Paolini Villani la “Compagnia veneziana delle Indie”

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PAOLINI VILLANI LA “COMPAGNIA VENEZIANA DELLE INDIE”



Massimo Orlandini

PAOLINI VILLANI LA “COMPAGNIA VENEZIANA DELLE INDIE” CENTO ANNI DI LAVORAZIONE DELLE DROGHE, DELLE SPEZIE E DEI COLONIALI TRA VENEZIA, MESTRE E PORTO MARGHERA prefazione di Giorgio Roverato

con uno scritto di Silvana Alessandrini e Alvise Zoppolato

ILPOLIGRAFO


Referenze fotografiche Gli Autori e l’Editore ringraziano tutti coloro che hanno fornito le immagini pubblicate all’interno del volume: l’Archivio del Comune di Venezia, per le immagini della pianta e del prospetto dello stabilimento Paolini Villani; l’IRE - Istituzioni di Ricovero e di Educazione, Venezia, Fondo Fotografico Tomaso Filippi; Silvana Alessandrini, Paola Landsmann, Elena Mantovani, Eva Palma, Alessandra Palma, Sabrina Rizzi, la famiglia Spinato e Alvise Zoppolato. Dove non diversamente indicato, le immagini provengono tutte dall’Archivio privato di Massimo Orlandini.

Progetto grafico e cura redazionale Il Poligrafo casa editrice grafica Laura Rigon redazione Alessandro Lise © copyright maggio 2017 Il Poligrafo casa editrice 35121 Padova piazza Eremitani - via Cassan, 34 tel. 049 8360887 - fax 049 8360864 e-mail casaeditrice@poligrafo.it ISBN 978-88-7115-995-9


Indice 7

Prefazione Giorgio Roverato

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Paolini Villani, dalla rĂŠclame alla pubblicitĂ Massimo Orlandini

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Paolini Villani: le famiglie, i luoghi e i protagonisti Silvana Alessandrini e Alvise Zoppolato

APPARATI

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Cronologia

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Bibliografia

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Ringraziamenti

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Note biografiche degli autori

a cura di Massimo Orlandini



Prefazione

Giorgio Roverato Università degli Studi di Padova

Solitamente una prefazione si limita a illustrare le qualità di un volume, e a certificarne la validità scientifica. Il mio intento è invece diverso, e si propone di dimostrare come questo lavoro – sviluppato da autori che non sono storici di mestiere – si ponga, con un approccio assolutamente originale, in quel filone di studi che negli ultimi due decenni del secolo scorso, e nei primi anni di questo, ha consentito di ricostruire le vicende delle maggiori imprese del nostro paese, presenti o scomparse che fossero. Certo, la Paolini Villani & C., azienda veneziana attiva nella lavorazione delle spezie e nei preparati e surrogati alimentari, era di contenute dimensioni, tanto che nel momento di massima espansione mai superò i 150 addetti. E, tuttavia, essa a partire dagli anni Venti del ’900 si trovò, per competere in un mercato che stava divenendo di massa, a confrontarsi con uno degli elementi-cardine delle produzioni serializzate, ovvero la comunicazione pubblicitaria: che, come il volume illustra, essa utilizzò nelle variabili forme via via rese disponibili nella progressiva modernizzazione del paese. Tanto che fu tra le pochissime imprese minori che poterono (e dovettero!) affrontare la costosa pubblicità televisiva del popolarissimo “Carosello”, vetrina privilegiata dei grandi produttori dei beni di largo consumo. Ma ritorno al filone di studi cui ho fatto riferimento, quello della storia d’impresa. I venti/venticinque anni che indicavo, furono un periodo prolifico di lavori, realizzati con vero e proprio entusiasmo da molti giovani ricercatori, in gran parte riuniti nell’Associazione di Studi e Storia sull’Impresa di Milano, che avvertivano di essere partecipi di un’opera in qualche modo pionieristica: l’avvio di una “nuova frontiera” storiografica. Vediamone i punti salienti.


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1. Non è dubbio che si trattò di uno sforzo collettivo che consentì di recuperare in un tempo relativamente breve il ritardo della storiografia italiana rispetto ai risultati raggiunti dalla ricerca accademica negli Stati Uniti, in Inghilterra, Francia e Germania, alle cui metodologie i ricercatori italiani in parte si ispirarono, pur tenendo a mente le particolarità dei diversi contesti e sistemi economici e, cosa non secondaria, le tare della nostra industrializzazione ritardata e il geograficamente disomogeneo spirito d’iniziativa dei nostri imprenditori. Fu tuttavia dalla Business History statunitense, e dalle intuizioni del suo massimo studioso, Alfred D. Chandler jr, che i ricercatori di quel periodo trassero – più che un improbabile modello – un metodo di lavoro. Che consentì, ad esempio, di capire che studiare un’impresa aveva senso solo mettendola in continuo raffronto con il settore di appartenenza, per cogliere il grado di influenza da essa esercitato sui comportamenti dei competitori, e quindi se l’impresa studiata fosse davvero leader di mercato di quel determinato settore merceologico. Dove leader di mercato non sempre è, non necessariamente almeno, il produttore più grande: bensì chi ne “detta” le regole in termini di innovazione, qualità e, anche, comunicazione, costringendo i concorrenti ad adeguarvisi in una continua rincorsa. Il che, peraltro, si traduce in un vantaggio per l’altro protagonista di quel mercato: il consumatore. Beh, se leader di mercato è chi sa fare ciò, l’impresa di cui questo libro parla fu davvero punto di riferimento ineludibile del proprio comparto. Ma cos’è concretamente la Business History, ovvero l’italiana storia d’impresa? Interrogativo non superfluo, stante il mio attribuire questa ricerca a quel filone di studi. Essa costituisce una branca specialistica della storia economica, e indaga i meccanismi di crescita e di successo (e a volte anche di insuccesso) di una tra le fondamentali strutture organizzative in cui si articola la vita associata: l’impresa, appunto. Impresa che è ad un tempo soggetto economico ma anche “comunità” di individui, almeno nella misura in cui quanti vi lavorano condividono un tratto più o meno lungo del percorso individuale di chi la dirige, imprenditori o manager che siano, partecipando di un comune senso di appartenenza e di identità. Se la storia economica ci restituisce il profilo di un’area, una regione o uno stato nel variare dei suoi grandi aggregati statistici e delle politiche economiche, la storia d’impresa – generalmente applicata alle grandi imprese, che costituiscono l’asse portante dello sviluppo di un territorio – consente di andare oltre la presunta oggettività dei dati quantitativi e di cogliere la variabile “qualitativa” di un’economia data. E ciò attraverso l’analisi delle strutture organizzative delle aziende leader di mercato, del loro livello tecnologico e capacità di innovazione, e ora anche dei loro diversi percorsi di internazionalizzazione. 2. Occupandosi di ricostruire la nascita e lo sviluppo delle imprese, la storia d’impresa trae origine da un interesse specifico: quello per la pulsione imprenditoriale in quanto tale. Di conseguenza essa è portata a chiedersi cosa induca una persona a intraprendere: che non è detto sia solo l’aspirazione a migliorare le proprie condizioni economiche e/o il proprio stato sociale. A volte la spinta può arrivare dal desiderio di sperimentare in concreto un processo innovativo cui ci si è applicati per curiosità scientifica, altre per la passione per un bene che si ritiene di poter realizzare con maggiore competenza e cura di altri, la ricerca dell’eccellenza per intenderci, o ancora perché si è immersi in un contesto territoriale in cui una specializzazione produttiva dominante (penso ai cd. distretti industriali) porta naturalmente a inserirvisi, in una sorta di assunzione naturale, ad esempio, della cultura materiale della comunità in cui si vive. O, caso non infrequente, il desiderio di produrre direttamente il bene che si commercializza: il che riporta a questo libro, perché la Paolini Villani fu, in definitiva, esito di quel tipo di scelta. Legato a quello sulla pulsione a fare impresa c’è, in chi si occupa di tale ambito di studi, l’interesse (cruciale) per le risorse o, meglio, per l’origine delle


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risorse che quell’uomo, o quel gruppo di uomini associati tra loro, riescono a mettere in campo per perseguire l’idea-business o, comunque, il proprio obiettivo. Un difetto che può essere individuato in questo tipo di studi consiste nel privilegiare le imprese di successo, quelle che hanno costituito, e che magari ancora oggi costituiscono, il punto di riferimento di un determinato settore. In effetti, le imprese di successo, contrariamente a quelle che sono fallite o cessate, sono ancora attive e quindi conservano al loro interno il materiale archivistico che consente di studiarne l’evoluzione, mentre con le imprese che non hanno avuto successo è scomparsa buona parte delle tracce documentarie dei loro percorsi, o – meglio – è scomparsa tutta la documentazione aziendale mentre sopravvive quella depositata per legge presso le Camere di Commercio e/o gli organi centrali e periferici dello stato. Se si vuole capire il motivo per cui alcune imprese sono fallite, fatto non indifferente nello studio dell’evoluzione di un territorio o di un settore, è necessario tuttavia includere anche queste nel campo d’interesse dello storico. In Italia questo tipo di studi non si è ancora affermato, se non in qualche caso sporadico, mentre ci sono paesi in cui gruppi di studiosi si sono dedicati specificatamente a questo settore. Mi riferisco in particolare alla Germania, dove sono state analizzate molte serie di fallimenti nel tentativo di capire le possibili cause della mortalità aziendale. Il risultato più interessante di questi studi è che quasi mai le imprese fallivano per carenze tecniche dell’imprenditore. In genere questi dimostrava capacità, anche notevoli, nello sviluppare il prodotto, ma non sapeva nulla di contabilità, accorgendosi troppo tardi che stava lavorando in perdita o, ancora, non aveva le competenze per dotarsi di un’adeguata rete commerciale e distributiva. La storia d’impresa è andata formandosi – dapprima come pratica storiografica, e solo successivamente come disciplina accademica –nei grandi paesi industriali, a partire dall’Inghilterra, dove tra gli anni ’20 e ’30 del Novecento iniziarono i primi studi, per passare poi alla Francia, alla Germania e soprattutto agli Stati Uniti. Qui, nel secondo dopoguerra, fiorì una serie interessantissima di studi, che ricostruirono le vicende tecniche, organizzative e finanziarie di buona parte delle sue maggiori imprese: quelle – per intenderci – che nel loro evolversi in multinazionali – costituirono l’inconsapevole modello della grande impresa di tutto il mondo occidentale, condizionando i comportamenti anche delle concentrazioni produttive che andarono poi sviluppandosi nei paesi emergenti, segnatamente Cina, India, Corea del Sud e Brasile. 3. In Italia la storia d’impresa, ovvero un suo primo inizio, risale alla metà degli anni ’70 del Novecento. Il motivo è evidente: l’Italia è un paese a sviluppo ritardato, e quindi anche la storiografia ne ha risentito nel suo sviluppo. Ha pesato anche una certa diffidenza della cultura accademica nostrana verso tale tipologia storiografica. In sostanza, si obiettava da parte di taluni, la storia d’impresa non è altro che una microstoria rispetto ai grandi aggregati statistici normalmente oggetto delle ricostruzioni d’insieme della storia economica. Che cosa poteva essa permettere di conoscere in più rispetto a quanto non consentissero le serie statistiche? Nulla, si rispondeva! Era, ovviamente, una percezione errata. Se andiamo infatti a studiare una grande impresa leader nel proprio settore, ci accorgiamo che nella documentazione archivistica e nell’evoluzione dell’andamento di quell’impresa si condensa la conoscenza dell’intero settore, perché essa intratteneva/intrattiene rapporti con una miriade di soggetti, dalle imprese minori alla pubblica amministrazione latamente intesa, allo stato. Di conseguenza, utilizzare il suo archivio significava (significa) acquisire una serie di informazioni e dati relativi a quel determinato universo merceologico. Pensiamo solo al caso della Fiat, i cui archivi sono stati gradatamente organizzati e messi a disposizione degli studiosi nella bellissima


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sede della ex Lancia a Torino: e lì è conservata la storia, stante le progressive acquisizioni di marchi terzi, di quasi tutta l’industria automobilistica italiana (con la sola eccezione dell’Alfa Romeo) e dei suoi rapporti con le imprese siderurgiche, le fornitrici della materia prima essenziale di quel ciclo produttivo, e – successivamente – con i produttori di componentistica, anche sofisticata, via via esternalizzata. Con ciò arriviamo a quello che può essere considerato quasi il prodromo della storia d’impresa in Italia, vale a dire lo studio di Franco Bonelli (Lo sviluppo di una grande impresa in Italia: la Terni dal 1884 al 1962), uscito per i tipi della Einaudi nel 1975. Per capire quel lavoro, e l’importanza che esso rivestì nella storiografia italiana, occorre soffermarsi brevemente sulle politiche industriali che vennero sviluppate in periodo fascista quando, con il crollo delle cd. banche miste, il governo fu costretto a dar vita all’IRI - Istituto di Ricostruzione Industriale (1933), nel quale vennero accorpate tutte le imprese di cui queste detenevano il controllo azionario. La storia dell’IRI è nota: doveva essere un ente temporaneo, utile a risanare le imprese e riportarle sul mercato, ma la crisi mondiale degli anni Trenta – i cui effetti pesarono anche nel nostro paese, a dimostrazione che la globalizzazione dei mercati era già in atto ed è tutt’altro che cosa recente – non consentì questo esito. Così nel 1937 l’IRI fu trasformato in ente permanente, divenendo di fatto il braccio operativo della politica economica, dato che al suo interno si trovò riunita la più vasta concentrazione di settori produttivi: dalla siderurgia alla cantieristica, dalla meccanica alla produzione di elettricità, senza contare le concessionarie telefoniche interregionali e l’intera gamma delle linee di navigazione transoceaniche, nonché le ex banche miste (Comit, Credit e Banco di Roma), convenientemente ridenominate “banche di interesse nazionale” dato il loro capillare irradiamento nel territorio. Fu in tale contesto che la Terni pervenne allo Stato. Nel 1933, quando ciò avvenne, essa non rappresentava soltanto l’impresa di punta della siderurgia italiana, ma le sue stesse origini, essendo nata – prima acciaieria del paese – nel 1884 in un’anomala combinazione di iniziativa privata e di sovvenzioni pubbliche. Per Bonelli, studiare la Terni significò, pertanto, studiare l’intero settore siderurgico italiano, conoscerne i meccanismi e le difficoltà di crescita, stante che il settore siderurgico è sempre stato, fino a pochi decenni fa, un settore di estrema difficoltà gestionale, se non altro per la povertà di materie prime esistente in Italia e quindi per la necessità (e i costi) dell’approvvigionamento all’estero dei minerali e materiali ferrosi occorrenti. Fu questa in sostanza la prima storia d’impresa scritta in Italia, alla quale seguì, come sempre succede quando si parte in ritardo, un grande recupero. Come c’era da attendersi, questo primo studio fu in parte ignorato dagli studiosi accademici, e di conseguenza molti si tennero lontani da tale campo d’indagine fino a quando, negli anni ’80, quei giovani ricercatori che ricordavo all’inizio, non ancora completamente inseriti nel mondo universitario, ebbero il coraggio di cominciare la propria carriera seguendo proprio la strada aperta da Bonelli. Ebbe così inizio un sistematico lavoro di scavo negli archivi delle grandi imprese, allora non residuali come sono oggi nel nostro tessuto manifatturiero, da cui – come già detto – originò una felice stagione per la nostra storiografia economica. 4. Quei ricercatori, tuttavia, si trovarono di fronte a un ostacolo che Bonelli non aveva avuto, ovvero la difficoltà di accedere agli archivi delle aziende che essi intendevano studiare. Queste imprese ne negavano l’esistenza, salvo che per la documentazione conservata per obblighi fiscali o nelle more di contenziosi in essere con i propri fornitori o con la propria clientela.


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In realtà, in molti casi l’inesistenza di archivi era reale, anche perché in un’impresa l’archivio è solo uno strumento di supporto all’attività amministrativa: una volta che questa ha compiuto il suo iter, e ha risolto gli eventuali contenziosi, le documentazioni d’ufficio non servono più e possono essere distrutte. Naturalmente, non sempre questo era vero; piuttosto nelle imprese poteva succedere (succedeva!) quello che accade nella vita di noi tutti: per cui, assolte alle varie incombenze che la gestione della nostra vita quotidiana e della nostra abitazione comporta, si giunge per inerzia a una sorta di stratificazione di carte abbandonate in un cassetto (nel caso delle famiglie, le ricevute dei pagamenti delle utenze domestiche, gli estratti conti bancari e via elencando...) di cui spesso non ci si sovviene più. Di fronte a questa incapacità di sapere ciò che si era nel tempo accumulato, era naturale la diffidenza dell’impresa che negava l’esistenza stessa di un archivio a rilevanza storica. Una diffidenza che spesso era più che motivata: l’archivio di un’impresa, ad esempio a controllo familiare, può conservare non solo le carte contabili, ma anche carte private dell’imprenditore e della sua famiglia di cui non si conosce né l’effettiva consistenza, né il grado di riservatezza. Il fatto era che queste carte costituivano una stratificazione casuale di documentazioni varie, mai ordinate in vero e proprio archivio, con un proprio inventario che permettesse di conoscerne il contenuto. Da qui derivava la facile, e immediata, negazione dell’esistenza di carte a rilievo storico. Bonelli non aveva avuto tali problemi. Non solo perché il suo lavoro fu promosso dai vertici della Terni, d’intesa con la controllante IRI, per sottolineare il ruolo che quell’impresa aveva avuto nella difficoltata modernizzazione del paese, ma soprattutto perché l’IRI aveva imposto alle proprie aziende metodi di conservazione archivistica mutuati dalla pubblica amministrazione, con regolari scarti delle carte senza rilevanza storica. Per cui Bonelli si trovò a lavorare in un archivio depurato da documentazione irrilevante e, soprattutto, dotato di un inventario che gli consentì di individuare subito i materiali utili a ricostruire la storia lunga dell’impresa. Ecco: “scarto” e “inventario”. Ovvero le due caratteristiche essenziali (ma mancanti) che portavano le imprese – che i giovani ricercatori di cui ho detto intendevano studiare – a negare l’esistenza di documentazioni a rilevanza storica! Col tempo, e man mano che (faticosamente) uscirono i primi studi di questa nuova stagione storiografica, la diffidenza delle imprese andò diradandosi, e venne alla fine superata, grazie alla percezione dei loro vertici che tali lavori potevano essere un contributo importante a meglio proporre l’immagine aziendale sul mercato. Ovvero come carte apparentemente inutili (“inutili” dal punto di vista gestionale) potessero produrre effetti comunicativi di rilievo: efficaci quanto, o meglio, di qualche costosa campagna pubblicitaria. 5. Ovviamente ci sono molti modi di fare storia d’impresa: da un lato c’è la storia d’impresa classica, quella che tende a ricostruire dalle origini il percorso dell’azienda e dei suoi aggregati produttivi (costi, innovazioni tecnologiche, prodotto), dall’altro c’è la storia che immerge l’impresa nel contesto sociale del suo tempo. Pensiamo, ad esempio, a un’impresa che avesse sviluppato, nel corso dell’Ottocento e del primo Novecento, pratiche paternalistiche che davano vita a un sistema di relazioni con le maestranze fondato sui benefici erogati a seconda della “fedeltà” del dipendente. In questo caso la storia d’impresa facilmente deborda nell’ambito della storia operaia e sociale, in cui il profilo dell’azienda sfuma nel rapporto di “dominio” – ma anche di mutua dipendenza – creatosi nel tempo tra impresa e lavoratori. Ci si può peraltro trovare di fronte a un semplice profilo biografico, in cui l’obiettivo dello studioso si concentra non sullo studio dell’impresa, ma sulla persona dell’imprenditore: che di conseguenza viene narrato a partire dagli elementi


