conipiediperterra_41

N. 41 - Maggio/Giugno 2021 - Periodico bimestrale - Poste Italiane s.p.a. - Sped. in abb. post. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, NE/PD

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arte storia e natura prodotti tipici

IL VENETO STA DIMENTICANDO I PROPRI FIUMI 2021 ANNO INTERNAZIONALE DELLA FRUTTA E VERDURA

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Magazine “Conipiediperterra”

O.P. I Fasolari

guardare oltre il mare...

L’immagine della pesca che sa rispettare l’ambiente e sa qualificare l’immagine del proprio prodotto anche attraverso il valore dei suoi pescatori

O.P. I Fasolari significa pesca, ma anche cooperazione, commercializzazione e promozione di un prodotto esclusivo del nostro mare. Insomma significa guardare avanti, al domani di questo settore con la consapevolezza che solo un modello come l’Organizzazione dei Produttori (O.P.) è possibile fare rete con gli altri enti della pesca, promuovere l’aggregazione dell’offerta e crescere sui mercati. O.P. I Fasolari è l’immagine della pesca che sa rispettare l’ambiente e sa qualificare l’immagine del proprio prodotto anche attraverso il valore dei suoi pescatori.

• Una rete di imprese: associati tutti i pescatori veneti e friulani specializzati nella pesca del “fasolaro”

• Una pesca amica dell’ambiente: il prelievo avviene esclusivamente in relazione alla quantità di prodotto richiesta dal mercato

• L’esclusiva di un prodotto nostrano: la flotta è composta da un numero consistente di pescherecci attivi nei principali porti dell’Alto Adriatico: Grado, Marano Lagunare, Caorle, Cavallino-Treporti e Chioggia

• Freschezza Sempre garantita: L’organizzazione e la filiera garantiscono tempestività nello smistamento del prodotto pescato e un prezzo di vendita stabile

O.P. I Fasolari • sede legale Chioggia in Via Maestri del Lavoro, 50 tel. 041 403317 fax 041 404185 - info@fasolari.it - www.fasolari.it

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i piedi per terra

Sommario Numero 41

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L’ELZEVIRO 2021, Anno internazionale della frutta e verdura

PAESAGGI OFFESI Il Veneto sta dimenticando i propri fiumi

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AD OGNUNO IL SUO CALICE

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SCOPRIRE IL TERRITORIO

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5 vini per brindare all’arrivo della bella stagione

Il percorso di Adelaide tra Colli Euganei e Berici

STORIA E DINTORNI Il Regno Lombardo Veneto, quando non eravamo italiani

AMICI CON LE ALI La ghiandaia, uccello intelligente che semina alberi

REGALATI O REGALA UN ABBONAMENTO IN OMAGGIO Il ricettario dedicato al Radicchio di Chioggia Igp

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Mauro Gambin

Editore: Speak Out srl

di Giampaolo Venturato e Mauro Gambin Piazza della Repubblica, 17/D Cavarzere (VE) info@speakoutmedia.it

Hanno collaborato a questo numero Silvano Bizzaro Emanuele Cenghiaro Mattia De Poli Riccardo Ghidotti Michele Grassi Renato Malaman Adriano Mollica Eliano Morello Michele Pigozzo Ada Sinigalia Roberto Soliman Elisabetta Testolina Aldo Tonelli Massimo Trevisan Trekking2thewild Giada Zandonà

Progetto Grafico

NC grafica e comunicazione di Nicola Cominato P.zza XX Settembre | Monselice (PD) info@nicolacominato.it Vendita spazi pubblicitari Speak Out srl commerciale@conipiediperterra.it

Stampa

Stampe Violato Soluzioni di stampa srls Bagnoli di Sopra (PD) Tel 049 9535267 www.stampeviolato.com info@stampeviolato.com Giornale chiuso in redazione il 28 maggio 2021 Tiratura: 10.000 copie Diffusione: periodico bimestrale Iscrizione al Registro degli Operatori di Comunicazione (ROC) n. 23644 del 24.06.2013 Iscrizione al tribunale di Padova n. 2329 del 15.06.2013 Iscrizione del marchio presso Ufficio Italiano Brevetti e Marchi (U.I.B.M.) n. PD 2013C00744 del 27.06.2013 Tutti i diritti sono riservati.

Gli articoli possono essere riprodotti solo con l’autorizzazione dell’editore e in ogni caso citando la fonte.

Gli articoli firmati impegnano esclusivamente gli autori.

Dati, caratteristiche e marchi sono generalmente indicati dalle case fornitrici (rispettivi proprietari)

La copertina è a cura dei laboratori della Cooperativa Sociale Giovani e Amici di Terrassa Padovana, l’autore è Daniele Martello

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i piedi per terra

L’EDITORIALE di Mattia De Poli

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L’EDITOR IA L E

Gli eroi della… resilienza Un termine forse troppo abusato, tornato di attualità per indicare l’aspirazione di tornare a vivere come prima del Covid

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essere resilienti non è dunque la capacità di un oggetto di contrastare un urto fino a spezzarsi, ma la sua capacità di deformarsi, di adattarsi, di assorbire l’urto e alla fine di ritornare allo stato iniziale. Questo può riguardare gli equilibri di una comunità o lo stato psichico di un individuo sottoposti ad uno sconvolgimento o ad un trauma. Achille, Stentore, Ercole, Telamone, Edipo, Telemaco: il mito greco ha fornito numerosi personaggi-simbolo, adatti a incarnare qualità fisiche, abilità individuali, relazioni interpersonali complesse.

L’eroe della resilienza potrebbe essere Odisseo, polytlas, polytropos ma anche polymetis e polymechanos: il re di Itaca, infatti, grazie al suo grande ingegno pratico e alla straordinaria capacità di trovare delle soluzioni, ha superato molte sofferenze che gli sono state inflitte dagli dei, è sopravvissuto al lungo vagabondare per mare, e alla fine è riuscito a tornare sulla sua isola e a riprendersi il trono e la moglie. Dopo più di un anno dall’annuncio ufficiale della pandemia, molte persone, e in particolare molti lavoratori, sono sottoposti a notevoli limitazioni: alcuni hanno cercato di adattarsi alla situazione ingegnandosi, ma il protrarsi della crisi sta rendendo necessario un intervento politico importante a sostegno di tutte le categorie in difficoltà. Se l’Italia è davvero “una repubblica democratica fondata sul lavoro”, come recita l’articolo 1 della Costituzione, la classe politica ha il dovere di impegnare tutte le risorse possibili affinché nel nostro Paese non si produca una disgregazione del tessuto sociale irreparabile.

#c o ni p i e d i p e r t er ra

esilienza: ci mancava solo la politica a rilanciare una parola che nell’ultimo decennio è stata riscoperta, ampiamente usata e talvolta abusata, tanto da suscitare diffidenza o istintivo rifiuto. Eppure questa volta potrebbe (anzi, dovrebbe) segnare una svolta importante per tutti quei lavoratori che sono in difficoltà a causa della pandemia: i fondi concessi dall’Unione europea devono rientrare in un piano nazionale di provvedimenti pensati per la “ripresa” e la “resilienza”. Ma che cosa vuol dire essere resilienti? Il verbo latino resilire ha molteplici significati: “saltare all’indietro”, “rimbalzare”, “restringersi”. Tra il Seicento e il Settecento, quando il latino era ancora ampiamente utilizzato in ambito scientifico, questo termine e i suoi derivati sono stati utilizzati per indicare sia la capacità di una palla di rimbalzare contro un muro sia l’elasticità di un oggetto che, sottoposto ad una forza, si contrae ma recupera poi la forma iniziale. Nella seconda metà del XVIII secolo, quando inizia ad affermarsi l’uso delle lingue nazionali anche nel campo delle scienze e della filosofia, l’economista e intellettuale napoletano Antonio Genovesi applica il concetto della resilienza alle passioni umane: egli riconosce ad esse una forza respingente che, se non è contrastata in maniera adeguata, nel lungo periodo causa la disgregazione della società.

In tempi più recenti il termine “resilienza” è stato adottato in diversi ambiti specialistici, dall’ecologia alla psicologia e alla sociologia, ed ha assunto un significato opposto a quello di “resistenza”:

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L’ELZEVIRO di Eliano Morello

L’EL Z EVIRO

2021

ANNO INTERNAZIONALE della FRUTTA e VERDURA

Ciò che mangiamo tutti i giorni determina la nostra salute, l’economia, i rapporti sociali e il nostro impatto sul pianeta. Deficit alimentari e sprechi sono due facce della stessa medaglia sulle quali l’Assemblea Generale dell’Onu chiede una maggiore consapevolezza

3 miliardi di persone, nel mondo, non hanno la possibilità socio-economica di adottare una dieta salutare

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#c o ni p i e d i p e r t er ra

na dieta salutare e una filiera corta, trasparente e senza sprechi sono fattori chiave non soltanto per il benessere dei singoli individui, ma hanno ricadute positive sull’intero ecosistema ecologico, economico, sociale e umano. E sono appunto questi i contenuti richiamati dall’Assemblea Generale dell’ONU con l’istituzione dell’Anno Internazionale della Frutta e della Verdura, abbreviato in AIFV, che ricorre proprio nel 2021.

L’obiettivo è, appunto quello, di incoraggiare Stati membri e le organizzazioni delle Nazioni Unite (FAO, OMS)

ad agire per sensibilizzare l’opinione pubblica sull’importanza di frutta e verdura nella dieta e, contemporaneamente, di contribuire al raggiungimento degli Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030.

La comunità scientifica è concorde nel sottolineare che una dieta equilibrata prevede almeno cinque porzioni al giorno di frutta e verdura, eppure nel 2021 ancora non se ne consuma abbastanza.

Come ha evidenziato la stessa FAO nel

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i piedi per terra

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Secondo l’indagine dell’ISS, che ha coinvolto più di 50mila bambini e altrettante famiglie, i genitori hanno riportato che un bambino su 4 consuma frutta e verdura meno di una volta al giorno

hanno riportato che quasi un bambino su due non fa una colazione adeguata al mattino, uno su 4 beve quotidianamente bevande zuccherate/gassate e consuma frutta e verdura meno di una volta al giorno. I legumi sono consumati meno di una volta a settimana dal 38% dei bambini e quasi la metà dei bambini mangia snack dolci più di 3 giorni a settimana. Esisterebbe il programma “frutta nelle scuole”, ma chi lo ha mai visto applicato? La scuola fa quello che può, ma – come si diceva – è dalle famiglie che dovrebbe arrivare il buon esempio perché, se i bambini si approcciano alle mense scolastiche con i gusti formati a casa, sarà difficile modificarli. Ho avuto occasione di vedere bimbi delle elementari uscire dalla mensa con la banana in mano e gettarla nel primo cestino

#c o ni p i e d i p e r t er ra

consueto rapporto annuale dedicato allo stato della sicurezza alimentare, 3 miliardi di persone, nel mondo, non hanno la possibilità socio-economica di adottare una dieta salutare e, anzi, per 1 miliardo e mezzo è impossibile anche seguire un regime alimentare che raggiunga gli standard minimi di nutrienti essenziali. Ancora: 690 milioni di persone sono denutrite, 2 miliardi vivono in una perenne insicurezza alimentare. Dall’altra parte ci sono 38 milioni di bambini, con età inferiore ai 5 anni, che sono in sovrappeso.

