Annuario ABAV, 2010, Presente e futuro della grafica d’arte

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Accademia di Belle Arti di Venezia



ABAV ILPOLIGRAFO

annuario accademia di belle arti di venezia a cura di Alberto Giorgio Cassani

Presente e futuro della grafica d’arte

Omaggio a Giorgio Trentin

2010


Accademia di Belle Arti di Venezia

Organigramma Istituzionale Presidente: Luigino Rossi Direttore: Carlo Di Raco Vice-Direttore: Sileno Salvagnini Direttore amministrativo: Angela Tiziana Di Noia Direttore dell’ufficio di ragioneria: Alessio Di Stefano Consiglio di Amministrazione Presidente: Luigino Rossi Rappresentante MIUR: Chiara Piovesan Direttore: Carlo Di Raco Rappresentante dei docenti: Filippo Zaccaria Rappresentante degli studenti: Ilaria Carli Consiglio Accademico Presidente: Carlo Di Raco Consiglieri: Guido Cecere, Silvia Ferri, Paolo Fraternali, Gaetano Mainenti Marina Manfredi, Giordano Montorsi, Roberto Pozzobon, Giuseppe Ranchetti Nucleo di Valutazione Presidente: Giovanni Castellani Componenti: Raffaello Martelli, Mauro Zocchetta Collegio dei Revisori dei Conti Presidente: Anna Maria Serrentino Componenti: Roberta Peri, Sandra Troscia Graziosi Consulta degli Studenti Coordinatore: Federico Petrei Componenti: Elena Bars, Ilaria Carli, Viviana Gasparella, Costanza Pivetta Enrico Rizzo, Matteo Schenkel


Docenti Jacopo Abis - Tecniche dell’Incisione, Grafica d’Arte, Serigrafia Giulio Alessandri - Stile Storia dell’Arte e del Costume, Teoria e Storia dei Metodi di Rappresentazione Marta Allegri - Scultura, Tecniche plastiche contemporanee Natalia Antonioli - Regia Francesco Arrivo - Scenografia, Scenografia multimediale e televisiva Alberto Balletti - Tecniche dell’Incisione, Grafica d’Arte, Calcografia Luca Bendini - Pittura, Disegno Maria Bernardone - Tecniche dell’Incisione, Grafica d’Arte, Disegno Nedda Bonini - Tecniche dell’Incisione, Grafica d’Arte, Editoria d’Arte Mirella Brugnerotto - Decorazione Riccardo Caldura - Fenomenologia delle Arti contemporanee Alberto Giorgio Cassani - Elementi di Architettura e Urbanistica, Storia dell’Architettura contemporanea Guido Cecere - Fotografia, Storia del Design Danilo Ciaramaglia - Plastica ornamentale Gabriele Coassin - Teoria e Metodo dei Mass Media, Tecniche di Ripresa e Montaggio video Paola Cortelazzo - Costume per lo Spettacolo Paolo Cossato - Storia dello Spettacolo Ivana D’Agostino - Stile Storia dell’Arte e del Costume Storia dell’Arte contemporanea, Storia della Scenografia contemporanea Roberto Da Lozzo - Pittura, Cromatologia Giuseppe D’Angelo - Tecniche per la Scultura Maria Salvatora De Siati - Scenografia Alessandro Di Chiara - Pedagogia e Didattica dell’Arte, Antropologia delle arti Carlo Di Raco - Pittura Vallj Doni - Tecniche dell’Incisione, Grafica d’Arte Luca Farulli - Estetica, Estetica dei New Media Diana Ferrara - Tecnica dell’Incisione, Grafica d’Arte Silvia Ferri - Anatomia artistica Antonio Fiengo - Anatomia artistica Giorgio Frassi - Tecniche dell’Incisione, Grafica d’Arte Paolo Fraternali - Tecniche dell’Incisione, Grafica d’Arte, Litografia Lorella Gasparini - Tecniche Grafiche Speciali, Computer Graphic Aldo Grazzi - Pittura, Tecniche extramediali Salvatore Guzzo - Tecniche di Fonderia Giuseppe La Bruna - Scultura Igor Lecic - Pittura Patrizia Lovato - Anatomia artistica


Gaetano Mainenti - Decorazione Marina Manfredi - Storia dell’Arte contemporanea, Storia dell’Arte moderna, Letteratura artistica David Marinotto - Scultura, Tecniche della Ceramica Raffaella Miotello - Anatomia artistica, Semiologia del Corpo Elena Molena - Tecniche dell’Incisione, Grafica d’Arte Guido Molinari - Teoria della Percezione e Psicologia della Forma, Psicologia dell’Arte Giordano Montorsi - Tecniche per la Pittura Maria Anna Nagy - Pittura Marilena Nardi - Anatomia artistica, Illustrazione Franca Nava - Scenografia Mario Pasquotto - Tecniche grafiche speciali, Metodologia progettuale della Comunicazione visiva, Packaging Renzo Peretti - Anatomia artistica Miriam Pertegato - Pittura Roberto Pozzobon - Scultura Gianfranco Qauresimin - Tecniche dell’Incisione, Grafica d’Arte, Storia della Grafica d’Arte Giuseppe Ranchetti - Scenotecnica, Pittura di Scena, Disegno Tecnico e Progettazione Elena Ribero - Anatomia artistica Laura Safred - Storia dell’Arte moderna, Storia dell’Arte Contemporanea Sileno Salvagnini - Storia dell’Arte contemporanea Martino Scavezzon - Pittura Andrea Serafini - Tecniche dell’Incisione, Grafica d’Arte, Xilografia Saverio Simi De Burgis - Storia dell’Arte contemporanea, Storia e Metodologia della Critica d’Arte Anna Sostero - Pittura, Progettazione multimediale, Installazioni multimediali Gianantonio Stefanon - Pittura Nicola Strippoli “Tarshito” - Design Franco Tagliapietra - Storia dell’Arte contemporanea Federico Tesio - Scenografia, Disegno Tecnico e Progettuale Paolo Tessari - Pittura Alfredo Tigani - Anatomia artistica Vanni Tiozzo - Restauro per la Pittura Maurizio Tonini - Anatomia artistica, Formatura Tecnologia e Tipologia dei Materiali Annalisa Tornabene - Anatomia artistica, Disegno Marco Tosa - Tecnologia del Marmo e delle Pietre dure, Restauro dei Materiali lapidei Andrea Trevisi - Metodologia della Progettazione, Web Design Atej Tutta - Decorazione Gloria Vallese - Storia dell’Arte contemporanea, Elementi di Iconografia e Iconologia


Luigi Viola - Pittura, Progettazione della Pittura, Progettazione multimediale Filippo Zaccaria - Decorazione Laura Zanettin - Anatomia artistica Maurizio Zennaro - Plastica ornamentale, Tecniche del Mosaico Mauro Zocchetta - Anatomia artistica Eleonora Zullo - Scenografia, Applicazioni digitali per le Arti sceniche Docenti a contratto Maria Alberti - Storia del Teatro contemporaneo, Storia della Scenografia Fabio Barettin - Light Design, Illuminotecnica Massimo Bolcato - Digital Video Nicola Cisternino - Progettazione Spazi sonori, Arti e Musica contemporanea Antonio Diego Collovini - Teoria e Storia del Restauro Walter Criscuoli - Fotografia digitale Michele Daloiso - Inglese Paolo Del Piccolo - Arredo scenico Angelo De Martin - Tecniche e Tecnologie della Decorazione Giovanni Federle - Informatica per la Grafica Giovanna Fiorentini - Tecniche ed Elaborazione del Costume, Tecniche grafiche per il Costume Manuel Frara - Informatica di Base, Fondamenti di Informatica, Applicazioni digitali per l’Arte Paola Marinotto - Psicologia della Comunicazione Paola Moro - Autocad per la Scenografia Stefano Nicolao - Taglio del Costume storico Domenico Papa - Metodologia e Tecniche della Comunicazione Fabio Pittarello - Tecniche di Modellazione digitale 3D, Sistemi interattivi Davide Tiso - Sound Design Alessandro Zanella - Tecniche dei Procedimenti a Stampa, Tipografia Assistenti amministrativi Barbara Brugnaro, Pietro Cazzetta, Daniela Gianese, Elisabetta Marini Annalisa Zampieri, Rita Zanchi Coadiutori Roberta Berengo, Maria Antonietta Boscolo, Manuela Breda, Teresa Brovazzo Ada Carraro, Giuseppa Farruggia, Graziella Marinoni, Ferruccio Nordio Elisa Porri, Mara Oselladore, Barbara Scipioni, Rosa “Meo Ambrosi” Tiozzo Mirca Vianello, Viviana Vivardi, Carlo Zaniol, Massimo Zinato


Annuario dell’Accademia di Belle Arti di Venezia a cura di Alberto Giorgio Cassani Annuario/Annuary 2010 Presente e futuro della grafica d’arte. Omaggio a Giorgio Trentin Present and Future of Graphic Art. A Tribute to Giorgio Trentin per la realizzazione di questo numero si ringraziano in particolare Giovanni Benzoni, Elisa Bertaglia, Riccardo Caldura Michele Daloiso, Angela Tiziana Di Noia, Carlo Di Raco Diana Ferrara, Monia Franzolin, Eva Gatto Alfredo Gutiérrez-Kavanagh, Guerrino Lovato, Elisabetta Marini Manuela Mocellin, Carlo Montanaro, Gianfranco Quaresimin Laura Safred, Sileno Salvagnini, Andrea Serafini Franco Tagliapietra, Gloria Vallese, Luigi Viola referenze fotografiche Le immagini riprodotte provengono dall’Archivio fotografico dell’Accademia e dagli archivi personali degli Autori, salvo dove diversamente indicato. Si ringraziano Paola Baldari e Primo Gnani per la concessione delle immagini pubblicate nei contributi di Marco Tosa e Francesco Arrivo - Mauro Strada

progetto grafico Il Poligrafo casa editrice Laura Rigon Copyright © dicembre 2010 Accademia di Belle Arti di Venezia Il Poligrafo casa editrice Il Poligrafo casa editrice srl 35121 Padova piazza Eremitani - via Cassan, 34 tel. 049 8360887 - fax 049 8360864 e-mail casaeditrice@poligrafo.it ISBN 978-88-7115-724-5


Indice

13 Editoriale Alberto Giorgio Cassani 15 Presentazione Carlo Montanaro 17 Presentazione Carlo Di Raco 19 Un dramma dell’omonimia. L’“altro” Antonio Canova Lionello Puppi dossier giorgio trentin e l’arte dell’incisione 29 Premessa 31 Le ragioni del convegno Gianfranco Quaresimin 33 Per Giorgio Francesco Franco 37 Attualità dell’incisione nell’arte e nella didattica artistica contemporanea Franco Fanelli 41 Discorso per la consegna dell’onorificenza Massimo Cacciari 43 Le linee velenose, tossiche dell’incisione Mercedes Replinger


61 L’incisione moderna all’Accademia di Venezia Sileno Salvagnini 73 Ringraziamenti Giorgio Trentin saggi e studi 6 77 Intarsi e tarsie della chiesa di Santa Maria Assunta dei Gesuiti a Venezia Marco Tosa 93 Riflessioni su mostre e pubblicazioni in occasione del centenario del Futurismo Franco Tagliapietra 99 Simultaneismo di quadri, abiti, set cinematografici e cinegiornali di e con Sonia Delaunay dal 1910 al 1928 Ivana D’Agostino 121 Lo sguardo dell’artista. Note su Brancusi, Klee, Moore, Sutherland Marina Manfredi 149 Il brusio delle immagini. Per una strategia dell’immaginazione nell’epoca elettronica Luca Farulli 165 Multiple matters. Concetti grafici e questioni multiple tra i linguaggi tradizionali e digitali della grafica d’arte Laura Safred 8 175 Aderenza, apertura relazionale. Elementi per una riflessione fra opera e contesto in Brigitte Kowanz Riccardo Caldura 191 La scenografia e l’acustica nel teatro lirico. Interdipendenza tra i materiali impiegati nella costruzione della scena, la morfologia dell’impianto scenico e la percezione acustica in sala Francesco Arrivo, Mauro Strada dipartimenti

201 Restauro all’Accademia di Belle Arti di Venezia Vanni Tiozzo 219 Fragili pieghe: tra storia, disegno e incisione Mauro Zocchetta, Diana Ferrara


fondo storico, archivio, biblioteca, progetto tesi

2 25 I libri antichi e le stampe nel Fondo Storico dell’Accademia di Belle Arti di Venezia Diana Ferrara, Angela Munari 241 L’archivio dell’Accademia di Belle Arti di Venezia Evelina Piera Zanon

251 Progetto tesi. Dai documenti conservati nel Fondo Storico dell’Accademia di Belle Arti di Venezia, anno accademico 2009-2010 Gloria Vallese, Ivana D’Agostino Belle ArtiVenezia eventi

Eventi 2010 269 Inaugurazione anno accademico, convegni, conferenze 274 Mostre appendici

291 Riassunti 299 Abstracts 309 Autori 311 Indice dei nomi



Editoriale L’«Annuario» dell’Accademia di Belle Arti di Venezia – che con questo numero vuole riprendere idealmente una prassi comune, in passato, da parte delle Accademie – intende far conoscere all’esterno, e non solo alle istituzioni gemelle italiane ed europee (in gran parte opportunamente inserite, a pieno titolo, nel sistema universitario), ma anche ad un pubblico più vasto di operatori culturali del settore delle arti visive, l’attività di ricerca svolta dalla nostra Istituzione. L’«Annuario» è organizzato in cinque sezioni: la prima, «Dossier», affronta un tema specifico dell’ambito dell’arte; la seconda, «Saggi e studi», ha carattere più miscellaneo; la terza, «Dipartimenti», aggiorna sulla didattica e sulla ricerca artistica svolta all’interno dell’Accademia; la quarta, «Fondo Storico, Archivio, Biblioteca, Progetto tesi», informa sul patrimonio documentario custodito in Accademia e sugli studi e tesi ad esso dedicati; l’ultima sezione, «Eventi», è dedicata a convegni, conferenze e mostre organizzate dall’Accademia, che vedono coinvolti docenti e discenti. Se l’«Annuario» accoglie principalmente i contributi dei docenti dell’Accademia di Venezia, intende però ospitare al suo interno anche testi di studiosi di chiara fama provenienti da altre Istituzioni, Accademie italiane e straniere, Università e Istituzioni culturali (Musei, Biblioteche ecc.). Sua ambizione, infatti, è quella di costituire il “luogo di incontro” di esperienze, culture e saperi non ristretti alla secolare Istituzione veneziana, che accolga un orizzonte più vasto, che oggi non può che essere quello europeo e internazionale. Cercando di smentire la pur magistrale affermazione di Friedrich Nietzsche delle «cento profonde solitudini» che formano l’immagine di Venezia e che costituiscono «il suo incanto». Vorremmo che, per quel che riguarda l’Accademia di Belle Arti di Venezia, l’«immagine per gli uomini del futuro» fosse invece quella di un arcipelago di saperi in dialogo tra loro.