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che ne hanno determinato il successo, senza però addentrarsi nella specificità tecnico-produttiva, e quindi economica, dell’impresa. Questo taglio è tipico delle voci dedicate agli imprenditori nei volumi del Dizionario biografico degli italiani, editi dall’Istituto dell’Enciclopedia Italiana. Si tratta di profili che rendono la dimensione del personaggio e del modo in cui esso si è mosso all’interno della comunità economica del suo tempo, ma che poco ci dicono della struttura organizzativa e tecnologica della sua impresa, e ancor meno sul ruolo da essa svolto nel settore di appartenenza. Accanto a questa tipologia storiografica, esistono poi lavori che non nascono per essere affidati per la loro divulgazione a case editrici, ma che vengono invece predisposti dagli uffici di relazioni esterne delle imprese e degli enti pubblici economici per rispondere a esigenze di comunicazione e/o di rappresentanza. In essi sono spesso evidenti gli intenti giubilari, in particolare quando vengono pubblicati in occasione di un certo traguardo raggiunto dall’impresa, come possono essere i 50 o i 100 anni dalla fondazione, e i loro autori si soffermano non tanto sulle problematiche che ne avevano contraddistinto lo sviluppo, ma indulgono nella celebrazione dei successi raggiunti. Si tratta in genere di libri fotografici di pregio, confezionati con immagini corredate da didascalie o da brevi introduzioni che descrivono alcuni passaggi, sempre di successo, dell’impresa, ma che poco ci dicono riguardo alle strategie produttive da essa nel tempo sviluppate. Questo materiale, pur non essendo storia d’impresa, costituisce comunque una fonte utilissima per lo storico, soprattutto nel caso di archivi scomparsi. Penso in particolare alle riproduzioni fotografiche, magari di imprese che hanno celebrato i cinquant’anni negli anni ’30, che ci consentono di vedere la razionalità o meno degli spazi produttivi, il tipo di macchinari utilizzati, e quindi di cogliere il livello tecnologico raggiunto dall’impresa in un momento dato. Queste fonti, assieme a quelle che si trovano negli archivi delle Camere di Commercio e di altri enti pubblici, possono consentirci di ricostruire il profilo di un’impresa il cui archivio sia andato disperso, o di aziende ormai cessate. Sempre all’interno di questo filone, si collocano altri materiali prodotti dagli stessi imprenditori, come le autobiografie, i diari, gli scritti, gli epistolari. Un epistolario di particolare interesse è, ad esempio, quello di Adriano Olivetti. Il quale tra il 1924 e il 1925 si trovò a scrivere al padre Camillo, dagli Stati Uniti dove questi lo aveva inviato in una sorta di preparazione alle future responsabilità aziendali, lettere quasi quotidiane nelle quali descriveva le sue impressioni sui caratteri e sulla efficienza della struttura organizzativa dell’industria meccanica americana raffrontata con l’arretratezza di quella italiana, in un affresco che spiega molte delle innovazioni introdotte poi nell’azienda di Ivrea. Anche la corrispondenza privata, quindi, può costituire elemento di integrazione e approfondimento della storia d’impresa. 6. In questo quadro, il Veneto – nelle cui tradizioni mercantili poggiano le origini e, più tardi, la crescita e l’affermazione della Paolini Villani – si presenta per molti versi singolare, essendo stato a lungo percepito, soprattutto nella vulgata giornalistica, come una regione non solo periferica ma arretrata, che arriverebbe alla modernità e all’industrializzazione solo in tempi molto recenti, negli ultimi trenta, quarant’anni. Prima non ci sarebbe stato nulla, salvo qualche isolato caso di prima industrializzazione. Per indicare questa crescita repentina, o presunta tale, si arrivò a coniare l’espressione “modello veneto di sviluppo”, dapprima a opera di esponenti del partito politico all’epoca di maggioranza assoluta in regione (la Democrazia Cristiana), poi di qualche sciagurato economista, che si adoperò a dare “copertura” o dignità scientifica a questa tesi. La diversità di questo modello di sviluppo rispetto al resto del paese sarebbe basata sulla presen-


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Titolo nominativo della Paolini Villani & C. S.A., stampato nel 1938 dalla Fantoni & C. di Venezia. Titolo nominativo della Paolini & C. S.p.A. del 10 ottobre 1964, del valore di duecentomila azioni, intestato a Piero Zoppolato.

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za della piccola impresa, o meglio sulla sua rapida espansione che, proprio a partire dagli anni ’70, si manifestò in tutta la regione, andando a investire anche aree storicamente povere di attività di trasformazione quali il rodigino e il bellunese. In realtà un modello veneto di sviluppo “altro” non è mai esistito, dato che l’espansione di piccola impresa che l’avrebbe caratterizzato, quella poi che diede origine ai distretti industriali o che fece riemergere dal passato quelli di antica manifattura, stava in realtà avvenendo in quegli stessi anni non solo in Veneto ma anche in altre parti d’Italia, ad esempio in Emilia Romagna, nelle Marche, in Toscana e in parte in Friuli Venezia Giulia, tanto da indurre la sociologia economica a parlare di una “terza Italia”, per indicare una Italia del Centro-Nordest distinta da quella del Nordovest, incentrata sulla presenza della grande impresa ad alta intensità di capitale, e dal Sud sottosviluppato. Secondo tale impostazione, lo sviluppo dell’economia italiana aveva ormai resa obsoleta la categoria dello storico dualismo Nord-Sud, mettendo in luce – grazie alla manifattura leggera cresciuta nelle aree prima menzionate, sempre più vivaci e in parte proiettate, pur nelle piccole dimensioni delle loro imprese, sui mercati internazionali – una realtà più complessa e articolata. Tornando alla vulgata giornalistica, la tesi del “modello” risulta inconsistente anche per un altro motivo. Un “modello” è qualcosa che viene progettato, applicato, monitorato per vederne gli effetti, e quindi corretto se questi risultano diversi da quelli attesi. Un modello non è infatti una intuizione: è una progettazione dello sviluppo, e il governo dello stesso. Ebbene, al supposto “modello veneto” è mancato proprio il “governo”. Si pensi al sistema di mobilità presente nella nostra regione, intasato e confliggente con le esigenze di rapidi spostamenti di persone e cose di un’area in accelerata crescita: e la tangenziale di Mestre è stata solo una delle tante, troppe e antieconomiche emergenze, tardivamente superata dal cd. Passante, ovvero la bretella autostradale che ha, pochi anni orsono, finalmente interconnesso la tratta Torino-Venezia della A4 con quella che da Venezia porta a Trieste. Ma si rifletta anche sulle politiche di sostegno all’artigianato, e cioè alle piccole imprese che del Veneto costituiscono l’ossatura portante, praticate dall’ente Regione: dove svariati lustri di contributi a pioggia (il più delle volte poco più che simbolici) hanno significato la rinuncia totale a qualsiasi politica di sostegno all’innovazione. L’idea della rapida crescita che sarebbe avvenuta solo a partire dagli anni ’70/’80, e che costituisce il presupposto della teoria del “modello”, è poi in realtà smentita da fenomeni industrializzanti che in regione partono invece molto prima, e che si collocano in un’epoca contemporanea a quella della prima industrializzazione continentale. La provincia di Vicenza, l’alto Vicentino in particolare, ha gli stessi ritmi di sviluppo delle altre aree del continente, che nei primi decenni dell’Ottocento si stavano avviando verso la modernizzazione produttiva. Certo non basterebbe solo l’emergere dell’impresa laniera (seppure di straordinaria grandezza, basti pensare alle imprese dei Rossi e dei Marzotto) a determinare un’industrializzazione; vi sono però altri fermenti che portano a ritenere che il Veneto sia stato a pieno titolo uno degli attori della prima industrializzazione italiana. 7. Ciò fu dovuto ad alcuni imprenditori d’eccezione che giocarono un ruolo, per certi versi strategico, nell’abbrivio dello stato unitario. Penso innanzitutto ad Alessandro Rossi, titolare del Lanificio Francesco Rossi (poi Lanificio Rossi S.A.) di Schio, che costituì, almeno fino agli anni ’80 dell’Ottocento, la più grande impresa manifatturiera italiana. Questo imprenditore, oltre a fare i suoi concreti (e legittimi) interessi di capo d’azienda, svolse un ruolo di leadership nell’ambito del suo settore, fino a diventare il rappresentante degli interessi industriali – o meglio industrialisti, come si diceva all’epoca – di tutto il paese.


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Dapprima deputato, e quindi senatore del regno, egli utilizzò il suo scranno di parlamentare per fare azione di lobbing, riuscendo, alla fine, a strappare al Parlamento – un Parlamento allora dominato dalla proprietà fondiaria e dai rappresentanti delle professioni liberali – vari provvedimenti a favore dell’industrializzazione del paese. Provvedimenti che non erano aiuti economici, bensì interventi legislativi orientati allo sviluppo delle imprese, come nel caso della riforma delle società per azioni, il cui obiettivo fu quello di permettere alle industrie di intercettare, attraverso più snelle (e certe) procedure nella costituzione di una società azionaria, danaro fresco per il capitale di rischio. Nel merito, conviene ricordare che all’epoca, e non solo in Italia, le società per azioni erano sottoposte a un rigido controllo di tipo amministrativo che spesso si rivelava arbitrario, oltre a richiedere tempi molto lunghi per il completamento dell’iter di autorizzazione ministeriale a operare sul mercato. In sostanza, per costituire una società per azioni bisognava – dopo il rogito notarile – sottoporre gli atti per la loro approvazione al Ministero di Agricoltura Industria e Commercio. Il quale ne chiedeva il vaglio al Consiglio di Stato, che nella maggior parte dei casi imponeva modifiche o correzioni – non sempre omogenee, e tanto meno razionali – agli articoli statutari. Rispedite le prescrizioni ai promotori della società azionaria in attesa di autorizzazione, questi dovevano recepirle mediante un altro atto notarile di modifica dello statuto, poi nuovamente inoltrato al Ministero: che, vagliate le intervenute modifiche, approvava poi in via definitiva lo statuto societario e autorizzava finalmente la società a operare, e quindi a raccogliere le sottoscrizioni azionarie. Un iter di questo tipo richiedeva almeno due anni per essere completato. Un tempo assolutamente eccessivo, anche all’epoca, per poter rispondere efficacemente ai tempi rapidi delle decisioni economiche: tanto che, piuttosto di affrontarlo, gli imprenditori preferivano conservare la natura di ditta individuale alla loro impresa, rinunciando perciò ai propri progetti espansivi, oppure optare per la formazione di una società di persone, che tuttavia era inidonea a raccogliere i flussi di risparmio privato che la forma azionaria avrebbe consentito. La battaglia di Alessandro Rossi per la liberalizzazione delle società anonime portò alla fine – in sede di revisione del Codice di Commercio, varato nel 1882 e noto come Codice Mancini dal nome del suo relatore – alla tipizzazione delle norme obbligatorie da inserire negli statuti societari, e quindi a una drastica velocizzazione nella costituzione delle società azionarie. Esse non furono più soggette all’autorizzazione governativa, ma solo alla omologa dei Tribunali di Commercio, chiamati a verificare la rispondenza degli statuti alle prescrizioni del Codice. Questa battaglia si accompagnò a quella per tariffe “protezionistiche”, poi conseguite nel 1887, intese a difendere le gracili industrie italiane dalla concorrenza dei prodotti stranieri, più economici e qualitativamente migliori delle produzioni nostrane. Non è un caso che entrambi questi provvedimenti abbiano in buona parte coinciso con il decollo della nostra industria. Per ultimo, merita di essere menzionata l’azione di Rossi, in parte riuscita, volta a creare nuovi e più stretti legami tra la finanza veneta, all’epoca sostanzialmente immobilista basata com’era sulla rendita dei grandi proprietari fondiari, e quella dell’area lombarda, ben più dinamica. Essa trovò modo di esprimersi non solo attraverso la costituzione di imprese societarie minori con capitalisti extraveneti, ma soprattutto con la scelta strategica di trasformare (1873) la sua ditta individuale nella più grande società anonima industriale del paese, coinvolgendovi investitori e capitalisti lombardi, romani, piemontesi ed esteri, svizzeri e austriaci in particolare, ma anche mediante lo svecchiamento dell’apparato finanziario veneto perseguito


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con una accorta rete relazionale con i grandi proprietari fondiari e i mercanti-banchieri veneti. Un’opzione che presto si rivelò come una vera e propria tecnica di apertura e di integrazione del Veneto nella finanza del giovane regno italiano. Un altro imprenditore di peso nello scacchiere nazionale fu Vincenzo Stefano Breda, che nel 1872 diede vita in Padova a un’impresa, la Società Veneta per Imprese e Costruzioni Pubbliche, che fu una delle primissime aziende italiane a dedicarsi ai grandi lavori di infrastrutturazione delle aree urbane: ponti, strade, fognature, acquedotti, reti ferroviarie minori, grandi immobili, cimiteri (quello di S. Michele a Venezia, ad esempio), il tutto conglobato in un complesso sistema organizzativo. Nella costruzione di questa impresa, Breda fu buon compagno di strada di Alessandro Rossi, peraltro presente nel suo azionariato: il che significò l’apertura del capitale azionario agli investitori extraveneti, e soprattutto la realizzazione di rapporti stretti con l’apparato pubblico centrale, spesso appaltante questa tipologia di lavori. Un rapporto, quest’ultimo, che se da un lato alimentò non poche corruttele con la struttura politica e l’alta burocrazia del paese, dall’altro portò a esiti di grande valore imprenditoriale, come la costituzione della Società degli Altiforni, Acciaierie e Fonderie di Terni, che – l’ho già ricordato – fu elemento fondativo dell’industria siderurgica nazionale. Sul quale conviene soffermarci. Non tanto perché la Terni fu oggetto della prima storia d’impresa italiana, ma perché la vicenda di quell’acciaieria è emblematica del paradigma modernità/arretratezza che ha a lungo caratterizzato il processo di industrializzazione del paese. Per la sua realizzazione, Breda si alleò con i circoli finanziari della nuova capitale romana, e con la locale Banca Tiberina (erede di una precedente Banca Italo-Tedesca) di cui la Società Veneta acquisì in breve il controllo azionario. A far decollare il progetto fu però un fattore extraeconomico, e cioè una combine politico-burocratica: Breda, già deputato nel collegio di Padova 2, conobbe in anticipo la scelta della Marina militare italiana tesa a rendersi indipendente dall’estero per la corazzatura del naviglio da guerra, e della sua intenzione di reperire un impianto nazionale cui affidare quest’attività. La Società Veneta rilevò con tempismo invero sospetto una piccola impresa metallurgica corrente in Terni, la futura Società degli Altiforni, che poi la commissione incaricata dal Ministero – il cui titolare pro tempore era, guarda caso, amico personale di Breda – “individuò” poi come la più idonea allo scopo. L’aspetto più inquietante e significativo di quell’operazione è rappresentato dal fatto che lo stato anticipò per ben due volte, con altrettanti specifici provvedimenti legislativi, seppure in conto future forniture, le risorse finanziarie occorrenti alla Terni per trasformarsi da semplice fonderia in ferro nella voluta acciaieria. In questo modo lo stato, anche se non direttamente, ma attraverso un finanziamento anomalo, entrava a pieno titolo nell’attività economica, tanto che alcuni storici datano dal 1884 l’anno della costituzione formale della Terni, e invero forzando gli eventi, l’inizio dello stato imprenditore in Italia. A margine di questo episodio sarebbe da ricordare come l’avvio travagliato dell’impresa – che incontrò crescenti difficoltà economiche data la scelta (discutibile, ma senz’altro avveniristica) del Breda di realizzare un impianto a ciclo integrato dal controllo della materia prima fino al prodotto finito – provocò (dopo il crollo della Banca Romana dell’inizio degli anni ’90 dell’Ottocento) il secondo grande scandalo finanziario dello stato unitario, stante che i lavori per l’approntamento della Terni proseguivano con difficoltà senza che alcuna piastra corazzata – a fronte delle due successive anticipazioni ex lege – fosse ancora stata consegnata. Attaccato da più parti, Breda, che nel frattempo era stato nominato senatore del regno, si difese alla Camera alta in una infuocata seduta dei primi anni ’90 argomentando più o meno così: «Ma cosa vi aspettavate, Signori? Che un imprenditore spendesse del suo nell’acciaio, e cioè in un affare dagli elevati costi e dall’esito