Malnutrizione e obesità sono disturbi dell’alimentazione che hanno motivi diversi, ma sui quali è opportuno agire con la stessa determinazione. Nel mondo al momento non è in atto solo la pandemia da Covid-19, ma ci sono altre epidemie cominciate ben prima. E’ opportuno ragionarci, ognuno per la parte che gli compete, perché se per noi è difficile immaginare quali saranno le politiche che permetteranno di far sparire la fame nel mondo è comunque possibile intervenire per una dieta equilibrata e soprattutto per evitare gli sprechi. Perché le abitudini alimentari si ereditano in famiglia, come si eredita il colore dei capelli. E siamo così sicuri che i nostri figli seguano una corretta alimentazione? A quanto pare no. L’Italia è tra i paesi europei con i valori più elevati di eccesso ponderale nella popolazione in età scolare con una percentuale di bambini in sovrappeso del 20,4% e di bambini obesi del 9,4%, compresi i gravemente obesi che rappresentano il 2,4%.

Sono i dati relativi al 2019 elaborati da OKkio alla SALUTE. Secondo l’indagine dell’ISS, che ha coinvolto più di 50mila bambini e altrettante famiglie, i genitori

L’EL Z EVIRO

Secondo le linee guida per una sana alimentazione, pubblicate dal Crea – 2018, la quantità giornaliera di vegetali dovrebbe essere almeno di 400 grammi distribuiti in 5 momenti di assunzione, ovvero 80 grammi per porzione

In Italia i bambini in sovrappeso sono il 20,4%, gli obesi il 9,4% e i gravemente obesi rappresentano il 2,4%

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L’EL Z EVIRO

Ogni settimana, in Italia ciascun cittadino spreca ben 700 grammi di cibo.

Una quota molto elevata che per il Paese vale ben 15 miliardi di euro, pari all’1% del PIL

Nel 2019 sono finite nella spazzatura 931 milioni di tonnellate di cibo.

Il 17% del totale prodotto nel mondo

“Miraggi alimentari – 99 idee sbagliate su cosa e come mangiamo” di Marcello Ticca

#c o ni p i e d i p e r t er ra

disponibile (non parlo della raccolta differenziata nelle scuole, che meriterebbe un articolo a parte!). Se non avevi voglia di mangiarla, perché l’hai presa per poi buttarla? Nessuno spiega ai bambini che quello che loro buttano nel cestino potrebbe invece essere apprezzato da qualcun altro? Ciò dimostra chiaramente che a casa sprecano il cibo, e che i genitori non li sensibilizzano ricordando loro i bambini meno fortunati nel mondo. Secondo uno studio recente: Food Waste Index Report 2021 (del UNEPWRAP Britannico) nel 2019 sono finite nella spazzatura 931 milioni di tonnellate di cibo. Il 17% del totale prodotto nel mondo. La metà è gettata da casa, poi dai ristoranti e infine dai rivenditori.

Ma quello che sconcerta è che “buttano” di più i paesi a basso reddito: 91 kg pro capite/anno di cibo domestico. I paesi più ricchi buttano 79 kg e l’Italia arriva a 67 kg. Ecco il motivo di ridurre gli sprechi, almeno del 50%, entro il 2030.

Modificare questi atteggiamenti e comportamenti equivale a modificare lo stile di vita: questo è il mantra imperante. Come cambiare? Con attività fisica, frutta e verdura ai pasti e integratori per contrastare le carenze vitaminiche. Quindi una dieta varia ed equilibrata è la migliore cura a molti disturbi.

Anche l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) è intervenuta per raccomandare i 400 grammi giornalieri di frutta e verdura come antidoto di tante malattie. Per esempio, secondo i CDC Statunitensi, miliardi di persone soffrono di carenza di vitamina A, di acido folico, ferro, iodio necessari per un equilibrato sviluppo dell’organismo. La carenza di vitamine può causare malformazioni neonatali, disabilità e difficoltà di apprendimento, cecità, ritardo

mentale, immuno-depressione, ridotta capacità di operare e lavorare, e perfino morte prematura.

Marcello Ticca ha contribuito alla stesura di queste linee guida ma ha anche pubblicato un bel libro dal titolo pertinente: “Miraggi alimentari – 99 idee sbagliate su cosa e come mangiamo”. Ora, senza entrare nella demagogia e nell’opportunismo mediatico di certe ONG, a mio modesto parere non è vero che l’UE snobba la frutta e verdura, semmai sono gli stati che usano male i soldi destinati alla promozione di diete più equilibrate. Se non formiamo educatori, se non prepariamo gli insegnanti a “inculcare” (nel termine buono) sane abitudini alimentari, se i genitori non sapranno dare il buon esempio, tutte queste iniziative saranno inutili. E i bambini non hanno molto tempo e pazienza a disposizione: la fascia utile per intervenire è dai 3 ai 10 anni. Poi sicuramente qualcuno dirà: io ve lo avevo detto, ma i danni saranno già stati fatti.

Forse aspettiamo che qualche influencer riesca a influenzare e modificare alcune abitudini, come avvenuto in Cina dove attraverso un canale e-commerce una “tipa” ha venduto in 4 minuti 300.000 confezioni di pomodorini a grappolo. Spero solo che questi cambiamenti si radicalizzino altrimenti saranno solo fuochi di paglia che si spegneranno con la stessa velocità con cui sono stati accesi. Per un cambiamento radicale e duraturo sul piano sociale e politico occorre creare il contesto sociale e politico. Senza, non abitueremo mai i bambini a consumare frutta e verdura, e creeremo adulti fragili e disagiati, che perpetreranno gli stessi errori commessi durante la propria infanzia con i loro figli. Spezziamo il cerchio, finché siamo in tempo.

Il presidente del Consorzio di tutela del Radicchio di Chioggia IGP, Giuseppe Boscolo Palo

Iniziata la raccolta del

Radicchio di Chioggia Igp precoce Malgrado le gelate primaverili, la qualità è eccellente ed è sostenuta dai prezzi di vendita.

Per chi produce investire nel territorio conviene perché il consumatore lo apprezza

Secondo l’analisi contenuta nel XVIII Rapporto Ismea-Qualivita del 2020 il sistema della DopEconomy ha continuato a crescere anche durante l’epidemia di Covid, + 4,2% rispetto all’anno precedente

È iniziata da qualche settimana la raccolta del Radicchio di Chioggia Igp precoce, la varietà prodotta esclusivamente nei comuni litoranei di Chioggia e Rosolina, caratterizzati dal terreno sabbioso e un clima maggiormente mitigato dalla vicinanza al mare. La stagione è iniziata non senza difficoltà, ma la qualità risulta eccellente e sostenuta anche dai prezzi di vendita.

“L’areale di Chioggia – spiega il presidente del Consorzio di tutela del Radicchio di Chioggia Igp, Giuseppe Boscolo Palo - è per tradizione famoso per la produzione dei primi radicchi che aprono la stagione di commercializzazione e malgrado le gelate primaverili abbiano in parte compromesso le rese per ettaro, il prodotto giunto a maturazione è ottimo per pezzatura, forma, colore e ovviamente gusto. E a renderci soddisfatti è soprattutto il prezzo che il nostro Igp è riuscito a spuntare: 1,65 euro al chilo è una cifra che ripaga l’impegno dei produttori e la qualità delle produzioni”.

Un risultato forse difficile da immaginare, visto le circostanze generali causate degli andamenti climatici di questa primavera e soprattutto dalla pandemia.

“Al risultato – continua Boscolo Palo - ritengo abbiano concorso due fattori: il primo deriva dal valore della denominazione Igp. Come dimostra l’analisi del XVIII Rapporto Ismea-Qualivita del 2020 il sistema della DopEconomy, ossia il segmento della produzione e trasformazione dei prodotti agricoli a Indicazione geografica, ha continuato a crescere anche durante l’epidemia di Covid, + 4,2% rispetto all’anno precedente. Il secondo merito invece lo attribuisco alla tenuta delle realtà commerciali locali, come l’Ortomercato di Brondolo. Qui, infatti, si forma un prezzo onesto, non dettato dalla guerra al ribasso tra i supermercati, un prezzo che nasce dal contatto tra chi produce e chi vende e da una scelta di posizionamento”. Dunque a premiare sono soprattutto quei valori territoriali tutelati dall’Indicazione Geografica protetta, che conferiscono identità e garanzie sul sistema di produzione, sempre più ricercati dai Consumatori e proprio per questo consentono anche un prezzo maggiore di vendita, un prezzo che tutela chi lavora per la qualità e l’identità.

“Sono convinto – conclude Giuseppe Boscolo Palo – che se sempre più produttori anziché trattare con i buyer in privato sfruttassero di più il mercato alla produzione e se ci fosse una più marcata adesione al sistema di certificazione IGP, con conseguente maggiore presenza negli scaffali dei punti vendita del nostro Principe Rosso, crescerebbe l’offerta, il prezzo del prodotto e l’immagine del territorio”.

Consorzio di tutela del Radicchio di Chioggia Igp | Mercato Orticolo di Chioggia Località Brondolo 30015 | Chioggia - VENEZIA consorzio@radicchiodichioggiaigp.it | www.radicchiodichioggiaigp.it

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Consorzio di Bonifica Adige Euganeo,

le politiche per lo svecchiamento del parco mezzi pagano

La scelta di investire 500-600 mila euro l’anno, per avere macchinari di ultima generazione ed efficienti, ha dato luogo a un minor costo del personale e migliorato l’operatività del 10%-12% aumentando la sicurezza sul lavoro degli operatori Un parco mezzi moderno e in perfetta efficienza rappresenta il punto di forza del lavoro di qualsiasi azienda e anche per il Consorzio di bonifica Adige Euganeo è stato uno dei settori il cui recente ammodernamento sta avendo ricadute molto positive sull’efficienza e la sicurezza del lavoro quotidianamente svolto.