Alberto Giorgio Cassani



«Annuario» vuol dire assumersi delle responsabilità nei confronti del contemporaneo e, insieme, della storia. Vuol dire studiare, approfondire o semplicemente descrivere il passato per esistere nel presente. Vuol dire rivendicare la propria esistenza o, meglio, gridarla quando, come nel caso dell’Accademia di Belle Arti di Venezia, pare esistere una sorta di congiura negazionista che privilegia l’esistenza delle Gallerie, che dell’Accademia sono un importante derivato, piuttosto che rivendicare orgogliosamente per la città serenissima una scelta didattica operata da un doge nel 1750 a discapito di Padova, la città che, nel territorio della Repubblica Veneta, era stata demandata all’insegnamento superiore. L’«Annuario», che con felice intuizione e determinazione Giovanni Benzoni, già Presidente dell’Accademia, ha voluto nascesse per confermare la vitalità dell’Istituzione – malgrado la disattenzione che, o per buona o per mala fede, circonda ora la nuova sede, insufficiente alla bisogna, dell’ex Ospedale degli Incurabili –, esce sotto la presidenza di Luigino Rossi, un imprenditore chiamato ad applicare criteri manageriali a una scuola che sopravvive con l’ansia di una legge di riforma non ancora compiuta dopo dodici anni e condizionata da una notevole penuria di mezzi. Una condizione precaria venata di autolesionismo, però, non fa bene a nessuno. E allora, denunciata la polvere che è venuta a cadere su istituzione e uomini, e che non sarà facile eliminare definitivamente, è chiaro che va rivendicata non solo la continuità del progetto didattico che ci lega senza esitazione o vergogna alcuna al passato, ma anche e soprattutto la capacità di recepire, malgrado le difficoltà economiche, le istanze più tipiche del contemporaneo. Frequentando senza esitazioni, nel mentre che si confermano le tecniche di laboratorio di sempre, i nuovi media, le nuove possibilità di creare e gestire immagini, le nuove tecnologie che passano attraverso quello strumento onnicomprensivo che risponde al nome di computer. Il passato nell’innovazione. Questo in sintesi il motto dell’Accademia del terzo millennio. Un motto confermato dalla scelta di recuperare come “marchio” il primo dei simboli dell’Accademia (Academia Veneta 1750), ma di farlo poi diffondere attraverso quei canali del commercio senza i quali oggi è impossibile sopravvivere.


L’«Annuario» dell’Accademia di Belle Arti di Venezia, che da questo 2010 diventerà, lo dice la parola stessa, un appuntamento periodico, da un lato nasce celebrando i 260 anni di vita dell’Istituzione, ma dall’altro diventa un importante sistema di scambio della conoscenza, per ridurre, se non proprio annullare, i confini del sapere, e sancire la comunione delle proposte nell’ambito della sua diffusione.

Carlo Montanaro

direttore dell’Accademia di Belle Arti di Venezia


L’Accademia di Belle Arti di Venezia, come sede primaria di alta formazione artistica e di ricerca, si propone di favorire lo sviluppo di un clima di apertura, che consenta ai giovani artisti e ai docenti che operano nella nostra Istituzione di confrontare costantemente gli esiti della propria ricerca con la produzione artistica e scientifica contemporanea. A tal fine, l’Istituzione si impegna nella realizzazione di iniziative espositive ed editoriali rivolte a evidenziare la vitalità della produzione artistica sviluppata nei Laboratori e a promuovere tutte le attività di studio e approfondimento sviluppate nell’Accademia. In questa prospettiva, l’«Annuario» costituirà da oggi in poi un riferimento importante. Per questo primo numero occorre ringraziare, in modo particolare, l’iniziativa e il coordinamento di Alberto Giorgio Cassani, Carlo Montanaro e Giovanni Benzoni.

Carlo Di Raco direttore dell’Accademia di Belle Arti di Venezia dal 1° novembre 2010



Lionello Puppi

Un dramma dell’omonimia L’“altro” Antonio Canova a Carlo Montanaro

II riordino – ormai avviato alla fase conclusiva – e l’apertura alla consultazione dell’Archivio storico dell’Accademia di Belle Arti, da decenni invano sospirati e oggi realtà concreta e merito lodevole di Carlo Montanaro che fermamente li ha propugnati, offriranno risposta a tanti quesiti sospesi intorno agli intrecci complicati di due secoli di cultura visiva veneziana e veneta, e riserveranno magari anche sorprese come quella, che già m’è capitato di narrare,1 ma val adesso risfoderare e riproporre nei modi di una scheda corredata dal rinvio a tutte le referenze documentali di sostegno. I preamboli risiedono nella curiosità inappagabile di Guerrino Lovato, ultimo erede dell’artigianato veneziano dello stucco e del gesso (che pena la recente chiusura della sua leggendaria bottega del “mondo novo”!), e iconologo per diletto e passione, che, quando apprende la disponibilità sul mercato di lacerti provenienti dall’atélier di Emanuele Munaretti, non se li fa sfuggire. Ben sapeva, infatti, di quel mirabolante fonditore, vicentino di nascita (nel 1859), veneziano d’adozione (dal 1882), ma – invero – cittadino del mondo (suoi lavori sono in India e in Argentina), ch’era stato chiamato a restaurare i celeberrimi “cavalli di San Marco”, i bronzi del Sansovino, la cancellata del Gay nella Loggetta. Si trattava di calchi e bassorilievi, e fra questi, tre che parevan della stessa mano; denunciata, in effetti, dall’iscrizione ben leggibile su uno di essi: «Premio ad Antonio Canova, anno 1838». Antonio Canova? 1838? Qualcosa non tornava, giacché Guerrino sapeva benissimo che il grande Antonio Canova aveva perso la vita, dopo un’agonia straziante, il 13 ottobre 1822 nella sua abitazione in Bacino Orseolo; né, già al primo colpo d’occhio, ancorché non rozzi e non volgari ed anzi di qualche piglio canoviano, quei rilievi attingevano certo i vertici sublimi dell’arte

L. Puppi, «Il doppio», in Id., Il re delle isole Fortunate e altre storie vere tra le «maraviglie dell’arte», Costabissara (VI), Angelo Colla Editore, 2010, pp. 153-159. 1


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del più acclamato ed onorato scultore dell’età moderna. Un bel grattacapo, che lasciava solo intendere come un omonimo del novello Fidia, a sua volta scultore, ma di cui non si sapeva assolutamente nulla, quasi tre lustri dopo la morte di quel grande, vedesse premiato un suo bassorilievo. Premiato da chi? Guerrino aveva la ventura di poter accedere alle carte e ai libri del lascito della compianta Elena Bassi, studiosa, tra l’altro, del gran Canova e dell’arte a Venezia tra Sette e Ottocento; vi ricorre, fruga: ed ecco capitargli tra le mani un opuscolo riportante i Discorsi letti nella Regia Accademia di Belle Arti in Venezia, per le distribuzioni de’ Premi dell’anno 1838. Un rimarchevole passo avanti, a questo punto, era stato fatto; chi replicava nome e cognome di Antonio Canova, esercitandone puranco la professione, nel 1838 si distingueva per bravura nell’Accademia veneziana, e ne riscuoteva un ufficiale e solenne riconoscimento. Ma chi fosse, donde venisse, dove finisse; se attività avesse svolto, e quale, all’indomani degli studi accademici; tutto ciò restava mistero fitto ed enigma tanto più inquietante in quanto il sospetto era, ed è, lecito: se alla mano di codesto Antonio Canova non possano, per avventura, esser riportate cose attribuite dagli studiosi al Maestro di Possagno, è però nel tormento del dubbio, nell’incertezza. E proprio su codesto spunto insisteva Aldo Trivellato dando notizia, nella pagina culturale dei «Quotidiani veneti» del 27 aprile 2004, della scoperta di Guerrino.2 Con una denuncia; dall’impasse bruciante si resta paralizzati «anche perché l’Accademia veneziana non permette la consultazione, ai ricercatori come agli appassionati, dei propri archivi». L’accesso, finalmente autorizzato a quei sancta sanctorum, in effetti, ci ha consentito – s’è in esordio qui adombrato – di rispondere ai più pressanti quesiti. Il Ruolo degli studenti nella Scuola di Ornato, per gli anni 1818-1819 e seguenti, registra, infatti, il nome di un Antonio Canova, figlio di un Alvise “calciner” abitante al civico 1291 di Cannaregio in parrocchia di San Girolamo, alla data del 26 marzo 18293 – per altra via, che imboccheremo tra poco, sappiamo ch’è un ragazzo di quindici anni –, e non par troppo dedito ai doveri scolastici, visto che «mancò a moltissime lezioni», né brilla per studio, condotta, applicazione, profitto. E di poco sembra esser migliorato al bilancio del 3 novembre 1830 e di quello alla stessa data dell’anno dopo,4 mentre, finalmente, risulta migliore la pagella del 9 novembre 1832,5 quando, di «condotta morale buona» e di «applicazione assidua», pur soltanto sufficiente in “Ornato” e in “Elementi di figura”, risulterà primo ammesso ai corsi di “Statuaria” e vincitore del secondo premio in “Scultura”, e chissà mai se la predilezione per quelle discipline non derivasse dalla consapevolezza del nome che s’era trovato cucito addosso. Conviene, allora, uscir per un momento dalle stanze dell’archivio

A. Trivellato, L’omonimo di Canova ottimo scultore scomparso dalla storia, «La Nuova Venezia» / «Il Mattino di Padova» / «La Tribuna di Treviso», 27 aprile 2004. 3 Archivio Storico dell’Accademia di Belle Arti, Venezia (d’ora in avanti ASABAVe), Ruolo degli studenti nella Scuola di Ornato, 1818-1819 e seguenti alla data 24 marzo 1829. 4 Ivi, alle date. 5 Ivi, Matricola generale alunni, I, alla data. 2


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dell’Accademia veneziana e varcar l’uscio di quelle dell’Archivio storico patriarcale per apprendere che il 10 luglio 1814, al fonte della Madonna dell’Orto, era stato battezzato dal «molto reverendo padre Luigi Balbi, ex monaco cassinese, patrizio veneto» «Antonio Baldissera Giuseppe figlio di domino Alvise Canova di Sebastiano, veneto, fabbricator di fornasa e di Angela Tonei jugali, nato il primo corrente, abita in Corte Nova di San Girolamo al numero 2591».6 Dalla coppia – e con il capofamiglia Alvise designato ora «possidente», ora «negoziante», ora «fornasier» –, nascerà, negli anni successivi, altra prole (e sarà sempre la stessa levatrice, una Angela Rossi di San Marcuola, a metterla al mondo): Sebastiano, il 5 aprile 1816;7 Giovanni, il 29 settembre 1825; Luigia, il 17 febbraio 1829 e Domenico, il 21 luglio 1831.8 Non sapremo mai se la decisione di impartir il nome di Antonio al primogenito fosse coerente con quella di mandarlo a studiare, non appena in età, all’Accademia: del celeberrimo scultore – con la cui famiglia, peraltro, l’Alvise «fornasier» qui in gioco, non era neppur lontanamente imparentato –, i nostri «jugali» non potevano, magari oscuramente, non sapere e potrebbero esser stati tentati di scommettere col destino. Chissà. Sta di fatto che su Antonio giocano parecchio, facendosi carico delle spese che gli assicurassero un’istruzione e un’educazione liberali, artistiche, e insomma fuori dalla condizione meccanica trasmessa in retaggio agli altri figli: se, infatti, Giovanni perdeva la vita quando, poco più che ragazzo, si trovava a far il soldato di leva, affogando nelle acque del Sile nel 1853,9 a Sebastiano (che morirà il 15 giugno 1868, lasciando alla vedova, Paola Fuin, un paio di figliole) toccherà far il «venditore di sale» e a Domenico (di cui ignoriamo la sorte) il mestiere di «fabbro»,10 mentre di Luigia perdiamo le tracce ben presto. Così, se la famiglia se la passa come può, e, fors’anche, qualche volta, tirando la cinghia, Antonio, all’Accademia, la mena per le lunghe. Rientriamo, dunque, nelle stanze dell’archivio dell’Istituto, e agli incartamenti che abbiamo lasciato aperti, uscendone per effettuare la necessaria digressione in altri depositi di memoria. Vi sorprendevamo il nostro giovanotto, al bilancio del 9 novembre 1832, dopo le pigrizie iniziali, tutto preso dall’applicazione alla scultura e alla statuaria: se lo perdiamo di vista nel biennio successivo, eccolo, nell’anno accademico 1835-1836, allievo della Scuola di scultura, che frequenterà sino al 1837-1838, sotto la guida di un maestro, Luigi Zandomeneghi, che alla lezione del grande Antonio Canova ostinatamente si richiamava, e che prende a benvolere quello studente, forse un poco stranito, che ne portava il nome. È tentato dalla fantasia, se non proprio di

Archivio Storico Patriarcale, Venezia (d’ora in avanti ASPVe), Parrocchia Madonna dell’Orto, Registro Battesimi 1814 giugno sino 1824, 7 maggio, c. 1v. 7 Ivi, c. 24v. 8 ASPVe, Parrocchia Madonna dell’Orto, Registro Battesimi, 1824 sino 22 luglio 1832, rispettivamente c. 30r, c. 197r, c. 189r. 9 Archivio Storico del Comune, Venezia (d’ora in avanti ASCVe), Rubrica del ruolo generale della popolazione nella città di Venezia Sestiere di Cannaregio, vol. Ca-Ch: Cannaregio 4103. 10 ASCVe, Rubrica, cit., ai nomi. 6


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Antonio Canova “il giovane” (1814-1873), Nudo aggruppato in plastica, altorilievo in gesso, cm 86 × 62 × 15. Antonio Canova “il giovane”, particolare con la scritta: «Premio ad Antonio Canova, anno 1838». Antonio Canova “il giovane”, Nudo aggruppato in plastica, altorilievo in gesso, cm 70 × 70 × 20. Si ringrazia Guerrino Lovato per aver concesso la riproduzione fotografica delle due opere in suo possesso.