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dubbio? No! Era lo Stato che aveva bisogno di acciaio, e non avendone le competenze ha chiesto a dei patrioti, a degli industriali, di farsene carico! E noi, patrioti, lo abbiamo con generosità fatto. Quindi, i ritardi, e le spese crescenti, non sono stata colpa nostra. Sono la conseguenza del fatto che l’Italia ha ritenuto di entrare nell’acciaio, e cioè in un settore difficile, dovendone sostenere gli elevati costi, e l’alea, che nessun imprenditore avrebbe mai potuto affrontare da solo!». È una testimonianza significativa, questa, perché evidenzia il punto da cui si origina il deficit strutturale dell’acciaio italiano, che non riuscì per lungo tempo a essere competitivo con quello straniero, costringendo alla fine lo stato ad assorbirlo (e poi, non senza recuperi di efficienza, a gestirlo) attraverso l’IRI. Ma l’interesse del caso Breda sta appunto nell’aver lo spregiudicato imprenditore padovano colto, egli e non altri!, anche se indubbiamente in una combine politico-affaristica dal sapore oggi amaro, che se il paese voleva modernizzarsi aveva bisogno dell’acciaio, e che solo con l’improprio finanziamento pubblico allora escogitato ciò sarebbe potuto avvenire. 8. Dal Veneto supposto periferico, o marginale fino agli anni Settanta del Novecento, appaiono da questa breve ricostruzione risaltare invece fin da prima del decollo industriale italiano due messaggi forti: che sono quelli dell’integrazione finanziaria del paese e della sua modernizzazione attraverso l’acciaio e il successivo sviluppo di un’industria meccanica che proprio sull’acciaio nazionale andò fondandosi. Questa precoce “centralità” ottocentesca del Veneto trovò invero il suo definitivo affinamento nei primi decenni del Novecento, quando emerse un personaggio come Giuseppe Volpi, veneziano, presidente della SADE, che mise mano a quel grande progetto che è stato il Porto Industriale di Venezia, destinato non solo a ridare una nuova identità a una Venezia languente, ma soprattutto a realizzare la definitiva integrazione fra il capitale veneto e la finanza della parte più moderna del paese, cioè il Nordovest. E, infatti, da lì scaturì l’alleanza capitalistica che, attraverso la localizzazione a Marghera del Porto Industriale e della relativa zona produttiva, fece approdare in laguna i grandi gruppi ad alta intensità di capitale: la Fiat, l’Ansaldo, la Montecatini ecc. Su questo sfondo, vi sono alcune caratteristiche dello sviluppo veneto che conviene riassumere. La prima è che il polo laniero dell’alto Vicentino nacque sulle antiche competenze manifatturiere della zona. Lì la lana si lavorava all’incirca dal Seicento, e ciò diede origine a intere generazioni di persone impegnate in tale attività attraverso la classica trasmissione del “saper fare” e dell’“imparar facendo”. Lì , inoltre, erano disponibili le risorse necessarie per sviluppare quell’attività: l’acqua, innanzitutto, necessaria alle prime lavorazioni di pulitura della lana e alla fase finale di finissaggio dei tessuti prodotti, e quindi l’energia idraulica, ma soprattutto la materia prima costituita dalle greggi ovine. Nel momento in cui partì il sistema di fabbrica, quest’area, che era intensamente investita dal fenomeno manifatturiero d’ancien régime, fu tra le prime in Europa a inserirsi, e proficuamente, pur con alcune contraddizioni, nei nuovi metodi produttivi. L’anomalia, alla fine vincente, fu costituta dal fatto che, mentre le altre zone che seguirono gli stessi percorsi, come il biellese e il pratese, crebbero sulla piccola e media impresa, nel polo dell’alto Vicentino ben presto emersero due grandi imprese, che di fatto monopolizzarono il settore e, soprattutto, il mercato del lavoro: il Lanificio Rossi a Schio e il Lanificio Marzotto a Valdagno. La loro presenza, se da un lato rischiò di uccidere il distretto che si era formato sulla base di tante piccole imprese familiari, svolse dall’altro un ruolo di primo piano nella diffusione delle conoscenze. Si pensi ai tanti lavoratori che si formarono all’interno di queste grandi imprese, prima di allontanarsene magari per mettersi in


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proprio, o all’addestramento del personale addetto alla manutenzione e riparazione dei macchinari, che la meccanizzazione della produzione necessariamente comportava. In quest’ultimo caso, ora sappiamo che la vivace, e poi fortemente innovativa, industria meccanica vicentina nacque anche a partire dalla fuoriuscita da queste fabbriche di tecnici e di operai che si erano formati proprio nella riparazione delle macchine tessili. A ciò bisogna aggiungere l’attività di patronage che personaggi come Alessandro Rossi e, in un contesto diverso, anche Vincenzo Stefano Breda, esercitarono nei confronti dei grandi proprietari, portandoli a partecipare alle attività imprenditoriali e svolgendo un ruolo promozionale verso le più svariate iniziative di rischio. Quest’opera, che potremmo definire “pedagogica”, e spesso, se vogliamo, di un pedagogismo spicciolo, si connette all’andamento della congiuntura che andò registrandosi nell’Italia del Nord tra gli anni ’80 e ’90 dell’Ottocento, con l’emergere, ad esempio lungo l’asse padano che collega Verona a Treviso, e in un ambito non più solamente rurale ma anche cittadino, di una miriade di iniziative manifatturiere. Fu questa la prima ondata di piccola impresa che si originò nel Veneto, alla quale ne seguirono poi altre nei decenni successivi: dapprima in periodo giolittiano, quindi nel primo dopoguerra, infine e soprattutto negli anni successivi al miracolo economico, cioè tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70. Che significato ebbe questa diffusione di piccole imprese? Quello più evidente può essere colto, innanzitutto, nella voglia di molti individui di migliorare le proprie condizioni di vita. Spesso si trattava di operai che si mettevano in proprio a partire dalle competenze acquisite nel corso della loro attività lavorativa. Non mancavano però anche molti piccoli mercanti di estrazione cittadina, che cominciarono a produrre ciò che fino a quel momento avevano solo intermediato, rischiando le loro risorse nel divenire imprenditori. Questo è un processo tipico di tutte le industrializzazioni, in cui il mercante, anche di piccola taglia, tende a farsi imprenditore attraverso la produzione di ciò che vende o di qualcosa che ad esso è più contiguo. È ovvio che in questo contesto si andarono formando solo imprenditori di limitate dimensioni, e interagenti quasi esclusivamente con il mercato locale. E, tuttavia, non pochi, anche se con fatica, riuscirono poi a veicolare le loro produzioni su mercati più vasti di quello del paese, della provincia, o delle zone confinanti. Questa è la situazione che ritroviamo ancora a metà del Novecento. Pensiamo a Padova. Oggi il padovano, antico granaio del Veneto, è un’area intensamente industrializzata, con imprese che godono di una presenza internazionale in non pochi settori di elevata qualificazione. Fino agli anni Cinquanta, però, fatte salve tre o quattro grandi imprese con circuiti di distribuzione nazionale, prima fra tutte la SGIV - Società Generale italiana della Viscosa (durante la Seconda Guerra mondiale inglobata nell’oligopolio chimico-tessile della SNIA), nel padovano erano insediate sì tante piccolissime imprese industriali, ma nella maggior parte tutte incapaci di uscire, per quanto riguarda la distribuzione, dal territorio del proprio comune o da quelli limitrofi, riuscendo solo in pochi casi a raggiungere le altre località della provincia: il che appariva un evidente sintomo della loro debolezza, e della loro marginalità. Sappiamo che col modificarsi dei mercati (e grazie alla crescente domanda postbellica) questa debolezza andò via via scomparendo: da imprese marginali, esse via via irrobustendosi riuscirono ad andare ben al di là del mercato provinciale o interprovinciale o regionale, diventando aziende in grado di aggredire non solo il mercato nazionale ma, in non pochi casi, anche quello internazionale. Tra le varie ondate di insediamento di piccole imprese che ho citato prima, una in particolare merita attenzione. Essa si verificò nel corso degli anni Tren-


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ta attraverso un’insolita crescita del numero di iscrizioni di nuovi imprenditori, spesso ex lavoratori dipendenti decisi ad “autointraprendere”, ai Consigli provinciali dell’economia corporativa, la denominazione assunta nel 1931 dalle preesistenti Camere di Commercio. In un momento di gravissima crisi tale incremento costituì un fenomeno del tutto anomalo. L’analisi di quella casistica ci dice che si trattava di persone che intraprendevano perché colpite da licenziamento o perché temevano, soltanto temevano!, tale esito estremo. Naturalmente, molte di queste piccole, piccolissime, imprese erano destinate a chiudere quasi subito. Tuttavia, nel momento in cui si andò, nel dopoguerra, verificando un’inversione del ciclo economico, non pochi di quelli che avevano “intrapreso” e poi erano stati costretti a rinunciarvi, ritrovarono la voglia di fare impresa, questa volta rimanendo sul mercato. In questo senso, un ruolo importante giocò anche la sedimentazione di esperienza e di conoscenze, e la voglia di non darsi per vinti. 9. Ecco, il “non darsi per vinti”, il saper superare le difficoltà, le strozzature di un mercato in formazione, è la cifra anche dell’impresa in queste pagine narrata. Impresa di limitate dimensioni, certo, che tuttavia divenne leader in un mercato che si andava facendo di massa. L’originalità della ricerca consiste nel fatto che, pur ricostruendo tutte le fasi di nascita, crescita, affermazione e scomparsa della Paolini Villani, come conviene a una corretta storia d’impresa, essa privilegia un taglio interpretativo usualmente non praticato in letteratura. Ovvero quello della pubblicità, fondamentale per beni di prezzo unitario contenuto e di largo consumo, e della comunicazione dell’immagine aziendale sviluppata attraverso un’abile cura nel confezionamento “estetico” del prodotto. Le immagini qui riprodotte, dalle scatole di latta alle bustine dei preparati pronti, ad esempio quelle di Ovocrema, ci parlano della ricerca continua di una fidelizzazione del consumatore costruita sul concetto di affidabilità di ciò che l’impresa produceva, trasmesso attraverso una grafica semplice e al tempo stesso raffinata. Come avvenne nei gadget predisposti per le raccolte delle prove d’acquisto, in un approccio pioneristico a ciò che faranno poi nel secondo dopoguerra imprese del comparto alimentare di ben maggiore dimensione dell’azienda veneziana. Sì, la Paolini Villani & C. è stata davvero, e il saggio principale del libro lo spiega con dovizia di particolari, un’azienda innovativa nella comunicazione ai consumatori: che costituisce una pagina importante nella storia d’impresa non solo veneta, stante che la promozione di quel brand non fu frutto della professionalità di agenzie specializzate, bensì il risultato delle intuizioni (e dell’ostinazione) di chi dirigeva pro tempore l’impresa. Con risultati che non hanno nulla di dilettantesco, ma che a mio avviso hanno saputo coniugare nel tempo tre messaggi strategici: tradizione, affidabilità, modernità. I successi di vendita dell’azienda dipesero in non piccola parte anche dall’insieme di quei messaggi. Considero questo lavoro una bella storia veneta, o – meglio – una storia della migliore imprenditoria veneta. Che è utile leggere, e “assaporare”: rammentando che nel secondo dopoguerra essa si trasferì dal suo sito di Mestre, a due passi dai binari della stazione ferroviaria, a Porto Marghera, il cd. Porto Industriale di Venezia dove, ahimè, essa concluse la sua lunga storia. Ricorre quest’anno un secolo da quando fu elaborato il progetto di costruzione di quell’area industriale: la vicenda della Paolini Villani & C. consente di ricordare, nel centenario della prima vera pianificazione territoriale ad uso produttivo d’Europa, che essa non ospitò solo, come generalmente si ritiene, lavorazioni hard, ma anche manifattura leggera. Che in questo specifico caso, e a lungo, fu di successo.



PAOLINI VILLANI LA “COMPAGNIA VENEZIANA DELLE INDIE”


Abbreviazioni ACCVe

Archivio della Camera di Commercio di Venezia

ACCMi

Archivio della Camera di Commercio di Milano

ACCPd

Archivio della Camera di Commercio di Padova

ACCTv

Archivio della Camera di Commercio di Treviso

ACCVr

Archivio della Camera di Commercio di Verona

ACS

Archivio Centrale dello Stato, Roma

ACVMMe

Archivio del Comune di Venezia, Municipio di Mestre

AMV

Archivio Municipale di Venezia

ANVe

Archivio Notarile di Venezia

APAZ

Archivio privato Alvise Zoppolato

ASDIFT

Archivio Storico Documentario Iconografico Famiglia Ticozzi

ASFPd

Archivio Storico della Fiera di Padova

ASVe

Archivio di Stato di Venezia

BFQS

Biblioteca della Fondazione Querini Stampalia, Venezia

DCP

Droga Combinata Paolini

PV

Paolini Villani & C.i, Paolini Villani & C.i di Palma & Zoppolato, Paolini Villani & C. S.A., Paolini Villani & C. S.a.R.L., Paolini Villani & C.i S.p.A.

IRE

UIBM

Istituzioni di Ricovero e di Educazione, Venezia

Ufficio Italiano Brevetti e Marchi


Paolini Villani, dalla réclame alla pubblicità

Massimo Orlandini

a Orietta

In uno di quei rari casi in cui la storia di un’azienda si sovrappone e si intreccia fortemente alla sua immagine e a quella dei suoi prodotti, rincorrendosi nel corso di più di un secolo, avere l’opportunità di raccontarne il cammino analizzandone fin dall’inizio la comunicazione è un requisito che porta la ricerca delle fonti nei luoghi più impensabili. Questo perché l’approccio e il metodo di investigazione per contenuti di comunicazione spesso travalica la ricerca usuale, costringe chi lo persegue a sondare non solo gli archivi, ma anche e soprattutto a cercare le tracce seminate dall’azienda, che ha venduto i suoi prodotti nel corso di molti decenni a un mercato vastissimo, e a recuperarle, classificarle, ordinarle, restituendoci così il gusto estetico, la filosofia e la vita commerciale propria e ben caratterizzata di chi l’ha concepita e voluta. Nel corso di oltre tre anni di ricerca, queste tracce si sono evidenziate con forza, fino a diventare la storia per immagini di una delle più note aziende italiane del Novecento, operante nei settori delle spezie, dei prodotti da drogheria, degli insetticidi, dei coloniali, del thè, dei lieviti e dei surrogati, oltre a una miriade di altri prodotti correlati. Accade sempre più frequentemente che aziende italiane scompaiano e lascino alle multinazionali il compito di traghettare in un mercato globale brand di successo, concepiti e sostenuti in decenni di lavoro; anche in questo frangente, il rischio era di ricordare oggi il nome del prodotto, ma non conoscere chi l’aveva ideato e creato, chi l’aveva commercializzato, chi l’aveva pubblicizzato e con quali mezzi, e spinto per primo nel mercato. È il caso della Paolini Villani, impresa veneziana che affonda le radici nella tradizione secolare del commercio e della lavorazione delle spezie della Serenissi-


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ma, che abbiamo voluto far riemergere cercando di evidenziare i contorni importanti di un’azienda tesa alla comunicazione di massa e molto attenta all’immagine dei suoi prodotti, accompagnando e orientando il gusto tutto italiano al cibo e alla sua elaborazione. Ricordare l’azienda e le famiglie che ci hanno lavorato per ricostruirne la storia comunicativa è anche un modo per comprendere il territorio diffuso dove essa si è sviluppata (Venezia, Mestre, Porto Marghera, Zero Branco e Mogliano Veneto), traendo forza dalla tradizione, ma innestandola con prodotti innovativi adatti a un mercato nazionale e internazionale. Chi si addentra nella storia di un’azienda alimentare, oltreché produttrice di insetticidi, si rende subito conto che la componente del marketing mix è preponderante: in particolare, l’attenzione cade sulla mole impressionante di azioni di marketing volte a consolidare costantemente le quote di mercato raggiunte e, se il momento è favorevole, ad ampliarle. Questa costante pressione sul mercato richiede investimenti anche cospicui, dedicati al processo di fabbricazione e all’innovazione di prodotto, ma soprattutto richiede investimenti ingentissimi in varie forme di marketing communication, si tratti sia di un elementare coordinamento di immagine, del packaging e delle sue forme di comunicazione, sia di tutte le possibili forme di pubblicità diretta e di orientamento del mercato, fino ad arrivare al cinema e ai messaggi radio-televisivi. In un mondo oggi profondamente cambiato proprio nei mezzi a disposizione delle aziende per comunicare, è già difficile, a distanza di una sola generazione pre-internet, capire quale fosse lo sforzo richiesto a un’azienda, attiva in un settore merceologico quasi di nicchia, per rimanere protagonista in un mercato già saturato e difficile da cavalcare; figuriamoci quanto possa essere sorprendente scoprire che, già all’inizio del Novecento, questo stesso sforzo comunicativo era richiesto per differenziarsi dalla concorrenza, già allora assai agguerrita e numerosa. L’uso della réclame innovativa e creativa, di mezzi capillari e di massa per convincere, fidelizzare e orientare il consumatore, la convinzione che la piccola dimensione non fosse più adeguata ai tempi hanno portato una giovane realtà veneziana di fine Ottocento, forse l’unica tra cento altre, a trasformarsi, a rifondarsi, a differenziarsi, a dotarsi di una struttura commerciale attrezzata per intercettare un mercato più ampio e ricco di quello meramente locale. Affronteremo, con la costante della comunicazione e della pubblicità, una navigazione attraverso un secolo abbondante di vita di prodotti, di tentativi anche non riusciti, di adeguamenti a un mercato sempre più difficile e complicato, con lancio di nuovi brand e con la commercializzazione in Italia di un notissimo marchio proveniente da una famosa casa-madre estera. Di solito si è abituati a pensare e a pianificare la pubblicità e la comunicazione in funzione del futuro, utilizzando i mezzi più attuali e potenti possibili, in ragione della speranza di migliorare costantemente il posizionamento dei prodotti, di acquisire nuovo fatturato, di supportare al meglio la rete di vendita. Analizzare a ritroso, anche di molti decenni, tutta la progressione pubblicitaria di immagini e di prodotto della Paolini Villani, lasciandosi alle spalle il web, il mondo dei social network e della televisione digitale interattiva, ci ha riconsegnato l’esclusiva visione di un’esperienza aziendale che, pur essendosi chiusa definitivamente, ci ha lasciato ampie tracce di sé attraverso la prosecuzione della vita dei suoi brand nel mercato e nella storia della pubblicità italiana del settore alimentare e non.


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Droghe, spezie e coloniali. I protagonisti a Venezia nell’Ottocento e nel primo Novecento quali precursori dell’industria a Mestre e Porto Marghera Per comprendere come si sia arrivati a un’industria delle spezie e dei coloniali (e non solo) già delineata e matura nel primo Novecento, espressione di un cammino iniziato alcuni decenni addietro, bisogna analizzarne accuratamente il sostrato commerciale, formatosi nella seconda metà dell’Ottocento sulla forza della tradizione veneziana in questo settore merceologico così variegato. A ben guardare, questo ambiente commerciale non fu certo prerogativa esclusiva di Venezia, anche se essa ne è stata per secoli il porto di riferimento in Adriatico, assieme a Trieste, per l’importazione delle materie prime. In molti capoluoghi veneti fiorivano iniziative produttive legate alla lavorazione delle spezie, delle droghe e dei coloniali, in appoggio ad attività commerciali finalizzate soprattutto alla lavorazione delle carni, oltreché al consumo in cucina e alla preparazione di prodotti di farmacia; ma, per numero di imprese e addetti, Venezia era nell’Ottocento sicuramente la città di riferimento. La principale problematica che si presenta a chi tenta di classificare questa attività commerciale e produttiva in quel periodo è l’assoluta eterogeneità merceologica: all’epoca si facevano ricadere al suo interno alcuni generi tipici anche di altri settori confinanti, come le candele, gli insetticidi, il caffè, la cioccolata, gli estratti per liquori, tutti i prodotti coloniali, la frutta secca, i detergenti e i saponi, le confetterie, i dolci, i pastigliaggi, le confetture, i lieviti e tanti altri ancora. Questa apparente confusione corrisponde all’evoluzione e divaricazione, nei secoli precedenti, della professione dello “speziere” in farmacista vero e proprio e in moderno droghiere. A questo proposito Renato Vecchiato riporta un passaggio significativo: Le arti si differenziano progressivamente nel tempo con modalità condizionate dalle conoscenze e dalle leggi. Tale percorso è difficilmente definibile in quanto spesso mancano dati statistici per quantificare i vari aspetti. Nel secolo XVI erano suddivisi in: spezier de medesime, quello che vendeva solo medicamenti; spezier de grosso, o venditori di spezie [...]; spezier da confetti, quello che vendeva droghe e confetture varie.1

Continua Vecchiato: Gli speziali, oltre a preparare essi stessi le medicine su prescrizione dei medici, vendevano le erbe, le droghe e le spezie necessarie alla preparazione dei medicinali [...]. Ma le spezie[rie] erano usate anche come luogo per l’acquisto di alimentari. Per cui è da ritenere che la bottega dello speziale fosse frequentata non solo da chi necessitava di medicine, ma anche da coloro che usavano le spezie per insaporire le loro vivande. Alcuni speziali erano esperti nella preparazione di dolci particolari ricchi di spezie come i «biricuocoli» e il panforte. Gli speziali smerciavano anche colori per tintori e pittori, liquori, bibite, candele, frutta, perle e pietre preziose, profumi ed essenze. Alcuni vendevano la cera per le candele, il sapone, lo spago, la carta da scrivere e l’inchiostro. Insomma, se si dovesse fare un raffronto, la bottega dello speziale era un po’ simile ai drugstores americani di oggi.2

Merceologicamente parlando, si potrebbe classificare una drogheria di fine Ottocento (ma in certi casi anche contemporanea) come un’impresa “orizzontale” ovvero a largo spettro, che abbraccia quasi tutti i settori permessi dall’oggetto sociale, così diremmo oggi; la sua missione è quella di accontentare sempre il cliente che entri nell’esercizio commerciale con qualsivoglia desiderio di acquisto3. Negozi o imprese “verticali”, al contrario, sono quelle attività iper-specializzate che convivono spesso fianco a fianco con le stesse drogherie, come le cioccolaterie, le caffetterie, le pasticcerie, le confetterie, le sale da thè, che spesso hanno anche il compito di offrire spazi di sosta al consumatore.


