badi bene non ho detto terroni!!) provavano a portarci via le ragazzine in compagnia, spesso e volentieri le serate sui trasformate in amorevoli scazzottate per difendere ciò che era il nostro prodotto locale (bagiogiola veneta su motorino)… 9_ Domanda lunga. Si sieda. La sua città, Verona, ultimamente è stata testimone di fatti che danno al folklore tutta una nuova accezione: pestaggi a suon di posacenere, schedature etniche, un omicidio, per parlare solo delle cose più recenti. In questo clima da Far West non ritiene quantomeno fuori luogo l’atteggiamento di un sindaco Flavio Tosi, fresco e fiero di una condanna per istigazione alla discriminazione - che invece di calmare le acque getta benzina sul romeno fuoco, marciando in testa a cortei di Forza Nuova, arruolando nel suo esecutivo ex picchiatori dichiaratamente neonazisti come Miglioranzi, flirtando con negazionisti lefreviani del calibro di don Abrahamowicz, e in generale proponendo un modello in cui l’identità (padana) diventa una roccaforte, e il diverso un pericolo? Non scorge il nesso tra una politica del genere - e la relativa propaganda - e derive anche tragiche di “giustizia fai da te” - di cui le ronde, in questo senso, risultano solo una versione più edulcorata? Esiste una responsabilità, puranche indiretta? Le parole hanno ancora un valore? I rapporti causa-effetto funzionano anche sopra il Pò? A Verona non vi è nessuna situazione di Far West (forse voglia— 36 —

mo paragonarci a comuni del sud dove la mafia ammazza per la strada un giorno si e uno no?). La nostra sfortuna è di avere SOLO UN FLAVIO TOSI. La condanna per istigazione è stata chiaramente voluta e decisa per tentare di screditare la figura di Tosi, ma purtroppo per chi lo voleva, tale denuncia ha sortito l’effetto contrario. E lo dimostra il fatto che il 60 ed oltre per cento dei veronesi ha preso tale condanna, se ne è sfregata il sederino e ha dato a Tosi mediante i voti la possibilità di dare loro quella sicurezza che il suo predecessore Zanotto non poteva certo percepire stando sempre chiuso nel proprio ufficio di palazzo Barbieri... Tosi è un sindaco con i coglioni , e di sicuro lo ha dimostrato ripulendo Veronetta (sarà un caso che tutti chiamavano questa zona Negronetta??) da situazioni poco chiare negli appartamenti del quartiere. In merito alle dichiarazioni dei lefreviani, la Lega è stata chiara pubblicando su l’Arena un articolo dove si dissociava da tali dichiarazioni e dichiarando del tutto ingiustificate tali affermazioni. É evidente che la Lega, per il fatto di voler difendere l’identità cristiano padana delle regioni del Nord, trovi consenso proprio in quei cattolici che rimpiangono la Chiesa vecchio stile. Ma io non farei un motivo di scandalo anzi!!

mettersi un comportamento così anti cristiano, scandalo per noi la questione dei crocifissi e del totale relativismo in cui sta cadendo la società), difendiamo la nostra gente da quanti vogliono in maniera NON LEGALE mettere a rischio i nostri equilibri secolari, difendiamo la famiglia da quanti vogliono dichiarare famiglia ciò che Dio non ha dichiarato famiglia (chi osa mettersi prima di Dio? Eppure molti pretendono di essere Dio), difendiamo come molti popoli fanno, il nostro territorio, la nostra lingua. Lo abbiamo fatto SEMPRE IN MANIERA CIVILE E LEGALE, e per questo che altri rispettino le nostre leggi come noi rispettiamo le loro.

12_ Perché mai non ha rifiutato di farsi intervistare dal Traghetto Mangiamerda? Perché ritengo che tale i TREGHETTATORI DI MERDA merito il giusto rispetto e non vada mai negato il dialogo civile e democratico verso quanti vogliono affrontare i problemi che costituiscono la nostra ragion d’essere uomini o donne. Grazie a voi!!

