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M E TA L L I M E TA L L I

Storia, linguaggio e innovazione in Sardegna

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In sovraccoperta: Francesco Ciusa, Lampada, 1926-29 (particolare)


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Indice

7 PER

UNA STORIA SOCIALE DELLA METALLURGIA IN

SARDEGNA

Giulio Angioni

29 ALLE

ORIGINI DELLA METALLURGIA: UNA COMPLESSA STORIA CULTURALE

Tatiana Cossu

43 MINIERE

SARDE.

STORIA

DEL LAVORO, STORIE DI LAVORO

Maria Luisa Di Felice

61 IL

LESSICO DELLA METALLURGIA IN SARDEGNA: DINAMICHE STORICHE E SOCIOCULTURALI, MAGIA E CRISTIANESIMO POPOLARE, IL GERGO DEI RAMAI

Giulio Paulis

89 IL

MESTIERE DEL FABBRO E DEL MANISCALCO.

DIALOGHI

FRA L’ARTEFICE E LA MATERIA

Susanna Paulis

152 Gli strumenti musicali realizzati dal fabbro Susanna Paulis

155 L’AMBITO

DOMESTICO

Giovanni Maria Demartis

178 I letti Giovanni Maria Demartis

233 I

COLTELLI SARDI.

VARIETÀ,

FUNZIONI E SIMBOLI

Susanna Paulis

283 APPUNTI

SULLE CANNETTAS.

GLI

ARCAICI FUCILI SARDI AD AVANCARICA

Giovanni Maria Demartis

293 L’ARTE

DEL RAME A ISILI

Sandro Ghiani

340 Il Museo per l’Arte del Rame e del Tessuto di Isili Sandro Ghiani

343 CUMPRENDI SU FERRU. COSTRUZIONE, IN SARDEGNA

FUNZIONI ED ESTETICHE DEI CAMPANACCI

Carlo Maxia

363 I “FERRI”

NEL FABBRICATO ARCHITETTONICO TRADIZIONALE

Antonello Cuccu

401 “NON PIÙ UMILE E GROSSOLANO”. FRANCESCO CIUSA E IL ALLA SCUOLA D’ARTE APPLICATA DI ORISTANO (1925-29) Antonella Camarda

409 BIBLIOGRAFIA

FERRO BATTUTO


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pure qui è stata a lungo parte della tenuta e dell’identità maschile. Quindi è possibile che anch’essa, fosse il pugnale o sa resoia o sa leppa, sia stata comunque di fabbricazione artigianale locale, prodotta su ordinazione privata individuale, e che uscisse quindi spesso dalla piccola officina fuligginosa del fabbro di città e di paese. Nei molti luoghi sardi di attività mineraria, e non solo in miniere metallifere, i fabbri (e anche i ferraioli e i carpentieri) erano spesso numerosi, al servizio dei molti bisogni del lavoro in sottosuolo, producendo e adattando utensili, macchine e impianti spesso d’avanguardia rispetto alla metallurgia, alla mascalcia e alla forgia locale, e provvedendo alla diuturna manutenzione di utensili a forza umana e animale e alle molte macchine metalliche per i lavori di miniera e oltre, come negli impianti di laveria, di cernita, di trasporto. Questo rende anche conto di fatti come l’esistenza ancora oggi di un polo importante di produzione di coltelli in paesi minerari come Arbus e Guspini. Le tecniche La bottega tradizionale del fabbro, che sappiamo essere di solito anche maniscalco e coltellinaio, è stata per millenni molto simile a se stessa. Ancora oggi vi si svolgono le medesime operazioni fondamentali, ma le macchine sono diverse principalmente per il tipo di energia, prevalentemente elettrica, e quindi per la loro potenza. La fucina (sa forredda), a fuoco di legna o di carbonella o di carbon fossile servita dal mantice a mano, è sostituita dalla fucina elettrica. A corrente elettrica funzionano anche le morse, i martelli, le mole, le levigatrici, le seghe, i trapani, le frese, i bulini, le raspe ecc., per metalli e altri materiali. L’uso dell’elettricità ha cambiato molto l’aspetto e l’uso del banco da lavoro (bangu) e dell’intera officina (buttega). Resta fondamentale, come prima e in forme non molto dissimili dal passato, la cura delle fasi del processo di fabbricazione di ogni singolo coltello e delle materie prime utilizzate, che in passato il fabbro, specialmente di paese, si procurava in grande misura sul posto da sé, sebbene i metalli come materia prima, come è noto e documentato anche in questo volume, già in passato avessero circuiti commerciali molto vasti nel Mediterraneo e oltre. Mentre i fabbri di un tempo erano maestri anche nel riciclo di metalli e altri materiali vecchi e già usati, il coltellinaio di oggi si rifornisce sul mercato di barre d’acciaio ad hoc, da cui ottiene le lame per sottrazione al minimo di metallo, così come di solito si procura i vari materiali per il manico e per altre parti del coltello.