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1. Etichetta per tavoletta di cioccolato, fabbrica Cesare Ticozzi, Mestre.

La tavoletta di cioccolata veniva avvolta dalla cartina con l’immagine della Torre, fissata con un punto di colla o infiocchettata con un nastro. Non è di poco conto questo sforzo di dare un tocco di raffinatezza alla confezione, che si distingueva senz’altro da quelle anonime. Le carte intestate e il listino prezzi di Cesare Ticozzi, pubblicati nel volume di Barizza30, risentono del gusto dell’epoca, la seconda metà dell’Ottocento, comune ad altri negozi e commercianti di coloniali, spezie e dolci. Il listino pubblicato a p. 40, inoltre, è molto importante per l’analisi dei prodotti trattati31. Appare anche un’incredibile serie completa di figurine con caricature di personaggi risorgimentali, che è riportata a colori in quarta di copertina. Questa tipologia di figurine, molto rara, probabilmente risale ai primi anni unitari ed evidenzia il punto più alto dello sforzo di pubblicizzare e differenziare il proprio prodotto utilizzando ogni leva possibile di propaganda. Abbiamo potuto visionare alcune di queste rare serie di figurine pubblicitarie presso l’archivio storico del prof. Paolo Ticozzi, con serie di soggetti diversi ancora unite in fogli integri e da staccare. Dello stesso archivio della famiglia Ticozzi fa parte anche un’innumerevole serie di chiudilettera/coprilettera con le iniziali fiorite di forma ovale, anche dentellati, di vari colori, che erano in uso per impreziosire ancor più le fatture o le missive,


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2. Carta intestata fabbrica Cesare Ticozzi, lettera indirizzata a Gio. Batta. Pezziol, 1853.

assieme a timbri di riconoscimento aziendale che spesso, in mancanza di un foglio a stampa, servivano anche da intestazione interna. Molto significativa è una carta intestata anteriore a quelle già edite, del 15 luglio 1853 (fig. 2), in quanto esordio di un fittissimo carteggio ultratrentennale tra Cesare Ticozzi e un altro droghiere veneziano, carteggio di cui possediamo alcuni esemplari fino al 1889. Si tratta di quel Gio. Batta. Pezziol che, trasferitosi poi con il fratello Giuseppe a Padova nel 184032 per aprire due distinte drogherie, inventò nel 1845 il famoso “Vov”. La dinamicità dei droghieri veneziani nella metà dell’Ottocento si traduce in innovazione di prodotto e anche in accurato studio di forme di propaganda efficaci, che potessero rimarcare tutta una serie di successi nei commerci e nelle esportazioni oltre i confini locali, spingendosi ben oltre il Lombardo-Veneto, fino a Vienna e poi, successivamente, in tutto il Nord Italia, fino alla Francia. Droghieri in senso stretto, offellieri-pasticceri, commercianti, importatori e macinatori di droghe e coloniali, liquoristi, intermediari di essenze, cioccolatieri e caffettieri, salumieri e trasformatori delle carni del Veneto e della Lombardia: tutti facevano riferimento ai porti di Venezia e di Trieste per le materie prime. Andava da sé che intrecciassero tra di loro rapporti duraturi, anche attraverso lo scambio, all’occorrenza, sia di partite di materie prime sia di prodotti finiti e specialità varie, soprattutto dolciarie. Non deve parere strano quindi che su uno “straccio” (brogliaccio) delle cifre di debito e di credito di Cesare Ticozzi del 1863 (dal 5 aprile al 2 luglio, ASDIFT) vengano minuziosamente elencati 117 nomi di clienti, droghieri, commercianti, pasticceri ecc. e le corrispondenti cifre del dare e avere: quasi un annuario di categoria del Lombardo-Veneto.


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Questa fitta rete di conoscenze è testimoniata anche da corrispondenze, fogli di dogana, richieste di merce, richieste di pagamenti, spedizioni di listini, invio di solleciti, ed è la prova che le droghe, le spezie e i coloniali sono fonte di reddito e di notevoli profitti anche in un momento non roseo sia per il porto di Venezia che per il commercio e l’industria veneta in generale. Tra i nomi che fanno parte di questo elenco c’è, alla data del 13 maggio 1863, quel Luigi Villani di Legnago che sarà uno dei protagonisti della nostra ricerca. Cesare Ticozzi è un capofila di quei nuovi droghieri imprenditori che cambiano il mestiere un po’ in tutta Europa, non si occupano più di specialità mediche (la Teriaca è oramai un ricordo); cercano nuovi canali di penetrazione commerciale, tipologie diverse di clientela, più moderna e più desiderosa di soddisfare il palato con nuove ricette. Dolci, biscotti e pastigliaggi di nuova invenzione, nuovi liquori, miscele segrete di droghe macinate, specialità esclusive cominciano a invadere le tante mostre ed esposizioni internazionali, con un mercato che premia i migliori prodotti e che si affretta a rispondere con entusiasmo. Nell’archivio della famiglia Ticozzi si trova, infatti, un ricettario manoscritto con decine e decine di ricette nuove e rivisitate, perché la sperimentazione era la leva per arrivare al successo commerciale con un dolce, un liquore, un preparato da brevettare, da reclamizzare e da presentare alle esposizioni, sperando di portare a casa un premio e potersene fregiare, battendo una concorrenza agguerrita33. Ovviamente questo accadeva di rado, come nel caso del “Vov” di Gio. Batta. Pezziol, ma quello fu un periodo molto proficuo, tanto che ci fu anche un fiorire di pubblicazioni, manuali, ricettari che contribuivano a tenere effervescente un mercato in espansione. I manuali erano più generici e comprendevano ricette (segreti) per preparare un po’ di tutto quanto potesse trovarsi in drogheria, dai coloranti alle vernici, dagli agenti smacchianti alla profumeria di famiglia e ai saponi, dalla “pasticciaria fine” alla liquoreria, fino agli inchiostri e ai fuochi d’artificio34. A Venezia e Trieste era molto apprezzato Il liquorista indispensabile, un vero vademecum che riportava ricette precise e riproducibili, adatto a un lettore sia professionale che domestico35. Spezie, essenze e droghe erano gli ingredienti principali, assieme alla componente alcoolica, le cui percentuali cambiavano a piacimento, come variavano i nomi di fantasia di questi spiriti, solleticando la fantasia del consumatore, fosse donna, uomo dallo stomaco forte, soldato o marinaio: dal “Rosolio sospiri d’amore” all’“Elisir dei marinai” all’“Acqua della monaca”, dal “Ratafià di assenzio” all’“Olio della dea dell’amore”, tutto per accontentare ogni sorta di cliente36. Nella disamina un po’ approssimativa delle attività di Mestre in questo periodo, Cesare Cantù prende Ticozzi come esempio, unico citato tra i fabbricanti di cioccolate e confetture, trascurando incredibilmente del tutto quelli di Venezia: «Meritano ricordo [...] la fabbrica di cioccolatte e confetture del Ticozzi che estende i suoi prodotti anche nella Lombardia e nel Tirolo»37. Abbiamo visto, invece, quanto Venezia fa da punto di riferimento con il suo porto a tutte le attività che riguardano le droghe e i coloniali con i rispettivi stabilimenti, importatori e agenti, laboratori, negozi specializzati e non, e infine con i locali aperti al pubblico. I nomi sono tanti, attorno a queste attività si giocano, ancora a fine Ottocento, le fortune di centinaia di famiglie veneziane. Caffettieri, biadaiuoli, pizzicagnoli, “casolini”, alimentaristi, venditori di latte, burro, formaggi e commestibili in genere, fabbricanti e commercianti di candele, di vernici e inchiostri, di coloniali, commissionari, mediatori e rappresentanti specializzati, confettieri, droghieri in senso stretto, fabbricanti di glucosio e lieviti, liquoristi, produttori di olii medicinali ed essenze, fabbricanti di paste alimentari e di conserve, biscottifici, pasticceri, cioccolatieri, produttori di pesce ammarinato, fabbricanti di saponi e di profumi, di salumi e carni conservate, commercianti


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di vini navigati ed esportatori di spiriti, bottiglierie, produttori e commercianti di torroni, di mostarde, di dolciumi, di pastigliaggi, di confetture, fabbricanti di prodotti chimici di base, di medicinali e di insetticidi e, se volessimo, potremmo aggiungerne altre... Chiodi di garofano, macis, noci moscate, vaniglia, pepe, pimento, anice stellato, cioccolato, caffè, thè, cacao, cannella, solo per citare le droghe e i coloniali principali, entravano in tutti gli affari di queste attività assieme ai prodotti collaterali (soprattutto cere, saponi ed insetticidi): esse costituivano l’ossatura di vendita del moderno negozio di drogheria. Verso la fine dell’Ottocento, non solo a Venezia, ma in tutte le città venete, la tipologia delle attività che si riferivano al commercio e alla macinazione e trasformazione delle droghe e dei coloniali andò a differenziarsi, da una parte, in negozi-drogherie vere e proprie, e, dall’altra, in produttori più evoluti, che fondarono droghifici e piccole fabbriche di cioccolate, torroni, mostarde, biscotti, dolciumi e simili. Gli ultimissimi anni del Lombardo-Veneto e i primi anni unitari vedono la fondazione di queste attività, che però si consolidano e si sviluppano soprattutto a ridosso del Novecento, per trasformarsi, alcune e pochissime di loro, in vere e proprie industrie. Abbiamo considerato quelle che in qualche modo saranno capaci di evolversi, di costruire nuove fabbriche, nella vicina Mestre inizialmente, e poi vedremo più avanti, a Porto Marghera e oltre, nel trevigiano e nel padovano, divenendo alcune, successivamente, dei veri competitors della Paolini Villani nel Novecento. La saga dei Lizier parte da poco lontano: originari di Spilimbergo, alcuni componenti della famiglia si trasferiscono a Venezia a metà Ottocento e si mettono a esercitare la professione del biadajuolo o del negoziante di coloniali. Valentino Lizier, nato nel 1821 a Spilimbergo, figlio di Domenico, possidente e commerciante, a 53 anni risulta esercitare, il 29 febbraio 1874, la professione di negoziante di coloniali nella propria casa, sita nella parrocchia di San Marcuola a Cannaregio, al n. 232538. In un altro verbale del 29 aprile dello stesso anno, si specifica meglio che Valentino ha rilevato il 21 marzo anche l’attività della ditta Gio. Batta. Zanga al civico 2326 per 64.104,46 lire italiane, una fabbrica di cioccolata e vendita di coloniali, biade, confetture, cere e droghe. A 60 anni, nel 1881, fonda a San Polo, al n. 2672 in Calle dei Saoneri (inizialmente in un fondo preso in affitto, poi divenuto di proprietà, con i soci, anch’essi negozianti di coloniali e amici di lunga data, Procolo Pianetti fu Gio. Maria e Gio. Batta. Collauto fu Domenico), la ditta Lizier Pianetti & C.o, stabilimento a vapore per la fabbricazione di confetture, dolci e cioccolata (sottinteso e compreso sempre il commercio di coloniali)39. Nell’anno seguente si affretta a introdurre come procuratore, a suo nome e della ditta, il figlio trentenne Luigi Gio. Batta. Lizier e nel 1887 aggiunge la vendita di vino all’oggetto sociale. Ma l’impresa dura solo nove anni e cessa nel 1890, rilevata proprio dal figlio. Nasce così nel 1890 la L. Gio. Batta. Lizier (che succede a Lizier Pianetti & C.o) con la stessa attività e nello stesso luogo in Calle dei Saoneri al n. 267240. Lo stabilimento viene ampliato, vengono acquistate nuove macchine a vapore e Lizier lancia con successo i suoi prodotti nel mercato nazionale ed estero. Nel 1892 registra il marchio “Cioccolata della Croce Rossa”41 e viene concessa alla società un’onorificenza all’Esposizione medico-igienica di Milano. Ma anche questa ditta ha vita breve e cessa nel 1895. Gli subentra la Antonio Giove & C.i, successori di L. Gio. Batta. Lizier (Premiato Stabilimento a Vapore per la fabbricazione di Confetture, Cioccolata, Dolci, Frutta candita, Torroni e Mostarde), sempre nello stesso luogo e con la stessa attività, fregiandosi nella sua cartolina commerciale del premio vinto da Luigi Gio. Batta. Lizier.


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3-6. Carte intestate e cartoline commerciali Lizier Pianetti, L. Gio. Batta. Lizier, A. Giove ed E. Guadagnini, fine Ottocento - inizio Novecento.

In effetti sono pochissimi i premi vinti dalla categoria che si occupa di dolciumi, mostarde, torroni, droghe e coloniali. La Lizier Pianetti & C.o vince nel 1888 la medaglia d’argento per la categoria “dolciumi” all’Esposizione Industriale Permanente promossa dal Reale Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti42. Nel 1891 è la volta di Luigi Gio. Batta. Lizier che, come il padre, vince la medaglia d’argento43. Antonio Giove e soci cedono a loro volta l’attività, nel 1901, alla Ernesto Guadagnini & C.i, successori di Antonio Giove & C.i (Premiato Stabilimento a Vapore per la fabbricazione di Confetture, Cioccolata, Torroni e Mostarde) sempre in Calle dei Saoneri al numero 2672. La Guadagnini rileva tutte le attività e nella sua cartolina commerciale racchiude e comprende sia i due premi dei Lizier che il disegno della fabbrica con l’insegna dei Giove, per dimostrare la continuità commerciale e la rinomanza dei prodotti premiati (figg. 3-6). Valentino Lizier, che si era tenuto il negozio a Cannaregio in campo Santa Fosca ai numeri 2326-2327, decide di ritirarsi dal commercio di coloniali a 77 anni, e di chiudere il 20 ottobre 1898, cedendo la drogheria alla signora Rosa Landsmann vedova Zoppolato nel successivo novembre dello stesso anno. La Guadagnini intanto si consolida, riesce a produrre in gran quantità specialità dolciarie raffinatissime che raggiungono il mercato italiano ed estero: alcune scatole da esportazione in legno e cartoncino esprimono il grado di notevole sviluppo nel packaging. Se pur ancora presente nelle guide commerciali e nelle riviste negli anni Venti del Novecento con molta pubblicità, non si sposta dall’originario insediamento veneziano in calle dei Saoneri. Vince la medaglia d’argento nel 1905 sempre dal Reale Istituto di Scienze Lettere ed Arti di Venezia44, oltre alla medaglia d’oro all’Esposizione di Udine nel 1903. Ha un notevole numero di


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dove Jumbo era stato preparato per la vendita. La gente si spintonava, molti ordinavano fette grandissime con la speranza di trovarci dentro le monete d’oro, cosa che avvenne regolarmente. Manco a dirlo il giorno dopo tutti i giornali riportarono l’evento e Lipton ebbe colonne e colonne di pubblicità gratuita e i nomi, o meglio, i brand, Jumbo e Lipton diventarono sinonimi nella mente della gente. Un influente membro del parlamento gli chiese quali fossero le sue idee politiche; la risposta di Lipton, pur avendo non poche simpatie per il nazionalismo irlandese, fu quella dell’uomo che aveva una visione commerciale rivoluzionaria per quei tempi: «My politics are to open a new shop every week!»114. Tornò ancora in America, dove era già molto noto, nel 1884 e nel 1886, per ordinare forme di formaggio giganti e per stringere nuovi accordi. I giornali americani lo chiamavano «King of the provision trade», «the world’s largest food retailer». Si favoleggiava che avesse affari dovunque nel mondo, ma della sua vita privata si sapeva poco o nulla. Fondò e disegnò lui stesso uno stabilimento a Omaha, inaugurato nel 1887, per il macello, il sezionamento e il trattamento dei maiali, impiegando 250 operai. Continuò incessantemente ad aprire negozi anche in Irlanda e in Galles. Ormai lo staff Lipton a Glasgow, con gli uffici in Bath Street, aveva raggiunto il numero di 150 impiegati. In occasione del giubileo della Regina Vittoria, Lipton scrisse alla sovrana offrendo in omaggio la più grande forma di formaggio mai vista, fabbricata questa volta in Canada. La risposta del segretario della sovrana fu alquanto fredda: la Regina non poteva accettare regali da chi non conosceva. In pratica fu snobbato, ma questo non lo scoraggiò affatto perché comunicò alla stampa che quel formaggio lo avrebbe distribuito ai poveri e agli indigenti: ne ebbe così la consueta pubblicità gratuita. Anzi, fece di più; distribuì altri beni, uova e pancetta soprattutto, a lavoratori in difficoltà, soprattutto minatori. Nel 1888 e nel 1889 si concentrò su Londra, dove aprì grandi negozi, di cui uno proprio in faccia all’emporio del famoso William Whiteley, chiamato «the Universal provider». Ormai nel 1889 Lipton annoverava 150 negozi: se non ne apriva uno a settimana come aveva dichiarato, poco ci mancava. Utilizzava sempre lo stesso schema: scegliere la migliore location; assicurarsi che l’esposizione dei prodotti fosse accuratissima, come fossero gioielli in mostra; farsi amici i responsabili della pubblicità dei giornali locali, ordinando campagne di preparazione («Lipton is coming»); creare eventi spettacolari o a sorpresa di volta in volta, anche se quello preferito rimaneva sempre la sfilata dei Lipton’s Orphans. Il primo giorno di apertura c’era sempre lui a servire la prima massaia che entrava. Fu probabilmente il primo al mondo che utilizzò le mongolfiere per farsi pubblicità, con lancio di volantini formato telegramma che magnificavano i suoi prodotti nel cielo di Glasgow.