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trovava «per caso». Un decesso strano dal momento che, avvenuto «nella casa di proprietà di Aita Vincenzo, posta in Piazza di sotto al civico numero centonove» alle «ore sette antimeridiane del giorno venticinque del corrente mese di Aprile», era stato denunciato il giorno dopo da un «contadino» analfabeta e da un «tessitore» del posto, i quali, pur dichiarandosi «ambi assistenti del defunto» ne conoscevano solo nome e cognome e la provenienza veneziana e tacevano sulle circostanze della morte.22 Ma, mentre l’«Ufficiale di Stato Civile di Follina» trasmetteva al collega veneziano i dati generici di cui era in possesso, Polizia e Magistratura dovevano aver cominciato ad indagare, aprendo un procedimento i cui esiti venivano sanzionati da una sentenza, addì 28 maggio 1873, del «Regio Tribunale Civile e Correzionale di Conegliano», il cui dispositivo – accertante, in primis, esser il «Canova Antonio domiciliato nel Comune di Venezia», «Canova Antonio [...] figlio di Alvise e di Tonei Angela, scultore, di anni cinquantanove, domiciliato a Venezia e conjugato a Milani Luigia» – veniva, in fascicolo, trasmesso il 2 luglio 1873, all’«Ufficiale di Stato Civile di Venezia» per le necessarie rettifiche nei registri anagrafici.23 Ma quel documento, che contiene i dettagli della morte del nostro Antonio Canova e scioglierebbe – forse – l’enigma della sua vita (perché il viaggio fatale a Follina? chi è Vincenzo Aita? perché ventiquattr’ore di ritardo nel comunicare all’Autorità il decesso, e quali le cause di esso?), sebbene esistente negli archivi dell’Anagrafe di Venezia, è sottratto alla consultazione e, quindi, non legitur.

Comune di Venezia, Registro dello Stato Civile, atto n. 772, p. I, 1873. Ibid. Congedando questo saggio, è dovere di chi scrive avvertire che i richiami ai documenti consultati nell’Archivio Storico dell’Accademia veneziana di Belle Arti son stati effettuati su segnature provvisorie che saranno mutate a seguito del riordinamento in corso. 22 23


dossier Giorgio Trentin e l’arte dell’incisione a cura di Gianfranco Quaresimin

Convegno Venezia, Accademia di Belle Arti Aula Magna, 30 maggio 2008



Premessa Il 30 maggio 2008, nell’Aula Magna dell’Accademia di Belle Arti di Venezia, si è svolto il convegno intitolato Giorgio Trentin e l’arte dell’Incisione, in contemporanea con l’inaugurazione di una mostra di lavori degli studenti delle cattedre di Grafica ed Incisione dedicata alla figura di uno storico e critico dedito, oltre che ad una continua attività a sostegno e alla divulgazione della grafica incisoria, anche a visite frequenti negli atelier della stessa. Tale convegno ha visto la presenza di numerosi addetti ai lavori tra il pubblico, e, al tavolo della presidenza, di artisti e studiosi che hanno relazionato su alcuni aspetti e tematiche dell’Incisione contemporanea, testimoniando, nello stesso tempo, l’impegno culturale del festeggiato. In tale contesto, alla presenza dell’Assessore alla Cultura della Provincia Nicola Funari e per la Giunta Regionale del Veneto, Franco Miracco, è stata donata al dott. Trentin, in occasione del suo 90° anno di età, una medaglia quale riconoscimento del suo ruolo di animatore culturale nella città di Venezia, consegnata dal Sindaco Massimo Cacciari, intervenuto con una sua testimonianza. Alla fine dei lavori è stata proiettata una video-intervista a Giorgio Trentin, a cura del prof. Mario Guadagnino, realizzata dal regista Giorgio Sticchi. Il convegno, durato l’intera giornata, si è concluso con l’inaugurazione della sopraddetta mostra nelle sale della Biblioteca, dove è stato inoltre presentato al pubblico, dal prof. Sileno Salvagnini, il catalogo delle opere esposte, offerto dall’editore Giovanni Maria Fiore.



Gianfranco Quaresimin

Le ragioni del convegno Introducendo questo incontro, vorrei innanzitutto ringraziare affettuosamente gli amici intervenuti, la cui presenza testimonia un attaccamento profondo a un argomento spesso dibattuto quale quello delle sorti e dei valori di una disciplina così controversa come l’incisione nel panorama dei linguaggi artistici contemporanei. Vorrei ringraziare, anche a nome del celebrato e dei relatori, il Consiglio Accademico che ha consentito lo svolgersi di questa iniziativa rientrante nel progetto di consegnare periodicamente una onorificenza a un personaggio di riconosciuto valore operante nella nostra città e meritevole ai fini del generale arricchimento culturale e civico. Unitamente all’occasione di festeggiare il 90° anno del critico e teorico Giorgio Trentin e di dare testimonianza della sua attività nel settore della grafica incisoria, si è voluto destinare a questo incontro una parte dedicata alle problematiche attuali di tale particolare linguaggio artistico relativamente alla sua importanza nel contesto di un aggiornato percorso didattico degli studenti di Belle Arti. È rilevante, a questo riguardo, come negli ultimi anni siano aumentati la frequentazione e l’interesse per gli atelier di grafica incisa in controtendenza ai tentativi attuati nel periodo di elaborazione della Riforma, quando si intendeva ridurre spazi e orari a una disciplina come quella di Tecniche dell’Incisione considerata, insieme a qualche altra materia, veicolo di proposte linguistiche obsolete e ipoteticamente cancellabili dal novero delle discipline utili al processo formativo dello studente. Grazie all’istituzione di un Dipartimento di Disegno Incisione e Stampa, si è reso possibile invece moltiplicare, all’interno del Corso di indirizzo di Grafica, le opportunità di conoscenza e di utilizzo delle tecniche storiche e sperimentali corredandole, in questi ultimi anni, di un inedito Corso di Storia della Grafica d’Arte, assolvente il compito di illustrare gli aspetti peculiari ed evolutivi di un linguaggio precedentemente sottovalutato. Importante in questo senso è stata, nel tempo trascorso, la periodica frequentazione di Giorgio Trentin negli atelier calcografici della nostra Accademia,


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all’interno dei quali, con molti docenti legati all’Associazione degli Incisori Veneti, si è potuto mantenere un appuntamento stimolante e molto apprezzato dagli studenti attratti da questo universo linguistico così specifico e insostituibile nell’elaborazione di particolari strategie di espressione e di creatività artistica. Personalmente, ritengo che questa riunione di esperti possa costituire un’occasione per far emergere le condizioni e l’attualità delle problematiche incisorie, rilevando inoltre il livello di responsabilità sociale e istituzionale degli intervenuti al Convegno superanti l’ambito provinciale e nazionale e capaci di delineare la fisionomia di un quadro diffusorio della cultura incisoria generale che, in Italia, particolarmente, evidenzia l’esistenza di un asse veneto-piemontese il quale, già all’interno dell’AIV e soprattutto nelle battaglie a difesa della integrità e organicità dei laboratori di Incisione nelle Accademie italiane, ha distinto i docenti dell’Accademia Albertina e quelli di Venezia. Provincialità che invece si rovescerebbe su parte di quella cultura ufficiale e accademica che persevera a considerare il linguaggio incisorio come appartenente a un’attività artistica di secondaria importanza, relegandolo a un concetto di alto artigianato quando l’antico legame ombelicale con l’oreficeria è da tempo immemore reciso, prova ne siano le alte figure di incisori e di peintre-graveur che costellano la storia dell’arte moderna e contemporanea e la probante evidenza del linguaggio grafico dell’avanguardia storica negli aspetti della rivoluzionaria incisione novecentesca franco-tedesca, centroeuropea e messicana: storia troppo recente per non aver avuto modo di tracciare un proprio naturale e vitale proseguimento lungo tutto il secolo scorso e fin dentro alla nostra più stretta attualità. Infine, nel merito del Convegno e, per inciso, nel novero degli omaggi dovuti alla figura di Giorgio Trentin, ritengo indicativa in tal senso la mostra, nelle sale della biblioteca, di opere grafiche, scelte tra le più significative, eseguite dagli studenti come testimonianza concreta della stima che tale personaggio ha saputo meritarsi nei confronti della nostra Accademia, la quale, analogamente alle altre Accademie d’arte italiane, continua a dibattersi in preda ad un’affannosa ricerca d’identità tra tradizione ed evoluzione, o meglio, tra salvaguardia e sviluppo all’interno di un processo di rapida e generale mutazione.


Per Giorgio

Francesco Franco

Nel trascorrere degli anni ho conservato parecchie carte; ma di pensieri, osservazioni intorno alla mia attività e al mondo dell’Accademia Albertina colto dal suo interno, ho il rammarico di dover dire di non avere conservato nessuna memoria scritta. Possiedo, invece, un dossier con tutta la corrispondenza intercorsa dagli anni Sessanta a oggi, con il segretario dell’Associazione Incisori Veneti – in seguito Presidente – associazione sorta nel 1952 per volontà di Giorgio Trentin, affiancato da alcuni artisti veneti di altissimo rilievo. Gli artisti italiani e i cultori della grafica incisa avvertirono subito che personalità quali Remo Wolf, Tranquillo Marangoni, Virgilio Tramontin, Giovanni Barbisan e uno studioso come Giorgio Trentin annunciavano un’iniziativa di grande impegno e di livello eccezionale. Da anni la grafica incisa occupava gran parte degli interessi culturali di Giorgio, e al Museo Correr, dal 1948, essa si definisce come l’oggetto prevalente della sua ricerca. L’AIV fu dunque la realizzazione del progetto di dare vita a Venezia a una solida istituzione in difesa dell’incisione. L’attività di Giorgio Trentin in questo ambito – in quanto necessaria premessa alla continuità del linguaggio espressivo in cui crede – è assolutamente coerente con il pensiero e l’azione da lui a suo tempo espressi con l’agire che il momento richiedeva. È significativa la data di inaugurazione delle Biennali di Incisione Italiana contemporanea, quasi sempre il 25 aprile, così come la presenza delle sezioni dedicate alla Resistenza. Le pagine fitte di frasi, rilevanti per efficacia e rese più scandite da sottolineature energiche, imperiose, spesso ripetute, delle lettere indirizzatemi da Giorgio Trentin mi riconfermano che egli ha rappresentato e rappresenta, per l’Associazione, il motore-dinamo, nutrito e vitalizzato dalla propria energia interiore. Facendo convergere nell’Opera Bevilacqua La Masa le opere di incisori quali Bianchi Barriviera da Roma, Ciarrocchi da Napoli, Gambino da Palermo, Calandri


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ignora la sensualità. Il procedimento è un altro, altro è il modo di offrire il corpo allo sguardo del desiderio. Come nelle incisioni di Oscar Estruga, Tejiendo la vida (1985) o di Picasso, Suite Vollard (1931), la carne straripa voluttuosa attraverso le linee che cingono il corpo e tagliano, letteralmente, la carne. La linea schiaccia nella sua griglia la morbidezza della carne e rinuncia così all’apparenza, al simulacro di vita. Ecco allora, in quest’opera, che le braccia stringono come in una morsa il corpo rannicchiato su se stesso, rinchiuso nella sua stessa energia. La linea tocca, accarezza, perfino tritura la carne. Ma non la rappresenta mai. Decisamente siamo una specie tenebrosa. Quando la lux, quel lumen primordiale della divinità, attraversa i corpi opachi dell’essere umano, esso si trasforma, si metamorfizza in ombra, letteralmente in carne viva. Ne scaturiscono queste meravigliose stampe anatomiche, un vero e proprio sistema di penetrazione delle linee nel corpo, scorticature che Claude Gandelman11 definisce come autentici teatri manieristici dell’orrore. Incidere, in realtà, è un’operazione di dissezione. Il bulino, come il bisturi, si iscrive nella carne per disegnarne l’interno. Le linee tagliano la carne, di fatto la spellano in un atto provocatorio, deciso a dimostrare che sotto la superficie liscia, marmorea dei beau corps esiste una grafia sanguinolenta di una bellezza medusea. Le scorticature come teatro dell’orrore si trovano anche nella serie di Gustavo Torner dal titolo Vesalio, el cielo, las geometrías y el mar (1964-1965). Un’opera in cui l’artista sovrappone immagini del trattato di Andreas Vesalius De humani Corporis Fabrica (1543) a figure geometriche: «uno spazio puro per dare espressività e significato ai lacerati corpi umani».12 Ma il corpo anatomico nelle mani degli artisti è un corpo interiore che trema. A Plensa piace un aforisma di Valéry: «lo spirito è un momento della risposta del corpo al mondo».13 Il corpo dell’uomo, pertanto, produce una serie di vibrazioni, una sorta di pulsazione interiore che risponde allo spazio in movimento che lo circonda, come Sin título (1989, fotoincisione, acquaforte e acquatinta). L’incisione può addirittura sognare di costruire un altro tipo di corpo, un altro ordine e un’altra disposizione. Come in alcune calligrafie di Plensa: diciotto impronte della testa di profilo, del torso, del basso ventre, della mano, delle gambe, che compongono, una volta riordinate, due esseri a grandezza naturale. Un gioco di metamorfosi, letterale, nell’Atlas de anatomía imaginaria (1987) proposto come un puzzle. Di fatto potremmo rimettere insieme le incisioni in un diverso ordine e costituire un altro tipo di corpo. Jaume Plensa pensa il corpo al tempo stesso come corpo-soggetto e come corpo-oggetto. Corpi 11 C. Gandelman, Le regard dans le texte: Image et écriture du Quattrocento au xxe siècle, Paris, Meridiens Klincksieck, 1986, p. 56. 12 Gustavo Torner: Retrospectiva: 1941-1991, [Catálogo de la exposición: Madrid, Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía, 28 de mayo - 28 de julio 1991], ensayos por C.F. Serraller, A. García Berrio, Madrid, Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía, D.L., 1991, p. 137. 13 Cfr. Jaume Plensa: Libros, grabados y múltiples sobre papel / books, prints and multiples on paper (1978-2003), [Catálogo de la exposición: Caen, Musée des Beaux Arts de Caen, 12 de junio - 5 de septiembre 2004, Taro de Tahíche, Lanzarote, Fundación César Manrique, 18 de noviembre 2004 - 8 de febrero, 2005], redacción C. Joubert, L. Medina, Valencia, Instituto Valenciano de Arte Moderno (IVAM), 2004, p. 15.


