Il corpo umano sulla scena del design, Il Poligrafo

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IL CORPO UMANO SULLA SCENA DEL DESIGN

Massimiliano Ciammaichella (Roma ), architetto, professore associato, insegna Laboratorio di disegno e modellistica e Rappresentazione digitale presso l’Università Iuav di Venezia. È autore di vari articoli, saggi e monografie sui temi della rappresentazione, tra i quali: Disegno Digitale per la moda. Dal figurino all’avatar (Roma ), La pelle dell’architettura contemporanea (Roma ), Il modello ideale e il disegno di progetto. La tettonica della rappresentazione nell’opera di Coop Himmelb(l)au (Roma ). Partecipa a diversi progetti di ricerca d’interesse nazionale (PRIN) e a convegni nazionali e internazionali. La sua attività di ricerca negli ultimi anni si è concentrata sugli estremi dell’evoluzione dei processi di rappresentazione, sul progetto degli artefatti e la loro comunicazione; la si può sintetizzare nei seguenti due temi: Teorie, metodi e processi innovativi; Recupero, codifica e rilettura dei fondamenti della Scienza della Rappresentazione.

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in copertina Luca Meda, Sedia Ho, Molteni & C,  con S. Meda, C. Meda e S. Cecchi (© Università Iuav di Venezia - Archivio Progetti, Fondo Luca Meda)

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IL CORPO UMANO SULLA SCENA DEL DESIGN

ISBN ----

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a cura di Massimiliano Ciammaichella

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Nella società odierna, perennemente connessa, contraddistinta da una fitta rete di relazioni virtuali, in cui le macchine si sostituiscono sempre più all’uomo nello svolgimento di molte attività, emerge un quesito fondamentale: qual è il rapporto intrattenuto dalle nuove tecnologie con il corpo umano? Queste tecnologie prendono forma di oggetti, abiti, protesi, tessuti, superfici, interfacce, in un processo di contiguità e ibridazione con il corpo stesso, incidendo pesantemente sulla definizione dell’identità di ogni singola persona. Maschera, abito, travestimento, chirurgia estetica, pelle artificiale, interfaccia costituiscono molteplici risvolti del medesimo fenomeno, affascinante e spaventoso al tempo stesso: lo sconfinamento dell’identità originaria in un doppio, in un avatar, in un nuovo sé. In questo spazio di riflessione si situa la ricerca qui condotta, in cui i linguaggi di diverse discipline – storia, arte, semiotica, psicologia, teatro, moda, scienza, medicina – concorrono alla definizione di questo complesso rapporto, secondo un approccio storico, analitico e progettuale. In tale contesto il design, che si avvale degli spunti provenienti dagli altri ambiti di studio legati al tema del corpo, può contribuire a migliorare il rapporto tra le tecnologie e gli utenti, realizzando una progettazione calibrata e consapevole.



materiali iuav collana di ateneo 3



Il corpo umano sulla Scena del design a cura di Massimiliano Ciammaichella

ilpoligrafo


Comitato scientifico per le iniziative editoriali dell’Università Iuav di Venezia Guido Zucconi (presidente), Andrea Benedetti, Renato Bocchi Serena Maffioletti, Raimonda Riccini, Davide Rocchesso, Luciano Vettoretto I volumi della collana Iuav - Il Poligrafo sono finanziati o cofinanziati dall’Ateneo I volumi della collana sono soggetti a peer review

progetto grafico Il Poligrafo casa editrice Laura Rigon copyright © febbraio 2015 Università Iuav di Venezia Il Poligrafo casa editrice Il Poligrafo casa editrice 35121 Padova piazza Eremitani - via Cassan, 34 tel. 049 8360887 - fax 049 8360864 e-mail casaeditrice@poligrafo.it www.poligrafo.it ISBN 978-88-7115-893-8


indice

7 Prefazione Massimiliano Ciammaichella, Raimonda Riccini 13 Artificio e trasparenza. Il corpo sulla scena degli oggetti Raimonda Riccini 35 Artefatti umanoidi. Interazioni e interfacce Davide Fornari 53 Maschera. Protesi dell’anima Silvia Cattiodoro 71 Vertigini di superficie. Pelle, patina, involucro Patrizia Magli 95 Are Clothes Modern? La moda secondo Bernard Rudofsky Gabriele Monti 119 Il corpo che abito Ketty Brocca 139 Progettare con la pelle. Dalla sensorialità all’estensione del sé corporeo Michele Sinico 155 La pelle progettata Dario Martini 175 Corpo e realtà aumentata. Il design dei sistemi di chirurgia robotica mininvasiva Rocco Antonucci 195 Rappresentare il corpo fra dissezione e innovazione tecnologica Massimiliano Ciammaichella 217 Racconti del corpo Massimiliano Ciammaichella 257 Il corpo del progetto Massimiliano Ciammaichella

273 Bibliografia

283 Note biografiche degli Autori



prefazione Massimiliano Ciammaichella, Raimonda Riccini

Il libro nasce dalle attività del corso di Storia dell’innovazione scientifica e tecnologica condotto da Raimonda Riccini nell’anno accademico 2012-2013 e raccoglie le riflessioni maturate all’interno di lezioni e seminari. Inoltre presenta gli esiti dei progetti sviluppati dagli studenti delle lauree magistrali in Design, Comunicazioni visive e multimediali, Moda, Arti visive e Teatro dell’Università Iuav di Venezia, in un progetto collettivo seguito da docenti, esperti esterni e dottorandi in Scienze del design. Con l’argomento proposto agli studenti – “Il corpo umano come teatro delle tecnologie” – si intendeva perseguire un doppio obiettivo: da un lato raccontare, attraverso un percorso storico, come da sempre il corpo sia scena privilegiata delle tecnologie; dall’altro riflettere su come questa interazione sia elemento essenziale nella definizione della nostra identità personale oggi, lanciando agli studenti una sfida progettuale. “Corpo e tecnologie” è un binomio centrale nel mondo contemporaneo. Ora più che mai esso ci appare come un vero e proprio campo di azioni e interazioni dell’uno con le altre. Anche se il corpo umano è stato da sempre artificializzato, attrezzato e tecnificato, tuttavia nella nostra società la commistione fra corpo e tecnologie ha assunto un rilievo straordinario, e si è spinta così avanti da mettere in questione la nostra stessa identità. Questo processo di contiguità e ibridazione, che a volte ci inquieta, altre ci entusiasma, non ci può lasciare neutrali o indifferenti. Le tecnologie della comunicazione hanno esteso le capacità dell’essere umano di trasmettere informazioni e di comunicare; le tecnologie della visione ci permettono di esplorare livelli di realtà impercettibili dai sensi; le micro e nanotecnologie ci consentono di ridurre infinitamente la dimensione degli oggetti e sono penetrate nelle trame dei tessuti intelligenti, ma anche sotto la pelle, all’interno dei nostri organi vitali, in un’ottica diagnostica e terapeutica, ma anche di “realtà aumentata”. Per questo il corpo naturale e il suo doppio artificiale meritano attenzione culturale e progettuale. Diventa sempre più importante indagare il modo attraverso il quale tali tecnologie prendono forma di oggetti, di abiti, di protesi, di tessuti, di superfici, di interfacce. In altre parole, è sempre più necessario capire come queste tecnologie sono progettate per essere usate e veicolate dal corpo, e come il design possa determinare il miglior rapporto possibile fra le tecnologie e chi le utilizzerà. Durante il corso questo processo è stato analizzato: – dal punto di vista storico, per raccontare le diverse tappe dell’artificializzazione del corpo, in una dialettica sottile fra comfort e controllo; – dal punto di vista analitico, affrontando alcune tematiche centrali del rapporto fra identità personale, corpo e percezione;