“Thè adventure”: Lipton entra in Italia e l’Italia entra in casa Lipton Dopo la fine del monopolio della East Indian Company, avvenuto nel 1834, il prezzo del thè rimase per anni ancora molto elevato e i consumi non decollavano. Poi, verso la metà degli anni Ottanta dell’Ottocento, per motivi di riduzione del prezzo e perché oramai gli inglesi ne erano i primi consumatori pro capite al mondo, secondi solo agli australiani, il mercato si impennò, diventando un affare da quasi 200 milioni di sterline. Importatori e grossisti consideravano la catena di negozi Lipton una struttura ideale e già pronta per incrementare le loro vendite, e lo incalzavano perché entrasse in forze in questo settore. Lipton


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affrontò la materia, stimò i margini di guadagno dei grossisti e la situazione degli stabilimenti e delle piantagioni all’estero, e arrivò alla conclusione che doveva applicare il medesimo sistema che aveva usato per gli altri prodotti, cosa che fece, provocando un terremoto commerciale di magnitudo mondiale. Il primo maggio 1889 staccò un assegno di 2.584 sterline, che rappresentava la cifra singola più alta pagata al dazio, per l’importazione di 103.000 libbre di thè, circa 50 tonnellate115. Poi aprì una divisione separata nella sua società a Glasgow, per sviluppare il business; non meno di 80 tonnellate di prodotto vennero scaricate a Broomielaw lo stesso mese, trasportate con carri allestiti e impavesati con vistosi slogan e trainati da 40 cavalli. I carri attraversarono la città di Glasgow accompagnati da 50 uomini con vestiti di colori sgargianti, descritti dalla stampa ora di foggia araba ora indiana, con in mano ombrelli decoratissimi. La sfilata impressionante delle “Lipton’s Life Guards”, nelle loro bellissime tuniche di seta bianca, i pantaloni larghi e cascanti, i panciotti ricamati d’oro, divenne consuetudine ad ogni apertura di punto vendita. La gente credeva che Lipton facesse venire quella gente dalle sue piantagioni d’oltremare, che ancora non esistevano, ovviamente. Dietro le apparenti spacconate, dietro le impressionanti sfilate, anche di duecento figuranti per volta, c’erano programmazione, metodo, preparazione delle iniziative, curate con caratteristiche quasi militari di espansione del business attraverso il marketing orientato al prodotto, la pubblicità, l’evento pianificato nei minimi particolari e il packaging. Lipton comprese che il thè aveva bisogno di un confezionamento diverso, più accurato e accattivante rispetto a come era stato presentato fino ad allora. Aprì una fabbrica con 400 operaie, che mettevano il prodotto, dopo la pesata, in pacchetti coloratissimi, decorati con scene orientali e con lo slogan «Direct from the Tea Gardens to the Tea pot». Naturalmente, a fianco della fabbrica era attivo uno stabilimento tipografico dedicato alla stampa del packaging, che impiegò fino a 200 addetti, nei tempi migliori. Offrì il prodotto nelle sue drogherie a un prezzo molto concorrenziale. Gli affari andavano bene, ma stupì la sua improvvisa accelerazione nell’export di thè confezionato verso gli Stati Uniti dopo appena sei mesi. Sbocchi fondamentali divennero New York, Chicago, Omaha, Philadelphia, Boston: tramite i suoi negozi americani riusciva a vendere 30 tonnellate di prodotto a settimana. I concorrenti inglesi, dopo aver abbassato i prezzi, gli fecero guerra tramite i giornali, facendo notare al pubblico che il suo slogan pubblicitario nascondeva la verità, ovvero che il suo thè non proveniva affatto dalle sue piantagioni e che era di scarsa qualità, pieno di tannino e quindi dannoso alla salute. In particolare, Valentine & Company, mercanti di thè di Belfast, lo sfidarono apertamente sui quotidiani locali. Lipton non si scompose, minacciando di stracciare tutti i contratti pubblicitari di quei giornali. Il vecchio establishment cercò in tutti i modi di metterlo in cattiva luce, anche con la pubblicazione di vari libelli. Ma lo slogan «Direct from the Tea Gardens to the Tea pot», che aveva lanciato, lo fece meditare. Decise di fare un viaggio esplorativo in Oriente nel 1890. Per depistare la concorrenza e i media dalle sue vere intenzioni lasciò credere di essersi concesso una vacanza in Australia. I mercanti concorrenti sospettavano che volesse sbarcare sul mercato australiano; invece, dopo due mesi, era a Colombo. Ceylon (ora Sri Lanka) era conosciuta per le sue piantagioni di caffè, mentre quelle di thè erano quasi inesistenti. Una specie di ruggine delle piante di caffè, prodotta da un parassita, distrusse le piantagioni e allora si pensò di sostituire il caffè con la pianta del thè. Lipton, arrivato in un momento di sovrapproduzione, si incontrò con un suo dipendente,


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43. Carta intestata - ordine Lipton, 1899.

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Frank Duplock, che aveva mandato in avanscoperta per osservare la situazione sul posto. Con lui visitò alcune piantagioni, che poi comprò d’istinto, dato che, per sua stessa ammissione, ne capiva poco di thè. Non si seppe mai quante centinaia di migliaia di sterline pagò veramente le piantagioni di thè, di cocco e caffè per parecchie migliaia di acri, ma comprò il meglio, come Haputale nella provincia di Uva, Dambatenne (Dambethanna), Mahadambatenne, Laymastotte e Monerakande, Hanagalla, Karandagalla, Mousakelle, Pooprassie, Gigranella, Daminatenne, Oakfield e Nahakettia116. Fu l’unico che non tralasciò il mercato del caffè, perseverando nella coltivazione. Cominciò un certo gigantismo nella pubblicità: Lipton propose a proprietari di vecchie fabbriche di scrivere a caratteri colossali il suo nome, così come su navi o palazzi. Aveva già aperto delle succursali a Londra acquistando uffici in Mincing Line, il centro mondiale degli affari per il thè. Non contento, rendendosi conto che Glasgow era sempre più una città periferica rispetto alla metropoli londinese, decise di trasferire, tra il 1890 e il 1892, gli uffici di Lancefield con tutti i suoi dipendenti scozzesi nella capitale britannica. Chi non accettava si vedeva costretto alle dimissioni. Furono acquisiti alcuni immobili in centro a Londra all’angolo di Bath Street con City Road, gli uffici furono ampliati e dotati di energia elettrica, telefoni con possibilità di chiamate esterne ed interne, proprio telegrafo e ufficio postale. Un particolare e separato dipartimento di stampa, trasferito da Glasgow nel 1895, produceva materiali promozionali e packaging in oltre venti lingue, a dimostrazione dell’avvenuta globalizzazione del business. Furono costruite in altre zone fabbriche e impianti per la produzione del caffè, del cacao (ridotto in polvere da enormi presse), della cioccolata e dei dolciumi. Naturalmente la fabbrica principale era quella dedicata al thè, attrezzata con due grandi macchine miscelatrici in zinco, assolutamente sbalorditive per quei tempi. Oltre un milione di pacchetti di thè alla settimana venivano preparati da 500 operaie. A Omaha, negli Stati Uniti, lo stabilimento produceva anche stinchi e salsicce, oltre a lavorare 30.000 prosciutti al giorno; una sezione a parte produceva formaggi ed un’altra ancora casse, scatole e barili. Oramai l’impresa era diventata planetaria ed era presente in tutto il mondo con le sue drogherie, filiali ed agenzie sparse dalla Nuova Zelanda alla Russia. Nel 1893 vinse tre medaglie d’oro alla Columbian Exposition a Chicago e nel 1895 il premio Royal Warrant come fornitore di thè alla Regina Vittoria. Nonostante questo, la Grocers Association non lo voleva come socio. Nel 1896 il complesso di City Road fu terminato e Lipton divenne l’uomo più ricco della Gran Bretagna: possedeva una ragnatela di fabbriche, di negozi, di uffici, di piantagioni, ma lui, trasferitosi fuori Londra a Osidge, con pochi servitori cingalesi, faceva vita ritirata e aveva solo il lavoro quale interesse principale. Era un uomo che non aveva una vita privata, il suo unico scopo era seguire i suoi affari. «I advertise my business, not myself»117, diceva, ma cercava anche il punto d’incontro tra la fama personale e l’impresa, affinché la fama si tramutasse ancora una volta in visibilità commerciale. La pubblicità per Lipton diventava pubblicità per Lipton’s, lui e il thè Lipton diventavano la medesima cosa (fig. 43). Riaffiorò dopo molti anni la sua prepotente passione giovanile per le barche: la mania per l’America’s Cup non lo abbandonò più, lo divorò, quasi un’ossessione, fino alla morte. Se la competizione, che non vinse mai, lo fece diventare ancora più famoso e se utilizzò le barche da competizione per farsi ancora pubblicità, la barca che ora ci interessa è uno yacht a vapore che Lipton comprò nel 1899 dal conte Ignazio Florio, che aveva dato alla sua imbarcazione il nome di Aegusa118, il nome antico dell’isola di Favignana. Lipton la ribattezzò con il nome


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irlandese di un’altra isola, Erin. La Erin diventò la sua casa galleggiante: faceva la spola tra le due sponde atlantiche in occasione dell’America’s Cup; accompagnava e in certi casi trainava i suoi Shamrock quando disalberavano; ma soprattutto diventò un formidabile yacht di rappresentanza, sul cui diario di bordo misero la propria firma tante personalità del bel mondo e tante teste coronate. Le feste date sulla nave, la sua simpatia, la sua sportività, i suoi racconti lo fecero diventare un personaggio adorato dai giornalisti a caccia di pettegolezzi. Nel 1901 ricevette dal nuovo re, Sua Maestà Edward VII, il “Knight Commander of the Victorian Order”. Si interessò anche di calcio, come solo un visionario anticipatore poteva immaginare: nel 1905 si inventò, molti anni prima della Coppa Victory (poi Coppa Rimet), la Lipton Cup, facendo giocare le nazionali dell’Uruguay e dell’Argentina. Nell’aprile 1904 fu insignito da Vittorio Emanuele III a Napoli, a Palazzo Reale, dell’Ordine della Corona d’Italia (“Knight Commander of the order of the Crown of Italy”)119; per ripagare in qualche modo tanto onore, nel 1910 organizzò a Torino la Lipton Cup, cui parteciparono, oltre alla Juventus, molte altre squadre europee importanti che si contesero il trofeo. Nella sua autobiografia Lipton riporta la lunga conoscenza con Lord Thomas Dewar120, un simpatico scozzese, produttore di whisky, amico stretto, tanto che assieme li chiamavano «the two Scotch Toms». Amavano molto scherzare: in una crociera nel Mediterraneo, prima della Grande Guerra, sulla Erin era ospite anche Kennedy Jones (uno dei cofondatori del «Daily Mail»); decisero di sbarcare a Taormina per visitarla, non prima di essersi lanciati una sfida. Kennedy Jones disse di essere sicuro di trovare una copia del «Daily Mail» in vendita una volta sbarcati, Dewar rispose che aveva le stesse pochissime possibilità di Lipton di trovare il suo thè. Lipton non replicò. Entrarono nel negozio più grande di Taormina: alla richiesta del giornale, il commesso rispose di non aver mai sentito parlare di quella testata; allora Lipton chiese se aveva una bottiglia del famoso whisky Dewar’s, ma quello, stringendosi nelle spalle, rispose di no. Alla richiesta di Dewar di una confezione di thè Lipton, l’italiano si illuminò, sorrise e rispose: «Sì, sì, signore!», affrettandosi a portargli il pacchetto. Lipton si sofferma nel racconto sulle facce sorprese dei due amici: aveva il suo prodotto in vendita nel posto giusto al momento giusto. Questo aneddoto ci suggerisce una già efficace penetrazione del thè Lipton in un mercato difficile come era l’Italia di inizio secolo, dove la maggioranza assoluta degli italiani beveva caffè. Chiave d’accesso privilegiata per Lipton in Italia fu, nel 1904, la Corona, come per la Spagna (anche re Alfonso lo aveva insignito di un riconoscimento). Apparirà così anche l’immagine della corona spagnola assieme a quella inglese e italiana sulle scatole di tutti i prodotti. Ovviamente questo non bastava: bisognava trovare chi lo rappresentasse commercialmente. Le visite a Torino, dove certamente venne più volte, gli permisero di individuare il partner giusto nell’attività dei fratelli Paissa, con grande e fornitissimo emporio-drogheria nella centralissima piazza San Carlo. I Fratelli Paissa, operanti fin dal 1884, erano tra i più grandi importatori di droghe e coloniali di tutta la penisola, fornitori ufficiali della Real Casa. Pubblicavano ogni anno un catalogo impressionante di 70 pagine: trattavano vini, birre, liquori, saponi, inchiostri, medicinali, profumi, acque minerali (tra cui Vichy, Fiuggi, Sangemini e San Pellegrino in esclusiva), thè (marca Messmer), estratti di carne e molti prodotti alimentari rari e di difficile reperimento, oltre ad avere il loro marchio “Salus”, derivato dalla denominazione della società anonima da loro fondata, la S.A.L.U.S. I Paissa inseriscono nelle loro carte intestate, listini e cartoline commerciali i “prodotti Lipton” a partire dai primi anni del Novecento, dopo il 1904, per poi toglierli definitivamente intorno al 1925 (figg. 45-46). Non sappiamo se avessero


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44. Soc. An. S.A.L.U.S. F.lli Paissa, cartolina pubblicitaria, 1920, ill. Carlo Biscaretti. 45-46. Soc. An. S.A.L.U.S. F.lli Paissa, cartolina commerciale con segnalato il Thè Lipton, 1925; assegno delle sede di Venezia, 1928.

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47. Thomas Lipton, ritratto inviato agli affezionati amici e clienti, dopo la sua morte nel 1931.

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un’esclusiva nazionale del thè Lipton: pensiamo di sì, in quanto una bella cartolina pubblicitaria pubblicata a Torino, stampata dallo stabilimento litografico Doyen di Luigi Simondetti nel 1913, prima della Grande Guerra, e illustrata dal conte Carlo Biscaretti di Ruffia (1879-1959), famoso disegnatore tecnico e grafico pubblicitario, dà l’idea, assieme al catalogo, di un investimento pubblicitario significativo (fig. 44). La S.A.L.U.S. aveva più sedi in Italia: oltre a Torino, anche a Milano, Genova, Bologna e, in particolare, quella a Venezia, a Santa Sofia, in calle dell’Oca al n. 4231, che aveva rilevato l’attività della società Mantovani & Ravetta121. Perciò il thè Lipton era già presente a Venezia ben prima della Grande Guerra. Ricucendo le fila e sapendo delle molte crociere fatte con la Erin in Mediterraneo, che toccavano punti di trasferimento o approvvigionamento come Montecarlo, la Sardegna, Napoli, il Pireo o Malta (dove Lipton aveva una succursale a La Valletta, in strada Zaccaria), è lecito pensare che una delle mete turistiche principali come Venezia non fosse stata certo tralasciata nei suoi viaggi. Non è affatto sbagliato pensare che la Erin, con i suoi lussuosi arredamenti e con ospiti molto importanti, sia più volte arrivata a Venezia, con un Thomas Lipton in persona, curioso come sempre, che si informa sui mercati locali e che incontra industriali e commercianti: vedremo più avanti come la Lipton di Londra metterà radici profonde in laguna, intrecciandosi proprio con la Paolini Villani. Il Regno Unito entra in guerra e nel 1914 Lipton, in America per le regate, torna in Inghilterra e decide di trasformare la sua Erin in una nave ospedale al servizio della Croce Rossa. Fa base a Marsiglia, poi si dirige a Salonicco e si spinge personalmente in zona di guerra, in Serbia, via treno assieme al personale medico, rendendosi conto delle condizioni della popolazione, decimata soprattutto da un’epidemia di tifo. I giornali di mezzo mondo escono con titoloni come «Lipton under fire!», altri ironizzano, ma in effetti l’aiuto che Lipton porta è reale. Torna a Marsiglia e in una conferenza internazionale perora la causa della popolazione serba, decimata dalle malattie e dalla guerra. La Erin, senza di lui, partirà per l’ultima missione in Mediterraneo nel 1916, come pattugliatore armato sotto l’ammiragliato britannico, riesumando il nome HMS Aegusa per confondere le idee al nemico; purtroppo, dopo aver salvato al largo di Malta i naufraghi del cacciamine HMS Nasturtium, incappato, si disse, in una mina, poche ore dopo anch’essa urta una mina (probabilmente entrambi gli episodi furono opera di un sottomarino nemico) e affonda. Lipton, dispiacendosi tantissimo della morte di sei marinai dell’equipaggio e della fine della sua storica e bellissima nave, a conflitto terminato ne fa costruire una nuova, con lo stesso nome, più grande e lussuosa. Lipton si concentra ora sull’America e, nel 1919, definisce un contratto d’affitto ventennale per nuovi uffici direzionali che devono sovraintendere al mercato oltreoceano. Li individua nel complesso del blocco D del grandissimo Hoboken Terminal Building, sul waterfront del fiume Hudson, dove attracca il Lackawanna Ferry; fa posizionare sulla cima una colossale scritta «LIPTON», in modo che la potessero leggere milioni di persone. I tempi prima della guerra erano definitivamente tramontati: la Lipton si ristruttura, l’America diviene il nuovo faro e anche gli affari si adeguano, cercando nuove modalità nella pubblicità, nel marketing e nel packaging; ma Lipton nei primi anni Venti del Novecento era ancora un esempio da seguire, era un droghiere-pioniere che aveva aperto strade nuove in tutte le direzioni. Lipton scelse di inserire nella comunicazione coordinata della sua carta intestata l’immagine delle sedi prestigiose dei suoi uffici, la corona inglese, i nomi delle sue piantagioni e la loro ubicazione; inserì nel packaging anche le corona ita-


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48. Medaglia d’oro categoria thè, vinta dalla Lipton all’Esposizione Universale di Parigi del 1900, recto e verso.