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frammentati e tagliati che progressivamente si riducono, in queste acqueforti di Tàpies, a ossame, a uno scheletro informe in Huesos y barniz (1990, acquatinta e acquaforte). L’uomo si riduce alla presenza pura e semplice di ossa, che prendono le forme di una regressione a una grigiastra origine vegetale, in alcune acquetinte di Pablo Casado come De paseo con papá o Equilibrio inestable (2006). Incisioni monocrome con l’aspetto di vertebre di esseri ibridi, spine dorsali di un mondo senza rumori in cui nasce, vive e muore una flora in costante metamorfosi. Ma l’invito ad aprire, a indagare all’interno del corpo umano ci porta direttamente al corpo avvolto, al corpo vestito. La nostra cultura, dice Mario Perniola,14 ha ideato due procedimenti per realizzare il passaggio dal corpo nudo al corpo vestito: le pieghe del drappeggio e l’illustrazione del corpo umano come spoglia. Le pieghe della pelle e le rughe della tela sono intercambiabili. Il vestiario, in realtà, è uno stampo del corpo. Costruisce il corpo come questi indumenti di Tàpies, della serie Samarreta (1972, acquaforte e carborundum stampato in rilievo) non veri e propri capi, ma oggetti intermedi, che consentono il passaggio dalla nudità totale alla totale copertura per mezzo del vestito. Una transizione possibile poiché si tratta di biancheria intima che è stata a contatto diretto con la pelle, e conserva ancora, fra le sue pieghe, il calore umano. In Ana Matos, invece, sono giovinette sofisticate, Sweet girls (2003), che scompaiono come semplici ombre sotto il peso del vestito, autentico corpo di queste eleganti donne. Incidere è anche cucire, dare dei punti con l’ago del bulino o del punzone sulla superficie del corpo. Il vestito come superficie dell’identità, tanto che il torso nudo di questa stampa del 2003 è fatto di tele, panneggi, pieghe dei tessuti che hanno preso il posto dei muscoli e delle ossa. Predominio assoluto del vestito e delle sue pieghe in una gorgiera di pizzo (2005), senza alcun corpo da avvolgere, ispirata ai quadri del Museo del Prado, in cui, ci dice Blanca Muñoz, «l’idea generale di fluttuazione è molto presente». Una gorgiera che, in realtà, sembra piuttosto una ghigliottina tagliatrice di teste. Ogni testa, in effetti, reprime il teschio dal crudele sorriso che abita in noi. In certe occasioni riesce a rendersi visibile, mostrandosi in trasparenza attraverso la pelle, come nelle Cabezas que se besan (2003) di Ana Matos, che si baciano storcendo le labbra in una smorfia ironica. Un teschio ride sempre. Una risata che nemmeno capovolta nasconde il ghigno di sfida, come nell’incisione, omaggio all’incisore Philip Galle, di David Arteagoitia; la morte insidiosa, in agguato ovunque, in un banchetto, di Miguel Conde o nascosta sotto la scacchiera su cui si gioca il destino umano nell’incisione di Oscar Estruga, del 1999; la morte, ancora e di sicuro, nell’arena, in quel circo di sabbia che le giravolte, i movimenti, le figure del torero trasformano in un labirinto. Un’affinità che Alechinsky, nell’acquaforte Tauromachie (1981), ama sottolineare quando traccia cerchi concentrici attorno al toro e al torero, novelli minotauri, circondati da teschi che rappresentano la morte annunciata, sicura, di uno dei due. 14 M. Perniola, Entre vestido y desnudo, in M. Feher, R. Nadaff, N. Tazi (coord.), Fragmentos para una historia del cuerpo humano, Madrid, Taurus, 1991, vol. II, p. 253.


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1. Giambattista Tiepolo, La morte dà udienza, edizione del 1785, acquaforte. 2. Francisco Goya, Disparate de Miedo, 1815-1824, acquaforte, acquatinta a maniera nera e puntasecca.


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3. Carlos González Villar, Sin título, 2001, acquaforte, acquatinta e vernice molle. 4. Antoni Tàpies, Manos y cruz, 1975, acquaforte a colori. 5. Pedro Adolfo Pérez, Sin título, s.d., acquatinta e vernice molle. 6. Sergio Ramos Pecharromán, Sin título, 1999, xilografia, Gabinete de estampas de la Facultad de Bellas Artes de Madrid. 7. Ana Matos, Vestidos mínimos, 2000, tela impressa e cucita.

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VI.

Lo specchio della tauromachia Come ultima metafora di questo elogio dell’incisione non potevo non soffermarmi sulla corrida come specchio di mercurio torbido per l’artista. Il bulino come spada? Senza dubbio. L’incisore deve saper maneggiare il bulino come questi spadaccini fanno con il fioretto, disegnando con precisione sul pavimento la geometria dei loro movimenti. Lo dimostra il trattato di Thibault, Académie de l’Espée (1628), ispirato, com’egli stesso riconosce, alle teorie di Carranza, autore di un trattato di scherma dal significativo titolo di La verdadera destreza (1569). Di sicuro ci vuole destrezza per fare lo spadaccino o l’incisore e, naturalmente, per essere torero, se non si vuole morire nell’arena. Per avere la destrezza necessaria, il torero si aiuta con capote e stocco, sciorinando il suo repertorio di figure (suertes) che, come dice il poeta José Bergamín,15 non sono molto numerose: con il capote, il drappo più grande, la verónica, la figura per eccellenza; con la muleta, più piccola, il pase, o incrocio con il toro, “al naturale”, aprendo il braccio; e poi, con la destra o la sinistra, e con l’aiuto della spada, il pase de pecho, effettuato movendo il braccio in senso contrario, e cioè a chiudere contro il petto, appunto. Tutto il resto – dice sempre il poeta – sono abbellimenti, virtuosismi, ricercatezze, recortes y galleos, figure ornamentali che sfociano nella stoccata finale, o suerte de matar, il gesto ultimo, definitivo. Risulta interessante che Soledad Sevilla parta proprio da questa figura, la verónica, per un suo dittico in cui associa il gesto del torero alla storia di Ippomene e Atalanta, tela conservata al Museo del Prado: una stessa macchia rossa collega i personaggi mitologici con il gesto del matador ne La Verónica (2006, litografia, fotoincisione e stampa a secco luminata a mano). La tela che avvolge il corpo nudo dell’eroe mitologico e quella del capote del torero hanno un’equivalenza, come pure le figure del toro e di Atalanta. Ippomene, con l’aiuto di Venere, lancia in corsa delle mele d’oro, e in questo modo riesce a vincere. Anche il torero con la sua intelligenza e avvalendosi di un drappo riesce a sovvertire la logica della situazione, sconfiggendo la forza bruta ed evitando la morte.16

Ma quello che davvero interessa Soledad Sevilla sono le pieghe, la forma affascinante dello schermo con cui il torero si protegge: Del capote colpisce la precisione con cui viene ripiegato. Nel corso del suo duello con il toro, ogni volta che il matador ne avrà bisogno, capote e muleta gli arriveranno, disposti e piegati con precisione insistente. Il rito lo vuole. Dopo la sfilata iniziale dei toreri (paseíllo), la presenza del capote si moltiplica, e questa presenza perturbatrice, tranquillizzante, trepidante, ipnotica o protettrice, difenderà il torero fino alla fine.17

È il capote, con cui il torero disegna nell’aria, che contribuisce maggiormente alla coreografia della corrida, a far sì che la tauromachia assomigli a un ballo. Un ballo

Cfr. J. Bergamin, La claridad del toreo, Madrid, Turner, 1994, p. 42. Soledad Sevilla, [Catálogo de la exposición], Madrid, Galería Soledad Lorenzo, 1991, s.n.p. 17 Ibid. 15

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in cui l’irruenza del toro contrasta con l’apparente staticità, quasi rigidità, del torero. Continua Bergamín: l’arte del torero, il toreo, è cosa assai poco ragionevole eppure apparentemente razionale. In tutto: nella disposizione e nell’ordine, nei suoi fini e nel suo principio, nella sua esecuzione e nel suo esercizio.18

La razionalità di questo gioco è tale che il torero potrebbe esercitarlo con esattezza e sicurezza matematiche. Basti pensare che i toreri ripetono millanta volte le stesse mosse, gli stessi gesti, fin dal XVIII secolo, come confermano queste incisioni tratte dal Tratado de tauromaquía di Pepe Hillo (1796). Immagini descrittive che vogliono solo raffigurare con chiarezza quasi didascalica le diverse figure o suertes della tauromachia. Anche in Goya, per esempio, El diestrísimo estudiante de Falces, embozado burla al toro con sus quiebros (1814-1816, acquaforte, acquatinta e puntasecca), la Desgracias acaecidas en el tendido de la plaza de Madrid y muerte del alcalde de Torrejón (acquaforte a maniera nera, puntasecca e bulino). Ma che cos’è il toreo per Goya, per Picasso e per tanti altri artisti che si sono avvicinati al mondo ritualizzato della tauromachia? Senz’ombra di dubbio, un buio per vedere meglio, una notte che permette, paradossalmente, di vederci più chiaro. Come dice Bergamín, con la sua vis tipicamente “torera”, i detrattori della corrida, sentimentali e moralisti, non capiscono il senso della fiesta perché non ci vedono bene. Perché non vogliono guardare chiaramente, nemmeno dal loro stesso punto di vista. Potremmo dire, senza offesa, che la vedono con gli occhi del toro: confusamente, frastornati dal turbinio luminoso dell’illusione che spegne in loro il pensiero e, con esso, la chiarezza, la limpidezza dell’immagine osservata. Si offuscano, proprio come il toro, per un istinto cieco, impetuoso e mortale.19 VII. Occhio intossicato per vederci meglio, per vederci chiaro

La pietra, la lastra o il blocchetto di legno sono già attraversati da linee e macchie prima che l’artista affronti l’opera d’arte. Linee velenose, righe avvelenate che gli s’introducono a poco a poco negli occhi, come afferma Ricardo Baroja: Gli occhi di Albrecht Dürer, di Rembrandt o di Goya si specchiarono sulla superficie azzurra e iridescente dell’acquaforte, e a volte, quando mi inclino sulla vaschetta trattenendo il respiro, quasi strozzato dall’acre vapore rutilante che da essa esala, mi sembra di intravedere nel fondo notturno del liquido i sacri profili dei geni del passato.20

Ho iniziato il mio intervento con un elogio della mano; vorrei concludere ora con un elogio dell’“occhio intossicato”, lo stesso che si vede riflesso nello J. Bergamín, La claridad del toreo, cit., p. 18. Ivi, p. 69. 20 R. Baroja, Cómo se graba un aguafuerte, in Europa (1910), citato in Gabinete de Grabados, Departamento de Dibujo I (Dibujo, Grabado), Catálogo II, Madrid, Facultad de Bellas Artes, Universidad Complutense, 1981, p. 47. 18

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Un’arte incisoria chiamata – a nostro giudizio e a quello di un movimento culturale come quello dell’Associazione degli Incisori Veneti nel cui ambito, da oltre un sessantennio, è venuto svolgendosi il nostro maggiore impegno culturale nella capacità di acute e severe verifiche nell’indagine, nella profonda umanità del proprio messaggio – allo svolgimento di una battaglia culturale di profondo rinnovamento, quale quello che è venuto caratterizzando, appunto, l’Associazione degli Incisori Veneti e quanti sono maggiormente impegnati in tale processo di sensibilizzazione culturale, a offrire e garantire la disponibilità e l’utilizzo della capacità operativa di una disciplina in grado di avviare e introdurre, quanti consapevolmente impegnati in un tentativo di analisi di una determinata realtà circostante, nella prospettiva, non di un facile, rapido, iter esplorativo di spazi non turbati da gravi, minacciosi accadimenti, bensì, al contrario, di un’ardua, difficile fatica, di un duro, aspro sforzo di risanamento, di pulizia di un tale contesto ambientale. Affrontabile, oggi, soltanto, nella piena presa di coscienza delle attuali storiche condizioni portate a contrassegnare la realtà di un contesto ambientale quale quello proprio di un Paese come l’Italia, ma, con alcune varianti la globalità dell’intera comunità internazionale, sul piano della drammaticità di una generale, insanabile crisi non soltanto economico-finanziaria, ma soprattutto coinvolgente l’intero complesso delle strutture culturali e politiche, etiche e morali portanti della società. Affrontabile soltanto ed esclusivamente se profondamente persuasi e convinti della necessità vitale del ritrovamento e del recupero del personaggio umano, dell’individuo, nel pieno riconoscimento dei propri più vitali interessi, e delle proprie irrinunciabili esigenze di libertà, di emancipazione e di riscatto da secolari, umilianti condizioni di asservimento.


saggi e studi



Intarsi e tarsie della chiesa di Santa Maria Assunta dei Gesuiti a Venezia

Marco Tosa

Gli apparati ornamentali lapidei all’interno della chiesa di Santa Maria Assunta dei Gesuiti ci stupiscono per la loro esuberanza ornamentale e il loro fasto. Tralasciando ogni giudizio di carattere estetico, questo imponente impianto decorativo si pone oggi, agli occhi dell’osservatore in grado di riconoscerlo, come manufatto complesso, variamente articolato nelle possibilità espressive delle tecniche che utilizza, fonte di sorpresa per l’occhio moderno, disabituato alla pratica della lavorazione minuziosa, dettagliata e paziente. In questo caso, alle pietre di varia natura geologica, è stato affidato il compito di ridisegnare i tessuti settecenteschi, fermandone attraverso i secoli i motivi decorativi originariamente costruiti con fragili filati serici, qui definitivamente storicizzati, affidandoli alla fermezza di una materia, che, per eccellenza, da sempre è stata associata all’idea d’immutabilità. Descrizione decori La decorazione lapidea in breccia verde antico e marmo bianco che ripropone motivi tessili settecenteschi si estende lungo le paraste della navata centrale e nel transetto, inserita tra i pilastri di pietra d’Istria lavorati a martellina, comprendendo le colonne e la zona absidale dove si erge il grandioso e composito altare maggiore con il tabernacolo di marmo bianco e lapislazzuli, sormontato dalle sculture raffiguranti il Padre Eterno e il Salvatore seduti sul globo in marmo bianco statuario, ad opera di Giuseppe Torretti, il cui baldacchino è sorretto da dieci colonne tortili rivestite di scaglie di breccia verde, mentre i gradini sono ricoperti dallo spettacolare “finto tappeto” realizzato a commesso in breccia verde e breccia gialla. Altare e tappeto sono stati attribuiti a Padre Giuseppe Pozzo (Carmelitano Scalzo), a proposito del quale così riferisce Pietro Selvatico in Sulla architettura e sulla scultura in Venezia dal Medio Evo sino ai giorni nostri: I.