10_ Perché i piccoli di canguro lasciano l’utero materno solo a metà del loro sviluppo? Ho trovato la risposta a questa sua pertinente domanda su DONNA MODERNA proprio l’altro ieri. Diceva che tale bizzarro avvenimento succede perché è nata un’associazione di cangure che proclama l’emancipazione dei cangurini per chiedere al governo di cangurolandia una borsa di studio per accelerare l’autonomia negli studi e nel mondo del lavoro... 11_ Ha mai letto la rivista “La Ronda”? Lo sa che odiavano i futuristi e adoravano Manzoni e Leopardi? Siete anche voi dei classicisti? No non l’ho mai letta. Sono un leghista sincero e non mi crogiolo al sole per meriti non miei. No siamo dei tradizionalisti e come tali difendiamo le nostre origini cristiane (scandalo per noi la questione di Eluana e che alcuni ritengano di poter per— 37 —


Scampolo sociologico di Luca Zambelli

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ilfredo Federico Damaso Pareto era un ingegnere minerario, poi si dedicò allo studio della scienza economica, non soddisfatto si concentrò sulla sociologia. Affermò, forse non per primo, che: l’uomo non è un essere razionale, ma razionalizzante. La maggior parte delle decisioni che prendiamo quotidianamente, secondo Pareto, non soddisfano i criteri di logicità che caratterizzano una azione razionale. Perché una azione sia razionale deve prevedere l’utilizzo di mezzi adeguati al raggiungimento del fine, e deve prevedere un fine e dei mezzi concreti. Se si accetta questa definizione possiamo renderci facilmente conto che il numero di decisioni razionali che prendiamo è piuttosto limitato. Al contrario la natura razionalizzante dell’uomo è quella che ci porta a giustificare razionalmente decisioni prese non razionalmente. Ovvero attribuire razionalità a cose o contesti che ne sono scarsi. La maggior parte delle scelte che facciamo, sebbene non logiche secondo la definizione data sopra, vengono da noi giustificate a noi stessi e agli altri in un momento successivo, per restituirci l’immagine di esseri sostanzialmente razionali, alla quale siamo affezionati. Le nostre capacità logiche vengono usate maggiormente per trovare una giustificazione alle nostre scelte che per operare delle scelte logiche. Per essere convinti da qualcosa/qualcuno non è necessario che le sue argomentazioni siano strettamente logiche, è sufficiente che appaiano logiche e ci forniscano elementi per giustificare le nostre scelte. Volendo esemplificare, fare la danza della pioggia perché passi la siccità è un azione che immediatamente riconosciamo come non logica. Ciò non toglie che possa essere fondamentalmente utile alla data società per superare il momento di crisi. Questo esempio ci serve proprio per ricordarci che non necessariamente è negativo il fatto che si adotti un comportamento non logico. Ma venendo a noi, è giustificabile parlare di delirio securitario? Probabilmente si tratta di una serie di decisioni politiche che se fossero adottate per risolvere i problemi che dichiarano di voler risolvere avrebbero dei forti caratteri di illogicità.

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Esempio: chiudere i campi rom perché i rom stuprano e rubano non porta ad un superamento del problema, ma comporta la destabilizzazione di una situazione che si stava normalizzando, lo sgretolamento di un lavoro durato anni, una condizione di maggior incertezza da parte delle famiglie rom che la subiscono. Conseguenza? maggior facilità di optare per soluzioni non legali per risolvere le situazioni di crisi, in quanto difficilmente ci si sentirà parte della comunità Stato italiano. Esempio: criminalità giovanile. Troppi giovani in strada assumono comportamenti devianti, illegali o sconvenienti. Soluzioni: divieto di consumare bevande o cibi per strada, equiparazione di tutte le sostanze tossiche, psicotrope o allucinogene, diciamo droghe, cambio di mansione per l’esercito e rafforzamento delle forze di polizia con soldati. Queste soluzioni non prevedono un finanziamento e uno sviluppo di contesti tutelati per i giovani, anzi, i fondi per la prevenzione vengono drasticamente tagliati dal comune. Conseguenze? Quanti si trovano in un contesto di crisi all’interno della realtà familiare, o nel contesto di amici, di quartiere nel quale sono inseriti non trovano un sostegno che li aiuti ad evitare di assumere comportamenti pericolosi, ma si ritrovano isolati, etichettati e trovano come più semplice soluzione assumere proprio quei comportamenti per i quali le iniziative vengono prese. Se noi proviamo ad associare queste soluzioni ai problemi che dichiarano di voler risolvere non è difficile renderci conto come non siano la soluzione di questi problemi. Se invece assumiamo che lo scopo di queste iniziative non è la soluzione del problema sicurezza, ma l’aumento della base di voti delle forze politiche che le propongono, tutto sembra funzionare più correttamente. Sono infatti iniziative che rafforzano l’identità di cittadini che vivono quotidianamente in una sensazione di insicurezza. Sembrano soluzioni forti che danno una rapida e dura risposta ai problemi percepiti, sono soluzioni che non richiedono nessun tipo di sforzo da parte del cittadino, che individuano nell’altro l’origine di ogni problema, individuando dei buoni e cattivi, che tranquillizzano la persona che si trovava in condizione di incertezza, che facilmente ha trovato un nemico, e si sente un buono. È un delirio con delle spiegazioni che appaiono perfettamente accettabili. Non serve a risolvere i problemi? Meglio, non dovremo pre-