19-20. Coltello lungo con fodero (leppa de chintu), XIX sec. acciaio e corno, 65,5 cm; fodero in pelle, 53,5 cm Nuoro, Museo della Vita e delle Tradizioni Popolari Sarde. Fino agli inizi del Novecento era ancora comune in Sardegna l’uso di portare coltelli a lama fissa, di solito a doppio taglio, infilati alla cintura (leppa de chintu). 19

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21. Barbagia, primi anni Settanta XX sec. (foto Mario De Biasi).

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superiore del cavallo, che veniva stretto e sottoposto a torsione ruotando il bastone. In seguito a tale costrizione il cavallo provava un dolore tanto forte da restare stordito e non opporre resistenza alle operazioni di ferratura. Quando subiva tale trattamento, il labbro del cavallo assumeva la forma e il colore di una grossa ciliegia, donde il nome dell’attrezzo. Qualora il sistema suddetto non sortisse l’effetto desiderato, si ricorreva a un ulteriore espediente. Si prendeva una fune e la si piegava a metà, in maniera tale da renderla doppia, la si legava alla coda del cavallo e poi la si faceva passare, in modo che fosse scorrevole, sotto 138

una cinghia legata al garretto del cavallo. Quindi due persone, poste rispettivamente al lato destro e al lato sinistro del cavallo, tenevano i due capi liberi della fune e all’occorrenza tiravano contemporaneamente. In questo modo la zampa del cavallo era costretta a piegarsi e l’animale non aveva la possibilità di compiere movimenti pericolosi. Per la zoccolatura dei buoi, data la stazza degli animali, il lavoro era più complesso. Esisteva la cosiddetta màcchina ’e ferrare boes e sim. (oppure travàgliu e sim.; accollu e sim.; ferrajola e sim.). Questa “macchina per la ferratura dei buoi” – di cui oggi si trovano solo pochi


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157. Ferratura dei buoi, Meana, 1934 (foto Ugo Pellis). 158. Ferri e chiodi per gli zoccoli dei buoi, inizio XX sec. ferro, 13 x 6,5 cm, Paulilatino, Museo ArcheologicoEtnografico “Palazzo Atzori”. L’unghia del bue, bipartita, necessita di due ferri distinti (pinnas). 159. Banchetto del maniscalco, metà XX sec., Paulilatino, Museo Archeologico-Etnografico “Palazzo Atzori”. Il banchetto da ferratura del fabbro Mario Corrias di Paulilatino, facilmente trasportabile, conteneva tutto quello che poteva necessitare al maniscalco per la ferratura di equini e bovini che spesso veniva effettuata nelle adiacenze esterne dell’officina.

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204. Portaspiedi, Paulilatino, fine XIX sec. ferro, h 26 cm, Paulilatino, collezione privata. 205. Portaspiedi, Paulilatino, fine XIX sec. ferro, h 48 cm, Paulilatino, collezione privata. Questo particolare manufatto è piuttosto diffuso nell’area di Paulilatino, dove viene denominato caddu po su satzu. Realizzato con ferro dolce, mediante la tecnica di saldatura e chiodature ribattute, ha un perno a “pinza” che permette di regolare l’altezza del manufatto per adattarlo allo spiedo.