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marco tosa

Fratello del più famoso P. Andrea, insigne Gesuita [...] egli pittore storico, egli prospettivo famoso, egli architetto: ed in ogni ramo, quanto abile per abbondandosa feracità d’ingegno, altrettanto sfrenato. Il fratello suo, da lui forse imparò quella che allor chiamavonsi architettura, e se nol raggiunse nella feconda varietà delle composizioni, lo emulò, e quasi oserei dire, talvolta lo superò nell’errore. Codesto provano ad evidenza le due grandiose opere da lui lasciate in Venezia una della chiesa del suo Ordine, l’altra in quella dei Gesuiti;1

e, a proposito delle «rampogne del Savio Visentini», che si meritò Padre Giuseppe Pozzo, il Selvatico prosegue: E se l’ebbe anche per le colonne spirali ch’egli in numero di dieci collocò nel magnifico altare della chiesa dei Gesuiti; congerie di tutti quanti sono i contrassensi d’architettura; ma per altro eseguito con sì bella scelta di marmi, e con linea tanto agile immaginato, specialmente nella parte inferiore, che non si può rattenersi di guardarlo con qualche allettamento.2

Sulla parete sinistra della navata è collocato il fastoso pulpito, vero gioiello rappresentativo di quel gusto per il materiale prezioso e dell’abilità tecnica nella lavorazione di tali pietre, che contraddistinse i “cantieri Manin” di Domenico Rossi. In questo caso specifico, i duri materiali cristallini sono stati adattati per mezzo del virtuosismo esecutivo alle bizzarrie del gonfio panneggio, al serico peso delle pregevoli stoffe operate che imitano fedelmente. Pulpito e intarsi delle pareti sono attribuiti all’opera dell’architetto Domenico Rossi che nacque nel 1657 a Marcote sul lago di Lugano. La parentela con Giuseppe Sarti lo introdusse nell’ambiente dell’architettura. Rossi fu considerato sempre un uomo “senza lettere” ma molto esperto del “meccanismo” degli edifici. Lavorò per tutto il periodo giovanile a fianco dello zio e ad altre figure importanti, come ad esempio il Longhena e il Tremignon. La vicinanza con questi artisti lo portò ad una notevole maturazione artistica e specialmente ad arrivare alle giuste conoscenze e committenza; si introdusse nell’ambiente del patriziato veneto diventando uno tra gli architetti più richiesti dalle famiglie nobili. Ottenne importanti lavori tra il 1708 e il 1719 a Udine nel Palazzo Vescovile e nella Biblioteca dell’Arcivescovado. Lavorò a Venezia verso il 1705 alla ricostruzione della chiesa di San Girolamo, ora decaduta, e, soprattutto su richiesta della famiglia Manin, a Santa Maria Assunta dei Gesuiti. Le cappelle laterali che ospitano importanti altari ricchi di pietre pregevoli quali brecce variamente colorate, marmi statuari e bardigli, lumachelle orientali, alabastro, rivestite sulle pareti interne con motivi ornamentali dai colori analoghi rispetto alle paraste della navata, sono state invece decorate con la tecnica meno 1 P. Selvatico, Sulla architettura e sulla scultura in Venezia dal Medio Evo sino ai nostri giorni: Studi di Pietro Selvatico per servire di Guida estetica: Con settanta vignette in legno ed una tavola in rame, Venezia, Coi Tipi dell’I.R. Privil. Stabilimento Nazionale dell’editore Paolo Ripamonti Carpano, mdcccxlvii, p. 431. 2 Ivi, pp. 432-433.


Intarsi e tarsie della chiesa di santa maria assunta dei gesuiti

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dispendiosa, ma dal medesimo effetto, del marmorino, all’insegna de L’apparente magnificenza ed il tangibile inganno.3 I loro pavimenti mostrano differenti tipologie di opus sectile a piccolo, medio modulo quadrato, ad intreccio, prospettico, scacchiera in rosso di Verona, marmo nero, marmo Bardiglio, grigio di Roverè, Istria, con a volte inserite lastre tombali e iscrizioni. Il pavimento della navata e del transetto riprende i due colori base delle pareti, sostituendo al marmo bianco la pietra d’Istria, seguendo un impianto decorativo geometrico derivato da modelli a schemi quadrati in opus sectile detti “listellati” del I secolo d.C., tipici della romanità.4 Si differenzia l’impianto ornamentale, per maggior complessità, nel recinto entro la balaustra dell’altare maggiore: qui, oltre al già citato tappeto che accuratamente “ripiegato” copre tutti i gradini dell’altare, estendendosi oltre sul piano di calpestio, si osserva un decoro più fine, sempre eseguito ad intarsio, ma impiegando lastre di marmo bianco, nelle quali il disegno in verde antico si articola in fantasiosi motivi ad intreccio multiplo, racemi, fiori stilizzati con quattro petali lobati e grandi medaglioni poligonali. Le lastre, di varie dimensioni e forme, sono impiegate per comporre lo schema decorativo assumendo le diverse valenze di medaglioni centrati, fasce ornate e cornici, dove sono osservabili anche frammenti di porfido, serpentino verde, tondi di breccia verde d’Egitto (Lapis hecatontalithos). II.

Tessuti: storia, simboli, scuole L’uso di decorare le pareti e colonne delle chiese con tessuti di pregio risale ai tempi pre-carolingi, quando si adoperavano tappezzerie riccamente ornate e “veli” posti tra le colonne del baldacchino e dell’altare maggiore. I disegni di tali tessili dovevano essere grandi, chiaramente visibili, contrastati nelle linee e nei colori, possibilmente corrispondenti allo stile della chiesa. I colori dei parati e dei tappeti – usati questi ultimi per adornare la predella dell’altare maggiore, del trono vescovile e il pavimento del coro – in ogni caso dovevano essere forti ed efficaci, ma non chiassosi, la materia con la quale erano realizzati solida e decorosa. Simbologie e significati sempre più radicati si associarono ai disegni dei tessuti ornamentali attraverso le varie epoche, così come ai loro colori: il bianco rappresentava la purezza, il rosso la carità, il verde la vita di orazione. Durante i secoli XVII e XVIII Venezia era una delle città con fiorente produzione tessile, specializzata nei tessuti di seta e velluti operati, caratterizzati da una vivace fantasia nell’invenzione dei motivi floreali che raggiunsero grandi dimen-

Cfr. l’omonimo saggio di F. Amendolagine, L’apparente magnificenza e il tangibile inganno: L’apparato decorativo della chiesa dei Gesuiti in Venezia, in L’architettura della Compagnia di Gesù in Italia: XVI-XVIII sec., Atti del convegno (Milano, Centro Culturale San Fedele, 24-27 ottobre 1990), a cura di L. Patetta e S. Della Torre, Genova, Marietti, 1992, pp. 217-222. 4 Si veda F. Guidobaldi, A. Guiglia Guidobaldi, Pavimenti marmorei di Roma dal IV al IX secolo, Città del Vaticano, Pontificio Istituto di archeologia cristiana, 1983. 3


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Intarsi e tarsie della chiesa di santa maria assunta dei gesuiti

Il Pulpito di marmo bianco e breccia verde attribuito a Domenico Rossi. Altare Maggiore e baldacchino con colonne tortili, opere di Giuseppe Torretti e padre Giuseppe Pozzo. Veduta d’assieme della navata. Il tabernacolo eseguito in marmo bianco e lapislazzuli. Altare Maggiore, veduta del “Tappeto” realizzato in breccia verde e gialla e del decoro pavimentale.

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Dettaglio dell’intarsio lapideo in breccia verde su lastra madre in marmo bianco. Particolare della foglia cuoriforme del Cappero. Dettaglio di una colonnina della balaustra del secondo altare a destra: a causa del degrado e del distacco delle lastrine di breccia verde, si possono osservare residui di “maltina” dal tipico colore giallastro e l’incavo realizzato per l’alloggiamento delle scaglie di verde. Piccola formella in marmo bianco scolpita a bassorilievo che ricorda la chiesa come sede della Scuola dei tessitori di seta e dei sarti già dal 1643. Il pavimento della navata e del transetto: impianto decorativo geometrico derivato da modelli romani del I secolo d.C., a schemi quadrati detti “listellati”, realizzato in pietra d’Istria e breccia verde. Dettaglio del pavimento: si notano dopo i recenti restauri le parti andate perdute integrate con pietra verde moderna, ben evidenziate dalle linee di giunzione e dalla finitura nuova della superficie.


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Il decoro lapideo delle paraste a imitazione dei tessuti operati settecenteschi. Uno dei piccoli balconi/pulpito situati ai lati della navata sulle paraste, corrispondenti a camminamenti interni nascosti: è notevole il motivo decorativo ad intreccio di derivazione orientale. Particolare dello straordinario “panneggio” lapideo del pulpito. La facciata di Santa Maria Assunta dei Gesuiti eseguita in pietra d’Istria. (fotografie di Paola Baldari, Venezia)

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Assume quindi particolare interesse in questo ambito geografico e culturale il decoro lapideo interno della chiesa di Santa Maria Assunta dei Gesuiti, che porta in sé le radici delle tradizioni romane, il gusto del collezionismo e dell’eccezionale tecnica fiorentina, uniti insieme alla potenza declamatoria della fede gesuita grazie al denaro di un nobile patrizio avviato sull’ambiziosa strada del Dogado. V.

Realizzazione, taglio, colle, finitura L’esecuzione di intarsi e tarsie si deve a maestranze probabilmente veneziane – sono citati nei libri i soliti e generici “taiapiera” e “fregadori” – mentre sono state avanzate ipotesi sul disegno dei damaschi marmorei, riferendosi a un tale Olivo, stesso nome che compare per disegni molto simili impiegati nei decori della cappella Manin di Udine. Analogie stilistiche, architettoniche e compositive si riscontrano anche nella cappella collegata alla grande villa Manin di Passariano, costruita su progetto dell’architetto Domenico Rossi intorno al 1735. All’interno una superficie marmorea policroma copre il pavimento, si estende sulle paraste, corre lungo la cornice marcapiano ai piedi della cupola, fa da tappeto ai gradini dell’altare maggiore ove troneggia la Madonna con il Bambino, opera di Giuseppe Torretti. Le lastre parietali di marmo bianco monolitiche usate nella chiesa dei Gesuiti hanno uno spessore di circa 4-5 cm, e sono scavate per circa 1 cm in profondità ricavando le sedi per alloggiarvi le crustæ. Vi sono differenti misure nella larghezza: quelle poste sui quattro pilastri che sostengono la cupola sono le più grandi (52,5 cm), mentre le lastre nella navata e delle pareti corrispondenti ai due altari affrontati del transetto, sebbene non misurabili direttamente, appaiono chiaramente più strette; quelle curve, che rivestono le quattro grandi colonne ai lati dell’altare maggiore misurano 50 cm alla base. Sono evidenti e facilmente individuabili a occhio i segni di giunzione fra tutte le lastre. I frammenti litoidi di varia natura inseriti per comporre l’ornato e presenti anche negli altri elementi intarsiati, quali le colonnine delle varie balaustre prospicenti gli altari, variano dai 3 ai 5 mm di spessore. L’intaglio dell’incavo presentava spesso problemi dovuti alla difficoltà di seguire bene il progredire del lavoro durante l’esecuzione. Vasari ne scrive in merito, narrando della vita di Valerio Belli, celebre intagliatore milanese del XVI secolo: «poiché tagliando in incavo, che è proprio un lavorare al buio, da che non serve ad altro la cera che per acchidi a vedere di man mano quello che si fa»,14 riferendosi all’artificio consistente nell’eseguire durante il lavoro continui calchi in cera dell’incavo per vederne man mano il progresso e stabilire come e dove levare con le ruote fino alla conclusione dell’intarsio, affinché la pietra, liberata da supporto di legno, pulita dagli abrasivi e dall’olio, potesse finalmente rivelare le forme ottenute. 14 G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori, con nuove annotazioni e commenti di G. Milanesi, Firenze, Sansoni, 1878, vol. III, p. 28.


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Nel nostro caso, il disegno verde su fondo bianco ha uno sviluppo verticale, imitando la larghezza della pezza tra le due cimosse. I motivi riprodotti sono uguali nelle paraste della navata, nel transetto, sulle colonne e dietro l’altare maggiore, variando di poco nell’espansione del modulo, che risulta a volte allargato o ristretto a seconda delle esigenze imposte dallo spazio a disposizione. Anche alcuni elementi del disegno di base, frutti, infiorescenze, rami, sebbene ricorrenti, sono combinati tra di loro in modo diverso, come si può osservare nel caso delle quattro fasce del transetto. Anche il fregio in alto, sotto il cornicione di pietra d’Istria che corre lungo tutto il perimetro della chiesa, è stato eseguito con la stessa tecnica. Le crustæ di breccia verde non sono state tagliate secondo contorni precisi in ampie campiture, ma appaiono frammentarie nell’aspetto compositivo, assemblate in elementi di differente dimensione, forme e intensità cromatica, certamente per una volontà di risparmio e riduzione dello spreco durante il taglio di tale materiale pregiato. Questo aspetto è molto più evidente nelle colonne ai lati dell’altare maggiore e in quelle tortili del baldacchino, dove si era reso necessario adattare il rivestimento lapideo alla sezione circolare e mossa del fusto, impiegando quindi frammenti ancora più piccoli di verde. Le linee di congiunzione fra tali elementi, dovevano essere invisibili al fine di fornire una visione unitaria, fortemente grafica, dell’intarsio. In questo senso si procedeva utilizzando leganti colorati. Secondo uno studio effettuato dal Centro Regionale di catalogazione e restauro del Beni Culturali del Friuli Venezia Giulia, vi sono analogie tra le “maltine” con cui sono incollate le crustæ di breccia verde al marmo bianco di Udine e quelle di Venezia. Nelle analisi eseguite sui materiali campionati nella cappella di Udine il legante in questione risulta composto da gesso, carbonato di calcio, materiale organico. Tale risultato ha trovato conferma con la tradizione antica, dalle quale si apprende dell’utilizzo di carbone, cera, pegola, gesso polvere di marmo e altro. Probabilmente il carbone era stato usato come tinta per scurire la malta nelle interconnessioni tra i frammenti lapidei. La “pegola” nei ricettari veneti sta a indicare le resine derivate da conifere, dalla colofonia alla trementina, note e molto usate all’epoca in differenti tecniche artistiche. In questo caso il suo impiego è stato come collante, considerate alcune sue caratteristiche quali il buon potere adesivo e la resistenza nel tempo anche in ambiente umido. A causa del diffuso degrado, si può osservare, nei punti in cui le parti di verde sono andate perdute o staccate, uno strato spesso e duro, irregolare, dal colore giallo ocra che riempie lo spazio dell’intarsio, probabile residuo della suddetta “maltina”. Dobbiamo immaginare questi decori finiti a lustro, resi lucenti, oltre che dalla perfetta levigatura delle superfici, anche dalla cera impiegata come lucidante finale. Parte di tale finitura è ancora riconoscibile nei panneggi del pulpito, dove per altro è quasi impossibile identificare a occhio nudo le linee di giunzione tra i vari blocchi massivi di marmo. Qui, a differenza delle paraste, oggi opache e sbiadite, la qualità tecnica dell’intarsio sorprende ancora di più poiché il modulo decorativo del tessuto è fedelmente adattato, senza nessuna approssimazione, alle