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dal punto di vista progettuale, con un lavoro dedicato specificamente alla visione del corpo contemporaneo, nelle sue molteplici versioni, nel mondo delle arti e della moda, come della scienza e della medicina. Agli studenti è stato proposto di sviluppare una Humani Corporis Fabrica contemporanea, rispondendo alla domanda di come Andrea Vesalio avrebbe oggi descritto e rappresentato il corpo umano. Nella prima metà del Cinquecento Vesalio compose un insuperato atlante del corpo, ma oggi le tecniche disponibili sono aumentate a dismisura, determinando traguardi senza precedenti nella conoscenza scientifica, nella visualizzazione, nella modellazione, nella virtualizzazione. I risultati dei seminari mostrano – in deferente omaggio alla grandezza degli anatomisti e artisti del passato – i nuovi paesaggi del corpo, dove, anche grazie alle tecnologie digitali, arte e scienza tornano a fondersi e dialogare. Dal canto loro, i saggi proposti indagano il corpo umano da punti di vista disciplinari eterogenei, con linguaggi e approcci variegati. Si è scelto di dar voce al pensiero di studiosi di storia, semiotica, psicologia, moda, teatro, rappresentazione, perché attraverso queste discipline emerge con più chiarezza il debito di riconoscenza che il design ha verso le altre “culture del corpo”, dalle quali esso ha attinto e attinge a piene mani. L’ordine dei saggi ripropone l’andamento del corso e rispecchia le diverse sfaccettature del rapporto fra tecnologie e corpo che hanno una maggiore risonanza sulla cultura del design, della progettazione di artefatti per il corpo, dei sistemi grafici in funzione del “rappresentare”, del “comunicare” e del “configurare”. Come si può capire da queste sintetiche riflessioni, la questione “corpo” si fa assai complessa e il libro, lungi dal voler definire un corpus ideale, si limita a raccontarne le possibili configurazioni e trasfigurazioni, ponendolo al centro del progetto di design. Nella prima parte sono raccolti i contributi teorici presentati in aula da studiosi, esperti, dottori di ricerca e dottorandi. In particolare Dario Martini, Ketty Brocca, Paola Proverbio e Ruggero Canova hanno organizzato il seminario sulla pelle, mentre Silvia Cattiodoro ha coordinato quello su corpo, maschera e teatro. Nel suo saggio Raimonda Riccini parla del processo di artificializzazione del corpo, sottolineando come la progettazione di artefatti abbia avuto in questo un ruolo preminente. Disciplina caleidoscopica, il design ha messo in atto mutevoli strategie di interazione con il corpo umano, senza mai renderle totalmente esplicite né codificate, come invece hanno tentato l’architettura o la moda. Perciò spesso gli oggetti appaiono slegati dal corpo, confinati nella regione anonima dello standard. Partendo da questo presupposto, il testo colloca il corpo sulla scena del design, come esso merita, indagando i molteplici percorsi attraverso i quali si costruisce il rapporto fra gli artefatti e il corpo, fino alla maturazione di una consapevolezza progettuale. Davide Fornari si concentra sulle interfacce e le interazioni degli artefatti umanoidi, per i quali il ruolo del volto assume un’importanza primaria, poiché è capace di instaurare un rapporto rassicurante fra la tecnologia e l’utente, così il saggio spazia con una profonda consapevolezza dalle applicazioni per il design del prodotto a quelle della comunicazione visiva e multimediale, approfondendo e motivando le ragioni che spingono il progettista verso logiche di interazione sempre più orientate verso l’utilizzo del linguaggio naturale. Silvia Cattiodoro ricostruisce una storia critica della maschera, focalizzando l’attenzione sulle diverse funzioni che questa ha assunto nel corso dei secoli fino ai giorni