L’utilizzo di mezzi più prestanti ed efficienti ha dato luogo ad un aumento di produzione dei lavori stimato in un 12% per gli interventi inerenti allo sfalcio erboso e del 10% per l’escavo ed espurgo dei canali del Consorzio

Qualche anno fa – spiega il presidente dell’Ente, Michele Zanato – è stata fatta una stima del valore di un parco mezzi adeguato all’operatività del Consorzio. La cifra è risultata

importante: circa 8 milioni di euro per l’acquisto di trattori, escavatori, motrici e degli altri macchinari necessari agli operatori e alle maestranze impiegate nei vari settori di intervento. Al tempo la dotazione era di circa 100 mezzi di proprietà la cui efficienza era però pregiudicata dal fatto che in parte erano strumenti data-

È stata fatta una stima del valore di un parco mezzi adeguato all’operatività del Consorzio.

La cifra è risultata importante: a nuovo circa 8 milioni di euro ti, guasti, e quasi costantemente ricoverati in officina. Il che dava luogo ad una continua emorragia di risorse. La scelta dunque è stata quella di investire ogni anno tra i 400 e 500

Il presidente del Consorzio di Bonifica Adige Euganeo, Michele Zanato

mila euro per lo svecchiamento del parco macchine, in modo – che a regime raggiunto - le attrezzature non superasse mai i 10 anni di età. Per gli automezzi ad uso del personale, come autovetture, furgoni, pickup, invece, è stato scelto di abbandonare l’acquisto e preferire l’utilizzo a noleggio”.

I risultati sono stati immediatamente tangibili, in quanto un minor ricorso agli operatori dell’officina per la manutenzione dei mezzi, ha permesso di impiegare le loro competenze in rami del lavoro davvero pertinenti con gli obblighi del Consorzio, ossia nel mantenimento e nella cura degli im-

CONSORZIO DI BONIFICA ADIGE EUGANEO • Via Augustea, 25 ESTE (Pd) www.adigeuganeo.it • tel 0429.601563 • fax 0429.50054

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Per gli automezzi, come autovetture, furgoni, pickup, è stato scelto di abbandonare l’acquisto e preferire l’utilizzo a noleggio pianti come idrovore, paratoie e dei sistemi per l’approvvigionamento idrico a scopo irriguo.

“La riduzione del personale preposto alla cura degli automezzi – continua il Presidente – ha permesso economie che oggi coprono quasi del tutto il costo dei mutui annui accesi per l’acquisto dei nuovi macchinari, creando, in questo modo, un ciclo virtuoso che non pesa sulla cassa dell’ente”.

Ma i miglioramenti sono evidenti anche nell’operatività quotidiana: impiegare mezzi moderni ed efficienti significa sveltire il lavoro e coprire una maggiore superficie di territorio. Per quanto riguarda l’aumento di produzione dei lavori svolti in diretta amministrazione, nel 2020, è stato calcolato un incremento, rispetto all’anno precedente, del 12% per gli interventi inerenti allo

sfalcio erboso e del 10% per l’escavo ed espurgo dei canali del Consorzio. Va ricordato, comunque, che il programma di taglio delle erbe sul fondo e sulle sponde dei canali principali e dei collettori secondari è influenzata da molteplici fattori, come l’andamento meteo o i sempre più stringenti adempimenti ci carattere ambientale come l’analisi chimica dei fanghi e pratiche telematiche presso ARPAV. “I contratti che vengono stipulati per il noleggio e per gli acquisti – precisa ancora il presidente Zanato – includono anche un periodo di cinque anni per la manutenzione, il che estende ulteriormente la garanzia di un ricorso davvero limitato del nostro personale e un parco mezzi sempre nuovo e al massimo dell’efficienza. Valori che devono essere estesi anche ad una maggiore sicurezza sul lavoro dei dipendenti, una sicurezza sempre importante se si considerano i contesti in cui si svolge il lavoro sia per la bonifica sia per la gestione della rete di approvvigionamento idrico a scopo irriguo. Ecco si tratta di scelte, di indirizzi che l’Amministrazione dell’Ente sta portando avanti con determinazione, tanto che gli avanzi di ammi-

nistrazione vengono destinati allo stesso scopo e lo scorso anno ci ha consentito di raggiungere i 600 mila euro da investire nel parco mezzi del Consorzio di Bonifica Adige Euganeo”.

Per quanto riguarda l’investimento di quest’anno, invece, l’ente ha previsto l’acquisto di un escavatore gommato da 150 quintali con lama posteriore e braccio penetratore di lunghezza compresa tra 3.100 e 3.500 mm, omologato per la circolazione stradale con benna montata, che andrà a sostituire una pala meccanica gommata del 2003 e un autocarro a due assi con gru da 30 quintali e cassone ribaltabile trilaterale con sponda bassa che prenderà il posto di un pari mezzo il cui impiego risale al lontano 1992.

La dotazione è di circa 100 mezzi, Qualche anno fa la loro efficienza era pregiudicata dell’obsolescenza, in parte erano datati e spesso guasti

Per tenerti informato sull’operatività del Consorzio di Bonifica Adige Euganeo e sui progetti che riguardano il territorio, iscriviti alla newsletter settimanale, basta entrare nel sito www.adigeeuganeo.it, cliccare sul tasto “Contatti” e registrarsi

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LO SGUARDO OLTRE LA SIEPE di Ada Sinigalia

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LO S G UA R D O OLTR E L A SIEPE

SICUREZZA ALIMENTARE, l’Italia al primo posto in Europa

“

Ogni anno l’Agenzia europea per la sicurezza alimentare (EFSA) pubblica un rapporto sulla presenza di pesticidi rilevati sugli alimenti venduti in Europa. Secondo gli ultimi dati diffusi ad aprile emerge che il cibo Made in Italy è molto più sicuro rispetto agli alimenti stranieri

I PRODOTTI AGROALIMENTARI EXTRACOMUNITARI HANNO RESIDUI CHIMICI IRREGOLARI PARI AL 5,6% RISPETTO ALLA MEDIA UE DELL’1,3% E AD APPENA LO 0,9% DELL’ITALIA

N

el 2018 le Nazioni Unite hanno deciso di istituire, a partire dall’anno successivo, la prima Giornata internazionale della sicurezza alimentare. Un tema che interessa tutti i paesi del mondo e che per tutti si celebra il 7 giugno.

Lo scopo era ed è quello di sensibilizzare l’opinione pubblica e promuovere misure volte a prevenire e gestire i rischi trasmessi dagli alimenti, contribuire alla sicurezza alimentare, alla

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Il nostro paese è al primo posto in Europa nella classifica delle aziende agricole impegnate nel bio, con circa 80 mila attività già convertite a questo tipo di disciplinare

salute umana, alla prosperità economica, all’accesso ai mercati, al turismo e allo sviluppo sostenibile. Il problema, dunque, è serio per diversi aspetti e il primo riguarda le malattie a trasmissione alimentare che ogni anno colpiscono circa 600 milioni di persone, con grave rischio soprattutto dei bambini. La sicurezza alimentare, è cruciale per la salute globale, ma anche per far fronte ai cambiamenti climatici e dare vita a sistemi alimentari sostenibili a

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livello mondiale.

Ogni anno l’Agenzia europea per la sicurezza alimentare (EFSA) pubblica un rapporto sulla presenza di pesticidi rilevati sugli alimenti venduti in Europa. Secondo gli ultimi dati diffusi ad aprile emerge che il cibo Made in Italy è molto più sicuro rispetto agli alimenti stranieri che arrivano dall’Unione Europea e di quelli provenienti da Paesi extracomunitari. In particolare, i prodotti agroalimentari extracomunitari hanno residui chimici irregolari pari al 5,6% rispetto alla media Ue dell’1,3% e ad appena lo 0,9% dell’Italia. EFSA ha analizzato capillarmente 96.302 campioni di alimenti in vendita nell’Unione Europea fornendo uno spaccato della presenza dei residui di pesticidi su frutta, verdura, cereali, latte e vino, prodotti all’interno dei Paesi dell’Unione o provenienti dall’estero.

Sulla base dei dati raccolti e con quelli resi disponibili dal Ministero della Sa-

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L’Italia detiene la leadership indiscussa della qualità alimentare grazie a 313 specialità Dop/Igp/Stg, 415 vini Doc/Docg e 5.155 prodotti tradizionali regionali.

“

TRA I PRODOTTI PIÙ CONTAMINATI CI SONO I MELOGRANI DALLA TURCHIA, IL TÈ DALLA CINA, IL DRAGON FRUIT DELL’INDONESIA, LE OLIVE DA TAVOLA DELL’EGITTO

LO S G UA R D O OLTR E L A SIEPE

Un chilo di ciliegie dal Cile per giungere sulle tavole italiane deve percorrere quasi 12mila chilometri, comportando un consumo di 6,9 chili di petrolio e l’emissione di 21,6 chili di anidride carbonica

lute, sul “Controllo ufficiale sui residui dei prodotti fitosanitari degli alimenti”, Coldiretti alcuni mesi fa ha stilato una black list dei cibi più contaminati provenienti dall’estero. Con un campione sui cinque (20%) sono risultati irregolari per la presenza di residui chimici i peperoncini piccanti provenienti da Repubblica Dominicana, le bacche di Goji provenienti dalla Cina ed il riso dal Pakistan. Tra i prodotti più contaminati ci sono anche i melograni dalla Turchia con quasi un campione irregolare su dieci (9,1%), il tè dalla Cina, l’okra (o gombo) dalle sembianze di una piccola zucchina importata dall’India, il dragon fruit proveniente dall’Indonesia dall’aspetto particolarmente decorativo, i fagioli secchi provenienti dal Brasile ed i peperoni dolci e le olive da tavola provenienti dall’Egitto.

Si tratta di prodotti arrivati in Italia con elevati livelli di irregolarità perché contaminati dalla presenza di insetticidi a conferma delle preoccupazioni espresse recentemente dalla Corte dei Conti europea. È evidente quindi l’importanza di consumare prodotti Made in Italy per il loro primato nella sicurezza alimentare a livello internazionale ed europeo. A preoccupare è la presenza sul territorio nazionale di alimenti di importazione con elevati livelli di residui e il consumo da parte dei cittadini che devono essere consapevoli delle loro scelte alimentari.