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ingresso, «entra in rapporto con le proiezioni [,] ha la sensazione di trovarsi nello spazio con quelle immagini».59 L’ambiente dell’installazione è, infatti, costituito da un corridoio immerso nella semioscurità, stretto tra due pareti di schermi; il visitatore che vi entra, si trova confrontato con pannelli luminescenti, da cui emergono figure ai “limiti della visibilità” che, in virtù della mancanza di cornici a delimitarle, paiono effimeri fantasmi di luce, come creature del regno dell’Ade. L’ascendenza sonora di tali immagini-luce è data, in primo luogo, dal genere tutto particolare del loro comportamento: vere e proprie imagines agentes, esse emergono lentamente dal “grado zero” di visibilità iniziale, sino a giganteggiare davanti al visitatore, nell’atteggiamento di rivolgersi a questi, prima di rifluire, come un suono avvertito a folate, nello stato di indistinzione iniziale. L’immagine-luce delle figure rivela la sua ascendenza sonora, proprio in questo andirivieni, in questa analogia con il processo di visualizzazione di un sonar, che scandaglia la batosfera e riemerge ciclico. La vicinanza con l’ambito sonoro non ha, con questo, ancora raggiunto il suo apice. Le figure-luce par che parlino. Immerso in tale visione ravvicinata, il visitatore è coinvolto attivamente in un processo di completamento interiore di queste immagini scorrette, brusenti, alla cui vicinanza egli percepisce sonorità mai abbastanza estranee dal linguaggio per non essere degne di ascolto, eppur arrestantesi sulla soglia del senso. “È semplicemente l’idea di uno che viene verso di te e ti chiede ‘Chi sei?’, in qualche modo rispecchiandoti e al tempo stesso illuminando lo spazio che rende possibile a quella domanda di sorgere»,60 scrive Hill nel presentare il proprio lavoro. Massima intimità e massima distanza, come abbiamo visto; ascolto che non chiede la riproposizione di «luoghi di parola»,61 come li definisce Barthes, già usati: quelli arroganti del superiore o quelli servili dell’inferiore. La presa di distanza dal ruolo interessa così da vicino il fruitore, che l’attenzione fluttuante va alla grana della voce, al corpo del linguaggio, come forze che attivano nel visitatore un’immagine interiore, un ritorno dell’antico, una passione e un affetto per quanto non più presenti, eppure, non sono ancora andati via.

Ivi, p. 34. G. Hill, Inter-View, cit., p. 128. 61 R. Barthes, Ascolto, cit., p. 989. 59

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Concetti grafici e questioni multiple tra i linguaggi tradizionali e digitali della grafica d’arte Il titolo della mostra di grafica contemporanea, Multiple Matters: Graphische Konzepte, che si è svolta al Künstlerhaus, la Casa degli Artisti di Vienna, nel maggio e nel giugno del 2010, ha sottoposto lo stato di questo particolare linguaggio dell’arte alla disanima degli artisti, della critica e della scuola con particolare ricchezza di posizioni.1 La qualità delle opere grafiche esposte suscita infatti argomenti multipli, che da tempo si presentano di fronte a collezioni o mostre in cui i linguaggi attuali della grafica, quelli tradizionali come la calcografia, la xilografia o la serigrafia e quelli tecnologici come le stampe digitali, vengono posti l’uno accanto all’altro. L’avvento dei nuovi strumenti di produzione delle immagini ha modificato infatti sensibilmente l’atteggiamento degli artisti e del pubblico di fronte alla grafica d’arte, contraddistinta cioè da un’intenzione diversa da quella della grafica d’uso di tipo funzionale: la produzione e la ricezione di questi strumenti hanno sottoposto la grafica d’arte stessa a trasformazioni radicali. Si tratta quindi di comprenderne la natura, individuandone le relazioni con le altre forme dell’esperienza estetica contemporanea. Attraverso l’analisi di tali relazioni è possibile sottrarre la grafica d’arte dall’isolamento nella sua specificità o al contrario dalla sua dissoluzione nel mare indistinto della civiltà dell’immagine. Nel quadro di una partnership con la Triennale polacca di grafica di Cracovia e con il Museo Horst Jansen a Oldenburg in Germania, la Künstlerhaus viennese ha presentato 150 opere di artisti internazionali, realizzate con le tecniche tradizionali e digitali.2 Le due grandi aree dell’esperienza grafica contemporanea, poste a ridosso l’una dell’altra, impongono ancora una volta a curatori e critici di fondare

1 Multiple matters: Graphische Konzepte, catalogo della mostra (Wien, Künstlerhaus, 7 maggio 13 giugno 2010), a cura di G. Lebzelter e J. Pérez Gil, Wien, Künstlerhaus, 2010. 2 La collaborazione, condotta dal 2006 nell’ambito di un programma europeo, realizza una piattaforma internazionale di discussione e di sostegno della grafica attraverso mostre, premi e convegni.


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i criteri di legittimazioni per i quali la grafica digitale sia da considerarsi pienamente una forma d’arte al pari della calcografia o della xilografia e se queste siano da considerarsi forme d’arte attuali o non siano invece obsolete, al pari, ad esempio, della pittura ad affresco. Venute meno le condizioni materiali e culturali in cui questi linguaggi sono nati e si sono sviluppati, parimenti sembrerebbe cessare la loro capacità di rinnovarsi. Tutt’al più spetterebbe loro il ruolo di vestali di procedimenti antichi e preziosi, estranei alle culture della modernità ma metodologicamente necessari nelle scuole d’arte per l’apprendimento di una processualità graduale nella costruzione dell’opera d’arte e per l’esemplarità di un rapporto particolarmente stretto tra tecniche e linguaggio. La preziosità dei risultati, congiunta alla loro antica origine, costituirebbe altresì un motivo di maggiore valutazione della grafica tradizionale da parte di un pubblico sensibile, incline a uno sguardo sull’opera d’arte più lento di quello gettato superficialmente sulla gigantesca produzione contemporanea delle immagini di consumo, e avverso alle forme più contaminate con la produzione grafica di massa garantita dal computer. La questione della sopravvivenza della grafica d’arte tradizionale e del suo plusvalore nei confronti dell’attuale produzione digitale potrebbe considerarsi semplicemente indegna di rilievo, perché tutti i linguaggi storici delle arti visive occidentali sono stati sottoposti a un analogo processo di obsolescenza accelerata con l’avvento della rivoluzione industriale. La scultura ha subìto la scomparsa della sua committenza tradizionale, senza la quale la sua fondamentale ragione storica, cioè quella monumentale, non ha potuto più manifestarsi con la forza creativa delle epoche anteriori al XIX secolo. Dopo l’avvento della fotografia, anche la pittura è stata scossa fino alle sue fondamenta e ha dovuto affrontare una revisione critica delle sue finalità simile a quella che investe ora la cosiddetta grafica d’arte, ricercando perciò durante il XX secolo la strada dell’autonomia dalla riproduzione del dato reale o sensibile, per affrancarsi dalla competizione con il nuovo e dirompente linguaggio. A sua volta la fotografia per lungo tempo non era stata considerata alla stregua delle altre arti proprio in ragione dei suoi procedimenti meccanici e chimici, secondo parametri di giudizio analoghi a quelli cui sarebbe stata sottoposta la grafica digitale nella seconda metà Novecento, in cui il lavoro del tipografo, dell’incisore e dello stampatore è stato sostituito per la gran parte dai programmi del computer. La compatibilità estetica della fotografia è stata infatti messa in dubbio quanto quella della grafica digitale, ma nel corso del XX secolo ha raggiunto finalmente uno statuto di autonomia, affermando la sua indipendenza dalla funzione documentaria e oggi contende alla pittura il ruolo di costruttore di forme immaginarie e originali. Attraverso l’uso di strumenti elettronici, che consentono anche la costruzione di opere di natura completamente artificiale e svincolate da ogni dato sensibile, gli artisti intervengono spesso sull’immagine fotografica in un modo che, paradossalmente, si può definire quasi pittorico, cioè con il collage elettronico e con l’alterazione cromatica. Viceversa la grande pittura della fine del XX secolo ha criticamente assunto in sé lo spirito della fotografia, raggiungendo in questo modo risultati straordinari, da Warhol a Richter. Il dialogo tra pittura e


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fotografia è oggi considerato un elemento vitale per entrambe le forme d’arte e concorre a modificare in modo dinamico e costruttivo le reciproche frontiere. Anche nel dibattito in corso tra gli artisti e nelle scuole d’arte sulla distinzione tra grafiche tradizionali e digitali iniziano a delinearsi con maggior forza teorica gli argomenti a favore di una sostanziale e proficua analogia linguistica. Il curatore della mostra viennese, Georg Lebzelter, individua un elemento costitutivo, che rivela un metodo di lavoro comune, pur condotto con diversi strumenti: [...] tutti i mezzi grafici, dalla xilografia alla stampa digitale, sono riconducibili allo stesso principio fondamentale: essi utilizzano la differenza tra due valori, tra superficie marcata e quella risparmiata per creare i loro prodotti [...] il computer, il mezzo più recente per la produzione delle forme, funziona ora secondo lo stesso codice binario, usando in questo caso la differenza tra il passaggio o l’arresto della corrente elettrica per definire l’immagine.3

Questa analogia, di per sé ancora insufficiente a superare i confini tra grafica tradizionale e grafica digitale, si sostanzia di un ulteriore carattere comune di maggior peso specifico: la capacità di entrambi i linguaggi di contenere in sé una memoria della forma, sia nei diversi stadi dell’opera calcografica che nella processualità delle operazioni prodotte con il computer. È possibile cioè registrare le successive modifiche dell’opera e conservarne la memoria materiale o elettronica, anche per intervenire successivamente, rispettando limiti più definiti nelle forme tradizionali e in modo più esteso, come un work in progress, con i programmi del computer, in cui la reversibilità delle immagini è potenzialmente molto più alta. Questa memoria della forma comporta un’operatività specifica, comune a tutte le forme grafiche, che valorizza la componente della sperimentazione e della ricerca e che differisce sostanzialmente tanto dalla logica dell’opera come progetto quanto dalla produzione di un oggetto esteticamente definito. Il confronto tra tecniche tradizionali e digitali si attesta sull’affermazione della sostanziale identità tra i due media non solo da punto di vista della loro genesi e della loro specificità, bensì anche nella prospettiva dei loro fini e del significato che esse assumono nel grande laboratorio dell’immagine. Lebzelter puntualizza con chiarezza anche il secondo argomento: Fin dall’inizio la grafica era un medium per la diffusione delle idee, rompeva il monopolio statale e religioso, rendeva possibile l’accesso privato all’informazione e perciò alle nuove forme di pensiero [...]. Parallelamente a questo aspetto politico, insito nella grafica fin dai suoi primordi, attraverso l’introduzione di nuovi procedimenti le tecniche modificano le potenzialità della forma e quindi agiscono anche da elemento trasformatore sul disegno, sulla pittura, più tardi sulla fotografia e oggi sulle immagini generate dagli algoritmi del computer.4

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Multiple matters..., cit., pp. 16-17. Ivi, p. 13.


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Patricia Schneider (CH), Spazio intermedio, 2009, acquatinta e stampa digitale, cm 50 × 50. Ross Racine (USA), Giorni e ore dei giardini di Brookdale, 2007, stampa digitale, cm 60 × 80. Alicia Candiani (AR), Continenti: tessitura, 2008, xilografia e stampa digitale, cm 80 × 120.


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teri in neon corrispondeva al diverso rapporto di scala con il perimetro delle vetrate stesse. La seconda versione del lavoro (Maßstab 1:1-1:4, 1994-2007) è invece costituita da elementi a L, di lunghezza variabile, che stanno in rapporto di scala con i lati, orizzontale e verticale, della parete dello spazio in cui viene di volta in volta riproposto il lavoro. Anche in questo caso le cifre luminose dichiarano il rapporto fra le misure degli elementi al neon e le misure dei lati della parete a cui si relazionano. In questa seconda versione si tratta di fatto di un intervento site specific che di volta in volta viene ricalcolato e riposizionato. Maßstab è un lavoro che si potrebbe ascrivere al genere delle dichiarazioni tautologiche, mettendo letteralmente in luce, senza possibili “resti” interpretativi (così come le procedure di Lichtgeschwindigkeit Sek/M) le intenzioni dell’artista. Ma è proprio questa completa aderenza fra intenzione, soluzione formale e spazio specifico, che costituisce l’aspetto problematico e per niente ovvio del lavoro. Perché si basa sull’accentuazione (solo apparentemente tautologica) che viene posta sul rapporto (fig. 2) fra il segno artistico e il contesto in cui quel segno viene articolato. Ogni volta che si interviene in una condizione data, la questione di fondo, che la Kowanz mette preliminarmente e metodologicamente in chiaro, riguarda il nesso di necessità, cioè la ricerca dell’aderenza, fra la propria operatività e un determinato contesto. Dichiarando che proprio di un rapporto si tratta, e di un rapporto che non può essere semplicemente lasciato all’arbitrio della libertà artistica, pena la perdita dell’aderenza, va contemporaneamente esplicitato il criterio operativo in grado di ancorare quel fare e quel gesto a una specifica situazione. Cioè l’artista opera evidenziando il problema relazionale fra il proprio fare e il contesto, rivelando che si tratta sempre di una questione di scala, di misura, di rapporti che entrano in gioco: cioè in generale di una questione di metrica. Si riconsideri ad esempio il primo rapporto (1:1) che apre la serie nell’installazione di Innsbruck: se la prima cifra del rapporto indica la condizione data, il contesto determinato e, in generale, lo spazio progettato dall’architetto, la seconda cifra, apparentemente identica alla prima, indica invece la particolarità dell’intervento dell’artista, quale unità di misura adotti per operare aprendo una nuova relazione con il contesto e con lo spazio rispetto a quanto previsto dall’architetto. Nella sua disadorna semplicità il lavoro rappresenta bene la metodologia operativa della Kowanz: aderire alle condizioni date, sottolinearne gli elementi costitutivi trasformandoli da opachi in luminosi. Il lavoro di Innsbruck era ben visibile solo di notte, cioè quando un’altra misura delle cose, rispetto al loro consueto aspetto diurno, può pienamente emergere e apparire. La questione della sottolineatura del perimetro di una superficie per risaltarne il bordo altrimenti invisibile, viene riproposta anni dopo nell’installazione alla Landesmusikschule di Windischgarten (fig. 1). In questo caso non si tratta solo di esaltare la forma bidimensionale nascosta quanto di evidenziare un volume possibile compreso fra due sottolineature perimetriche, costituite da linee/lesene di neon giallo, che contornano lo spazio vuoto compreso fra due corpi architettonici generanti un’ampia terrazza. Evidenziare, sottolineare: in fondo non si tratta che di seguire gli orli del costruito, e illuminarne quei limiti in grado di generare una forma ancora, senza aggiungere un solo centimetro cubo di materiale edile.