prefazione

nostri. Da strumento della performance teatrale, alle pratiche del travestimento che assumono accezioni positive e negative a seconda degli usi e dei tempi, sino alle protesi medicali con le quali il volto si riconfigura definendo un nuovo sé, la maschera diventa protesi dell’anima per l’attore che la interpreta e per chi non può fare a meno di indossarla, configurandosi come dispositivo di trasformazione psichica ancor prima che fisica. Patrizia Magli riflette sull’ampio spettro di valenze che la pelle ha, essendo involucro, filtro, organo, riferibile a oggetti, animali e umani, ma anche e soprattutto elemento di autoidentificazione della persona. Parlando di sé, spesso ci si trasfigura non solo nella propria immagine, ma nell’idea della nostra pelle che sente la vita, il tempo, la storia, le emozioni. L’autrice naviga con sicurezza tra temi e interpretazioni, indagando le diverse possibili accezioni del termine e offrendo un sintetico, fervido quadro di letture, concentrandosi su significati più sfumati che la definizione può assumere. La patina e la velatura non sono percepite immediatamente come “pelli”, ma la loro stratificazione sugli oggetti, di senso e di materia, curiosamente getta luce su alterità sensoriali e significanti percepibili, sui quali spesso si soprassiede. Gabriele Monti si concentra sulla relazione tra le forme dell’abitare e del vestire a partire dal lavoro di Bernard Rudofsky e dal suo libro Are Clothes Modern? del 1947, che dà anche il nome alla mostra precedentemente allestita al Museum of Modern Art di New York nel 1944. Il saggio dimostra come l’invocazione a un senso primitivo del vestire, interpretata dall’architetto come via di fuga dalle manie ossessive e decorativiste della moda, entri in contraddizione con una progettazione dell’abito intesa come architettura più prossima al corpo. La moda è quindi una disciplina del design capace di interpretare e progettare gli immaginari. Ketty Brocca indaga le interazioni fra corpo, abito e accessorio, osservando come la moda sia stata capace nel tempo di variare i connotati del corpo stesso, sottoponendolo ad alterazioni morfologiche e funzionali. Se il corpo al quale ambire rispecchia il desiderio dei più, l’illusione che porta a pensare che vi sia un corpo per ogni tempo è presto spiegata. Di fatto è il corpo che si piega e si adatta alle mode, non viceversa. Michele Sinico tratta il tema della pelle come organo composito. Letto nei suoi elementi costruenti, restituisce la complessità di questo rivestimento sensibile, capace di interagire e trasmettere sensazioni e informazioni di diverso genere in funzione della specifica stimolazione, della sua origine e destinazione, dei recettori coinvolti. La pelle non si limita a fungere da involucro, filtro e trasmettitore: intrecciata alla coscienza del sé, la cognizione del margine corporeo si modifica, si adatta, è condizionata da come il soggetto al quale appartiene interagisce e interpreta le informazioni dello spazio in cui si trova. In tal senso, un progetto che si riferisca alla pelle deve dialogare con la struttura percettiva generata dall’inscindibilità del contenuto dal contenitore. Alla pelle progettata è dedicato il saggio di Dario Martini, che, distaccandosi da una accezione puramente superficiale del rivestimento del corpo, entra nel campo delle sperimentazioni più avanzate, andando ben oltre l’epidermide. Il testo spazia dalle performance artistiche all’integrazione di superfici elettroniche per il monitoraggio dei processi corporei, ai tessuti biomimetici basati sui fili del ragno, alle pelli artificiali ecc. Si costruisce così un repertorio critico di modelli di riferimento utili al design in tutte le sue declinazioni. Il saggio di Rocco Antonucci riflette sugli strumenti di realtà aumentata, applicati al design medicale dei sistemi di chirurgia mininvasiva, che hanno modificato


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radicalmente gli interventi riducendo progressivamente le incisioni sul corpo, ma allo stesso tempo hanno anche ridotto il contatto diretto medico-paziente, tant’è che in un futuro non molto lontano le incisioni potranno essere abolite dall’assunzione di micro-robot ingeribili, da telecomandare a distanza con una precisione perfettibile. I processi di visualizzazione della chirurgia mininvasiva assumono qui un ruolo fondamentale, nella riproposizione del naturale meccanismo della visione tipico della stereoscopia che, con strumenti di realtà aumentata, è notevolmente amplificato. Massimiliano Ciammaichella affronta il corpo nella sua matericità. Parte da lontano, segue le tracce della rappresentazione dall’antichità e osserva come inevitabilmente la narrazione dell’esistenza, nelle suppellettili che vogliono tramandare gli eventi, si faccia storia del corpo. Il corpo rappresenta i protagonisti ed è rappresentato. Via via esso stesso diventa oggetto di attenzione a prescindere dalla persona che lo incorpora, trasformandosi in materia di studio, sperimentazione, elucubrazione, scavo. È misterioso perché contiene l’ineffabilità dell’essere, genera dubbi e resistenze all’indagine, ma poi la curiosità si somma alle ragioni dell’azione scientifica e finalmente, seppur con sguardo pietoso, si può aprire il rivestimento, guardare senza ritegno il suo funzionamento e registrare i suoi segreti. L’ultima parte del libro raccoglie e descrive gli esiti della ricerca sviluppata durante il ciclo di seminari e un workshop tenuti da Massimiliano Ciammaichella sulla rappresentazione del corpo umano odierno, a partire dallo studio degli storici trattati di anatomia e del fondamentale contributo offerto da Andrea Vesalio nel 1543 con il suo De Humani Corporis Fabrica. I risultati raggiunti raccontano paesaggi del corpo molto diversificati, che a volte si affrancano dalla consueta forma del libro, in elaborazioni grafiche maturate da gruppi di lavoro eterogenei, costituiti dagli studenti dei vari corsi di laurea magistrale. A loro va il nostro più sentito ringraziamento per aver interpretato con grande interesse e passione il corpo di oggi.


il corpo umano sulla scena del design



artificio e trasparenza. il corpo sulla scena degli oggetti Raimonda Riccini

1. Luca Meda, Studi per tavolo Poggio, Molteni & C, 1989 (© Università Iuav di Venezia - Archivio Progetti, Fondo Luca Meda)