occuparci di trovare nuove emergenze di cui divenire paladini, il nostro successo politico è assicurato. Se leggiamo l’operare dei politici come teso alla massimizzazione dei voti, come sostenuto da diversi teorici, questo comportamento, queste decisioni e dinamiche sono perfettamente logiche. Non ci aiuta a risolvere la situazione provare a spiegare razionalmente l’inutilità di alcune soluzioni date, perché probabilmente ci saranno spiegazioni, magari meno logiche, ma più comode, che sosterranno il contrario. Situazione perfetta: sembrare logici senza dover fare la fatica di esserlo. Forse la soluzione non è dare risposte logiche o razionali, forse è riuscire a dare risposte con un forte valore ideologico in grado di far alzare la testa dalla piastrella in cui ci troviamo in piedi, in grado di emozionare, coinvolgere e convincere più di quanto

facciano questa para-razionalità e pseudo-materialismo securitario. Forse l’ideologia che, come suggerito da Irti, potrebbe essere la soluzione per svincolarci dalla tenaglia delle pressioni della scienza e della religione in politica, può essere utile anche al superamento della sensazione di insicurezza che ci viene costruita attorno. Purtroppo non sembrano arrivare molte idee su questo piano. Ognuno è chiamato a cercare di dare il suo contributo. La tentazione è di affidarsi ai militari nelle loro jeep nell’attesa. Bibliografia Irti, La tenaglia Rutigliano, Teorie sociologiche classiche — 39 —


Distanze di paolo la valle

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n metro, due metri, tre metri. Non parlo col mio vicino e mi sta sul cazzo quello che sta al piano di sotto. La mia morosa sta a duecento chilometri, il mio migliore amico sta in centro, lui sì che è fortunato, scende e il cinema ce l’ha già sotto casa. Io mi sbatto a prendere l’autobus, che finisce pure le corse presto e, se non mi riaccompagna il mio amico con la macchina dei suoi, a mezzanotte sono già a casa. Un metro, sei fermate o duecento chilometri. Il mio vicino non lo cago, quello che sta al piano di sotto tossisco se lo vedo, la mia morosa le voglio bene, il mio amico mi fa compagnia. Con lui vado al cinema e dopo, se i suoi gli lasciano l’auto che quella sera a loro non gli serve, vado a bere una birra in un posto che sta un po’

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Illustrazione a fronte di Nicola Maria Salerno.

fuori. Io tre birre, lui due, perché guida. Un metro, due birre, sei giorni la settimana sono quelli in cui mi tocca lavorare, perché quello che non finisco il venerdì lo finisco il sabato pomeriggio, non la mattina, che almeno il sabato mattina voglio dormire, quell’oretta in più, mica tanto, giusto per ricordarmi che se devo divertirmi ci metto un sacco di tempo solo per arrivare nel posto in cui mi devo divertire, mentre per farmi girare il

cazzo ci metto poco, basta che esco sul poggiolo e aspetto che lo stronzo torni a casa, poi tossisco e rientro con le palle girate. La mia morosa invece sta lontano, ma forse è un bene, oddio sì, mi manca, ma quando viene qua finisce che litighiamo e così in camera ho due letti, uno per me, uno per lei, per quando si incazza e vuol dormire sola, anche se a un metro da me. Valla a capire. Un metro, un ballatoio e un autobus, ma quando devo prendo il treno per andarla a trovare se no mi si incazza, non che c’abbia sempre voglia di smazzarmi il treno, ma se glielo dico si incazza di più, mentre così almeno sta buonina. In treno ci metto quattro ore ad andare e una decina di minuti a trovare un posto che sia libero, mentre ce ne metto venti a trovare un posto che sia libero e con nessuno accanto, così posso allungare le gambe e non ho problemi perché non ho nessuno vicino che attacca a parlarmi, mi leggo il giornale che mi domando ancora perché lo compro, tanto non dice mai nulla e allora dormo che tanto fuori la padana è di una noia mortale. Un metro, sei ore, una metro, no, la metro no, un sistema di funi e carrucole, quello sì. Così ci si appende e si arriva subito dove si vuole. Mi attacco alla corda con dei guanti belli robusti e scivolo e in un momento sono al cinema, dal mio amico o dalla morosa e salto le parti in mezzo che mi stanno sul cazzo, il ballatoio, l’autobus, la metro o la strada. Ci arrivo dritto dritto svolazzando nell’aria e inquino anche poco, anzi niente, alla faccia dei SUV di merda. E poi metto un gancio a tutti i posti in cui devo arrivare, dalla morosa, dall’amico, al cinema, al locale, in edicola, tutte funi che attraversano la città e arrivano giusto dove voglio arrivare, senza troppe rotture di maroni. Se ci fosse il teletrasporto sarebbe più facile, ma ho letto da qualche parte che sembra che forse, mah, non si sa, non sia possibile inventarlo, ma dimmi te se si devono leggere questa cagate sui giornali, poi nessuno li compra. Comunque sarebbe una soluzione: fare un paese tutto pieno delle mie funi, anzi, ciascuno con le proprie funi che le attacca dove cazzo vuole, e tra una fune e l’altra c’è lo spazio vuoto che non ci vai, non per horror vacui,