fra opera e contesto in brigitte kowanz

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Dispositivi di evidenza Il lavoro all’Architekturforum richiama di fatto una rilevante serie di interventi dell’artista su elementi architettonici che per antonomasia svolgono la funzione di mettere in relazione spazio interno e spazio esterno. Si tratta delle superfici vetrate nella loro diversa tipologia, funzione e collocazione: da quella usuale di elementi al piano terra alla grande parete trasparente completamente integrata nell’edificio. Per Brigitte Kowanz la possibilità di intervenire sul costruito riguarda essenzialmente ambiti ed elementi che abbiano una vocazione pubblica, che definiscano uno spazio, e una fruizione, potenzialmente collettivi. In questo senso il suo lavoro rappresenta un contraltare all’opera architettonica, se vista come volumetria “opaca” e che tende a separare gli ambiti di ciò che è privato da ciò che è pubblico. L’edificio architettonico, per la sua stessa ragion d’essere, deve perdere di genericità e specializzarsi sulla base della sua destinazione d’uso e delle richieste della committenza. Il lavoro della Kowanz riporta invece il costruito a una dimensione più ampia, non più limitata dalla sola funzione specifica, ma volta verso una fruizione più genericamente collettiva. Si tratta di un lavoro sul limite e sulla soglia del costruito, cercandone le possibili sporgenze e dilatazioni, anche se queste non sono state esplicitamente concepite dal progetto architettonico. Forse non è fuori luogo affermare che quello della Kowanz sembra essere un lavoro sull’inconscio dell’edificio, aprendolo a una dimensione comunicativa meno vincolata alla funzione originariamente prevista. Vi sono diverse modalità mediante cui questo processo dello sporgere e del dilatare si concretizza. Nelle quattro Virtuelle Vitrinen (1999-2000) del Museo di Kitzbühel, vi è effettivamente un aggetto delle quattro strutture in vetro che esorbitano, ognuna con una propria profondità, dalle cornici delle finestre originarie. Il senso della dilatazione è ulteriormente accentuato dalle variazioni di luminosità delle strutture, luminosità che aumenta o diminuisce, grazie a un dispositivo elettronico che simula il ritmo del respiro umano. Un richiamo alla dimensione organica nella struttura inorganica del costruito, che sembra animarsi e, luminosamente, respirare. Nell’installazione per l’edificio per uffici della meag a Monaco di Baviera le quattro vetrine sono estroflesse, tutte con la medesima profondità, rispetto alla linea di continuità della facciata. Questa volta il ritmo delle sequenze luminose generate dalle quindici barre neon rosse e dalle quindici barre neon gialle in ogni vetrina, non è più dato dalla binarietà del respiro, ma da una complessa sequenza che ricorda una composizione musicale minimalista e seriale, una vera e propria Lichtpartitur (2000-2001). Nella sequenza delle Neonstelen poste a ritmare il cammino pedonale della Jakob Burckhardt Haus di Basel (2002-2004) le sporgenze delle strutture in vetro si sono completamente emancipate dal corpo dell’edificio, fuoriescono da quest’ultimo, diventano volumi trasparenti a sé stanti, pur mantenendo un evidente richiamo formale alle dimensioni delle finestre delle facciate, anche queste ultime dovute a una collaborazione fra architetto e artista che le trasforma in una modulazione luminosa grazie all’utilizzo di un rivestimento ondulato in alluminio. Il ritmo della composizione luminosa delle stele non è più dato dalla relazioiii.


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Riccardo Caldura

1. Volumen (volume), 2004, neon, Landesmusikschule (Scuola Statale di Musica), Windischgarten (Austria Superiore), 2004, architetti: Riepl Reipl Architekten. Il titolo nasconde un lieve gioco di parole, fra l’avverbio tedesco di luogo Wo (dove) e la parola, di evidente derivazione latina, Lumen. Dunque lo si può leggere come Volume, rispetto alla creazione di un corpo luminoso e immateriale, in grado di esplicitare il senso spaziale, il Dove, della Luce (Wo Lumen). Il vuoto architettonico costituito dalla grande terrazza, viene così evidenziato e reso visibile, grazie a linee neon. 2. Maßstab 1:1-1:6 (Scala/unità di misura), 1994-1996, neon, vetro, Architekturforum Tirol, Innsbruck. È un lavoro concettualmente centrale per comprendere la ricerca dell’artista austriaca, basata sul rapporto, la scala, l’unità di misura fra elemento preesistente, nel caso specifico la serie delle vetrine come parte integrante dell’edificio, e la logica dell’intervento.


fra opera e contesto in brigitte kowanz

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appendici



Riassunti Lionello Puppi Un dramma dell’omonimia. L’“altro” Antonio Canova L’enigma del “doppio”: chi è davvero lo scultore Antonio Canova premiato nel 1838 a Venezia? Il Canova minore, figlio di un “calciner”, sembra seguire il destino che il proprio nome – mai caso più adatto per affermare nomen omen – gli imponeva, forse anche per uno strano gioco dei genitori che, al contrario di tutti gli altri figli destinati alle attività meccaniche, lo iniziarono all’istruzione liberale. Scherzo del destino, o dell’anagrafe, che, nonostante le capacità riconosciute dello scultore, gli inflisse – probabilmente per debolezza di carattere – un dramma esistenziale che lo condusse casualmente alla morte a Follina nel 1873. Gianfranco Quaresimin Le ragioni del convegno Introduzione dell’argomento, trattato dal convegno, diviso nelle sue due parti: dell’onorificenza ad un personaggio di riconosciuto valore operante in contatto con l’istituzione accademica e della testimonianza, da parte dei convegnisti, relativamente alle problematiche del linguaggio incisorio riguardo alla contemporaneità e alla didattica artistica. Francesco Franco Per Giorgio Osservazioni di un collega, incisore e amico personale, riferite alla lunga militanza all’interno dell’Associazione Incisori Veneti, diretta da Giorgio Trentin, dall’immediato dopoguerra ai giorni nostri, sotto il segno di una partecipata ed affettuosa ricostruzione di un clima e di una storia di difesa e di garanzia dell’attualità e dell’importanza di un linguaggio, come quello dell’incisione, spesso oggetto di annose controversie.


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Franco Fanelli Attualità dell’incisione nell’arte e nella didattica artistica contemporanea Dal prestigioso osservatorio della redazione del «Giornale dell’Arte», lo studioso e incisore torinese approfondisce un’analisi (ritenuta doverosamente necessaria nei riguardi dell’attualità del mercato dell’arte, della ricerca teorica e della responsabilità didattica) delle metodologie operative del linguaggio incisorio (tra difesa dell’operatività manuale, inderogabilità delle nuove sperimentazioni e rapporto con le nuove tecnologie di massa) in un contesto di perdurante pregiudizio nei confronti del prodotto artistico inciso. Massimo Cacciari Discorso per la consegna dell’onorificenza Registrazione del discorso tenuto “a braccio” nell’occasione della consegna della medaglia offerta dall’Accademia al festeggiato dove, unitamente al caloroso saluto, si sottolinea l’importanza decisiva della techné quale inderogabile elemento di formazione pratico-teorica e concetto sinonimico sostitutivo dell’errato dualismo novecentesco di arte e mestiere. Mercedes Replinger Le linee velenose, tossiche dell’incisione Il contributo della studiosa madrilena, paragrafato in sette originali capitoli, si addentra, oltre una prima informazione relativa alla situazione dell’incisione originale nel novero dei linguaggi artistici contemporanei, nelle dinamiche complesse di un linguaggio espressivo implicante, negli autori spagnoli e negli studenti della Universidad Complutense, una partecipazione viva, attuale e insostituibile nel campo della rappresentazione simbolica del mondo d’oggi. Sileno Salvagnini L’incisione moderna all’Accademia di Venezia La Scuola d’Incisione dell’Accademia di Venezia, nata nel Settecento e soppressa nel 1873 come la maggior parte di quelle delle altre accademie italiane, fu riaperta nel 1912 da Emanuele Brugnoli. Per essa sono passati artisti di vaglia come Giovanni Barbisan – che ebbe quali modelli ideali Luigi Bartolini e Giorgio Morandi – Giovanni Giuliani e Cesco Magnolato, Mario Guadagnino, Bortolo Giuseppe Fantinato, Gianfranco Quaresimin, Onorina Frazzi. Nell’Aula Magna dell’Accademia, inoltre, nacque nel 1954 l’Associazione Incisori Veneti, istituzione veneranda retta fin quasi dalla nascita da Giorgio Trentin. Giorgio Trentin Ringraziamenti Intervento di ringraziamento per la felice scelta con cui si sono impegnati i relatori, connotati, oltre che dalla loro competenza specifica, dall’alto grado di tensione partecipativa; riferendosi “in primis” alle sorti dell’arte incisoria all’interno della situazione artistica e culturale nazionale.


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Marco Tosa Intarsi e tarsie della chiesa di Santa Maria Assunta dei Gesuiti a Venezia Gli apparati ornamentali lapidei all’interno della chiesa di Santa Maria Assunta dei Gesuiti ci stupiscono ancora oggi per la loro esuberanza ornamentale e il loro fasto. Un viaggio, quello che il presente saggio propone, alla scoperta di un patrimonio veneziano poco noto, risultato di tecniche artistiche pensate per sorprendere; messaggio e volontà celebrativa di un potere religioso strettamente vincolato alla committenza. In questo caso, alle rocce di varia natura geologica è stato affidato il compito di ridisegnare i tessuti settecenteschi, fermandone attraverso i secoli i motivi decorativi originariamente costruiti con fragili filati serici, qui definitivamente storicizzati affidandoli alla fermezza di una materia – la pietra – che, per eccellenza, da sempre è stata associata all’idea d’immutabilità. Franco Tagliapietra Riflessioni su mostre e pubblicazioni in occasione del centenario del Futurismo L’articolo ripercorre la sequenza delle mostre internazionali che, prima e dopo la data del 20 febbraio 2009, hanno inteso festeggiare il centenario della nascita del Futurismo, l’unica avanguardia globale che il nostro Paese abbia saputo esprimere. In Italia e nel mondo si è succeduta, infatti, una serie di mostre che hanno avuto il compito di rileggere il fenomeno artistico dopo decenni di approfondimenti storiografici e critici. Ne sono risultate importanti esposizioni di carattere tematico e filologico, non tutte, purtroppo, all’altezza delle aspettative. Tra le mostre citate ci si sofferma in particolare sulle più complete e ricche di opere e contributi scientifici in catalogo: Le Futurisme à Paris: Une avant-garde explosive che ha anticipato i festeggiamenti italiani, proprio a Parigi, e che è stata riproposta, in una versione assai differente, alle Scuderie del Quirinale a Roma; Illuminazioni: Avanguardie a confronto: Italia Germania Russia, mostra svoltasi al Mart di Rovereto; Futurismo 1909-2009: Velocità+Arte+Azione mostra tenutasi al Palazzo Reale di Milano; Capolavori futuristi della Collezione Guggenheim di Venezia e tante altre. Non mancano cenni all’abbondante e ottima pubblicistica uscita in occasione degli eventi del 2009, così come si esprimono esplicite riserve sulla gestione complessiva, per lo più politica, dell’evento. Un bilancio in chiaroscuro, quello del centenario, che solo in alcune tra le mostre più interessanti citate ha tenuto conto della complessità dell’avvenimento, talvolta risultato, invece, puro pretesto per mostre superficiali e scientificamente non all’altezza. Ivana D’Agostino Simultaneismo di quadri, abiti, set cinematografici e cinegiornali di e con Sonia Delaunay dal 1910 al 1928 Sonia Delaunay contribuisce con la sua eclettica produzione artistica variamente espressa tra pittura, moda, pubblicità, costumi e decori per cinegiornali e il nascente cinema muto, ad incrementare il corpus di artisti che, particolarmente


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attivi tra la fine dell’Ottocento e le Avanguardie storiche, costituiscono il profilo esemplare dell’artista totale. Inserita nell’ambiente culturale ricco di stimoli della Parigi degli inizi del Novecento, allora capitale dell’Arte, insieme al marito Robert Delaunay, Sonia dà vita al Simultaneismo, una particolare declinazione del Cubismo di matrice orfica e futurista, attraverso cui entrambi, a date precocissime, arrivarono alle soglie dell’Astrattismo. Marina Manfredi Lo sguardo dell’artista. Note su Brancusi, Klee, Moore, Sutherland Brancusi, Klee, Moore e Sutherland interrogano la natura con lo sguardo particolare dell’artista che ha la capacità di interiorizzare il dato visivo, riuscendo a fissare le caratteristiche strutturali di quella. La forma che ne scaturisce non è quindi più quella fenomenica degli impressionisti ma quella noumenica che si ravvisa nella maggioranza delle espressioni artistiche della prima metà del Novecento. Luca Farulli Il brusio delle immagini. Per una strategia dell’immaginazione nell’epoca elettronica A partire dall’analisi di aspetti precipui dell’immagine elettronica di genere artistico, il presente contributo propone una genealogia dell’immaginazione nell’epoca digitale. “Genealogia” indica qui il campo mobile, il processo di ridefinizione di abitudini attentive e fruitive usate nei confronti di opere d’arte di ascendenza visuale, visiva. Per meglio definire tale scena genealogica, si muove dalle concrete condizioni di esperienza estetica, quale si dà con opere elettroniche di genere interattivo e no, e si rivolge in particolare alla materialità del linguaggio costitutivo di tali immagini. Si prende sul serio il ripetuto richiamo, compiuto da artisti come Bill Viola e Gary Hill, alla carenza analitica insita nella riduzione dell’immagine video all’ambito visivo, per interrogarsi sul carattere e sugli effetti posseduti dalle immagini elettroniche. Pronte sempre a sparire, a tornare al loro “grado zero” di mera energia luminosa, le immagini di cui fruiamo in installazioni multimediali hanno un comportamento, hanno fattezze di imagines agentes. Esse denotano, come afferma Bill Viola, maggior vicinanza con la natura del suono, che con quella dell’immagine filmica o pittorica. La loro texture parla una lingua tenue, simile al brusio, di cui ha trattato Roland Barthes. La loro natura instabile, il loro posizionarsi «ai limiti della visibilità», come sostiene Gary Hill, rileva, sul piano della poiesis, un operare “in forza di levare”, piuttosto che in termini di comporre per via di aggiunta. Il genere di approccio a cui esse invitano è, conseguentemente, quello dell’ascolto; di un ascolto che everte la logica fissa della contemplazione frontale e richiede una attenzione fluttuante, una fruizione, per molti versi, simile alla «ricezione nella distrazione» di cui parla Walter Benjamin. È proprio il rovesciamento del paradigma incentrato sulla presenza a tutto vantaggio di quello legato all’emergenza a caratterizzare tali immagini, comportando una vera e propria trasvalutazione sul piano dell’immaginazione. In esse ne va non di ciò che è dato a vedere, bensì del fantasma che, sul piano della ricezione, esse sono in grado