Dov’è il corpo nel design? Qual è il suo spazio nella riflessione dei designer? Quale nell’immaginario dei prodotti e delle loro rappresentazioni1? Provate a sfogliare le pagine dei libri di design del Novecento, ripercorretene le immagini e le parole, frugate nelle riviste e negli almanacchi, nei repertori e nei cataloghi e troverete solo tracce fantasmatiche del corpo umano, come se vi fosse una volontà di espropriarne l’autorità sugli oggetti, di oscurarne i fitti legami con la cultura materiale e, in ultima istanza, con il design. Eppure, a ben vedere, ciò che rende il design diverso da altri campi di progettazione è proprio il peculiare rapporto che gli artefatti stabiliscono con il corpo. Si potrebbe dire, schematizzando più del dovuto, che si tratta di un rapporto specifico, tutt’affatto diverso rispetto al progetto dell’ingegneria, centrato sull’ottimizzazione degli aspetti funzionali e operativi indipendenti dal corpo, ma anche rispetto al progetto di architettura, dove il corpo è un ente in funzione dello spazio. Sono, queste, semplificazioni che uso soltanto in modo funzionale al mio ragionamento. In realtà, il pensiero architettonico ha sempre riflettuto sul legame mitico e simbolico dell’edificio e dello spazio con il corpo, e sulle loro corrispondenze, a partire dall’elaborazione della teoria vitruviana delle proporzioni. E ora discute sulla complessa relazione sinestesica del corpo con l’edificio, con lo spazio e la città2. Analogamente l’ingegneria, negli ultimi decenni, ha portato al centro del suo operare un’ergonomia sempre più sofisticata. Tuttavia, a ben vedere, la differenza con queste discipline è marcata dal fatto che i prodotti del design interagiscono con il corpo direttamente, attivamente e reciprocamente. Benché questo sia vero da sempre, soltanto di recente il legame fra corpo e design è finalmente emerso come essenziale, autonomo e qualificante attraverso l’idea di interazione fra artefatto e utente3. è una riflessione che prende le mosse negli anni Ottanta, portata all’attenzione del pubblico dai saggi, di ampia fortuna editoriale, di Donald Norman, con la loro critica serrata e ironica nei confronti degli oggetti mal progettati4. Anche se antropometria ed ergonomia avevano già da tempo indagato il corretto rapporto fra essere umano e artefatti, di fronte all’aumento esponenziale degli oggetti tecnici (digitali) a disposizione degli utenti si è manifestata l’urgenza di finalizzare la progettazione al miglioramento della comprensione e dell’uso da parte degli utilizzatori, soprattutto tramite le interfacce5. Presente negli studi sulla relazione uomo-macchina, nelle discipline dell’ingegneria, addirittura preminente in alcuni settori industriali di punta come l’aeronautica e la robotica, la progettazione delle interfacce arriva ora a toccare la gamma dei device digitali a grande diffusione. Anche in virtù di


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2. Tomás Maldonado osserva un test di battitura sulla tastiera di una macchina per scrivere, uno dei primi e più studiati modelli di interfaccia e interazione uomo-macchina, Scuola di Ulm, 1960 (Courtesy Tomás Maldonado)

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questo, si propone come una delle anime principali del design contemporaneo, espandendo (forse oltre misura) il rapporto di dialogo fra utente e artefatto6 (fig. 2). Oggi questo legame ci appare evidente, e persino ovvio, ma così non è stato nel passato. Il design non ha storicamente saputo costruire una sua autonoma cultura del corpo, almeno non esplicitamente, nonostante abbia da sempre attinto a piene mani dalle altre discipline del corpo, a cominciare da arti, antropometria, ergonomia, percezione. A dispetto di ciò, vorrei rivendicare il fatto che il design dovrebbe entrare a far parte delle grandi culture del corpo della nostra epoca, al pari della moda, della danza, dello sport, della medicina. Il fatto che ne sia escluso ci dice quanto il corpo continui a essere scandaloso. Nonostante il processo di civilizzazione e modernizzazione lo abbia plasmato, irreggimentato, standardizzato, tecnificato, pare non sia riuscito a placarne l’irriducibile sostanza. Se attorno agli oggetti di design il corpo si aggira ancora come un fantasma, è nostro compito provare a riportarlo in scena come merita. A maggior ragione ci stupiamo nel constatare come il corpo sia ignorato o sottovalutato nelle storie del design. Ce ne meravigliamo tanto più perché il corpo, dall’instaurazione del moderno nel Novecento fino alla contemporaneità, è assurto a una posizione centrale sia nell’esperienza di vita di ciascuno di noi, sia nelle cornici disciplinari più diverse, tanto nelle culture umanistiche e artistiche quanto in quelle tecnologico-scientifiche. La storiografia, invece, continua a mostrarsi quasi impermeabile alle tematiche del corpo. Come è stato autorevolmente ricordato, essa si fa coinvolgere in queste discussioni non direttamente ma solo attraverso nuovi movimenti culturali, come il movimento femminista [...]. Questo coinvolgimento solo indiretto della storiografia dipende, come oggi capiamo con più chiarezza, dal fatto che la storiografia moderna è stata costruita proprio sull’esclusione del corpo. Il contrasto fra la storiografia legata ai testi, ai documenti e la tradizione veicolata dal corpo è diventato un elemento importante dell’autoconsapevolezza dello storico.7

Lo studioso tedesco Siegfried Mattl sintetizza così il paradosso di una storiografia che, per poter costruire una propria scientificità fondata sui documenti oggettivi (perlopiù scritti), ha di fatto espunto il corpo e le sue performance dal proprio orizzonte. La storia ha costruito dunque la propria reputazione scientifica attraverso l’espulsione del corpo dai tracciati temporali e culturali. Se per secoli la storiografia ha “naturalizzato” il corpo per giustificarne l’assenza dalla storia, «diversi settori delle scienze umane cominciano ora a operare per la sua radicale culturalizzazione»8. Dunque, per quanto ci riguarda, non possiamo che partire dalla constatazione che, se il corpo è un prodotto culturale, il territorio della progettazione si dispiega proprio nella distanza fra il corpo anatomico e il corpo culturale. C’è un’area sempre più densa in questo territorio (o nella sua mappa) che si colloca fra l’indagine descrittiva e analitica dei saperi bio-chimici e medici e quella speculativa delle epistemologie. È uno spazio nel quale il corpo è indagato nel suo ambiente, in relazione alle tecniche, alla cultura materiale e ai suoi significati simbolicoculturali. È questo lo spazio dal quale finalmente emerge la «historicité radicale de la corporéité»9 e nel quale il progetto ha un ruolo determinante. La nozione che si qualifica come primo tassello dell’impalcatura culturale del corpo è quella relativa alle «tecniche del corpo». Fu Marcel Mauss (1872-1950), il gran-


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8. Fritz Kahn, Der Mensch als Industriepalast, cromolitografia, 1926 9. L’uso della metafora meccanico-industriale del corpo in una pubblicità del 1939