Un aiuto ai consumatori viene dall’obbligo di indicare il Paese di origine in etichetta, in vigore ormai per la maggioranza degli alimenti in vendita, dalla frutta alla verdura fresca, dalla pasta al riso, dalle conserve di pomodoro ai pro-

i piedi per terra

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LO S G UA R D O OLTR E L A SIEPE

Nell’anno della pandemia i prodotti biologici hanno conosciuto un vero e proprio boom toccando i 3,3 miliardi di euro nei consumi

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“

dotti lattiero caseari, dal miele alle uova, dalla carne bovina a quella di pollo fino ai salumi per i quali è stato da poco pubblicato il decreto. È necessario però che tutti i prodotti che entrano nei confini nazionali ed europei rispettino gli stessi criteri a tutela della sicurezza dei consumatori e che dietro gli alimenti, italiani e stranieri in vendita sugli scaffali, ci sia la garanzia di un percorso di qualità che riguarda l’ambiente, la salute e il lavoro, con una giusta distribuzione del valore.

L’allarme globale provocato dal Coronavirus ha fatto emergere una maggior consapevolezza sul valore strategico della filiera del cibo e delle necessarie garanzie di qualità e sicurezza. Nell’anno della pandemia infatti, secondo Coldiretti, si é verificato un aumento del 26% della spesa fatta direttamente dal contadino e un vero e proprio boom è stato riscontrato nel biologico, settore che ha toccato i 3,3 miliardi di euro nei consumi. L’Italia è al primo posto in Europa nella classifica delle aziende agricole impegnate nel bio, con circa 80 mila attività già convertite a questo tipo di disciplinare. Ma l’agricoltura italiana è prima in Europa anche perché è la più green e può contare sulla leadership indiscussa della qualità alimentare grazie a 313 specialità Dop/Igp/Stg, riconosciute a livello comunitario, 415 vini Doc/Docg e 5.155 prodotti riconosciuti come tradizionali regionali.

Consumare produzioni locali è un modo per mangiare sano, per aiutare l’economia del territorio e per ridurre l’inquinamento ambientale perché i cibi non devono percorrere lunghe distanze con le emissioni in atmosfera dovute alla combustione di benzina e gasolio. È stato calcolato, infatti, che un chilo di ciliegie dal Cile per giungere sulle tavole italiane deve percorrere quasi 12mila chilometri, comportando un consumo di 6,9 chili di petrolio e l’emissione di 21,6 chili di anidride carbonica, stessa cosa per un chilo di mirtilli dall’Argentina, mentre l’anguria brasiliana, che di chilometri ne deve percorrere nove mila, brucia circa 5,3 chili di petrolio e libera 16,5 chili di anidride carbonica. Qualche esempio dunque può bastare per renderci conto che la lotta al cambiamento climatico si può fare anche con il carrello della spesa: acquistare prodotti locali significa acquistare prodotti di qualità, ridurre l’inquinamento che proviene dai trasporti e anche quello degli imballaggi. Senza contare che rifornirsi di prodotti freschi significa avere più tempo per consumarli e ridurre lo spreco alimentare.

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La capitale della pesca in Italia diventa sempre più “green” Si stanno per concludere due importanti fasi sperimentali che porteranno alla realizzazione di un impianto di trasformazione dei rifiuti plastici in carburante e alla digitalizzazione della sala aste per una moderna Wall Street dell’Adriatico

Il Mercato Ittico all’ingrosso lo scorso anno ha tagliato il traguardo dei sessant’anni di attività

G

razie ad una marineria che conta più di 300 natanti, quello di Chioggia, è il primo mercato ittico all’ingrosso misto alla produzione d’Italia. Ogni giorno dallo stabilimento di via Poli transita il pesce pescato in mare, quello di laguna oppure quello allevato nelle valli del territorio.

Oltre al fresco nazionale viene commercializzato anche quello estero, sia congelato che conservato o surgelato per un quantitativo annuo complessivo che supera le 11 mila tonnellate, in buona parte commercializzate con aziende collegate con la grande distribuzione italiana, ma in parte destinate anche a raggiunge i paesi esteri: Spagna e Germania in primis. Il

Mercato ittico all’ingrosso di Chioggia, dunque, è una realtà economica importante che primeggia a livello nazionale, ma che attraverso il Consorzio del Distretto Ittico di Rovigo e Chioggia, che fattura circa 800 milioni di euro l’anno, raggiunge una statura predominante a livello continentale essendo il primo in Europa. Una rilevanza che assegna alla struttura del Mercato anche una responsabilità sulla risorsa a cui è direttamente collegato, il “mare”, in termini di tutela e di garanzia per il suo futuro.

“Come Mercato Ittico all’ingrosso – spiega il direttore, Emanuele Mazzaro – stiamo partecipando a diversi progetti dall’approccio scientifico e culturale sul problema dell’inqui-

La digitalizzazione del processo di vendita non farà cessare la tradizionale asta all’orecchio per la vendita del pescato

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Da anni i pescatori portano avanti iniziative per la raccolta della plastica in mare: nelle loro reti, oltre ai pesci, finiscono sempre più spesso rifiuti di ogni tipo, soprattutto di plastica che adesso potrà essere riutilizzata E ancora su una tecnologia all’anamento da plastica nel nostro vanguardia si scommette per Adriatico. È caso dell’innovativo l’ammodernamento del Mercato MarGnet: Mapping and recycling Emanuele Mazzaro, of marine litter and Ghost nets on direttore del Mercato Ittico all’ingrosso di Chioggia attraverso la digitalizzazione del processo di vendita. Un passo the sea-floor (Mappatura e riciclo importante che permetterebbe alla struttura di divendei detriti marini e delle reti fantasma sul fondo del tare una vera e propria “borsa internazionale dell’ittimare) coordinato dall’Istituto di scienze marine del co” e quindi un punto di riferimento sempre più imConsiglio nazionale delle ricerche di Venezia (Cnr-Iportante nell’Adriatico. smar) e finanziato dall’European Maritime and Fishe“Anche in questo caso – prosegue Mazzaro – il progetto ries Fund (EMFF) attraverso 22 progetti, per un totale vede la partecipazione di un istituto di ricerca impordi 14,5 milioni di Euro, tra i quali quello che ci riguartante, l’Università Ca’ foscari di Venezia, e riguarda da. Ossia lo sviluppo di un prototipo portatile – le dil’avvio di una stagione sperimentale che dovrebbe mensioni sono grosso modo quelle di un container – in partire entro il mese di giugno”. L’obiettivo è la realizgrado di trasformare, a costi relativamente contenuti, zazione di una sala aste paragonabile ad una piccola i rifiuti plastici presenti in mare in carburante per imWall Street. Verrà attrezzata con un grande ledwall, barcazioni attraverso un processo di pirolisi”. dove i prezzi scorreranno contestualmente alle venLa sperimentazione di questa nuova tecnologia è stata dite, il pesce verrà visualizzato attraverso telecamere condotta presso Mercato Ittico di Chioggia sfruttando così che gli acquisti potranno essere fatti anche a dila funzione ecologica della pesca. Da anni i pescatori stanza e le operazioni di vendita verranno registrate portano avanti iniziative per la raccolta della plastica nei database del Mercato stesso, garantendo tracciain mare: nelle loro reti, oltre ai pesci, finiscono sempre bilità e tutte le certificazioni di garanzia sulla qualità. più spesso rifiuti di ogni tipo, soprattutto di plastica “Il nuovo sistema di produzione del prezzo – conclude che adesso potrà essere riutilizzata. il direttore Mazzaro – non sostituirà del tutto quello “Noi pensiamo – prosegue il Direttore - che il riciclo precedente con l’asta all’orecchio, la tradizione verrà sia la risposta migliore da dare al problema, togliere i rispettata, tuttavia questo nuovo sistema ci permetrifiuti dal mare non è sufficiente, è necessario invece terà di raggiungere una clientela sempre più internatrasformarli e farli tornare una risorsa. Originariazionale e, in chiave ecologica, di ridurre gli accessi di mente il progetto prevedeva solo l’utilizzo della placamion e furgoni in città e quindi le fonti inquinanti, stica recuperata in acqua e nei fondali ma visto che perché il pesce potrà essere spedito in ogni parte del per l’incassettamento del pesce si usa il polistirolo, e mondo con mezzi e strumenti veloci e affidabili. È imal mercato ne viene impiegato molto e spesso diventa portante che il Mercato Ittico di Chioggia continui la rifiuto, abbiamo pensato di inserire anche questo masua marcia verso il futuro e lo faccia in modo sempre teriale nel processo di trasformazione. Finita la spepiù sostenibile, garantendo una forma di rispetto alla rimentazione, il progetto ha dato i risultati sperati, e sua risorsa, il mare, e confermi il proprio ruolo di prequindi ora è possibile pensare alla realizzazione di un minenza nella filiera europea”. vero e proprio impianto”.

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ALIMENTAZIONE E SALUTE a cura del prof. Adriano Mollica

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A L IMEN TA Z IONE E SA LUTE

Ci stiamo

mangiando

il MONDO La scienza si chiede se esista un modo per ridurre l’impatto dell’agricoltura e dell’allevamento sul pianeta e se, addirittura, esista la possibilità di portare ad un beneficio per il clima

A

#c o ni p i e d i p e r t er ra

l mondo della scienza ormai è evidente: molti dei sistemi con cui produciamo cibo hanno accelerato il cambiamento climatico. Oggi la domanda a cui cercano di rispondere i ricercatori è se esista un modo per ridurre l’impatto dell’agricoltura e dell’allevamento sul pianeta e se, addirittura, esista la possibilità di portare ad un beneficio per il clima attraverso questi.

In Danimarca, ad esempio, esiste un progetto costituito da una piccola serra, un ambiente chiuso e monitorato, dove viene allevata una mucca di nome Daisy. A supervisionare il benessere della mucca c’è un team di professori dell’Università di Aarhus. Daisy vive isolata all’interno della serra in modo che sia possibile misurare la sua emissione gassosa. I rigurgiti delle mucche, infatti, sono ricchi di metano, un gas serra tra i responsabili del cambiamento climatico. A produrlo è lo stomaco dei ruminanti, dove si trovano delle colonie di microbi, chiamati Archaea, che avviano la fermentazione di cibi a basso contenuto nutritivo, come erbe e foglie, per estrarre quanti più nutrienti possibile. Ed è su questi microbi che si stanno spostando le attenzioni dei ricercatori, perché se si riuscisse ad evitare la produzione di metano, avremmo allevamenti climaticamente neutri.

Un altro progetto rivolto a contenere la presenza di metano nell’atmosfera, invece, riguarda la sua cattura attraverso fonti alimentari alternative come le alghe.