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di offrire. Di qui la rilevanza della categoria dell’ascolto per cogliere i contrassegni dell’immagine elettronica sia sul piano della poiesis che della aisthesis. Laura Safred Multiple matters. Concetti grafici e questioni multiple tra i linguaggi tradizionali e digitali della grafica d’arte La mostra di grafica contemporanea, che si è svolta al Künstlerhaus, la Casa degli Artisti di Vienna, nel maggio e nel giugno del 2010, ha posto l’uno accanto all’altro i linguaggi attuali della grafica: quelli tradizionali, come la calcografia, la xilografia o la serigrafia, e quelli tecnologici, come le stampe digitali. Nel dibattito in corso tra gli artisti e nelle scuole d’arte sulla distinzione tra grafiche tradizionali e digitali iniziano a delinearsi con maggior forza teorica gli argomenti a favore di una sostanziale analogia dei due linguaggi, troppo spesso contrapposti. L’analogia, postulata nella mostra di Vienna, è fondata su molteplici argomenti comuni: l’uso della differenza tra superficie marcata e risparmiata per creare le immagini (nel caso del computer il codice binario); la capacità di entrambi i linguaggi di contenere in sé una memoria della forma, sia nei diversi stadi dell’opera calcografica che nella processualità delle operazioni prodotte con il computer; il ruolo di medium per la diffusione delle idee e di laboratorio per le creazione di un nuovo tipo di opere, com’è avvenuto con gli artisti più innovativi del XX secolo, da Picasso a Jenny Holzer. D’altra parte la grafica è il medium per eccellenza di una conoscenza allargata. L’accento posto sul ruolo comune delle forme grafiche, siano esse tradizionali o digitali, come veicoli di informazione, di mediazione e di dibattito culturale, rispecchia effettivamente il carattere di una larga parte della produzione artistica contemporanea, impegnata ad uscire da confini disciplinari troppo stretti. Individuando le relazioni delle opere grafiche con le altre forme dell’esperienza estetica contemporanea è possibile, perciò, sottrarre la grafica d’arte all’isolamento nella sua specificità o alla sua dissoluzione nel mare indistinto della civiltà dell’immagine. Riccardo Caldura Aderenza, apertura relazionale. Elementi per una riflessione fra opera e contesto in Brigitte Kowanz Il testo è dedicato ad un aspetto cruciale nel lavoro dell’artista viennese Brigitte Kowanz, nota internazionalmente per i suoi complessi lavori con la luce. Si tratta della relazione fra opera e contesto architettonico. La Kowanz fin dai primi anni Novanta non si è limitata alla produzione di opere autonome, ma ha sempre prestato una grande attenzione alla relazione con lo spazio, soprattutto quello architettonico. Il testo sonda alcuni dei lavori più rilevanti della Kowanz con architetti contemporanei in diverse città europee, ma in realtà sonda anche, attraverso la specificità di un determinato percorso artistico, il nesso problematico del rapporto fra opera e contesto e quale sia il margine operativo dell’artista. Il nucleo della riflessione si basa di fatto su una traccia concettuale di origine kantiana, riguardante la pulchritudo adherens presente nella Critica del Giudizio. Da


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questa traccia deriva il titolo stesso del testo. Quale è il rapporto fra opera e funzione, quando è questa che determina il senso dell’architettura? Entro specifiche condizioni, quali sono le possibilità di aderenza dell’opera al contesto e quale lo spazio ulteriore che essa si trova di fatto ad allargare nelle maglie del costruito? È intorno a questi aspetti che verte l’analisi dell’opera della Kowanz e in senso più ampio la riflessione fra libertà creativa e condizioni date. Francesco Arrivo, Mauro Strada La scenografia e l’acustica nel teatro lirico. Interdipendenza tra i materiali impiegati nella costruzione della scena, la morfologia dell’impianto scenico e la percezione acustica in sala Lo studio sulle possibili relazioni fra scenografia ed acustica nei teatri parte dal proposito di indagare le influenze che un determinato apparato scenografico potrebbe avere sulle caratteristiche acustiche della sala teatrale che lo ospita. La sperimentazione, avviata presso l’Università IUAV di Venezia e confluita, in seguito, in una tesi in collaborazione con l’Accademia di Belle Arti di Venezia, è cominciata con l’inserimento nel programma acustico tridimensionale ODEON dei dati relativi a due teatri italiani, il Teatro La Fenice di Venezia e il Teatro Petruzzelli di Bari. Successivamente è stata simulata la presenza sui due palcoscenici di alcuni modelli di scenografia generici, costituiti da forme abbastanza semplici, che potessero fornire risultati adatti ad un confronto immediato con scenografie più complesse. Continuando con la sperimentazione, facendo riferimento a due allestimenti realizzati per il Macbeth di Giuseppe Verdi e l’Ascanio in Alba di Wolfgang Amadeus Mozart, sono state inserite sui palcoscenici virtuali dei due teatri le indicazioni relative alle forme e ai materiali che costituivano le scene vere, in relazione anche alle modifiche all’apparato scenografico dovute ai cambi di scena. La ricerca ha fornito alcuni risultati molto interessanti che aprono le porte ad un’area di indagine da sviluppare ulteriormente, coinvolgendo anche direttori d’orchestra, musicisti e registi, e che potrà condurre gli scenografi, soprattutto quelli che lavorano nella lirica, a ideare e combinare forme e materiali delle loro scenografie non solo in base a precise scelte poetiche, ma anche osservando le possibili influenze acustiche sullo spazio architettonico ospitante. Vanni Tiozzo Restauro all’Accademia di Belle Arti di Venezia Questo contributo traccia un breve compendio sull’attività di restauro che l’Accademia di Belle Arti di Venezia ha svolto dal Settecento sino ad oggi, accennandone principi e pratiche. Si pone poi in evidenza una particolare ricerca, oggi in corso in questa stessa Accademia, sulle preparazioni dei dipinti su tela. Si cercherà di mettere in luce alcune differenze macroscopiche per sviluppare delle considerazioni circa le più adeguate procedure di intervento per ciascuna tipologia di dipinto, allo scopo di non stravolgere e pregiudicare le caratteristiche originali dell’opera.


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Area Dipartimentale: Disegno, Incisione e Stampa L’attività didattico-culturale del Dipartimento è il luogo della ricerca, della progettazione, della creatività e del confronto che ambisce ad approfondire lo studio dei linguaggi storici e contemporanei del disegno e della grafica d’arte. Un percorso capace di valorizzare e promuovere la produzione di giovani artisti capaci di riflettere e di documentare consapevolmente la propria attività, acconsentendo così alla realizzazione dell’idea in prodotto grafico originale. Diana Ferrara, Angela Munari I libri antichi e le stampe nel Fondo Storico dell’Accademia di Belle Arti di Venezia Il contributo illustra in due punti essenziali la storia, la fisionomia e la consistenza della raccolta di documenti librari antichi e di stampe conservati presso il Fondo Storico dell’Accademia di Belle Arti di Venezia. Si dà conto anche delle attività di ricognizione, riordino e inventariazione svolte presso lo stesso Fondo a partire dal 2006, in collaborazione con la Soprintendenza ai Beni Librari della Regione del Veneto: con particolare riguardo alla catalogazione retrospettiva di gran parte del fondo di libri antichi, rari e di pregio e all’avvio del progetto di descrizione bibliografica delle stampe antiche dal XV al XVII secolo. Le schede poste in fondo al contributo rappresentano infine due esempi del lavoro svolto in questi anni sia dal punto di vista catalografico, sia bibliologico nonché storico-artistico. Evelina Piera Zanon L’archivio dell’Accademia di Belle Arti di Venezia L’archivio comprende la documentazione dell’Accademia istituita nel 1750 e relativa prevalentemente all’attività didattica e all’allestimento e alla gestione delle Gallerie, inaugurate nel 1817 e diventate autonome nel 1882. Le carte, raccolte in 1.200 buste e registri, consentono di ricostruire la storia di questa prestigiosa istituzione, la formazione e l’attività di allievi e professori diventati artisti di fama internazionale, i restauri di chiese, monumenti e opere d’arte condotti sotto la supervisione dell’Accademia fino alla fine dell’Ottocento. Sono inoltre conservati alcuni fondi di professori e artisti che hanno lasciato le proprie carte all’Accademia, tra i quali si possono ricordare Giovanni Carlo Bevilacqua, Giacomo Quarenghi, Guido Cirilli ed Elena Bassi. Dal 2008 l’archivio è aperto al pubblico su appuntamento (archiviostorico@accademiavenezia.it). Progetto tesi. Dai documenti conservati nel Fondo Storico dell’Accademia di Belle Arti di Venezia, anno accademico 2009-2010 Il progetto nasce con l’obiettivo di coinvolgere un numero limitato di laureandi dell’Accademia e delle Università italiane e straniere, per la compilazione di tesi didattiche su tematiche tratte dai documenti conservati nel Fondo Storico veneziano, da alcuni anni fruibile anche agli studiosi. La scelta dei temi da trat-


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tare è vincolata alla disponibilità dei materiali ad ora inventariati e catalogati. Un elenco degli argomenti di studio è già stato definito e concordato con il personale incaricato alla consultazione. Arianna Boldrin Tesi su Andrea Mantegna Dal 1998 il Fondo Storico dell’Accademia di Belle Arti di Venezia, una delle cinque grandi accademie storiche italiane, è oggetto di ricerche, riordini e di un percorso di catalogazione. La tesi di Arianna Boldrin, allieva del Corso di Grafica d’Arte, si inquadra in questo progetto di ricognizione e valorizzazione. Arianna Boldrin esamina più in dettaglio cinque fogli riferiti ad Andrea Mantegna o al suo ambito, e ne verifica lo stato di conservazione e l’autografia. Si tratta del Cristo fra i santi Andrea e Longino nell’unico stato noto; di uno dei rari esemplari nel primo stato dell’Adorazione dei Magi, foglio noto anche come La Vergine nella grotta; del celebre Baccanale con un tino, nell’unico stato; del Baccanale con Sileno (di Giovanni Antonio da Brescia, copia coeva dal Mantegna), e del Seppellimento con quattro uccelli (altra copia coeva riferibile all’immediata cerchia del maestro). La scheda relativa a ciascun esemplare è corredata da un apparato fotografico, espressamente realizzato, che riproduce dettagli caratterizzanti, eventuali danni o lacune, nonché timbri e iscrizioni. Completa la tesi un’appendice, ricerca di prima mano fra i documenti antichi conservati presso l’Accademia, che ricostruisce la vicenda dei cinque fogli mantegneschi nell’ambito della storia, ancora da scrivere, della raccolta di stampe dell’Accademia di Belle Arti di Venezia. Chiara Gasparini Tesi su Giovan Battista Piranesi L’apertura dell’Archivio storico dell’Accademia di Belle Arti di Venezia a studiosi e studenti ha avviato, come naturale conseguenza, sia l’attivazione di un Corso di formazione per catalogatori di stampe antiche, che l’avviamento di tesi sui documenti del Fondo accademico che non prescindono dall’essere compilate seguendo ben precise regole. La tesi di Chiara Gasparini sulle incisioni di Giovanni Battista Piranesi facenti parte dell’Archivio storico veneziano, rigorosamente scientifica e corredata da ampia bibliografia, si completa, per questo, con le schede di catalogazione di tutte le 80 tavole da lei considerate, elaborate seguendo i criteri informatici della “Guida Nera”, ICCU 1986, integrata dalla “Bozza di lavoro” seguita al corso di formazione per catalogatori di cui si è detto.


Abstracts

traduzioni a cura di Michele Daloiso

Present and Future of Graphic Art. A tribute to Giorgio Trentin Alberto Giorgio Cassani Editor’s Note The «Annuary» of the Academy of Fine Arts of Venice intends to make itself known not only to European and Italian fellow institutions (to a large extent already fully incorporated within the university system) but also to a much wider target of cultural actors operating within the research studies carried out by this Institution in the field of visual arts. Moreover, with this issue the Academy wishes to ideally restore a common approach followed by the Academies in the past. The «Annuary» is divided into five sections: the first («Dossier») discusses a specific topic related to Fine Arts, while the second («Communications and Studies») offers miscellaneous contributions. The third section («Fondo Storico, Archive and Library») provides information on the historical documents preserved by the Venice Academy, and includes papers on this topic. The last section is devoted to the art research and teaching carried out by the various Departments, and includes information on dissertations and exhibitions. Although the «Annuary» basically hosts contributions by professors of the Academy of Venice, it also welcomes papers by experts with acknowledged reputation from other centres, such as Italian and foreign Academies, Universities and Cultural Institutions (museums, libraries, etc). In fact, the «Annuary» aims at creating a “meeting place” for experience, culture and knowledge which is not restricted to traditional Venetian institutions. It is encouraged a much wider approach, which nowadays needs to refer to Europe and the international scene. With a powerful statement the philosopher Friedrich Nietzsche described the visual imagery of Venice as «a hundred deep solitudes», such encasement being the reason for the city’s charm. Against Nietzsche’s statement, the Academy of Fine Arts of Venice hopes that the «images bequeathed for the future generations» might act as a constellation for the different branches of learning, encouraging a dialogue among them.


Fotolito Lucenti - Padova Finito di stampare nel mese di maggio 2011 per conto della casa editrice Il Poligrafo srl presso le Grafiche ITE di Dolo (Venezia)




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