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mativo. Essi diventano ben presto un campo di progettazione per molti designer, che ne realizzano alcuni importanti proprio in relazione al corpo. Will Burtin (1908-1972), il graphic designer tedesco trasferitosi negli Stati Uniti dopo l’avvento di Hitler, è uno dei principali innovatori nell’ambito degli exhibit del corpo. Durante il suo lungo rapporto professionale con grandi imprese della farmaceutica, con l’editoria di divulgazione scientifica Burtin ha realizzato una serie di memorabili installazioni che segnano a loro volta un passaggio ulteriore nella trasparenza del corpo. Nei suoi lavori, come The Brain (1960), egli supera decisamente ogni riferimento realistico al corpo come organismo unitario. Piuttosto i progetti di Burtin mirano a portare all’evidenza le strutture del corpo o addirittura i processi biologici che sottostanno alle funzioni vitali (da Metabolism del 1963 a Defence of Life del 1969) accompagnando il visitatore all’interno di questi processi che prendono la forma di installazioni interattive ante litteram43. Il designer come exhibit maker ha avuto negli Stati Uniti un’ampia fortuna44. Anche Charles (1907-1978) e Ray (1912-1988) Eames, oltre che per i loro progetti di mobili, sono noti per un lavoro sul corpo che ha fatto storia: il film breve Power of Ten, realizzato nel 1968. Una lunga “zoomata” che, a partire da un corpo umano disteso su un prato, ci porta all’interno fino all’infinitamente piccolo e poi, in un percorso al contrario, ci proietta nella dimensione dell’universo. Per la verità, gli Eames hanno con il corpo un rapporto affatto speciale, non perdono occasione per spettacolarizzare il loro stesso corpo, facendolo entrare di diritto all’interno del loro processo creativo. Pensiamo alle immagini nelle quali la coppia si fa ritrarre nel momento della realizzazione di un progetto, alle prese con il dettaglio di una loro sedia, o con la finitura del prototipo. O quando fotografano se stessi riflessi in uno specchio con un autoscatto. O quando indossano maschere. O infine quando i loro corpi sdraiati per terra sono imprigionati dalle basi metalliche della sedia DCM del 1947. Gli Eames sono stati capaci come nessuno di introdurre una forte componente narrativa e teatrale nei loro prodotti, “abitandoli” attraverso posture ironiche e anticonvenzionali. E questo benché i loro prodotti siano realizzati con una rigorosa adesione ai principi dell’ergonomia e dell’antropometria, quegli stessi dettami canonizzati da Henry Dreyfuss (1904-1972). Per primo nel mondo del design professionale, nel suo famoso testo Designing for People45 Dreyfuss mostra una piena consapevolezza che il corpo umano deve entrare nel processo progettuale. Così spiega l’illustrazione schematica delle due figure umane note come Joe e Josephine, il cui disegno dalle linee «austere» occupa un posto d’onore sulla parete degli studi a New York e in California: They are not very romantic-looking, staring coldly at the world, with figures and measurements buzzing around them like flies, but they are very dear to us. They remind us that everithing we design is used by people, and that people come in many sizes and have varying physical attributes.46 J&J sono diventati personaggi a tutto tondo nell’immaginario dei designer. Essi rappresentano il punto d’arrivo di una tradizione che, dalla mitica figura dell’uomo vitruviano inscritto da Leonardo da Vinci nella platonica perfezione delle figure geometriche (1490 ca), risale i secoli e, dopo essersi imbattuto in Cesare Cesariano (14751543), Jean Martin (?-1553), Claude Perrault (1613-1688) e negli altri trattatisti, approda con il Modulor (1948) di Le Corbusier all’idea moderna dell’uomo universale. Già


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10. Rappresentazione dei valori antropometrici diretti e derivati, Ricerca sulle misure antropometrica della popolazione italiana condotta dall’Ente italiano della moda e dagli Istituti di antropologia delle Università di Cagliari, Genova, Pavia e Torino, 1970 11. Immagine utilizzata per la copertina della rivista «Pagine Radiomarelli», 1969 (Archivio Magneti Marelli)

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are clothes modern? la moda secondo bernard rudofsky Gabriele Monti

1. Legs in the Sunlight, sandali Bernardo, pagine di «Vogue», 1 luglio 1950 (foto di Erwin Blumenfeld)

Nel 1975 esce il saggio Il corpo incompiuto, edizione italiana di The Unfashionable Human Body, scritto da Bernard Rudofsky, architetto austriaco naturalizzato statunitense, e pubblicato nel 1971. Si tratta della rielaborazione di un altro importante testo di Rudofsky dedicato all’abbigliamento contemporaneo, Are Clothes Modern?, uscito nel 1947 e costruito a partire dall’omonima mostra allestita al Museum of Modern Art di New York nel 19441. La mostra, inaugurata il 28 novembre, metteva in scena alcune riflessioni, poi ampliate nel saggio del 1947: nell’introduzione Rudofsky afferma che alla base dell’abito e del vestire c’è principalmente un desiderio per la decorazione (un «desire for decoration»2), e che la relazione fra corpo e abito può arrivare ad assumere le forme di un’ossessione: la moda viene letta così come un fenomeno profondamente disumano. Rudofsky parla esplicitamente di «fashion addicts»3 e dei loro continui aggiustamenti ai mutamenti repentini della moda, che appaiono naturali pur essendo in assoluto contrasto con i principi «biologici, etici ed estetici»4 e, in ultima analisi, anche con il senso comune. La moda, dunque, è interpretata come un fenomeno in contrasto con i principi di un design senza tempo, al punto che la mostra e le riflessioni dell’architetto austriaco si possono considerare la base teorica implicita per l’attuale posizione del MoMA che non include abiti e accessori nella collezione di design del museo (e che sembra così affermare che gli oggetti del fashion design sono sì fashion, ma non design). Are Clothes Modern? esaltava un’idea di design dell’abito “antimoda”, dando così inizio a un rapporto controverso fra design e moda, più esattamente fra estetica modernista del design industriale e moda. Allo stesso tempo, rappresentava un tentativo molto elaborato di teorizzazione sulla natura del fashion design. La mostra è interessante perché affrontava il rapporto fra abito, design della moda e corpo. L’approccio adottato era appunto quello di un progettista, che riflette sulle modalità attraverso le quali il corpo è modificato o addirittura ri-costruito e ri-progettato radicalmente dalla moda, in modo molto spesso assolutamente arbitrario e irragionevole. In questo senso è probabilmente una delle prime e più raffinate mostre di moda, non perché non fossero ancora state realizzate mostre con abiti su manichini, ma proprio perché non si limitava a questo: il display era prima di tutto strumento per riflettere sullo statuto teorico della moda e la sua natura nel momento dell’incontro con il museo. In quegli anni infatti, sempre a New York, precisamente nel 1946, il Museum of Costume Art (un’istituzione indipendente risalente al 1937 che raccoglieva la collezione privata delle sorelle Lewisohn e quelle di alcuni costume designer del teatro newyorkese) viene acquisito dal Metropolitan Museum of Art, all’interno del progetto più complesso di costruzione del Costume Institute, che di-