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206. Portaspiedi, Santu Lussurgiu, inizio XX sec. ferro, h 31 cm, Santu Lussurgiu, Museo della Tecnologia Contadina. Il manufatto è realizzato da un’unica verga di ferro separata prima in tre parti che formano i sostegni, ulteriormente “divisi” a ottenere i sostegni portaspideo.


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207. Portaspiedi, Busachi, fine XIX sec. ferro, h 23,5 cm, Busachi, collezione privata. Questo particolare manufatto viene denominato localmente caddu o caddittu po su satzu. 208. Portaspiedi, Paulilatino, fine XIX sec. ferro, h 32 cm, Paulilatino, collezione privata.

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326-327. Imbuto per il mosto, metà XX sec. latta, Ø 25 cm, Pattada, collezione privata. 328. Piccolo imbuto per travasi, inizio XX sec. latta, Ø 8 cm, Pattada, collezione privata.

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329. Alghero, 1916 (foto Erminio Sella). 330. Alambicco per distillazione, prima metà XX sec. rame e ferro, h 63 cm, Isili, Museo per l’Arte del Rame e del Tessuto.

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nella mia famiglia, sino a che mio padre non ha introdotto, per così dire, “un canone del coltello”. Ha immaginato di vedere il coltello più piccolo da lui creato con una lente d’ingrandimento, in modo tale da riproporne su scala maggiore le stesse proporzioni. Cambia, ad esempio, il diametro dei ribattini, ma non il loro numero e la proporzione fra il singolo ribattino e il resto del coltello. Nei coltelli di mio nonno, invece, il numero di sos ribattinos era variabile: sette, otto, perfino dieci. Sa resolza, così, riproposta in dimensioni diverse, mantiene l’identico armonico equilibrio fra le parti (Gianmario Fogarizzu, 43 anni, Pattada).

Sa resolza pattadesa prende forma. Dalla materia all’oggetto La prima fase della lavorazione della resolza prevede la scelta del corno, di cui si utilizza solo il dorso (ischina); l’unica parte adatta, in quanto priva di curvatura laterale, alla realizzazione delle placchette (perras) che costituiscono il manico (sa màniga). A seconda delle dimensioni del corno, si possono ricavare una o più placche (da quelli particolarmente voluminosi fino a tre). Il dorso, una volta estratto con un seghetto (sa sega a olta, lett. ‘voltino’), viene levigato con la mola (moladu) sino a

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401-403. Coltello (resolza logudoresa), Pattada, anni Trenta XX sec. acciaio, ottone e corno, totale 38,5 cm, lama 17 cm, Pattada, collezione privata. Realizzazione Barore Fogarizzu (1900-1978).

404. Coltello (resolza pattadesa), Pattada, anni Trenta XX sec. acciaio, ottone e corno, totale 36 cm, lama 15,5 cm, Cagliari, collezione privata. Realizzazione Barore Fogarizzu (1900-1978). 405. Coltello (resolza pattadesa), Pattada, anni Ottanta XX sec. acciaio, ottone e corno, totale 39,5 cm, lama 18,5 cm, Cagliari, collezione privata. Realizzazione Nanneddu Fogarizzu. 406. Coltello (resolza pattadesa), Pattada, anni Ottanta XX sec. acciaio, ottone e corno, totale 33,5 cm, lama 15,5 cm, Cagliari, collezione privata. Realizzazione Barore Fogarizzu (1936-2005). 407. Coltello (resolza pattadesa), Pattada, 1981 acciaio, ottone e corno, totale 32,5 cm, lama 15 cm, Cagliari, collezione privata. Realizzazione Boitteddu Fogarizzu. 408. Coltello (resolza pattadesa), Pattada, anni Cinquanta XX sec. acciaio, ottone e corno, totale 27 cm, lama 12 cm, Cagliari, collezione privata. Realizzazione Antonio Fogarizzu.