L’asparagopsis è una specie di alga di acqua dolce coltivata in Australia, contiene un composto chiamato bromoformio che si lega al metano. Le alghe, introdotte nell’ alimentazione della mucca per circa il 2% del L’industria del bestiame rappresenta il 40% di tutte le emissioni di metano provenienti dalla produzione alimentare

fabbisogno alimentare provocano una riduzione delle emissioni di metano dell’animale fino al 98%.

Ci sono, tuttavia, dubbi sul fatto che alle mucche piaccia il sapore delle alghe, in alcuni esperimenti il bestia​​ me ha ridotto la quantità di cibo assunta, dopo che le alghe sono state introdotte nella loro dieta. Il bromoformio inoltre può essere cancerogeno negli esseri umani, sebbene ci siano poche ricerche per dimostrare se questo venga trasferito alla carne e al latte.

Sulla costa sud-occidentale dell’isola di Vancouver nella Columbia Britannica, in Canada, invece, alcuni scienziati in sinergia con agricoltori stanno lavorando per migliorare i loro allevamenti di alghe marine affinché diventino i più grandi del Nord America. Queste alghe commestibili sono una delle poche fonti vegane di vitamina B12 e per crescere richiedono solo il mare e la luce del sole.

Il processo di coltivazione inizia raccogliendo le alghe e facendole riprodurre in vivaio. Dopo 45 giorni, le piantine sono sufficientemente sviluppate per essere dislocate in mare dove sono attaccate alle linee di coltivazione.

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dei raccolti e reso possibile il nutrimento di una popolazione in rapida crescita, alcune pratiche possono degradare il suolo. Ed è su questi aspetti che interviene l’agricoltura rigenerativa, ossia rivolta ad evitare una lavorazione eccessiva per lasciare intatta la struttura del suolo. Questo, insieme ad altre pratiche come l’uso di colture di copertura e piantagioni diverse associate, hanno lo scopo di aiutare a trasformare nuovamente il suolo in un deposito di carbonio. Con l’aiuto di tecniche di modifica genetica di precisione, alcuni ricercatori stanno sviluppando nuove varietà Diverse aziende di colture in grado di americane catturare più carbonio dall’atmosfera. specializzate Altre esperienze di nell’agricoltura ricerca sono rivolte di precisione verso l’agricoltura indoor, dove le colture sostengono crescono al coperto di aver ridotto in grandi capannoni l’uso di pesticidi senza utilizzo del suodel 70-90% rispetto lo, senza luce solare, riducendo significatialle coltivazione vamente l’uso di actradizionali qua e senza impiego di pesticidi, tuttavia questa tecnica non può essere applicata alle colture estensive come i cereali. Un’alternativa sono le serre con acqua di mare, che utilizzano solo acqua salata e luce solare per coltivare cibo, anche in ambienti desertici e inospitali. Resta poi da giocare la carta di un cambiamento della nostra alimentazione. Da qualche anno hanno preso piede anche in Veneto allevamenti

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L’agricoltura di precisione calibra esattamente la giusta quantità di acqua, di trattamenti chimici ed evita sprechi diffusi

A L IMEN TA Z IONE E SA LUTE

Non solo l’allevamento di alghe emette pochi gas serra, ma è 20 volte più efficace nel sequestrare il carbonio rispetto alle piante terrestri, secondo uno studio del 2019 dell’Università di Harvard. Quando le alghe crescono, una certa quantità di esse si depositano sul fondo nell’oceano profondo e rimangono per sempre nel sedimento. Questo permette una forma di sequestro permanente del carbonio. Allo stesso tempo in cui immagazzinano carbonio, le alghe assorbono anche i nutrienti in eccesso provenienti dai fertilizzanti che vengono dilavati nei fiumi e negli oceani. Una delle risposte che provengono dal settore primario negli ultimi anni è l’agricoltura di precisione, rivolta a calibrare esattamente la giusta quantità di acqua e di trattamenti chimici evitando sprechi diffusi.

Anche lo studio di nuove macchine agricole è piuttosto avanzato. Diverse aziende americane, che si stanno dedicando allo sviluppo di questi macchinari, sostengono di aver ridotto l’uso di pesticidi del 70-90% rispetto a quelle normalmente utilizzate nei metodi di coltivazione tradizionali. Si tratta di robot piuttosto sofisticati, dove delle telecamere sono collegate a uno spruzzatore semovente e a processori di computer che utilizzano un algoritmo di apprendimento automatico per riconoscere l’immagine acquisita in millisecondi.

Sulla base di queste informazioni, la macchina determina se spruzzare o meno l’erbicida. L’intelligenza artificiale viene addestrata per un paio di stagioni in modo da poter riconoscere l’erba e distinguerla dal raccolto.

Ma una nuova generazione di agricoltori spera di eliminare del tutto l’uso di fertilizzanti artificiali e pesticidi consentendo invece ai microrganismi naturali che vivono nel suolo di prosperare. Sebbene l’agricoltura industriale abbia determinato aumenti significativi

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di insetti da destinare al nutrimento umano. Grilli, coleotteri, cavallette contengono le stesse proteine della carne e fino a tre volte più vitamina B12. La ricerca mostra che non solo queste concentrazioni sono molto più elevate, ma sono anche più assorbibili. A differenza del manzo e del maiale, l’allevamento di insetti emette gas serra relativamente bassi e richiede pochissimo cibo, terra o acqua.

Ma ci sono esperienze anche più complesse e fantasiose, come quella di cui è protagonista l’Air Company, una startup con sede a New York, che ha recentemente lanciato Air Vodka, il primo liquore al mondo a utilizzare etanolo prodotto dalla CO2 catturata dall’aria.

La CO2 viene raccolta e combinata con l’idrogeno rinnovabile prodotto dall’elettrolisi dell’acqua per creare l’alcol.

Sebbene la vodka non possa risolvere i problemi di sicurezza alimentare globale, questi prodotti di consumo stanno contribuendo a creare domanda per la tecnologia di cattura del carbonio, che se implemen-

tata potrebbe svolgere un ruolo nella riduzione delle emissioni di CO2.

Non esiste un approccio miracoloso per rendere l’agricoltura e l’allevamento più sostenibile, ma i ricercatori e le aziende che sono all’avanguardia stanno dimostrando che ci sono soluzioni. La combinazione di innovazione tecnologica, nuovi modi di coltivare e ed allevare, e cambiare la domanda dei consumatori creerà un cambiamento significativo nell’impronta alimentare mondiale. Gli strumenti, la tecnologia e le pratiche che potrebbero trasformare completamente la produzione alimentare da un carico ambientale a una soluzione verde sono possibili, se usarli dipende da noi.

Hanno preso piede anche in Veneto allevamenti di insetti da destinare al nutrimento umano.

Grilli, coleotteri, cavallette contengono le stesse proteine della carne e fino a tre volte in più di vitamina B12

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Da Croigel un prodotto tradizionale da mettere in tavola ogni giorno Fatto a mano, pensato per la salute del nostro corpo e per tenere insieme le eccellenze del territorio in un alimento quotidiano

Il pane è la base dell’alimentazione di tutte le civiltà, un nutrimento che porta in se anche i valori culturali delle varie parti del mondo in cui viene prodotto perché da sempre non è fatto solo con acqua farina e lievito, ma dentro c’è anche la storia dell’uomo. Per questo Croigel nel Pan Veneto propone i sapori della propria Terra attraverso l’utilizzo di materie prime di grande qualità, attentamente selezionate, e un processo di produzione artigianale.

INGREDIENTI Il Pan Veneto viene realizzato impiegando solo farine di tipo “0” ottenute dal grano che cresce nei campi delle aziende agricole ubicate in provincia di Rovigo e Vicenza, e lavorate dal molino padovano Molino Cosma. L’Extravergine, invece, è quello ottenuto dalla spremitura di olive italiane, il lievito è il madre, l’unico a garantire una lievitazione lunga e un prodotto croccante, mentre il sale è di grotta, perché quello marino ormai è inquinato dalle microplastiche.

LAVORAZIONE Niente additivi, niente emulsionanti perché il pane buono deve saper trattenere almeno un breve soffio di vento del suo luogo di origine e quindi avere un’etichetta corta e una lavorazione manuale. Per questo i processi di produzione e il taglio qui sono ancora fatti dall’uomo, anzi da mani femminili perché la resilienza al passato è rimasta fin nel dettaglio della sensibilità che può essere espressa solo da una donna.

LIEVITAZIONE La lievitazione avviene su assi di legno, per far respirare il prodotto, lo scrupolo salutistico è stato esteso alla presenza di sale: via via diminuita sensibilmente all’interno degli impasti.

COMMERCIALIZZAZIONE Un prodotto pensato per tutti, rispettoso delle tipicità regionali, commercializzato surgelato attraverso la grande distribuzione, perché la sfida accolta oggi da Croigel è quella di portare in tavola la bontà del pane artigianale appena sfornato, a tutte le ore.

“Siamo convinti che la custodia dei luoghi e la salvaguardia delle tradizioni siano parte integrante della “visione” dell’agroalimentare, ossia di quel motore del cambiamento oggi più che mai necessario, perché un’idea nobile del prodotto della campagna è indispensabile per accendere il domani e per contrastare la logica della ricetta apolide, del protocollo seriale, della prospettiva meramente mercantile” Massimiliano Garbin, titolare di Croigel

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u q e La mission di Croigel è quella di an

portare in tavola la bontà del pane artigianale appena sfornato, a tutte le ore.

Lo facciamo ogni giorno da più di cent’anni, ispirandoci a valori che consideriamo parte fondante del nostro operato e della nostra professionalità: la passione e il rispetto per i nostri prodotti, il mantenimento del legame col territorio e le materie prime locali, l’ascolto attento dei bisogni delle persone.

L’attività di famiglia vede gli albori nel 1914, con l’apertura di un panificio a Conselve (Pd), piccolo borgo situato alle pendici dei Colli Euganei.

Nel 1985 abbiamo ampliato l’azienda, affiancando alle tradizionali lavorazioni artigianali le più moderne innovazioni tecnologiche. La maggiore automazione ha reso via via più efficiente il nostro processo produttivo, adeguandosi però sempre ai canoni e ai tempi dettati dalla tradizione, per continuare ad ottenere un prodotto rustico e artigianale, che risulti gustoso, digeribile e sano come il pane di una volta.

Questo connubio fra artigianalità e innovazione ci ha permesso di rispondere nel tempo alle nuove richieste del mercato, richiamando i principali marchi della grande distribuzione e alcuni player chiave del settore foodservice, dei quali siamo da anni partner produttivi di fiducia.

Arrivati oggi alla quarta generazione familiare di artigiani panificatori, il mantenimento della tradizionale qualità di un prodotto artigianale è ancor oggi la nostra missione, perseguita mediante l’impiego di materie prime di qualità 100% italiane e la scelta di una lavorazione manuale, rispettosa dei gesti della tradizione e dei tempi naturali di lievitazione.