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venterà ufficialmente un dipartimento del museo nel 1959. Nel dicembre del 1946 viene allestita la prima mostra 1867-1870: Flamboyant Lines, curata da Polaire Weissman (executive director del Costume Institute fino al 1969)5. Come appare evidente dalle immagini dei primi display del Costume Institute, l’approccio privilegiato era quello da museo etnografico, attraverso tableaux che, ricostruendo scene di vita quotidiana, mostravano l’utilizzo degli abiti. La riflessione sulla moda si limitava a presentare l’abito come uno degli aspetti del vissuto, ma il museo non affrontava la riflessione sulla progettazione della moda e sugli elementi che compongono il processo di messa a punto dell’abito. La moda era rappresentata solo attraverso il prodotto finale, l’esito di un processo, che però rimaneva largamente inesplorato. Il progetto di Rudofsky aveva ambizioni differenti, e forse più complesse: il punto non era narrare come ci si veste in specifiche occasioni, quanto piuttosto impostare una riflessione sulla natura della moda, sul suo rapporto con il corpo, e sul suo statuto in relazione a un museo come il MoMA, che stava affrontando il processo di definizione del moderno e della arti moderne, attraverso una serie di mostre che contribuivano anche alla messa a fuoco dell’articolazione delle collezioni del museo stesso6. Nella press release della mostra si legge infatti: [...] It is the hope of the Museum that the exhibition, by stimulating a re-examination of the subject, may have a beneficial effect on dress comparable to that already accomplished by the modern analysis of function in the field of architecture.7

Ancora più interessante è il fatto che le considerazioni di Rudofsky sono direttamente collegate alla sua attività di designer. Gli interrogativi messi in scena nella mostra del 1944 rappresentano le basi per la sua linea di sandali, gli ormai celeberrimi Bernardo (fig. 1) che vengono presentati sul mercato nel 1946, e per una linea di abbigliamento, i Bernardo Separates, presentati nel 1951. Le origini delle riflessioni contenute del progetto Are Clothes Modern? possono essere rintracciate nel periodo italiano di Rudofsky, quando collabora con «Domus» e Gio Ponti. Ponti, nel numero del novembre 1937, annuncia la presenza nei numeri successivi di alcuni importanti interventi dell’architetto austriaco8. Nel numero dell’aprile 1938 appare un testo che, anche se non firmato, contiene chiaramente in nuce il pensiero che Rudofsky svilupperà nella mostra Are Clothes Modern? qualche anno dopo. L’intervento si intitola La moda: Abito disumano ed enuclea i concetti che nel 1944 diventeranno le sezioni attorno alle quali il percorso espositivo si dipanerà (figg. 2-3). Si riflette sulla necessità dell’uomo moderno di non pensare solo alla casa, che non è che il secondo abito: si esplicita così il rapporto fra abito e abitare, un rapporto che insiste sulla relazione fra moda e architettura in quanto discipline del progetto che si relazionano primariamente al corpo umano e alle sue proporzioni. Occorre, si dice nel testo, ripensare al progetto vestimentario dell’uomo moderno, il cui corpo è «imprigionato dentro i capricci di una moda irrazionale»9. La riflessione viene appunto sviluppata a partire da considerazioni sul costume antico, che era immutabile: «il più bel vestito non apparteneva a chi aveva il miglior sarto ma a chi sapeva drappeggiarsi e portare meglio l’“himation” tessuta in casa propria»10. L’antico gesto del drappeggio o la tradizione orientale che predilige la piega e la modularità geometrica come elementi costruttivo dell’abito sono contrapposti al gesto violento del sarto che per usare la stoffa deve farla a brandelli. Il sarto che, costruendo l’abito, riprogetta (e quindi in qualche modo nega) il corpo umano è esattamente l’idea


are clothes modern? la moda secondo bernard rudofsky

2-3. La moda: Abito disumano, pagine di «Domus», 124, aprile 1938

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gabriele monti

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are clothes modern? la moda secondo bernard rudofsky

4. Casa a Procida, progetto di Bernard Rudofsky, pagine di «Domus», 123, marzo 1938 5. Casa Oro a Posillipo, progetto di Luigi Cosenza e Bernard Rudofsky, pagina di «Domus», 120, dicembre 1937 6. The Thong Has Come to Stay, sandali Bernardo, illustrazioni di Reynaldo Luza, pagina di «Harper’s Bazaar», giugno 1946 7. Shod in Color, un sandalo Bernardo in primo piano, foto di Ernst Beadle, pagina di «Harper’s Bazaar», giugno 1948 8. The Swimming Jerseys, sandali Bernardo, foto di Louise Dahl-Wolfe, pagina di «Harper’s Bazaar», giugno 1957

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rappresentare il corpo fra dissezione e innovazione tecnologica Massimiliano Ciammaichella

Il tema della rappresentazione del corpo è sempre stato molto sentito e ha una lunghissima storia che spazia dalle prime forme di scrittura eidomatica, tese a specchiarlo per ragioni artistiche o puramente comunicative nell’assecondare il desiderio di lasciare una traccia di sé attraverso la propria impronta, alle restituzioni grafico scientifiche mirate alla sua conoscenza in ambito medico, alla moltitudine di immagini odierne che sono prodotte da ambiti disciplinari molto diversi e ci parlano di un corpo in continua trasformazione. La tecnologia lo arreda, dialoga con esso e spesso lo abita per potenziarlo, poiché si tratta di un corpo che non rinuncia alla protesi per ragioni mediche o estetiche, unisce la propria condizione naturale all’artificiale per ibridarsi nella realizzazione della macchina perfetta. Inoltre, la trasformazione bada a creare un corpo seguendo la logica della manutenzione meccanica, rendendo il corpo sempre meno parte della biologia e sempre più della cultura materiale. Proprio perché subisce queste procedure, può veicolare significati e appartenenze, fra queste figura anche il genere, che i soggetti manifestano come parte delle loro competenze riguardo al mantenimento del corpo [...]. In questa arena la disciplina della modificazione del corpo diviene struttura di comportamento, aspetto più importante anche del risultato dell’incorporazione.1