ma proprio per evitare rotture di maroni, perché già c’è poco tempo, se si deve sprecare il minutaggio a ogni scassamento di balle che si incontra per strada siamo messi male. Così io negli spazi vuoti non ci vado e nessun contrattempo a rompere le balle, né quello che chiede una monetina, né quello che ti invita alla laurea perché vuole farsi perdonare qualche roba che ti ha fatto, lanciami la tua fune, io non la aggancio e morta lì. Stasera rimango a casa perché sono sei giorni che finisco tardi e sono stanco, vorrei guardare la televisione, ma si è rotto il telecomando e la tele non cambia canale né con le funi, né coi ganci, né con la morosa che tanto questo sabato non è venuta, meno male, perché non c’avevo voglia. Magari stiro.

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Di strade

Illustrazione a fronte di Nicola Maria Salerno.

di Filippo Milani Uno.

Due.

Tre.

dire il vero, le strade intorno a me sembrano tutte soltanto strade, cioè come se non ci fossero gli altri accidenti, tipo le case, i giardini, i palazzi. Sembra, invece, che la città sia fatta tutta quanta solo di strade, strade che girano a destra, girano a sinistra, si incrociano, e a volte fanno le rotonde e continuano a girare, poi a sinistra, a destra, sempre dritto, in fondo. Così a me, che sto passeggiando per andare dove devo andare, mi pare che è uguale se io prendo a destra o a sinistra, in quella strada lì o quella laggiù, che tanto una vale l’altra, perché il posto dove devo andare non c’è: solo strade, nient’altro che strade. Allora in una città dove ci sono soltanto strade non ha senso andare (giusto?), perché tanto non vai da nessuna parte, anche se ci volevi proprio andare. Ma le macchine ci sono lo stesso, e anche gli autobus, i taxi, i vecchi in bicicletta, i motorini, le cacche e le buche. C’è tutto, ma non vai da nessuna parte. Niente casa, non ci puoi tornare, e nemmeno in quella dei tuoi amici, non c’è nemmeno quella. In giro per la città fatta solo di strade, decido a caso dove svoltare, per non andare da nessuna parte, magari scopro che ci sono cose nuove, dove non sono mai stato prima. Posso anche prendere l’autobus e restarci su quanto voglio; magari mi addormento e sogno, o magari penso alle storie che mi piacciono di più, quelle che mi vengono in mente sempre quando sono sull’autobus e non le posso scrivere. E se vedo un amico che passa per strada scendo e gli dico se posso camminare con lui, lui mi dice di sì tanto non ha dove andare. Allora chiacchieriamo e quando sono stufo gli dico che mi aspettano di là e giro a sinistra. Giro in uno stradone lungo che non sembra finire proprio mai, e allora quasi quasi mi metto a camminare come Charlot, con il bastone e le scarpe grandi, proprio come quando finiscono i suoi film, almeno fino alla prossima curva, almeno.

