FUOCHI A DJIBOUTI Un anno dopo sono tornato in quella tinozza umida e bollente che è Gibuti. Sono passate circa 18 ore, tra attese, cambi di aereo e scali tecnici. Ma sabato scorso, 17 marzo 2012, alle afose 22.30 locali, sono sbarcato e mi sono messo in fila per uscire. Pagato il visto per un mese, devo passare anche il controllo valigie. Ho due file: in quella di sinistra c’è una poliziotta irrancidita che fa aprire tutti i bagagli. Nella fila di destra c’è un ometto stanco, con la futah, che, a sbadigli alternati, fa aprire una valigia sì e una no. Al soffitto, cigolanti ventilatori girano lenti l’aria con l’aria di sfotterti. Decido per l’ometto, ma prima delle valigie si deve passare un altro controllo dei passaporti. Vado verso una giovane agente vestita e truccata all’occidentale, praticamente uscita da un telefilm, che mi ferma. Le mostro un vecchio tesserino dell’Ospedale Balbala, che mi gioco in questi casi, mentre le recito la mia filastrocca su chi sono, dove andrò e così via. Più rilassata, perché conosce il Balbala, mi chiede la mia mansione in ospedale; è solo curiosa perché sua mamma è stata operata dal mio amico chirurgo che vive e lavora qui. Considerato il numero dei componenti della famiglia media gibutina e cioè dalle otto alle dieci persone, a forza di gradi di parentela, praticamente tutti hanno almeno un familiare operato da Carlo, che d'altra parte è più di trent'anni che opera in tutto il Corno d'Africa, e non solo. E così la ragazza fa un cenno a quell'ometto che, finalmente, mi fa uscire senza apertura delle valigie, piene di farmaci e altre cose preziose da queste parti.
1