1. Lasciando adesso che le vene crescano, foto di Marika Santarossa, 2013

Ma l’immagine di un corpo spettacolarizzato, che fa uso della tecnologia per potenziarlo e renderlo più attraente, fa i conti con l’artificializzazione indotta da un’estetica mutevole che sposta i canoni occidentali verso oriente, e viceversa, come registrano i sempre più crescenti interventi di chirurgia estetica su scala mondiale, che documentano una chiara tendenza stilistica volta all’omologazione globale. Sulla stessa linea, piercing, branding e scarification, sono invece alcune delle azioni di restyling epidermico a ridefinire la superficie di una pelle incapace di rinunciare alla permanente vestibilità del tatuaggio, che in alcuni casi mostra le viscere di una scarnificazione completa2. Sono tutte pratiche di ridisegno o vere e proprie scritture corporee che richiamano le estetiche di culture tribali lontane, per alcuni autoinflitte sotto forma di lotta alla sofferenza, dove la marchiatura diventa l’espediente regolatorio delle proprie tensioni3, per altri sono i segni di un processo metamorfico di stratificazione che si evolve in un contesto dove tutto può essere trasformato e nulla è irreversibile. Sta di fatto che il corpo di oggi è il soggetto di un discorso transdisciplinare aperto, nel quale la separazione fra natura e artificio è un concetto ampiamente superato dall’inevitabile innovazione tecnico scientifica che lo riprogetta facendolo diventare


massimiliano ciammaichella

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materia con la quale la tecnologia convive, anche solo per aumentarne l’aspettativa e la qualità della vita. Di pari passo in campo medico, e non solo, gli strumenti di diagnosi, i metodi di progetto e quelli di rappresentazione, si sono evoluti aprendo la strada a nuove prospettive di conoscenza; del resto come evidenzia Tomás Maldonado4 siamo passati dall’opacità alla trasparenza del corpo. Il medical imaging viene così arricchito di nuovi strumenti di visualizzazione e di nuove tecniche nella modellazione dei solidi. Si conquista, d’un tratto, la possibilità di vedere gli organi e gli apparati del nostro corpo in quattro dimensioni [...]. Di solito, il fenomeno viene messo in relazione con la nascita di quel repertorio di immagini di sintesi che, con un’espressione non molto felice (ma a livello divulgativo forse efficace), si è convenuto di chiamare realtà virtuale. Benché simile accostamento sia più che giusto, una precisazione è necessaria. A ben guardare, i modelli scientifici di tipo visivo-figurativo sono stati sempre virtuali.5

I metodi di rappresentazione a servizio della medicina, in effetti, sin dalle prime apparizioni nei trattati di anatomia, hanno ricostruito immagini fedeli del corpo umano capaci di spiegarne il funzionamento. Tra scientificità e narrazione, i linguaggi del disegno tradizionale restituivano nella proiezione bidimensionale di mongeana6 memoria la descrizione geometrica e la misura del corpo, altre volte il potere dell’illustrazione ha veicolato la messa in scena del suo smembramento nelle pratiche conoscitive della dissezione. Benché le sue prime apparizioni risalgano al III secolo a.C., in piena epoca ellenistica, e la scuola di Alessandria abbia aperto le porte allo studio autoptico del corpo umano7, la storia della dissezione non è immune dalla censura che l’ha bandita in epoca romana. Le stesse teorie di Galeno8 si basavano sull’interpretazione del funzionamento degli organi umani, desumendolo dall’osservazione diretta di quelli animali. Dopo una lunga pausa di secoli, gli studi anatomici vennero ripresi con interesse. La Scuola Salernitana dei secoli XI e XII studiò anatomia del maiale. L’imperatore Federico II di Svevia, con spirito altamente laico, contravvenne nel 1230 ai precetti e ai divieti sacrosanti della chiesa cattolica e promulgò una legge che permetteva che un cadavere di uomo fosse sezionato e studiato ogni 5 anni e ancora un’altra legge che proibiva l’esercizio della medicina a chi non fosse istruito dei fondamenti dell’anatomia;9

ma il 27 settembre del 1299 Papa Bonifacio VIII vietò la bollitura dei cadaveri per separarne le ossa dalla carne, con la bolla “De sepulturis”10. Il motivo di tale decreto, pur limitando la legittimità delle pratiche dissettorie, era legato alla proibizione di un’usanza diffusasi per il trasporto delle spoglie dei nobili crociati morti durante le guerre in Terra Santa. L’introduzione della medicina e della cirugia11 nelle università, unita alla progressiva laicizzazione della scienza, favorirono la liceità della dissezione quale metodo di indagine conoscitiva del corpo. Fu praticata pubblicamente a Bologna da Mondino de’ Liuzzi12, colui che fece entrare nell’ateneo bolognese l’insegnamento dell’Anatomia e ne scrisse anche il primo trattato, Anothomia13, diffusosi in tutta Europa in copie manoscritte. La prima versione a stampa è edita a Padova per opera di Pietro Maufer14 e la traduzione italiana in volgare è contenuta nel Fasciculo de Medicina15, pubblicato a Venezia nel 1493. Il libro raccoglie dieci illustrazioni incise su legno (figg. 2-3), che accompagnano i diversi contenuti così indicati nel frontespizio:


rappresentare il corpo fra dissezione e innovazione tecnologica

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2. Illustrazione tratta da Giovanni da Ketham, Fasciculus Medicinae, Venezia, Gregorio de Gregoriis, 1493 3. Illustrazione tratta da Giovanni da Ketham, Fasciculus Medicinae, cit. 4. Dissezione, illustrazione tratta da Giovanni da Ketham, Fasciculus Medicinae, cit. 5. Grande chirurgie, 1363, miniatura presente nel frontespizio del Traité de l’Anatomie, di Guy de Chauliac 6. Berengario Da Carpi, Commentaria cum applissimis additionibus super anatomiam Mundini una cum textu ejusdem in pristinum et verum nitorem redacto, Hieronymum de Benedictis, Bologna 1521, particolare del frontespizio


massimiliano ciammaichella

22. Modellazione organica di un avatar 3D, sviluppo del modello numerico di tipo Mesh e texture

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rappresentare il corpo fra dissezione e innovazione tecnologica