Anche oggi ho promesso alla mamma che torno per la strada giusta da scuola, dritto a casa come dice lei. Io le dico queste cose perché così lei sta tranquilla e non si preoccupa che sbaglio strada. La mia mamma dice sempre di fare attenzione, che se sbaglio strada, trovo le brutte compagnie e prendo una cattiva strada e a casa poi non ci torno più. Io però della solita strada ogni tanto mi stufo, perché la solita strada è sempre la stessa e non ci sono cose nuove da vedere. Ma io ho anche paura della strada cattiva, che poi a casa non ci torno più e resto per strada con le brutte compagnie, e io non ci resto con loro. Allora qualche volta provo a vedere che cosa c’è nelle altre strade vicino alla solita strada che faccio, che da scuola porta a casa sempre dritta. Mi fermo e vedo che le altre strade non finiscono mai, poi ci sono altre strade che cominciano da queste ma non vedo dove vanno a finire. Chissà se sono tutte cattive, io proprio non lo so.

Io una cosa che non ho capito mai è perché quando uno guida deve sapere per forza la strada che deve fare, anche se magari non c’è un posto dove vuole arrivare, però lo deve sapere lo stesso. Se uno ad esempio vuole prendere la macchina e guidare a caso dove gli pare non può mica perché tutti gli chiedono dove deve andare, anche i vigili, e lui anche se risponde che non deve andare da nessuna parte ma in quel momento ha voglia di andare così in giro, nessuno gli crede perché non si va in giro così a caso senza una meta. Questo io non lo capisco perché, secondo me, la macchina serve per andare in giro anche per non andare da nessuna parte, come quando prendi la bicicletta e dici vado a fare un giro, nessuno ti chiede dove vai, perché tanto vai a farti un giro in bicicletta, invece se vai in macchina te lo chiedono. Non ho mai capito perché. Infatti a me piace andare in macchina per fare i giri, perché se faccio un giro a piedi vedo le cose alla mia velocità, se vado in bici vedo le cose alla velocità della bici, se vado in macchina vedo le cose veloci fuori dal finestrino, che si muovono quasi da sole. Io non corro veloce in macchina però mi piace vedere il solito paesaggio che vedo tutti i giorni muoversi più veloce, che così mi sembra che non è fermo come sempre. Faccio solo un giro in macchina, da nessuna parte, poi torno a casa, prendo la bici e allora vado dove devo andare, così ci arrivo tutto sudato ma anche contento di aver preso la bici per andare dove dovevo andare e la macchina per fare solo un giro. Secondo me la macchina serve solo per farci dei giri, mentre la bici o i piedi per andare dove devi andare, che non c’è mica fretta di arrivare.

A

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In punta di manganello.

Fuck the curfew

primo concorso di poesia securitaria

M

ondine e tronisti, a-attenti! Abbiamo un vincitore. Ci inchiniamo con tutto il disprezzo possibile a Roberto Batisti, che con il suo componimento svetta imperioso sopra tutti i testi (comunque visibili e deridibili sul nostro sito) arrivati in redazione dal 1932 ad oggi.

Ha vinto lui, in ossequio all'eteronormatività, rispettando tutte le sciocche regole imposte dal bando: lunghezza massima di 30 versi, uso obbligato di tre parole — paguro, trementina, deflorare. Il buon Roberto ha saputo deliziarci con una prosodia ardita e dolce, picchi di spocchia ben aperti a venature decisamente pop, anagogie a stecca. Pane e baritonesi. Insomma, ecco la poesia. Immaginate le altre.

non più sacri confini verdi e blu deflorati dalle punte arrugginite di odorosi vettori demografici! sotto gli stivali delle nostre ronde si spande il tuo sangue d’insetto se con fionde o con barbare zagaglie attenti alla nostra bianca quiete! nerbate sulle gengive ai trasgressori della patria favella, misurata con forbici per unghie e con righelli millimetrati! si fotta il coprifuoco, amici cari: voglio nei miei scoli lacrimali e nelle nari una città speziata, chiaroscurale, levantina, dove le declinazioni di ogni sole si mischino all’odore di sentina! la tua fiatella sa di trementina: urge il catalogo del contenuto delle vene tue poi sarai sferzato con nervo di bue nel pubblico angiporto, alle due di notte, sarai nero di botte quanto nero è il nostro orbace! nun te piace? emigra a Palinuro; ingurgita ioduro di qualsiasi cosa; toh, la stella rosa per far vedere al mondo che sei culo: sicuro: niuno varchi l’uscio, ma si rinserri in casa e ivi conduca vita da paguro! Roberto Batisti

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finito di stampare nella Serenissima Repubblica nel 1571 la tiratura è di: 8 metri in questo numero la lettera “p” compare 865 volte — 46 —

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Pe rc h ĂŠ Tu n o n a s c o l t i , o S i g n o re ? Vorrei tu mi armassi la mano per incendiare il piano padano

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