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458-460. Fucile sardo (cannetta), XVII-XVIII sec. acciaio, ferro, legno e ottone, 161 cm, Cagliari, Pinacoteca Nazionale. Questa cannetta con acciarino “alla micheletta” è stata assemblata nella rinomata Bottega Barbuti di Tempio. Un tono particolare e inconfondibile è conferito a diversi fucili sardi dalle applicazioni di lamierino metallico (sos frunimentos) che per lo più ne ornano e rinforzano il calcio, il settore centrale e la parte inferiore della canna talvolta con effetto completamente coprente. Sono lamine traforate, punzonate, bulinate, stampate, in ferro, rame e ottone e argento basso, raramente messe in rilievo da paste vitree incassate, interessate da fittissimi decori geometrici, floreali e a volte zoomorfi che rammentano armi spagnole rinascimentali.

(sos frunimentos) che per lo più ne ornano e rinforzano il calcio, il settore centrale e la parte inferiore della canna, talvolta con effetto completamente coprente. Sono lamine traforate, punzonate, bulinate, stampate, in ferro, rame e ottone e argento basso, raramente messe in rilievo da paste vitree incassate, interessate da fittissimi decori geometrici, floreali e a volte zoomorfi che rammentano armi spagnole rinascimentali, segnatamente quelle di Ripoll, ma reinterpretate all’italiana. L’abate Vittorio Angius, a proposito di tali decorazioni nota: «Gli armaruoli, de’ quali era in Tempio gran numero … montavano l’arma, ricoprivano il legno, e poi il cannone di lastre di ferro, e cesellavano queste con uno studio lungo e con una eleganza, che si ammirava. L’opera del cesellatore spesso non costava meno di ll. n. 250». In realtà i manufatti conservati, se confrontati con le decorazioni delle armi contemporanee dei ceti egemoni, evidenziano una fattura ripetitiva e “dialettale”. Per altro non dovevano mancare delle eccellenze qualitative, in esemplari destinati a persone notabili, come dimostra, ad esempio una cannetta con baionetta, ageminata in oro e con stemmi sabaudi, dedicata al principe Carlo Alberto nel 1829, che si deve alla “mano” di un piemontese residente in Sardegna. Oltre al significato decorativo e prettamente suntuario, in questi decori intricati e pervasi da un particolare horror vacui pare di intuire un valore apotropaico, probabilmente connesso con i rischi insiti nell’uso di armi tanto rudimentali e sostanzialmente fragili, in non rare situazioni di pericolo. Non a caso in una delle cannettas della Collezione Clemente figura un’immagine della Madonna delle Grazie, nello schema della Virgen de l’Ajuda, eseguita in lamierino. Le cannettas, effettivamente, palesano nella loro struttura generale un insieme di caratteri negativi quali, tanto per citare i principali, la scarsa solidità, l’esorbitante lunghezza e scarso spessore complessivi oppure la debolezza del fusto causata dalle viti di fissaggio del meccanismo di accensione e da troppe cavità. Per quel che concerne i motivi dell’eccessiva lunghezza della canna, aldilà del valore estetico di tale caratteristica, sono da tener presenti i diversi pregoni viceregi settecenteschi che vietavano nell’Isola l’uso delle dirompenti canne corte, un po’ come le attuali norme per i fucili a canne mozze. Quindi, dietro l’arretratezza tecnologica delle cannettas si intravedono gli effetti delle pressioni delle autorità, volte ad impedire la diffusione di armi più efficienti. Si ricordi, oltretutto, che la già accennata scarsa gittata utile dei tipici fucili poteva essere 287


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559-562. Parapetti di balconi, Cagliari, XVIII-XIX sec. 563. Parapetti di balconi di Palazzo d’Arcais (Siviero), corso Umberto, Oristano, fine XVIII sec.

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