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INGIROPIEDANDO a cura di Emanuele Cenghiaro

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ING IROPIEDA ND O

Il Veneto

sta dimenticando i suoi fiumi Erano le vie di comunicazione su cui si è fondata la nostra civiltà, trasportavano merci e persone, sulle sue sponde sono sorte le più belle ville del mondo. Oggi non godono più del nostro rispetto; peggio, ci suscitano indifferenza

N

on è più l’inquinamento il grande problema dei fiumi veneti, e italiani in generale, a parte qualche caso particolare. Non che non siano inquinati: negli anni però, tra depuratori, sistemazioni fognarie e maggiore attenzione dei cittadini, la situazione, come attestano i più recenti dati Ispra, è decisamente migliorata. L’ideale sarebbe fare un ulteriore passo… indietro, verrebbe da dire: a quando le acque erano più pulite e ci si poteva sguazzare.

Quanto indietro? Non tanto: un secolo. Vi sono foto che mostrano i bagnanti nella prima vera piscina pubblica di Padova, le acque del Bassanello all’Alicorno, e qualche anziano ricorderà ancora la spiaggetta del “peoceto” sul Brenta tra Limena e Altichiero. Senza parlare di canali e scoli di campagna, gioia dei bambini di una volta. Perché li abbiamo sempre amati, fin da piccoli, i nostri fiumi. Sono luoghi del cuore, punti di riferimento non solo geografici; certezze, anche se a volte spaventano o fanno ancora paura, quando si gonfiano e minacciano di esondare.

Il problema principale dei fiumi veneti, sembra di capire, è proprio questo: chi sono, cosa sono, per chi il Veneto, oggi, lo abita? Che ruolo hanno nella nostra società? Sono percepiti come risorse o come ostacoli? Forse rispondere a questa domanda aiuterebbe a rimetterli al centro, o per lo meno a dare loro un posto nella realtà contemporanea. Perché i fiumi sembrano avere, oggi, più colpe che meriti: in primo luogo, ci sono, e per il fatto che ci sono, intralciano. E poi, sono sporchi, come se fosse colpa loro.

E sono anche lenti... e la contemporaneità vuole velocità.

Forse proprio perché non li temiamo più, i nostri fiumi, e non sono più così misteriosi e affascinanti, non godono più del nostro rispetto; peggio, ci suscitano indifferenza.

“I fiumi non interessano a nessuno”, sentenzia Pietro

Rettifica: nel numero 40, a questo numero di pagina abbiamo pubblicato un’immagine riferita all’avvistamento della lupa Cecilia attribuendone la proprietà ai Carabinieri Forestali, in realtà la paternità va riconosciuta ad Elena Rizzo e Aldo Tonelli.

Ci scusiamo con gli interessati.

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I fiumi veneti erano le vie di comunicazione, su di essi venivano trasportate merci e persone. Sulle sponde di alcuni sono sorte le più belle ville del mondo

Casetta, geografo e grande appassionato dei fiumi veneti dove ha provato a promuovere il turismo fluviale.

Una cosa che dovrebbe, almeno quella, essere lenta per definizione. “Per decenni mi sono impegnato provando a valorizzarli anche turisticamente. La realtà è che il risultato è stato poco. Perché il Veneto, a parte pochi imprenditori illuminati, non ha una mentalità turistica. A Padova ad esempio il turismo fluviale è di fatto garantito da una sola compagnia di navigazione.

In generale, un po’ ovunque la navigazione è vista come il fumo negli occhi. Un esempio? L’idrovia Padova-Venezia: sono tutti d’accordo a farne un canale scolmatore delle piene, ma non a farne una linea fluviale navigabile. A nessuno interessa rimettere la navigazione al centro dei programmi: per il suo rilancio, prima ancora che “infrastrutture” come ponti e strade, servono persino le basilari “strutture”. Anche trovare un ristorante lungo il fiume per portarci a pranzo i turisti fluviali è un problema”.

L’idrovia come “scolmatore”, i fiumi come “scoli”, piccoli o grandi. Come possono riprendere il loro ruolo “affettivo” e centrale, i nostri corsi d’acqua, se li consideriamo alla stregua di tubature a cielo aperto? Diventato grande, dei suoi fiumi il Veneto moderno sem-

bra farsene poco: eppure erano le vie di comunicazione su cui si è fondata la nostra civiltà, trasportavano merci e persone, sulle sue sponde sono sorte le più belle ville del mondo. Erano crocevia, luoghi di scambi, fonti di sussistenza e lavoro. Poco rimane di tutto questo. Gli argini sono piste per runners e per portare a spasso i cani, e qualche comitiva vi fa scampagnate domenicali.

Dei fiumi si interessano, invece, le organizzazioni agricole: perché non portano mai abbastanza acqua per irrigare le campagne, sempre più assetate, complici i cambiamenti climatici e le colture esigenti. Serve più

Dei nostri fiumi si frequentano esclusivamente gli argini per fare footing o per le escursioni in bicicletta

I corsi d’acqua sembrano avere, oggi, più colpe che meriti: intralciano, poi sono sporchi e sono anche lenti

ING IROPIEDA ND O

Il geografo Pietro Casetta

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ING IROPIEDA ND O Gli esperti avvisano da tempo che l’acqua potabile è in diminuzione, che bisogna gestire meglio quella che c’è, raccogliere e trattenere quella piovana

L’idrovia Padova-Venezia: tutti d’accordo a farne un canale scolmatore delle piene, ma non a farne una linea fluviale navigabile

acqua proprio quando ce n’è meno: gli esperti avvisano da tempo che l’acqua potabile è in diminuzione, che bisogna gestire meglio quella che c’è, raccogliere e trattenere quella piovana.

Cambiare tipo di colture seminando piante meno esose. Chi raccoglie e trattiene l’acqua in montagna, però, sono soprattutto i bacini idroelettrici: e a loro serve per produrre energia, rilasciandola quindi poi in base alle loro esigenze e non a quelle dei germogli sui campi o dei turisti sui litorali.

L’ultimo spavento per gli agricoltori si chiama “deflusso ecologico”, una direttiva europea che impone agli stati di garantire una portata minima per ogni fiume. Dovrebbe entrare in vigore nel 2022. Regione e organizzazioni agricole, critiche sui metodi dei calcoli che non terrebbero conto della tipicità di alcuni fiumi veneti, che alternano momenti di abbondanza e altri di magra, stanno cercando la via della me-

#c o ni p i e d i p e r t er ra

Nel 2022 dovrebbe entrare in vigore la direttiva europea del “deflusso ecologico”. Secondo la Regione e le organizzazioni agricole se nei periodi di magra si dovesse garantire la portata minima prevista, fiumi come il Brenta dovrebbero tenere chiuse le derivazioni e lasciare all’asciutto centinaia di ettari di campagna

diazione, di chiedere rinvii e ricalcoli delle portate minime, per evitare lo spauracchio. Secondo le loro previsioni, infatti, se nei periodi di magra si dovesse garantire la portata minima prevista, fiumi come il Brenta dovrebbero tenere chiuse le derivazioni e lasciare all’asciutto centinaia di ettari di campagna, anche in periodi in cui sarebbe essenziale irrigare.

“Parlare di deflusso ha senso se non è fatto con il bilancino – conferma anche Casetta – perché la portata minima, che in genere è a febbraio e luglio, va vista non in metri cubi solamente, ma in funzione della vegetazione che si vuole ottenere, della navigabilità, della puzza che, soprattutto d’estate, penso si voglia evitare”.

Anche per garantire la navigabilità, e quindi il turismo fluviale, serve un minimo d’acqua nei canali: e, di nuovo, si rischia che interessi contrapposti cozzino tra loro. Forse sarebbe bene cominciare a rimettere al centro il bene dei fiumi, con tavoli e progetti che travalichino i confini delle regioni, gli interessi troppo localistici, quelli troppo commerciali. Considerare i fiumi per quello che sono, delle vene e delle arterie che portano la vita dove transitano. C’è da scommettere che tornare a ridare loro il giusto rispetto e la precedenza nelle scelte, come ai tempi della Serenissima, sarà in futuro, di nuovo, una priorità: c’è da convincerci che il resto – più acqua, sicurezza, agricoltura, turismo, pesca, lavoro, economia – non potrà che discenderne come necessaria conseguenza.

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i sapori dell’estate a Sottomarina Un menù che contempla il meglio dei prodotti del mare interpretati secondo tradizione ma anche originalità.

Un’offerta che parte dagli antipasti arriva al dolce e alle pizze.

La cucina e la sala sono attrezzate per banchetti e cerimonie

La possibilità di pranzare o cenare in riva al mare, in un angolo di spiaggia davanti al quale si stende l’estate che rende Sottomarina uno dei luoghi più gettonati dal turismo balneare. Un menù che contempla il meglio del pescato fresco, approvvigionato al mercato ittico cittadino, preparato secondo tradizione ma in chiave gourmet, con il compendio delle migliori etichette del buon bere nazionale e internazionale. Un fiore all’occhiello del menù sono le 80 scelte di pizza, cotte rigorosamente in forno a legna e preparate con impasti e ingredienti per rispondere alle esigenze dei palati più esigenti.

250 posti a sedere tra sala, veranda, terrazza e chiosco

Armido e Fabrizio insieme alle rispettive mogli Daniela e Nadia, ristoratori di conclamata tradizione e di grande esperienza, sono interpreti di quell’intelligente predilezione di portare in tavola soltanto la qualità e tutte quelle eccellenze che rappresentano per storia e tradizione il territorio.

I tavoli affacciano direttamente sul mare.

Il ristorante è aperto tutti i giorni dalle 12.00 alle 14.30 e dalle 18.30 alle 23.00 Il lunedì i mestoli riposano

Lungomare Adriatico - Lato Nord, 30015 SOTTOMARINA (VE) 4965367 | mob 339 6684500 | mail ristorante.minerva@libero.it www.ristorantepizzeriaminerva.it

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FI

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LA MEMORIA DI CARTA di Mauro Gambin

L A MEMOR IA DI C A RTA

Un PAESE di FIUME che ASSOMIGLIAVA

ad un PAESE di MARE Sono di ieri i ricordi di un tempo in cui l’uomo faceva parte del paesaggio.