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liana, spagnola e, prima della Grande Guerra, anche quella germanica, ma scelse di non inserire, come invece faceva la maggior parte delle ditte blasonate europee, l’immagine delle medaglie vinte alle moltissime Expo, sostituite qualche volta da semplici scritte. Le medaglie e i premi vinti alle Expo non furono mai mostrati in una raccolta omogenea pubblica o in un museo: Sir Thomas Lipton (fig. 47) teneva probabilmente molto di più alla collezione dei numerosissimi trofei, premi e targhe sportive ottenuti con l’attività di armatore, yachtman e sfidante nell’America’s Cup con i suoi Shamrock I, II, III, IV e V tra il 1899 e il 1931, poco prima della sua morte. Una fotografia presente in molte pubblicazioni lo ritrae infatti, ormai molto avanti negli anni, accanto ai suoi trofei accomodati in bella mostra dietro alla sua figura. Ciò nonostante, le medaglie delle Expo furono conservate in una collezione personale di Thomas Lipton di cui è apparso un lotto di 13 pezzi tra i più vecchi in ordine di data, messo all’asta a New York nel 2009 (tra i quali quelli della Science Siftings Exhibition del 1894, della Northern Counties Grocery Exhibition del 1898, dell’Exposition Universelle Internationale de Paris del 1900, della Louisiana Purchase Exhibition del 1904, della Louis and Clarck Centennial Exhibition del 1905, della Franco-British Exhibition del 1908 e della All Ceylon Exhibition del 1912). Il lotto fu rilevato dal noto numismatico Phil Schafran di Washington, che ha messo in vendita alcune di queste medaglie da cui abbiamo rilevato forse la più significativa, quella d’oro vinta per la categoria thè dalla Lipton Limited alla prestigiosa Esposizione Universale Internazionale di Parigi del 1900: opera di Jules-Clement Chaplain, in bronzo dorato, di 63,5 mm di diametro, ora in collezione di chi scrive, e che presentiamo (fig. 48).


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50. Bertolini, barattolo litografato “Droga Combinata Excelsior”, 1925; latta per insetticida liquido “Estratto Bertolini”, 1935.

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Consultando l’inventario della merce giacente in magazzino il 13 luglio 1926130 ci possiamo fare un’idea della merce importata, da trasformare e trattata dal droghificio: noci moscate grosse e medie, macis fiori, polvere di pepe scura, rottami e cascami di pepe bianco, chiodi di garofano, pimento, preparato speciale e in polvere, rottami di cannella Regina, cannella Regina, pepe bianco in grani e speciale, pepe nero puro e cascami, zucchero vanigliato, zucchero raffinato, cascami di cannella Ceylon, rottami di cannella Goa, cannella Goa intera e in polvere, steli (chiodi) di garofani, semi di senape, destrina, macis in polvere, noci moscate in polvere, zenzero intero e in polvere, pepe bianco naturale, pepe bianco 80%, bucce di cacao, calamo aromatico, rosmarino, peperoni, semi di aneto, arancio scorza, gallanga intiera, zedoaria, cacao Sicat, legno di liquirizia intero, semi di finocchio, camomilla, semi di coriandolo, paprica rossa, peperoncini, fecola di patate, curcuma, sandalo rosso, salvia, timo, bicarbonato di soda, steli di “grisantemo”, tegumenti di cacao, margherite intere e macinate, pimento in polvere Trento, curcuma in polvere, fiori di crisantemo giapponese, polvere di crisantemo pura, surrogato di zafferano, salnitro, tamaro, cremor di tartaro, spezie toscane, spezie romagnole, anici stellati, vaniglia Thaiti, essenza di garofano, vanillina, pepe nero Tellicherry, pepe Singapore e coriandoli macinati.


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51. Scatola in latta litografata “Lievito Paolini”, 1925 ca.

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La lista, impressionante di suo, è arricchita dall’elenco dei sacchi interi, dei fardi, delle scatole dei vari prodotti importati grezzi (merce “schiava di dazio” nei magazzini dei porti di Venezia e Genova) e di merce già lavorata in barattoli e scatole con droghe, insetticidi e coloniali, oltre a etichette, scatole vuote, colle e gomme sigillanti, soffietti per insetticidi. Spicca un certo quantitativo di cartelli in lamiera alla voce «réclame». Le scatole del “Ceylon Tea” da un ottavo, un quarto e mezza libbra, già pronte alla vendita, sono più di 9.000, oltre ad altre 4.000 ferme in porto. Ma ecco che, senza preavviso di altre carte nell’archivio Zoppolato, senza un contratto scritto, senza un indizio pesante se non la narrazione in famiglia che indicava (a memoria) circa il 1927 e non il 1926 per i primi rapporti commerciali con la Lipton, vengono trascritte da sdoganare “schiave di dazio” in Punto Franco alla Marittima, scatole di Thè Lipton da 10 e 5 libbre, da un quarto, un ottavo di libbra e mezza libbra (1.270 in tutto) e pacchi di thè Lipton da un quarto e un ottavo di libbra (2.000 in totale) di prima, seconda e terza qualità, per un totale di 1.250 libbre (567,5 kg) e un controvalore di 23.805 lire di allora. Lo abbiamo immaginato, non sappiamo se è successo davvero e quando, se la conoscenza sia avvenuta alcuni anni prima, ma è molto probabile che i due soci operativi della PV Alessandro Zoppolato e Ovidio Palma abbiano conosciuto


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52. Fascetta marchio “Ceylon Tea”, depositato nel 1925 (APAZ). 53. Volantino pubblicitario in italiano stampato a Londra dalla Lipton, 1930 ca.

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personalmente, a Venezia o a Londra, sir Thomas Johnstone Lipton e che ci sia stata una significativa stretta di mano a suggellare un accordo mai formalizzato su carta, che durò e tenne per cinquant’anni. Certo, per quanto riguarda i dettagli, i contatti d’affari ci saranno stati sicuramente con i dirigenti Lipton, ma l’incontro con la leggenda vivente, il re dei droghieri, il genio del marketing a capo di un’impresa colossale lo vogliamo dare per scontato, perché Lipton curava tutti gli affari e i contatti con i clienti di un certo peso, anche avanti negli anni, e ogni tentativo di metterlo da parte fu inutile, anche se le leve operative erano passate ad altri. Sembra che l’incarico di vendita del thè Lipton sul territorio italiano inizialmente riguardasse la dorsale adriatica; è probabile che operassero agenti indipendenti con accordi esclusivi ancora in essere come Angelo Confalonieri in Lombardia: ne fanno fede alcune pubblicità su periodici. Ma è un fatto che la S.A.L.U.S. dei F.lli Paissa, l’organizzazione più importante di distribuzione in Italia, toglie i prodotti Lipton dalla sua carta intestata proprio nel 1926, e soprattutto libera il campo in Veneto. Non è certo un caso che la Lipton Limited chieda di registrare il proprio marchio in Italia proprio nel marzo 1925, più precisamente tutta l’etichetta scritta in italiano su quattro facce della confezione floscia “Miscela N.1”, con un elefante che porta le casse del thè131, e quella più comune incollata sulla scatola a cubo di latta da mezza libbra, sempre della miscela di prima qualità, su cinque lati compresa la faccia sul tappo già descritta e sempre in italiano132. La registrazione e il deposito dei marchi di fabbrica e delle etichette è fatta presso l’Ufficio della Proprietà Intellettuale a Roma a cura della società romana Barzanò & Zanardo, attiva nel campo dei marchi e dei brevetti dal 1878. Questo accordo cambia radicalmente il corso delle cose: catapulta la Paolini Villani nel ristretto numero di aziende italiane che possono fare la differenza, con la sua rete di vendita sia in drogheria o nel punto vendita (alimentarista, emporio e altri), sia presso il consumatore, con un brand conosciuto a livello mondiale che, in sinergia commerciale con gli altri prodotti a nome PV, fa aumentare il consumo di thè pro capite, entrando con un certo impatto nella dispensa degli italiani. Per un’azienda marketing oriented, in un settore, quello alimentare e dei coloniali, dove la promozione era tutto – in quegli anni oramai la pubblicità stava invadendo ogni mezzo a disposizione, fosse giornale, rivista, manifesto, cartellonistica esterna, cinema e con, in aggiunta, l’affacciarsi prorompente della radio –, fu importante apprendere le consolidate tecniche pubblicitarie e di comunicazione della Lipton e la sua esperienza nel packaging. Ricordiamo che Lipton a Londra aveva un dipartimento apposito in City Road, che stampava in 20 lingue. Un volantino pubblicitario di quel periodo, in quattro facciate, in un italiano quasi perfetto, stampato proprio in City Road presenta la scatola di prima qualità (Qualità n. 1) di forma cubica, con etichetta italiana di carta, da un «quarto di kilo netto» (circa mezza libbra o pound) con scritte mutuate dall’inglese come «Lipton» al posto di «Lipton’s», «Tè Lipton» e poi, contraddicendosi, in «Thè Lipton»133 su un altro lato della scatola. La scritta «Largest sale tea in the world» viene tradotta con «Il più diffuso nel mondo», su un ferro di cavallo stilizzato che racchiude il palazzo degli uffici direzionali di City Road. In basso si ricordano le medaglie d’oro vinte alla Calcutta Exhibition nel 1923 e al Ceylon Agricoltural Show del 1924. La scritta «Extra Choicest Blended Tea» viene tradotta in «Thè scelto Extra Miscelato», mentre quella «Tea Planters, Ceylon» e poi «Tea, Coffee & Cocoa Planters, Ceylon» diventa «Piantatori di thè, caffè e cacao a Ceylan». Sul coperchio superiore torna la scritta originale «Lipton’s», che fa da introduzione al riquadro di una scena di coltivazione e trasporto del prodotto nelle


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54. Scatole cubiche in latta, QualitĂ n. 1, da una libbra e da Âź di libbra, ricoperte da etichetta di carta, 1935; scatola americana da 15 bustine, 1930 ca.

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55. Particolare delle scatole da ¼ di libbra con la scritta «Sole Importers and Distributors for Italy Paolini Villani & C.i, Venice».

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proprietà Lipton. La figura delle tre corone (inglese, italiana e spagnola) insieme con la scritta «By appointment to» certificava che l’azienda riforniva ufficialmente di thè le tre case reali. Nel volantino si riportano solo la corona inglese e quella italiana con la semplice scritta «Fornitori di Tè» (fig. 53). Questa tipologia di scatola, piuttosto rara, era affiancata più comunemente, nell’importazione, da quella in inglese (di peso variabile da una libbra, mezza libbra, un quarto di libbra), sempre con etichetta di carta incollata, con l’immagine unica della corona inglese (regnante Giorgio V). Alla base di tutte le scatole le scritte stampate in rilievo, sempre in inglese, «Lipton’s Delicious Teas & Coffees», con la variante «Lipton Tea Coffee and Cocoa Planter Ceylon»; aggiunto di traverso l’immancabile «Made in England». Nel frattempo si era fatta strada l’invenzione, risalente al 1908, della bustina in tessuto, che si deve a un mercante di New York, Thomas Sullivan. Inizialmente nata come sacchettino per farne dei


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campioni da presentare ai clienti e poi perfezionata negli anni Venti, la bustina ebbe un successo immediato oltreoceano e la Lipton mise prontamente in commercio, solo sul mercato americano, una bellissima scatola dorata da 15 bustine (peso totale 1,8 once, circa 50 grammi) con inserite le tre corone sul coperchio. Bisognerà aspettare il secondo dopoguerra per vedere la bustina prendersi anche il mercato europeo, allora dominato ancora dal metodo tradizionale di infusione (figg. 54-55). Molte altre scatole di latta Lipton, litografate e più raffinate, da anni riportavano scene esotiche per lo più di Ceylon, con elefanti che trasportano sulla groppa enormi casse in legno di thè Lipton vicino al porto, pronte da caricare sulle navi in partenza, gruppi di bufali selvatici allo stato brado negli acquitrini, giovani donne Tamil che sorridenti raccolgono nelle ceste le foglie di thè, venditori di frutta in abiti sgargianti, stabilimenti di essiccazione nelle numerose piantagioni e sedi Lipton a Colombo (fig. 56). Ci sono perciò delle fortissime analogie tra la pubblicità tabellare ordinata sulle riviste dalla Lipton fin dai decenni precedenti – il packaging raffinato, la scelta di esotismi molto di moda già prima della Grande Guerra, l’immagine esotica e ricordante il periodo coloniale inglese con l’aggancio alla zona di produzione (Ceylon) – e il cambio di registro comunicativo operato dalla Paolini Villani alla fine degli anni Venti, facendo propria l’idea esotica raffigurante echi coloniali lontani che sostituiscono l’immagine oramai superata di stabilimenti e fabbriche con sbuffanti ciminiere, vanto produttivo ormai dato per scontato, assieme ai fiori e bordi liberty di inizio secolo. È così che appare la serie litografata di barattoli o vasi in latta, che va a sostituire la precedente raffigurante lo stabilimento di Mestre. I cilindri, prodotti in varie dimensioni da 1-2-5-10 kg, contengono spezie e droghe macinate. Il tappo a colori concentrici, dal senape al giallo al bianco, con la scritta «Industria per la macinazione delle droghe», riporta al centro il cartiglio in nero e azzurro PV & C. L’immagine sul cilindro, letteralmente mutuata da quelle simili della comunicazione Lipton, mostra a sinistra un grande elefante indiano in marcia, spronato da un indù col turbante che avanza tra la vegetazione con un carico di grandi casse marchiate Paolini Villani, mentre a destra troviamo una scena di carico delle medesime casse, sollevate dal pianale di un camioncino PV con la gru di un grande bastimento, le cui tre ciminiere in funzione segnalano che è pronto a salpare. Completano la scena due uomini, che controllano le carte di imbarco della merce, e una piccola locomotiva. Le due immagini sono separate da una grande ragione sociale e una scritta a caratteri digradanti «Paolini Villani e Ci Venezia, Stabilimento Macinazione Preparazione Droghe - Cannella - Spezie Composte. Speciale preparazione a base di droghe scelte erbe aromatiche e surrogati vegetali a norma delle vigenti leggi Sanitarie». Segue uno spazio riquadrato per segnalare, con un’etichetta di carta, la merce contenuta effettivamente di volta in volta nel contenitore. Il colore di fondo del barattolo è dorato con strisce divisorie blu, completa il tutto un grande riquadro color crema recante all’interno la scritta commerciale: «Le Spezie o la Cannella contenute in questo vaso, pur essendo “miscellate” [sic] con altri ingredienti aromatici, conservano tutta la fragranza ed il sapore della Droga genuina delle quali sono principalmente composte. Esse sviluppano, sia nell’uso della cucina come nella lavorazione delle carni suine, un gusto assai fine e delicato». La fabbricazione della serie di barattoli è a cura del noto scatolificio Manifattura latta R. Redaelli di Rovato, Brescia. In pratica il brand “Droga Combinata Paolini”, come abbiamo visto probabilmente mai registrato, scompare dai grandi vasi e lascia spazio a vasetti più piccoli per uso domestico e a vasi di latta generici, pronti ad essere riempiti di volta in volta di miscele e di droghe pure


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56. Scatole Lipton con scenari esotici e scene di raccolta del thè a Ceylon, 1910-1915.

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(ad esempio «Fior di droga», «Spezie Toscane», «Spezie Trentine»), a seconda delle richieste del mercato. Ci si affida molto e con ragione all’immagine evocativa delle “Indie” e ai concetti di “partenza” ma anche di “avventura”: questi aspetti vengono evidenziati molto bene dal bastimento in partenza, più nave passeggeri che mercantile, facendo affiorare nella mente il momento dell’emigrazione, ben conosciuto da tutti in Italia, ma anche la partenza verso le nostre colonie (come la Libia, che era entrata in orbita italiana da pochissimi anni)134. Questa immagine così simbolica ed evocativa riesce ad arrivare, con la ristampa costante dei barattoli nel tempo, fino alla fine degli anni Ottanta del Novecento, quando la PV chiude, a riprova di una validissima operazione di marketing che testimonia una scelta molto indovinata (fig. 57).


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I competitors e la nascita del “bestiario esotico” Venezia, è evidente, perde il suo patrimonio produttivo nel campo dei coloniali, delle droghe e affini che, per gemmazione, si trasferisce in terraferma: vuoi per ampliamento degli stabilimenti, vuoi per decreti restrittivi riguardo ai nuovi regolamenti di insediamento degli stessi, vuoi per la logistica più favorevole o per una mano d’opera soprattutto femminile più a buon mercato, vuoi perché con Porto Marghera si aprono spazi e prospettive favorevoli, anche di nuova clientela. Lo schema insediativo della Paolini Villani – posizionarsi sul primo binario vicino a una stazione ferroviaria con uno stabilimento che possa sfruttare strada ferrata e collegamenti stradali agevoli – viene ripetuto quasi per intero da una società veneziana, la Edgardo Pesaro & C., che si posiziona a Mogliano Veneto (TV), lungo il primo binario in via Stazione, con uno stabilimento a forma di “E”,

57. Cilindri in latta litografata Paolini Villani, prima serie con scene esotiche di trasporto e stivaggio delle merci, 1925-1930.