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Parallelamente, la trattatistica ha documentato queste evoluzioni culminando nell’opera di Jean-Baptiste Marc Bourgery54, in un ricchissimo atlante del corpo illustrato dalle litografie colorate di Nicolas-Henri Jacob55 che, oltre a riflettere visivamente i contenuti espressi nei diversi volumi, ci mostrano, come fossero fotogrammi di sequenze cinematografiche, le tappe più significative degli interventi chirurgici ottocenteschi (figg. 16-17), gli strumenti medicali in uso, le protesi correttive ecc. Paradossalmente, i trattati dei secoli XVIII e XIX raccolgono rappresentazioni iperrealistiche del corpo, ma segnano anche la fine della loro funzione primaria di modelli di conoscenza, diventando marginali mezzi formativi a corredo del testo, poiché il corpo, oramai, pare un fatto conosciuto. Nel panorama attuale il veloce progresso tecnologico ha raggiunto traguardi inauditi nella conoscenza scientifica, registrando una molteplicità di immagini molto diverse che intrecciano bidimensione e tridimensione. Il corpo reale si confronta con il suo clone digitale e si presta all’introspezione animata delle analisi endoscopiche che la medicina attua su un corpo vivo, mostrando attraverso il video ciò che in genere non si vede. Il medical imaging consente di vedere gli organi e gli apparati del nostro corpo in quattro dimensioni (tre spaziali e una temporale). Ora per la prima volta nella storia della clinica medica, si è in grado di osservare in vitro, mediante monitoraggio dinamico-interattivo in uno spazio tridimensionale, le strutture e le funzioni del corpo umano in vivo.56

Così i più avanzati metodi della rappresentazione digitale si manifestano nelle diverse pratiche progettuali odierne e non rispondono alla sola esigenza di documentare la scoperta medico scientifica, piuttosto si indirizzano verso la definizione di soluzioni estetiche e formali indotte dalle tecnologie digitali, che convivono e allo stesso tempo modellano una figura in continua trasformazione, dove il corpo diviene materia di progetto e linguaggio espressivo. Il fashion design lo misura e lo progetta abbracciando arte e scienza, come nel caso di Lucy McRae che si definisce architetto del corpo e afferma di essere interessata alla manipolazione genetica da lungo tempo57. Il suo lavoro spazia dal wearable computing 58 nella progettazione di abiti interattivi59, all’approfondimento dei modi attraverso i quali la tecnologia può costruire la silhouette del futuro (figg. 18-21). Non senza ironia, i suoi mutanti agiscono sui canoni estetici dei corpi di oggi, rimodellandoli mediante protesi non invasive che potrebbero costituire dei modelli alternativi ai processi di de-etnicizzazione globale tipici della chirurgia estetica attuale. Se la moda, ancor prima di progettare gli abiti modella i corpi, per le arti visive lo stesso concetto di bellezza viene messo in discussione dalla reale facilità con la quale è possibile cambiare pelle e potenziare la propria struttura corporea: significa fare i conti con un oggetto amplificabile. Secondo Stelarc: [...] Non ha più senso considerare il corpo come un luogo della psiche o del sociale, ma piuttosto una struttura da controllare e da modificare. Il corpo non come soggetto ma come oggetto, non come oggetto da desiderare ma come oggetto di riprogettazione [...] può essere amplificato e accelerato fino alla velocità di fuga planetaria. Diventa un missile post-evolutivo, abbandonando e diversificando la sua forma e le proprie funzioni.60

Sono proprio alcune delle pratiche artistiche61 a utilizzare come materia di progetto la carne e la pelle; quelle del design, invece, sono solite ricorrere alle meno inva-


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rappresentare il corpo fra dissezione e innovazione tecnologica

23. Lucy McRae, Becoming TransNatural Campaign, 2011 (Courtesy of Lucy McRae - www.lucymcrae.net) 24. Pensiero, io non ho più parole, foto di Marika Santarossa, 2013

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IL CORPO UMANO SULLA SCENA DEL DESIGN

Massimiliano Ciammaichella (Roma ), architetto, professore associato, insegna Laboratorio di disegno e modellistica e Rappresentazione digitale presso l’Università Iuav di Venezia. È autore di vari articoli, saggi e monografie sui temi della rappresentazione, tra i quali: Disegno Digitale per la moda. Dal figurino all’avatar (Roma ), La pelle dell’architettura contemporanea (Roma ), Il modello ideale e il disegno di progetto. La tettonica della rappresentazione nell’opera di Coop Himmelb(l)au (Roma ). Partecipa a diversi progetti di ricerca d’interesse nazionale (PRIN) e a convegni nazionali e internazionali. La sua attività di ricerca negli ultimi anni si è concentrata sugli estremi dell’evoluzione dei processi di rappresentazione, sul progetto degli artefatti e la loro comunicazione; la si può sintetizzare nei seguenti due temi: Teorie, metodi e processi innovativi; Recupero, codifica e rilettura dei fondamenti della Scienza della Rappresentazione.

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in copertina Luca Meda, Sedia Ho, Molteni & C,  con S. Meda, C. Meda e S. Cecchi (© Università Iuav di Venezia - Archivio Progetti, Fondo Luca Meda)

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IL CORPO UMANO SULLA SCENA DEL DESIGN

ISBN ----

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a cura di Massimiliano Ciammaichella

ILPOLIGRAFO

Nella società odierna, perennemente connessa, contraddistinta da una fitta rete di relazioni virtuali, in cui le macchine si sostituiscono sempre più all’uomo nello svolgimento di molte attività, emerge un quesito fondamentale: qual è il rapporto intrattenuto dalle nuove tecnologie con il corpo umano? Queste tecnologie prendono forma di oggetti, abiti, protesi, tessuti, superfici, interfacce, in un processo di contiguità e ibridazione con il corpo stesso, incidendo pesantemente sulla definizione dell’identità di ogni singola persona. Maschera, abito, travestimento, chirurgia estetica, pelle artificiale, interfaccia costituiscono molteplici risvolti del medesimo fenomeno, affascinante e spaventoso al tempo stesso: lo sconfinamento dell’identità originaria in un doppio, in un avatar, in un nuovo sé. In questo spazio di riflessione si situa la ricerca qui condotta, in cui i linguaggi di diverse discipline – storia, arte, semiotica, psicologia, teatro, moda, scienza, medicina – concorrono alla definizione di questo complesso rapporto, secondo un approccio storico, analitico e progettuale. In tale contesto il design, che si avvale degli spunti provenienti dagli altri ambiti di studio legati al tema del corpo, può contribuire a migliorare il rapporto tra le tecnologie e gli utenti, realizzando una progettazione calibrata e consapevole.


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