Oggi essersi abituati ai mondi virtuali, forse, significa aver perso contatto con l’orizzonte reale Dove inizia il fiume? Dall’argine? Dalla sponda dove bagna l’acqua? E quando è in magra e il fondo diventa terra cosparsa di scarpe vecchie, bottiglie sporche, pietre, rifiuti: sono essi fiume? Quanta acqua serve per esserlo? Quanto di quel fondo deve rimanere inaccessibile, a chi è dotato di gambe, per restare fiume e non terra bagnata calpestabile?

Io credo sia quell’anima nera e profonda, fredda, carica di corrente, a trattenere il suo segreto, il suo nome, le sue ultime sembianze. Non ci si arriva mai a piedi al fiume, in quel metro che sta più in là c’è la vita insondabile e segreta che lo rende diverso dall’essere fatto di sola acqua.

IL

fiume è sempre stato là, nel suo rotondo e verde gomito d’argine che abbraccia due lati del paese. Un corpo idrico in mezzo ad altri corpi formava una comunità perché, prima che arrivassero le paure legate all’inquinamento o quei timori che progressivamente si sono estesi a tutti i luoghi poco frequentati, con l’Adige il mio paese aveva confidenza. L’acqua, certo, aveva già trascinato via gli ultimi nomi di mestieri appena morti, come il passatore del traghetto, il cavatore di sabbia, il mugnaio con il suo mulino galleggiante. Erano già evidenti i segni di un passato ormai svuotato, beccheggiante, con storie alla deriva di uomini che per professione erano stati in mezzo alla corrente, avevano assunto le forme dei luoghi poco frequentati, avevano occupato spazi ai più sconosciuti, raggiungendo angoli che non avevano nomi. Perché il fiume, salvo per pochi elementi fissi,

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www.c onipie dip er ter ra.it | n. 41 | Con giovani, famiglie intere srotolavano gli asciugamani sotto ombrelloni sdruciti e sbiaditi o ripari di frasche per trascorrere il pomeriggio. Ed era proprio la gente ad aggiungere un sentimento nuovo a quell’angolo di paese, anzi a togliere l’anima selvatica e pericolosa che emanava nel resto dell’anno e a farlo diventare un luogo del divertimento. C’era chi rifiutava il mare vero per la spiaggia dell’Adese, convinto che non ci fosse un altro posto come questo, un posto in cui non sentirsi un ospite, un turista, un visitatore, uno di passaggio che si adatta alle regole della spiaggia chiedendo permesso. Non aveva proprietari o gestori l’Adige, era nostro di giorno e anche di notte e le mie estati in paese sono piene di ricordi balneari: bagni, tuffi, gite in barca e giovani seduti sotto alla luna, attorno ad un fuoco, anche se eravamo solo campagne.

Ma oltre alla spiaggia c’era l’acqua e il suo fascino legato al pericolo e all’iniziazione. Perché il fiume anche uno stato emotivo, un sentimento che ne inspessisce il corpo, ne crea il mito o la statura naturale. E l’averne timore era connesso al suo nome. Timore, non paura, perché quella porta a fuggire dal confronto, ma timore - ti, ti - come timidezza, da superare. Aveva molti morti sulla propria coscienza quell’acqua, aveva ucciso indistintamente i tedeschi durante la ritirata, che su imbarcazioni di fortuna avevano provato a raggiungere la

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L A MEMOR IA DI C A RTA e a Masi.

aggia dell’Adig oterapici sulla spi 1939. I centri eli della salute. go luo un era Il grande fiume

Anni 50 scension/60. Lo Sposalizi benedivae e voleva essereo del Fiume. Si era più fr le acque e poi lal’omaggio della teneva la dome verso il fi equente una pa nciava in acqua comunità al gra nica più vicina a nd ll’A ume e om lla un aggio pe (bala) dello ste a croce di cera, e fiume. Il parrocoss tr r guadag narsene o materiale, sim a altre comunità bolo del i favori rispetto

#c o ni p i e d i p e r t er ra

è acqua e non è possibile farci sopra una geografia. Mestieri solitari che rendevano i loro interpreti quasi invisibili, lontani e allo stesso tempo prossimi come i segreti, complici di chi non si azzardava a rivelarli. Il fiume dava, l’uomo prendeva e non diceva niente a nessuno. Del resto l’Adige non possiede il mito del Po e nemmeno la retorica del Piave, l’Adige è operaio e lavorava in silenzio.

Ma d’estate il fiume sapeva anche divertire e farsi festa. Nei mesi caldi quando il corso perdeva portata, proprio appena più a valle del gomito che abbraccia i due lati del paese, ogni anno, riaffiorava il deposito di sabbia grigia e grossolana che la corrente accumulava là dove la sua forza era minore. Una lingua asciutta e pulita che prolungava la sponda verso il centro del corso, coronava piccole isole fluviali piene di un verde inaccessibile, che solo in questa stagione si ricollegavano al “continente”, e l’acqua tutt’intorno sprofondava gradualmente. Proprio come una spiaggia che noi chiamavamo “giaron” e che alcuni anni era grande, ma a volte anche grandissima, tanto da riuscire ad essere convincente come un nuovo paesaggio.

Un ultimo luogo, un nuovo angolo che si aggiungeva al resto del paese e ci offriva la possibilità o l’illusione di sentirci come un paese di mare. Ma forse non era un’illusione perché veramente quella striscia di sabbia ci portava ad avere abitudini diverse dagli altri. A luglio e ad agosto, in giro per il paese si andava con il costume da bagno sotto ai pantaloncini corti, le scarpe diventavano fuori ordinanza e si stava in ciabatte. Era un modo per essere sempre pronti, perché qualsiasi pretesto portava al “giaron”. Non ci si dava neanche appuntamento, si andava là, al fiume qualcuno si trovava sempre. Nei quindici giorni di Ferragosto, poi, si poteva anche arrivare a respirare la stessa aria disinvolta e mondana delle località balneari, il “giaron” diventava la terza piazza del paese, lì si concentrava la vita, scappando dall’afa si impegnava il tempo. Il sabato e la domenica erano i giorni in cui, come in tutte le spiagge, si raggiungeva la calca, il picco di presenze. Giovani, meno

i piedi per terra

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L A MEMOR IA DI C A RTA

Era la gente ad aggiungere un sentimento nuovo al fiume, a togliere quell’anima selvatica e pericolosa con la quale si era abituati a conoscerlo

nostra sponda, ma anche innocenti, bambini, una volta cinque, tutti fratelli. E per capire che il fiume possedeva una forza terribile bastava immergervisi. Raggiunta l’altezza delle spalle la corrente spinge e spinge da non lasciati in piedi. Non è come in piscina, da dentro, la sponda corre e scivola via da davanti agli occhi come la campagna dal finestrino di un treno. La prima volta fa paura, la seconda anche.

E pericolosa è anche l’acqua stessa: dall’odore organico di natura, pesante e sotto lo sfioro già con il buio e il freddo che proviene dal letto profondo. E come se sotto ci fossero delle finestre aperte, le percepisci in gradi centigradi le buche, gli avvallamenti, il letto che va giù a trovare i suoi abissi. Le cosce e le piante dei piedi scalze lo sentono. Dove i raggi del sole non penetrano, l’acqua ha temperature sinistre. E poi c’è il fondo, il letto lunare scavato dal corso in canyon nell’argilla scivolosa come la pelle di un pesce, la rassicurante sabbia, la piccola ghiaia, l’infida e puzzolente melma dei limi leggeri, sospensioni, che rinsaccano e depositano dove la velocità dell’acqua quasi si ferma. Lì il piede affonda in un tiepido calore biologico che sa di malattia. “Mai andare dove l’acqua è ferma, perché lì c’è la pipì dei topi”, la leptospirosi era uno dei timori da non sottovalutare. Dell’inquinamento, seppur forse maggiore di adesso, non avevamo consapevolezza. Il timore era per i “bovoli”, i mulinelli d’acqua che trascinavano sul fondo, le infide “buse”, le “ucce”, i pali di larice conficcati nel fondo, resti di antichi sostegni a manufatti che il tempo aveva divorato lasciando punte acuminate rivolte all’insù, le sabbie mobili.

Ecco i pericoli visibili avevano nomi, perché i paesaggi sono sonori e rispondono alla voce di chi li sa chiamare. Ma forse molti di questi pericoli erano solo leggende, utili, anzi indispensabili, per farti mettere sul naso gli occhiali del timore con cui guardare il fiume

Masi: lo scomparso ponte di ferro.

nella sua complessità. Un punto di vista e uno stato di attenzione che, esteso verso l’altrove, poteva essere buono anche per attraversare la corrente della vita. Poi la natura del fiume è come quella della montagna, se la conosci puoi goderti anche le sue insidie, “se impari a nuotare in Adige, non c’è acqua che ti possa annegare”. E conoscere l’Adige era un modo per entrarne nella sua anima, per mettere a frutto quel privilegio che possedevamo e che soprattutto d’estate diventava paese, il nostro paese, un paese di fiume che assomigliava ad un paese di mare.

Oggi in Adige non ci si va più. L’inquinamento è diventato un timore che moltiplica e supera tutte le insidie proprie del fiume. L’inquinamento ha cambiato la sua acqua ma ha cambiato anche noi. Gli spazi aperti ci spaventano perché evidentemente abbiamo perso la confidenza con il paesaggio, nella natura manca l’esperienza di tutti i giorni di quando eravamo “adesanti”: pescatori, cavatori di sabbia, mugnai, cavallanti o anche solo bagnanti.

Distante dall’acqua abbiamo perso familiarità con i suoi luoghi e anche con sui racconti, il fiume è come se non esistesse più. Il corpo idrico è diventato un corpo estraneo, per la gente è un “non luogo”, per questo il paese si è ritirato dalle sue sponde. Presente quando la signorina al mare prende la prima onda sopra le ginocchia? Ecco, così, con una smorfietta, ci si ritrae.

La pesca degli

Anni ’70. storioni in Adige

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Un poker di vini per brindare all’estate

A Carbonara di Rovolon la storica cantina propone le sue etichette abbinandole all’arrivo della bella stagione

A

zienda Agricola Reassi significa una lunga storia dedicata al vino, quella della famiglia Bonato che da tre generazioni è legata alla sua terra - sui Colli Euganei - e da essa è riuscita a ricavarne il meglio assecondandone la natura vulcanica e l’anima fertile. Ed è proprio su questo rispetto per l’ambiente, osservato anche abbracciando l’agricoltura biologica, e sulla scrupolosa osservanza della tradizione, tanto da puntare decisa sui vitigni autoctoni, che la storica cantina ha fondato la propria identità. Oggi i vini etichettati Reassi sono presenti nelle principali guide del settore enologico ed eletti ai vertici della produzione locale dai più importanti concorsi vinicoli nazionali e internazionali.