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con la presenza, al centro, degli uffici e della residenza padronale, partendo con 15 addetti. Creata dalla famiglia veneziana Pesaro nel 1920135, questa azienda fu tenuta in vita fino al 1991, con alterne vicende, mantenendo un ufficio e depositi a Venezia e Mogliano, oltre che a Trieste e Genova. La scelta emulativa di distribuire le droghe macinate in vasi di latta litografati sulla falsariga della prima serie PV è palese anche nell’uso del fondo oro, con lo stabilimento incorniciato che fa bella mostra di sé, la scritta commerciale136 e il cartiglio EP & C. sul tappo. La Edgardo Pesaro dichiara sui vasi di esportare ma, al contrario, punta ai surrogati, soprattutto l’estratto “olandese”, indicato come “vero” (che non vuol dire nulla), ma che risente in quegli anni di autentiche battaglie, prima commerciali e poi a carte bollate, fra i vari produttori nazionali, visto che la spinta autarchica era partita nell’alimentare proprio dal caffè. In questo mercato si erano da tempo posizionate la Crastan di Pontedera (PI), con il suo estratto olandese marca “Moretto” e la faccia di un testimonial di colore; la società anonima Luigi Rossa di Vercelli, carica di medaglie d’oro – tra le quali Torino nel 1898 e Parigi nel 1900 – con il marchio registrato “Elefante”, il disegno del pachiderma e l’immancabile scritta «Vero estratto Olandese»; la Setmani (Industria Surrogati del Caffè) di Milano, e la Frank, sempre di Milano, col suo “Vero Frank”. Impossibile brevettare il nome comune “olandese”, impossibile distinguere tra tante marche: la pubblicità ovviamente faceva da spartiacque tra marchi di successo e comprimari137. Il contenuto dei surrogati alcune volte era palese (cicoria); altre volte, anche nelle droghe e spezie, piuttosto aleatorio. Perciò era molto importante colpire l’immaginario del consumatore con richiami a paesi esotici, alle “Indie”, all’“Olanda coloniale”, all’Africa, a figure sia di animali e piante che di locali che maneggiavano la materia prima, sorridevano o gustavano la bevanda, arabi su dromedari nel deserto, elefanti guidati da indù, facce di giovanissime e giovanissimi di colore, palme rigogliose, pagode a tetti decrescenti e minareti altissimi. Per quanto riguarda gli animali, si scatena un vero “bestiario”, dove il dromedario caratterizza bene la carovana che porta spezie e droghe attraverso il deserto e il pachiderma da carico asiatico mostra la sua forza impressionante, ma si prendono la scena anche qualche leone, qualche tigre e qualche orso. “Moretti” e “morette” con vestiti coloratissimi e succinti, agghindate con monili e copricapi elaborati, e “indiani con il turbante” cominciano a prendere possesso di bustine, di scatole litografate, di listini e carte intestate. La Pesaro ben rappresenta questo mondo con cartoline legate all’immagine “olandese” del surrogato del caffè: ad esempio, la cartolina di una mostra del 1929, che presenta il plastico di un villaggio olandese costruito con i pacchetti del suo estratto. In un’altra cartolina vediamo un paesaggio sahariano con il marchio “Italmoka” (un galletto su 3 P di Pesaro), poi variato in “Trepy supermiscela che sostituisce il caffè”138. Il marchio “Caffas”, simile all’“Italmoka”, si concentra invece su palme stilizzate e un ascaro col fez che sorseggia la miscela da una tazzina fumante; la bustina del composto di pepe di Cayenna e peperoncini nazionali mostra una donna di colore che, sorridente, indica la scritta «per migliorare tutte le vivande». Nell’immagine sulla bustina del composto aromatico che sostituisce il pepe nero, troviamo una moderna massaia col grembiule, intenta a cucinare su lucidissime pentole di alluminio. Altri marchi depositati: “Vovis prodotto italiano”, surrogato delle uova; “Trepy”, per pepe e surrogati; “PAS pepe autarchico surrogato”; “Original Pikfort prodotto italiano” e “Perla”, prodotti da drogheria; la droga preparata “La Squisita”; i surrogati di caffè “Italmocca”, “Kaffas”, “American prodotto italiano” e “Brasilian” (figg. 58-62). Anche il droghificio I.N.D.I.A.N.A., come abbiamo già visto, si va a posizionare nello stesso segmento di mercato, nella stessa area e quasi nello stesso mo-


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In questo tipo di agende-ricettario si era specializzata una ditta, dapprima chiamata Ufficio Tecnico di Pubblicità Alessandro Foà, ubicata in via Settembrini 91 a Milano, successivamente Società Editrice «Annuario della Casa», sempre allo stesso indirizzo. L’agenda con copertina cartonata Per la famiglia183 ha come capofila la ditta S.A. Luigi Rossa di Vercelli che, col suo “Caffè Rossa” e il “Vero Estratto Olandese marca Elefante”, era protagonista del mercato dei surrogati del caffè e, come abbiamo visto, avversario in una causa contro I.N.D.I.A.N.A. di Porto Marghera, a sua volta concorrente di PV. Come ditte “invitate” (naturalmente chiamate a partecipare anche alle spese della realizzazione) troviamo società non in concorrenza merceologica, con prodotti complementari che aspiravano a comporre un ipotetico “paniere” di qualità, per indirizzare gli acquisti delle massaie. In questa pregevole agenda pubblicitaria si trovano l’effervescente “Carbolitina” Gabbiani, i risi tipici Minella di Vercelli, “Ovocrema” della PV, la conosciutissima “Simmenthal” e il pesce congelato “Genepesca”, altro marchio prestigioso. Nell’introduzione si delinea il target comune, quella massaia che diventa obiettivo dichiarato e coccolato: in qualità di oculata ed economa padrona di casa, era chiamata a utilizzare al meglio le limitate risorse destinate alla spesa giornaliera. Addirittura l’indice chiama l’introduzione Lettera aperta alle massaie184, e lo fa con l’enfasi di chi parla, l’Editore, a nome di ditte conosciute e importanti, garanzia di qualità e sicurezza alimentare. Dopo la presentazione aziendale istituzionale e commerciale, l’inserimento di calendari annuali, promemoria e notizie di varia utilità, l’agenda-ricettario giornaliera presenta, nelle pagine di destra, ricette cadenzate, vincolate o non dai prodotti pubblicizzati, e in quelle di sinistra una striscia verticale dei prodotti che vengono pure riportati a mo’ di capoverso, che non devono mai mancare in dispensa. Ogni mese, in occasione del riassunto delle spese effettuate, spazi pubblicitari più grandi, di mezza pagina, a ribadire ancora una volta i prodotti delle ditte consigliate (figg. 75-76). Nell’agenda-ricettario del 1942, omaggio di “Ovocrema” alla «massaia intelligente ed economa»185, già la prima di copertina è un inno alla padrona di casa che fa felici tre bambini festanti porgendo loro un ciambellone pronto per essere divorato. I caratteri in oro del brand “Ovocrema” e la frase commerciale «Una bustina sostituisce 8 rossi d’uovo» esprimono fin dal principio le intenzioni comunicative di PV. La quarta di copertina, poi, riporta il prodotto, la bustina-icona che accompagnerà tutta la futura pubblicità e tutto il packaging. Nella seconda di copertina e nella prima romana la frase «La massaia intelligente ed economa prepara da sé ogni tipo di dolce senza uova perché adopera “Ovocrema”» fa da cappello ad alcuni vantaggi descritti nell’uso del prodotto186. Tra le tantissime ricette e i consigli di economia domestica che si snodano giorno per giorno all’interno dell’agenda, si propongono molte ricette a base di “Ovocrema”187: un modo per non essere invadenti, ma convincenti. La PV si presenta nelle prime pagine con una veduta dello stabilimento di Mestre, simile a quella della carta intestata, e un vero e proprio publi-redazionale, quasi un manifesto commerciale dei suoi prodotti188, dove ovviamente manca il thè, prodotto scomparso in quegli anni di guerra contro i britannici. Molto interessante la presentazione del nuovo brand, il “Budino dei Dogi”, marchio non registrato che completa la svolta e lo sforzo autarchico della PV, assieme a “Sterminio”, “Droga Combinata Paolini”, “Ovocrema”, “Lievito Paolini”, le bustine delle droghe e dei “condimenti” (di solito composti di pepe e cannella in polvere), dei composti aromatici in polvere e dello zucchero vanigliato. L’agenda ha come “ospiti” (al pari di quella che aveva come capofila la S.A. Luigi Rossa) il “Vero estratto Olandese”, la “Qualità Rossa” e la “Miscela Edera” della ditta di Vercelli, la “Carbolitina”


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Gabbiani, il Bicarbonato di Soda Purissimo della Solvay, il burro Gallone di Milano “Marca Reale” (Consorzio Produttori Latte di Milano), il “Vegedor” estratto vegetale della Liebig, il combustibile solido “Meta”, l’“Elmitolo” e il “Gardan” della Bayer, le cucine a gas “Triplex”, il frigorifero FIAT 125 e molti altri marchi minori. Nelle pagine quotidiane appaiono slogan e varianti di frasi pubblicitarie di “Ovocrema” come briciole di pubblicità messe qua e là: «Se provate a fare il medesimo dolce con l’“Ovocrema” e poi coi rossi d’uovo, userete poi sempre “Ovocrema” e risparmierete quattrini»; oppure: «Con l’“Ovocrema” voi otterrete dei dolci squisiti, come e forse meglio che adoperando le uova»; oppure: «Se siete rimaste soddisfatte del risultato dell’“Ovocrema” raccomandatene l’uso alle vostre amiche»; e ancora: «I rossi d’uovo sono indigesti per certi stomachi. L’“Ovocrema” dà per i dolci il medesimo risultato ed è invece digeribilissima per lo stomaco più delicato»; e per finire con: «Pare un miracolo ed è invece una realtà: una bustina di “Ovocrema” sostituisce 8 rossi d’uovo nella confezione dei dolci». Certamente alcune ricette oggi sono oramai desuete o improponibili, come la “zuppa di ranocchi” o il “fritto di sangue di pollo”, ma nella maggioranza sono ancora fattibili, quelle con “Ovocrema” in gran parte ripetibili (con i dovuti aggiornamenti): una per tutte, la Torta Italia189 (fig. 77). Il ricettario “Ovocrema” vide la luce poco prima del deposito del marchio, stampato dalla Fantoni & C. di Venezia (Gino Zoppolato era buon amico di Fantoni, ricorda suo nipote Alvise Zoppolato), con distribuzione autorizzata per tutto il Regno della R. Questura di Venezia con nota n. 7314 del 1° marzo 1938. La 1a di copertina della prima versione, realizzata da Dalmonte (che vedremo protagonista con la sua agenzia ACME delle campagne pubblicitarie sulle riviste per PV), rappresenta una cascata di uova interrotta dal nome del prodotto “Ovocrema” Paolini (quasi a ricordare un fascio littorio stilizzato), forse il marchio originario, ma poi successivamente abbandonato perché “Ovocrema” era un marchio forte e viveva già di luce propria. In questo caso l’uso del colore rosso è come una prova e verrà poi abbandonato. Nelle due pagine seguenti si riprende il concetto del «preparate in casa i vostri dolci» e si descrivono i vantaggi dell’uso dell’“Ovocrema” Paolini. Le ricette per l’uso de l’Ovocrema, che poi verranno ripetute nelle altre edizioni con aggiunte e varianti, sono 24, soprattutto di dolci190; seguono alla fine le Avvertenze191 e il richiamo alle tre specialità Paolini: «Droga Combinata Paolini, condimento sovrano per tutte le vivande. Lievito Paolini, lievito secco per tutti i dolci. “Ovocrema”. Vanigliata: per creme, gelati, pasticceria in genere. Senza vaniglia: per tagliatelle e pasta alimentare». In 4a di copertina un’immagine che risente ancora dello stile degli anni passati, con due bambini che adocchiano le torte; nell’edizione successiva, del 30 gennaio 1939, se la 1a di copertina graficamente è uguale, la 4a di copertina vede a chiusura il solo cerchio con le iniziali PV & C. aziendali incatenate (figg. 78-79). Le stampe del ricettario si susseguono e gli esemplari distribuiti sono decine di migliaia. La Fantoni & C. S.A. rilascia una versione nuova, datata 7 agosto 1939, con la 1a di copertina, sempre realizzata da Dalmonte, raffigurante un grande uovo sovrastato da una fascia col nome «Ovocrema» e due scritte sottostanti «vanigliata e senza vaniglia» e «ricette ed istruzioni per l’uso», per finire sul fondo con la ragione sociale. In un angolo in alto, ancora un grappolo di uova a far da cornice. I colori della stampa variano dal seppia al marrone scurissimo. In 4a di copertina i soliti 3 Memoranda della saggia massaia, rivisti e corretti192 (figg. 80-81). Domenico Musci193 riporta l’immagine del ricettario “Ovocrema” del 1939, ma poi ne descrive due diverse versioni, di cui una sicuramente dell’immediato dopoguerra – che vedremo contenere la Raccolta Premio Paolini oltre alla cambiata ragione sociale – comprendente anche l’immagine della scatola del Thè Lipton che, come abbiamo visto, in tempo di guerra era sparito dai ricettari, in


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77. Agenda-ricettario Omaggio “Ovocrema”, annuario della casa, memorandum delle grandi marche italiane nell’economia domestica, 1942.

78-79. Primo ricettario “Ovocrema” del 1938 e seconda versione del 1939, realizzati da Dalmonte. 80-81. Ricettario “Ovocrema”, due versioni con grande uovo del 1939, realizzato da Dalmonte.

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82-85. Pubblicità “Ovocrema”, soggetti diversi a cura della ACME (Dalmonte), uscite su periodici tra gli anni 1940 e 1944 (stamponi originali, APAZ).

86-87. Pubblicità “Ovocrema” e “Lievito Paolini” a cura della DALM (Dalmonte), uscite nel dopoguerra, su periodici tra il 1945 e il 1950.

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quanto prodotto proveniente da un paese nemico e che certo non sarebbe stato licenziato dalla R. Questura di Venezia. In ogni caso Musci parla dei testi descritti nel ricettario come un modo «furbescamente subdolo nel toccare le giuste corde a proprio favore». Diremmo invece che quello stile espressivo era comune nel modo di fraseggiare dell’epoca, un po’ perentorio, certamente attivo nel creare un senso di colpa («Guai ad usare prodotti non originali, solo il nostro lo è davvero! Non vorrete privare i fanciulli dei dolci, vero?...»), come abbiamo già visto, oppure nel suscitare aspettative («Prendete i vostri mariti per la gola! Vedrete come saranno contenti i vostri bambini!») o nel confrontarsi con la concorrenza tirando fuori gli attributi di veridicità, unicità, salubrità, igienicità. Al contrario degli slogan pubblicitari, assolutamente chiari nell’esporre i vantaggi che avrebbe avuto il consumatore nell’acquistare il prodotto, i testi delle ricette erano spesso fatti “in casa”, mettendo al lavoro vecchie zie o nonne dei titolari che la sapevano lunga. Certo, i testi a scopo pubblicitario “spingevano” il prodotto, ma è quel che il cliente chiedeva: essere convinto, con buone maniere, certamente. Anche il venditore presso le drogherie mutuava questi concetti: la vendita doveva spiegare questi “vantaggi”, la pubblicità ne era lo strumento finale. A parte qualche pubblicità tabellare sul «Gazzettino» e su qualche periodico o almanacco con il marchio Lipton, in PV non si era sentita l’esigenza di investire


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88. Grande carta assorbente pubblicitaria “Ovocrema”, realizzata da Dalmonte, anni Quaranta (APAZ).

Massimo Orlandini

con continuità nei mezzi della carta stampata fino a quando il nuovo brand “Ovocrema” non fa la sua comparsa, cambiando drasticamente le cose. Gino Zoppolato individua la formula vincente: moduli pubblicitari in B/N, molto piccoli (1/24 di pagina) o medio piccoli (1/8, massimo 1/6 di pagina), ripetuti in ogni numero di settimanali a grande tiratura. La rivista dove converge la maggior parte del budget pubblicitario è «La Domenica del Corriere», tra il 1940 e il 1944, fino ad appena un mese prima del terribile bombardamento dello stabilimento di Mestre. Alcuni altri periodici interessati furono «La Donna, la Casa, il Bambino» e «Mani di Fata». Presumiamo che il contratto pubblicitario comprendesse almeno la metà dei numeri annuali, cioè non meno di 25-30 uscite all’anno. Se il soggetto pubblicitario fosse stato lo stesso o se gli “impianti” fossero stati due o tre al massimo, come la maggior parte delle aziende faceva, non ci saremmo stupiti. Invece si decide di incaricare la notissima agenzia pubblicitaria ACME-Dalmonte194, di Luigi Dalmonte Casoni195 (che è stato un grande della pubblicità italiana ed internazionale), per realizzare intorno al prodotto decine e decine di bozzetti, tutti diversi, corredati di slogan, anch’essi diversi, che si susseguono per almeno 5 anni, poi ripresi e riusati subito dopo la guerra e successivamente alternati e sostituiti, cambiando un po’ lo stile con qualche foto in bianco e nero. La firma ACME (figg. 82-85) nel dopoguerra diventa DALM (figg. 86-87).


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89-90. Parti di espositori di “Ovocrema” in cartone, anni 1960-1975 (APAZ).

Paolini Villani, dalla réclame alla pubblicità

In totale queste campagne comprendono un intero decennio, dal 1940 al 1950, con sosta nella seconda parte del 1944 e di tutto il 1945, e caratterizzano bene quel periodo fino all’avvento della pubblicità al cinema e poi, soprattutto, con “Carosello” in TV. I soggetti pubblicitari di tutti gli anni Quaranta sono circa 200: alcuni li abbiamo trovati consultando intere annate di riviste, ma la maggior parte sono nella collezione privata di Alvise Zoppolato, che ha conservato un album non completo di suo nonno Gino, uso tenere con cura gli stamponi delle pubblicità, oltre ad alcuni bozzetti e disegni mai pubblicati. Alcuni di questi soggetti, nel dopoguerra, riguardarono anche il “Lievito Paolini”, mai gli altri prodotti, e si differenziano per la scelta più numerosa di riviste e periodici, come «Grazia», «Le Vie d’Italia» del TCI, «Il Tempo», «L’Europeo» ecc., e di un formato molto più grande (1/4 di pagina, 1/2 pagina, pagina intera). Gli slogan riassumono la “filosofia Ovocrema”, sempre a ricordare la convenienza, la praticità, l’igienicità, la modernità del prodotto. Chi ci “rimette” sono galli e galline; chi se ne giova, oltre alla massaia, è il bravo droghiere che fa scorta di “Ovocrema”. Quasi sempre è indicato di richiedere gratis il ricettario, che verrà spedito a casa della massaia. La frase inserita sempre nella pubblicità e nelle bustine orienta al senso della sostituzione del prodotto “naturale”: «Una bustina di Ovocrema [...] sostituisce 8 rossi d’uovo». L’idea è che “senza” le uova



Paolini Villani: le famiglie, i luoghi e i protagonisti

Silvana Alessandrini e Alvise Zoppolato

La storia di un’azienda inizia e si sviluppa con il contributo dei suoi protagonisti. Ciascuno di essi porta esperienze e cultura maturate nel contesto familiare e lavorativo: le relazioni di parentela e di amicizia che si formano in questo ambito sono uno degli aspetti che ne influenzano gli sviluppi futuri. Storie di caffettieri e di venditori di spezie e coloniali si intersecano e si consolidano nella Venezia di fine Ottocento; i loro interpreti condividono la vita nello stesso sestiere e nella zona del porto; si creano contatti, si tessono relazioni commerciali, si pianificano iniziative... Aver compreso che un nuovo mondo avanza permette a molti piccoli imprenditori di proiettarsi verso il futuro e di aprire attività innovative per l’epoca. Dalla ricerca archivistica relativa all’origine delle famiglie fondatrici si scopre che la storia della Paolini Villani inizia, in realtà, quasi un secolo prima, con la trasformazione e il commercio del caffè.

I Coloniali: il caffè e le caffetterie Prospero Alpini, noto botanico e medico di Marostica1, durante la sua permanenza in Egitto al fianco del Console di Venezia scopre il caffè e ne importa a Venezia, nel 1584, alcuni sacchi. Inizialmente il caffè era venduto soltanto nelle farmacie ed era bevuto per sfruttare alcune sue proprietà medicamentose e digestive: il suo costo era molto elevato. Per la sua posizione strategica tra Oriente e Occidente, Venezia in breve tempo diviene punto di riferimento non solo per i mercanti italiani, ma anche per quelli provenienti da altri Paesi, specialmente del centro-nord Europa.


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1. Cannaregio, Sala del Caffè Landsmann (1869-1874) ubicato a San Canciano (o San Canzian) al civico 5990, attuale campiello Crovato (foto S. Alessandrini).

2. Ritratto di Rosa Landsmann (?), moglie di Angelo Zoppolato (da Paola Landsmann). 3. Ritratto di Angelo Zoppolato (APAZ).

Silvana Alessandrini - Alvise Zoppolato


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Paolini Villani: le famiglie, i luoghi e i protagonisti

Il fatto che il caffè provenisse dall’Oriente islamico attraverso l’impero ottomano contribuì a generare remore e pregiudizi di natura religiosa e culturale nei suoi confronti, tanto che non si tardò a definirne “diabolici” gli effetti. [... esso] fu oggetto di un vero e proprio ostracismo messo in atto da ambienti conservatori, [... tanto che] si arriverà a chiedere al Papa [Clemente VIII] di scomunicare il caffè – bevanda “pagana” – e tutti coloro che ne avessero fatto uso [...]. Fortunatamente il Pontifex maximus, dopo aver assaggiato la nuova bevanda, ne dichiarò lecito il gusto, aprendole le porte – anzi: i porti (Venezia, Marsiglia e Amsterdam) – della Cristianità. [...] A quanto pare, la prima “Bottega” veneziana aprì i battenti nel 1683, “sotto le procuratie Nuove”, ossia sul lato sud di piazza San Marco. Ad essa seguiranno altri ventitré caffè, tutti sulla stessa piazza, tra cui il più celebre è senz’altro “Alla Venezia Trionfante”, aperto nel 1720 da Floriano Francesconi e successivamente diventato l’attuale “Caffè Florian”.2

Al caffè Florian seguiranno il Lavena (1750) e il Quadri (1775). A partire dal XVIII secolo, la bottega del caffè, «luogo dove oziosi e maldicenti potevano liberamente pontificare in pubblico, si diffonde a macchia d’olio in tutta la città [...]. Da palestra della chiacchiera sarà presto promossa al ruolo di école du savoir, salotto intellettuale e redazione privilegiata delle prime “gazzette”, che non tarderanno a proliferare nel secolo dei lumi»3. Nascono infatti i caffè letterari: luoghi in cui si trovavano gli intellettuali dell’epoca, attratti dal profumo di un buon caffè e dall’aria raffinata ed accogliente di questi locali. «Con Goldoni il caffè riceve il suo sigillo di “negra bevanda” della emergente classe borghese e imprenditoriale della città, contrapposta a quella aristocratica (che beve cioccolata) e al popolo (che beve vino)»4.

Landsmann-Zoppolato Il primo giugno del 1800 nasce, a Trieste, Gio. Batta. Landsmann, figlio di Gio. Batta., di professione caffettiere, e di Annamaria Persinstainer5. Ancora diciottenne si trasferisce a Venezia, nel sestiere di Cannaregio, a San Canciano. In seconde nozze, si unisce a Elena Persico e dal loro matrimonio nasceranno: Gio. Batta. (8 luglio 1835), Maria, Gabriel e Rosa. Gio. Batta. diventa agente e si trasferisce a Braila (Romania), sede di un importante porto sul Danubio; ritornato a Venezia, segue l’attività del padre e risulta essere titolare a San Canciano, al civico 5990 (nell’attuale campiello Bruno Crovato, vicino alla chiesa; fig. 1), di una caffetteria6, che gestirà fino al 1874. La figlia Rosa (fig. 2) nasce a Venezia il 29 dicembre 1845; cucitrice di professione, Rosa esercita la sua attività a Cannaregio 5573, in rio Terà del Bagatin, casa in cui è nata. La famiglia Zoppolato, proveniente da San Vito al Tagliamento, si trasferisce a Venezia nel 1830; all’epoca abitava al civico 625 (terzo piano), in Calle dei Cinque, che collega la Ruga Vecchia San Giovanni alla riva del Vin, vicino al ponte di Rialto. Angelo è uno dei sei figli di Pietro e Teresa Scattolin, nato il 18 gennaio 1844 e battezzato nella chiesa di San Silvestro7. Di professione caffettiere, il 29 gennaio 1867 si unisce in matrimonio con Rosa, nella chiesa di San Canciano8 (figg. 3-4). Dopo il matrimonio, la famiglia Zoppolato va ad abitare a Cannaregio, in calle Sartori 4815 (fig. 5). Le finestre dell’abitazione si affacciano sul rio Santa Caterina e sono posizionate di fronte a palazzo Zen. Con il matrimonio tra Rosa Landsmann e Angelo Zoppolato si può dire che inizi la grande avventura della Paolini Villani (fig. 6).


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Paolini Villani: le famiglie, i luoghi e i protagonisti

Paolini-Zoppolato

4. Abitazione degli Zoppolato nel 1850, San Polo, Calle dei Cinque 625 (terzo piano); palazzina gialla in riva del Vin, stato attuale (foto S. Alessandrini). 5. Cannaregio, Calle Sartori 4815, abitazione in cui abitava Angelo Zoppolato dopo il matrimonio con Rosa Landsmann, stato attuale (foto S. Alessandrini). 6. Albero genealogico delle famiglie Paolini, Landsmann e Zoppolato (elaborazione di S. Alessandrini; fonte Ufficio Anagrafe di Venezia, certificato storico di famiglia: negli spazi azzurri sono evidenziati in grassetto i membri che hanno lavorato nell’azienda o che hanno avuto un ruolo nella Paolini Villani).

Luigi Paolini nasce il 27 ottobre 1863 a Cannaregio, in calle della Racchetta 3774 (fig. 7), da Pietro, muratore, e da Elisabetta Bolla. La madre lavora come cucitrice al civico 3154, in calle del Capitello, che termina in Fondamenta dei Riformati e si affaccia sul rio di Sant’Alvise (fig. 8). Sull’altra sponda del rio è presente una serie di magazzini ottocenteschi napoleonici che diventeranno la prima sede della Paolini Villani & C.i a partire dal 1906, raggiungibili, via terra, da fondamenta della Sensa 3232. Il Rio di Sant’Alvise, ampio canale navigabile, collega la Sacca di Sant’Alvise con quella della Misericordia, che guarda verso la laguna nord, orientato verso San Michele, e che permette agevolmente il carico e lo scarico di merci, come i sacchi e le casse contenenti spezie e coloniali provenienti dal Porto. Il 5 gennaio 1893 Luigi Paolini sposa Anna Zoppolato (nata il 23 febbraio 1869 e sorella di Alessandro); dal loro matrimonio nasceranno: Elda (1891), Lucia (1893), Giuseppina (1900), Pietro (1902) – che muore all’età di 19 anni –, Emilio – irreperibile al censimento del 1936 – e Rosa (1905), che si trasferirà a Milano9. Non ancora trentenne, il 13 febbraio 1892, assistito dal notaio dott. Giuseppe Chiodo, costituisce, in qualità di commerciante, una società in accomandita semplice, la Luigi Paolini e C.°, per esercitare “commissioni, spedizioni, rappresentanze e depositi in ogni ramo del commercio”10. Per la costituzione di questa società firma suo suocero Angelo Zoppolato (agente privato) per conto del figlio Alessandro (e cognato di Luigi), ancora minorenne11 (era nato a Trieste il 25 gennaio 1873)12. La prima sede della ditta è ubicata in Campiello dei Calegheri, dietro al teatro la Fenice, San Marco 2561 (attuale Ca’ Maria Callas) con le finestre sul canale de la Vesta (fig. 9); alcuni magazzini erano siti a Palazzo Morosini, in campo Santo Stefano, altri in punto franco. Il 4 maggio 1895, in presenza del notaio dott. Chiurlotto, si rinnova la società in nome collettivo, denominata Luigi Paolini & C.o per il commercio dei coloniali, soci Luigi Paolini ed Alessandro Zoppolato. I due cognati iniziano il loro percorso dedicandosi alla lavorazione delle droghe polverizzate, che venivano esportate in tutta Europa13. Si trasferiscono in riva del Vin, al civico 1099, a palazzo Ravà (figg. 10-11), di fronte al Municipio di Venezia, a pochi passi dal luogo in cui in cui Angelo Zoppolato era nato14. Nel 1906, dopo il trasferimento della società, l’architetto Giovanni Sardi inizierà il restauro del palazzo15. Negli stessi anni, Rosa Landsmann, rimasta vedova di Angelo Zoppolato in gennaio, rileva, il 6 aprile 1899, la confetteria di Valentino Lizier a Santa Fosca 2326 (fig. 12), per la vendita al dettaglio di coloniali: la suocera di Luigi Paolini, madre di Anna e Alessandro Zoppolato, all’età di cinquantaquattro anni, diventa così commerciante di coloniali, fino al 1907, in stretto contatto con l’attività imprenditoriale del genero e del figlio16. Il 12 novembre 1906, alla presenza del notaio dott. Carlo Artelli, si costituisce la società Paolini Villani & C.i, soci: Luigi Paolini, Alessandro Zoppolato, Ovidio Palma e Luigi Villani (rappresentato dal figlio Ernesto)17. La nuova sede è ubicata ancora a Cannaregio, al civico 3232, dove rimarrà fino al trasferimento a Mestre, nel 1913 (figg. 13-14).


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7. Cannaregio, Calle della Racchetta 3774, abitazione in cui è nato Luigi Paolini, stato attuale, part. (foto S. Alessandrini). 8. Cannaregio, calle del Capitello 3154, ove lavorava la madre di Luigi Paolini, stato attuale (foto S. Alessandrini). 9. Facciata del palazzo ubicato a San Marco 2561, campiello dei Callegheri, sede della ditta Luigi Paolini & C.o nel 1892, stato attuale (foto S. Alessandrini).

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10. Riva del Vin, palazzo Ravà prima del restauro, iniziato nel 1906 dall’architetto Giovanni Sardi (foto d’epoca, proprietà di S. Alessandrini). 11. San Polo, Riva del Vin 1099, sede della Luigi Paolini & C.o nel 1895, stato attuale (foto S. Alessandrini). 12. Cannaregio, Santa Fosca 2326, sede della “Drogheria Santa Fosca”, di Rosa Landsmann, stato attuale (foto S. Alessandrini).

Paolini Villani: le famiglie, i luoghi e i protagonisti


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Silvana Alessandrini - Alvise Zoppolato

13. Sede della Paolini & C.o nel 1905, successivamente (dal 1906 al 1913) della Paolini Villani & C.i, Cannaregio, Fondamenta della Sensa 3232, stato attuale (foto S. Alessandrini). 14. Sede della Paolini & C.o nel 1905, successivamente (dal 1906 al 1913) della Paolini Villani & C.i, Cannaregio, Fondamenta della Sensa 3232, Cannaregio, Fondamenta della Sensa 3232; lato rivolto verso Rio Sant’Alvise, stato attuale (foto S. Alessandrini).


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Paolini Villani: le famiglie, i luoghi e i protagonisti

I Villani Luigi Villani era nato a Viadana (MN) (figg. 15-16) il 18 aprile 1828. Commerciante di coloniali, si trasferisce a Legnago18, uno dei nodi fluviali più importanti del Veneto per la presenza, sulle rive dell’Adige, di un porto e di un ponte mobile progettato per il passaggio dei natanti. Luigi Villani era proprietario di un negozio per vendita al dettaglio di spezie e coloniali, situato in via Garibaldi 15, angolo via Mure Demolite, e di una dipendenza, sita in via Belfiore 10, angolo via Lung’Adige, nella frazione di Vigo (probabile magazzino, ubicato vicino al fiume e alla ferrovia che congiunge Legnago a Mantova19, in posizione vantaggiosa per gli scambi delle merci provenienti dal porto di Venezia). Nel 1849 si sposa con Giulia Piasenti e dal loro matrimonio nascono quattro figli: Chiara (27 agosto 1863), Ernesto (22 giugno 1867; fig. 17), Paride (27 novembre 1868) e Michele, di cui non esistono altre notizie. Dopo la sua morte, avvenuta nel 1908, l’attività a Legnago continua con i suoi eredi, anzi, si amplia con una nuova filiale (1911) in piazza Vittorio Emanuele 9, attuale piazza della Libertà20 (fig. 18). Deceduto Paride nel 1915, continuano l’attività Michele, Ernesto, Chiara Villani maritata Bardellini e Jone Cappellato vedova di Paride (per sé e a nome dei figli minori Dina, Egle e Paride). Ernesto diventa unico firmatario della ditta21 e subentra anche nella Paolini Villani, ove rimarrà come socio fino al 1926, anno della sua morte; dopo il suo decesso (fig. 19), i Villani escono dalla ditta. Nel 1928, la moglie Ida Cappellato e le figlie Giulia e Itala si trasferiscono a Mestre, dove era già venuta ad abitare Rosa, dopo il suo matrimonio con Antonio Amerigo Rizzi (14 gennaio 1926). La moglie di Paride Villani, Jone Cappellato, con i figli Dina, Egle e Paride, si trasferisce invece a Bologna, mentre Chiara Villani, coniugata con Giacomo Bardellini, si traferisce a Padova con i figli Giulia e Luigi.

I Palma Nella Paolini Villani entra come socio fondatore nel 1906 un altro commerciante veneziano di coloniali (fig. 20): Ovidio Palma (nato il 12 luglio 1872; fig. 21), sposato a Elena Ballarin (nata il 30 dicembre 1873). Avranno due figli: Elda (nata il 25 settembre 1897), che nel febbraio del 1929 si trasferisce a Casalgrande, ed Egidio (nato il 2 settembre 1900), che successivamente lavorerà a sua volta nella Paolini Villani (fig. 22). Un anno dopo la nascita di Egidio, muore Elena; Ovidio si risposa con Norma Rizzioli22. Nel 1902 Ovidio Palma acquista un’abitazione ai Tolentini, al civico 145, che attualmente è di proprietà dell’Università ed è stata adibita ad asilo. Il figlio Egidio si sposa con Maria Scarpa; i loro figli sono Ezio (nato il 18 febbraio 1927; fig. 23) ed Eldo (nato il 30 giugno 1929), entrambi recentemente scomparsi, Eva (nata il 30 dicembre 1940) e Renzo (nato il 30 maggio 1946). Nel 1947, Ovidio e la moglie si traferiscono a Mogliano Veneto (TV). Negli anni Sessanta tutti i Palma lasciano Venezia per Mogliano. Ovidio Palma, in azienda, si occupa delle vendite e del settore commerciale; diventerà presidente della società dal 1935 al 1950. Verso la fine degli anni Trenta entra a far parte della ditta anche il figlio Egidio, che farà parte del Consiglio d’Amministrazione. Successivamente, negli anni Cinquanta e Sessanta, i figli di Egidio, Ezio ed Eldo, entreranno anch’essi, a vario titolo, nella società. Ovidio Palma, ultimo dei soci fondatori, muore il 6 febbraio 1952. I Palma escono definitivamente dalla Paolini Villani all’inizio del 1963.



Apparati

a cura di Massimo Orlandini



Cronologia 13 febbraio 1892 Nasce la prima società in accomandita semplice, la Luigi Paolini & C.o, con Sede a San Marco 2561 (Bacino del Teatro la Fenice). Capitale sociale 15.000 lire. 4 maggio 1895 Atto di rinnovazione per 10 anni; modificazioni e trasformazione della società in nome collettivo Luigi Paolini & C.o. 1896 Vengono presentati al pubblico i marchi “Droga Combinata Paolini” e Fior di droga. 16 aprile 1905 Trasferimento dello stabilimento e degli uffici nella nuova fabbrica sita a San Girolamo, Fondamenta della Sensa, Cannaregio ai nn. 3232 e 3233. 12 novembre 1906 Nasce la nuova compagnia Paolini Villani & C.i, soci fondatori: Luigi Paolini, Luigi Villani (procuratore il figlio Ernesto), Alessandro Zoppolato ed Ovidio Palma. Sede della società a Cannaregio 3232. Capitale sociale 60.000 lire. 1908 Muore Luigi Villani, subentra il figlio Ernesto Villani. 1911 Progettazione nuovo stabilimento a Mestre, in via Vicinale della Bandiera, poi via Ca’ Marcello. 1913 Trasferimento della produzione da Cannaregio nel nuovo stabilimento di Mestre in via (Vicinale della) Bandiera (o via Ca’ Marcello); spostamento della sede e degli uffici di Venezia a Palazzo Mandelli, San Marcuola al n. 1757. Viene depositato il marchio “Sterminio”.



Note biografiche degli autori SILVANA ALESSANDRINI, nata a Novara, si è laureata in Biologia presso l’Università degli Studi di Padova nel 1972, con una tesi sugli idrocarburi aromatici nei mitili, svolta presso l’Istituto di Biologia del Mare di Venezia. Si è interessata di gestione delle risorse idriche e di inquinamento della laguna di Venezia, collaborando con la Snam Progetti e, successivamente, con la Facoltà di Ingegneria di Padova, cattedra di Chimica. È stata inoltre docente di matematica e scienze nella scuola secondaria, ottenendo riconoscimenti regionali e nazionali per la sperimentazione didattica nel campo dell’informatica. Da sempre interessata alla storia locale, ha fatto parte del Centro Studi Storici di Mestre, gruppo di lavoro su Gio. Batta. Zampironi, imprenditore e farmacista veneziano. MASSIMO ORLANDINI,

nato a Mestre, opera da oltre trent’anni nel mondo della comunicazione e della pubblicità industriale per conto di grandi case editrici, occupandosi anche di manifestazioni fieristiche e di web. In molti anni di ricerca ha dato vita a una collezione di diverse migliaia di pezzi, unica nel suo genere, riguardante la storia di Mestre, Porto Marghera e la terraferma veneziana, in particolare di “editoria grigia”, con speciale attenzione a quella aziendale e alla pubblicità. Ultimamente si sono aggiunti anche molti oggetti di ditte e di fabbriche venete, soprattutto elementi di packaging e marketing del secolo scorso. Importanti per la collezione, nella sua stratificazione e sviluppo, sono state le collaborazioni con il Laboratorio Mestre ’900 del Comune di Venezia, curatore Giorgio Sarto, e con l’antiquario milanese Andrea Tomasetig. Ha fatto parte del gruppo di ricerca sulla storia del farmacista Gio. Batta. Zampironi, collaborando alla pubblicazione e alla mostra a lui dedicate. In qualità di malacologo e di fotosub, nel 1980 ha partecipato alla spedizione organizzata dal Centro Studi Ricerche Ligabue dedicata ai coralli delle Isole Maldive e alla realizzazione del relativo documentario. Una sua vasta collezione di conchiglie, decine di migliaia di esemplari, frutto di trent’anni di immersioni e di ricerche, è stata acquisita dal museo di un istituto universitario. insegna Storia dell’impresa all’Università degli Studi di Padova, dove ha a lungo tenuto la cattedra di Storia economica. Autore di oltre duecento tra saggi e

GIORGIO ROVERATO


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Note biografiche degli autori

monografie (tra le quali una delle prime storie d’impresa italiane: Una casa industriale. I Marzotto, Milano 1986), ha pubblicato nel dicembre 2016 per Marsilio il suo ultimo lavoro: Due secoli di banca in Veneto (1822-2007). È presidente del Centro Studi Ettore Luccini di Padova e socio ordinario dell’Accademia Olimpica di Vicenza. ALVISE ZOPPOLATO,

nato a Johannesburg, studi di Economia, entrato molto giovane in Paolini Villani a fianco del nonno Gino e del padre Piero, si è dedicato per quasi vent’anni al controllo della produzione e del reparto macchine confezionatrici. Ha seguito e supervisionato personalmente molte lavorazioni cinematografiche degli spot pubblicitari Lipton, andati in onda sui palinsesti RAI (Tic Tac, Break, Arcobaleno ecc.). È stato protagonista del risanamento dell’azienda e della vendita alla F.lli Barbieri S.p.A.; si è poi dedicato al commercio di legnami pregiati, alla ristorazione e alla cura della villa storica di famiglia a Mogliano Veneto.



Finito di stampare nel mese di maggio 2017 per conto della casa editrice Il Poligrafo presso la Papergraf di Piazzola sul Brenta (Padova)




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