La proposta che strizza l’occhio all’arrivo della stagione calda:

ANTICHI REASSI

TERRE D’ARGILLA COLLI EUGANEI MANZONI BIANCO DOC

MARZEMINA NERA BASTARDA, TURCHETTA, CORBINA IGP

L’ANTENATO

FIOR D’ARANCIO

Il Pinello è uno dei vitigni autoctoni più antichi e rari dei Colli Euganei, un’istituzione tra le etichette del territorio e per questo la versione Reassi lo presenta in purezza valorizzandone l’armonia, la leggerezza e il carattere frizzante. Un vino social per questo si presta ad essere un ottimo aperitivo o il compagno ideale per piatti di pesce e formaggi delicati.

Un vino figlio del terroir! Sono i suoli argillosi degli Euganei e l’esposizione dei vigneti a conferire ad ogni calice una particolare freschezza, una notevole eleganza e una spiccata mineralità. Il suo carattere spensierato e brioso dialoga volentieri con i risotti o con la pasta all’uovo fatta in casa. Da provare e riprovare con il baccalà o con il pesce al forno.

Antenato perché prodotto con vecchie varietà autoctone e perché è un vino che ricorda i sapori veneti della tradizione grazie a note schiette e fruttate. Le uve principalmente impiegate sono quelle della Marzemina nera bastarda mentre la Turchetta e la Corbina apportano morbidezza, colore e rotondità. Perfetto con le carni alla griglia, con le verdure o con i formaggi stagionati. Ottimo d’estate servito leggermente fresco.

Il Moscato Giallo è la vera immagine enologica delle alture padovane e lo spumante è la versione, forse, più conosciuta del Fior d’Arancio, quella dolce e briosa dal colore brillante e i riflessi dorati.

Il profumo intenso di agrumi, il sapore dolce, fresco e piacevolmente aromatico lo rendono perfetto da abbinare alla pasticceria di fine pasto o come intrigante ingrediente di cocktail estivi.

COLLI EUGANEI PINELLO DOC

COLLI EUGANEI SPUMANTE DOLCE DOCG

100% Pinella

100% Manzoni Bianco

Marzemina Nera Bastarda, Turchetta, Corbina

Moscato Giallo

Vigneto del 2008

Vigneto del 2007

Vigneto del 2007

Vigneto del 2000

Temperatura di servizio 6/8 C°

Temperatura di servizio 8/10 C°

Temperatura di servizio 16 C°

Temperatura di servizio 6/8 C°

AZIENDA AGRICOLA REASSI via A. Manzoni, 9 - 35030 CARBONARA DI ROVOLON (PD) info@reassi.it - www.reassi.it

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PANORAMA GASTRONOMICO di Michele Pigozzo

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PA NOR A MA G A STRONOMICO

L’ANGUILLA:

piatto povero diventato ricco anche di memoria

“

Un patrimonio oggi compromesso dall’inquinamento e da una scarsa considerazione culinaria

Uno dei pochi piatti che testimonia la ricchezza di pesci dei nostri fiumi e anche il sapore di una cucina d’altri tempi

S

#c o ni p i e d i p e r t er ra

ono solo di qualche generazione fa le diffuse testimonianze dello stato di limpidezza dell’acqua dei nostri fiumi, tanto pulita da poter essere bevuta. I nostri nonni, nati nella prima parte del Novecento, hanno avuto questa fortuna e per loro i corsi d’acqua, i piccoli laghi e persino le paludi costituivano una vera e propria risorsa, anche alimentare. E del resto all’estremità di una lunga pianura costruita con l’apporto detritico dei due fiumi più grandi d’Italia, in una terra dove l’acqua ha sempre costituito un eccesso, almeno fino alla bonifica veneziana di metà XVI secolo, il rapporto con canali, fossi, navigli doveva essere molto stretto anche sotto questo punto di vista.

Di sicuro chi abitava nelle loro prossimità non ha mai patito la fame, neanche nei secoli più bui.

Potremmo sicuramente affermare che lasciare libera la pesca nei pic-

coli specchi d’acqua equivaleva, per i governanti del tempo, concedere una misura equiparabile al welfare state, certo non era l’assistenzialismo, ma dava la possibilità di arrangiarsi e di “sfangarla” soprattutto in concomitanza di carestie e a siccità che compromettevano la disponibilità di altri beni alimentari. Sicché, salvo per alcune norme care alle Serenissima Repubblica, la pesca nei rii di campagna è sempre stata libera, anche per questo non è mai esistita una vera e propria categoria di pescatori, ma rimase una pratica all’abbisogna. E la disponibilità era varia e abbondante comprendendo: tinche, lucci, pesci gatti, carpe, storioni, celebri quelli dell’Adige e del Po dai quali si ricavava anche il caviale, barbi, cavedani e il famoso “pèssin”, ossia la fritturina mista di “aole” (alborelle), s’gardoe, (scardole) e gamberetti di fiume.

Un patrimonio oggi compromesso dall’inquinamento e da una scarsa considerazione culinaria.

Ma quando si parla di una cucina “identità del territorio” non si dovrebbe prescindere da questa storia. E quando qualche ristorante si premura di conservarne la memoria, il nostro plauso scatta automatico. E’ il caso della Trattoria alla

Baracca, storica osteria i cui battenti sono aperti dal 1950. Ossia da quando nella povertà dell’immediato dopoguerra, proprio dove il fiume Bacchiglione - in strada di Casale a Vicenza - forma un’ansa, esisteva una vera e propria baracca dismessa che la signora Luigia Bertuzzo, insieme ai figli Umberto e Orfeo Merlo, decise di acquistare per adibirla a punto di ristoro.

Divenne subito meta delle famiglie vicentine che nel dopolavoro, sotto l’ombra dei gelsi, trovavano un angolo di relax e di socializzazione. Umberto e Orfeo si dedicavano alla pesca, in quegli anni ancora florida e ben considerata, per preparare i piatti che sarebbero diventati dei riferimenti fissi nel menù di tutti i giorni: l’anguilla in umido (la bisàta) e la frittura di “pesce popolo” (pèsseto). Oggi in cucina c’è Maria Lidia, moglie di Umberto e dunque nuora della signora Luigia, la struttura è stata rinnovata, ma il menù è rimasto ancora quello delle origini. Gentilmente ci è stato concesso di estrapolarne un piatto per condividere con voi, lettori di Con i piedi per terra, la ricetta dell’anguilla.

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i piedi per terra

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PA NOR A MA G A STRONOMICO

Ingredienti per 4 persone

1 Kg di Anguilla circa 700 cl di olio di Arachidi 250 gr di burro 10 foglie circa di Lauro 50 gr a di formaggio gran grattugiato 250 cl di Prosecco sale, pepe farina bianca quanto basta

ANGUILLA BRASATA al LAURO su CROSTONI di POLENTA FRITTA o BRUSTOLÀ

Piatto che ho avuto il piacere di degustare e già la presentazione visiva, con quelle stupende fette di polenta abbrustolita dal colore giallo alla quale si accompagna la doratura perfetta dell’anguilla, fa scattare l’acquolina. Un equilibrio che dagli occhi passa alla bocca e al naso grazie alla morbidezza delle carni, alla cremosità della polenta e al profumo inebriante di pesce arrosto con il profumo di alloro acquisisce determinazione e grinta. Un piatto “ricordo meraviglioso” che degustato in un contesto amarcord, come quello della Trattoria la Baracca di Vicenza, mi ha portato a vivere un sublime stato di festosità.

Esecuzione Tagliare a tranci l’anguilla, aprirla a libro e lasciarla a bagno nell’acqua corrente per alcune ore.

Asciugarla, regolare di sale e pepe e infarinarla con farina bianca 00.

In una placchetta mettere il burro e l’olio, quando sono in temperatura metterci l’anguilla dalla parte della polpa e farla rosolare, dopo di che girarla aiutandosi con una spatola, aggiungere le foglie di lauro, il formaggio grana ed il Prosecco.

A parte preparare una comune polenta gialla, stenderla e lasciarla raffreddare.

Una volta fredda tagliare a listarelle e friggerla in una padella con abbondante olio o abbrustolirla sulla griglia.

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Far andare a fiamma viva ancora per qualche minuto dopo di che mettere in forno a 150° per circa 40 minuti.

LA RECENSIONE di Renato Malaman

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L A R EC ENSIONE

PERCHÈ

Recensione

Giovanni d’Este

e il suo ‘Cavallino’

Una storia tutta atestina quella di Chiodarelli, fatta di bontà e di tradizione, una pagina di cultura popolare scritta sotto i portici di via Cavour. Per celebrare i bigoli con la sopressa, il baccalà, i piselli di Calaone e vini alternativi dei Colli Euganei. Alle pareti i personaggi di Este immortalati da Mario Lasalandra

C

#c o ni p i e d i p e r t er ra

hi è più famoso? Giovanni Chiodarelli o la trattoria ‘Al Cavallino’? A Este questo cruccio non ce l’hanno affatto, poiché vedere associati l’oste più popolare della città a una delle trattorie del centro più radicate nella memoria collettiva è un’idea che piace assai.

Giovanni Chiodarelli, per gli amici ‘Ciopa’ per via della discendenza da una fortunata dinastia di fornai atestini (il fratello era ‘Piopa’ per via della statura), è uomo dalle molteplici esperienze in città e nella vicina Calaone. Locali, i suoi, che nell’immaginario collettivo ricordano cose buone e momenti belli, come lo storico ‘Tre Camini’ (locale della nonna, lasciato e poi ripreso nel 2005), la ‘Tavernetta Ceschi’ e ‘Le Ciacole’ di fronte al castello, dove ha conosciuto Monica. Chiodarelli ha lasciato l’impronta del suo sorriso bonario ovunque e i clienti continuano a seguirlo quasi fosse un pifferaio

magico. ‘Al Cavallino’, sotto i portici rustici di via Cavour, dove si affacciano tanti negozi storici di Este (persino una gloriosa tipografia artigianale), Chiodarelli sembra aver trovato la sua dimensione definitiva, grazie anche all’apporto di passione garantito dalla sua compagna Monica Danieli (nativa di Pozzonovo e per un per un periodo emigrata a Oggiono), che in cucina ci sa fare e non ammette compromessi con la tradizione. ‘Al Cavallino’ è una trattoria ritrovata. Quella storica sorgeva dall’altra parte di via Cavour ed era un vociante ‘porto di mare’ e di buone ‘ombre’. Il ‘Cavallino’ attuale è rimasto osteria nell’anima, perché a Giovanni e a Monica piace così.

Un presidio della tradizione, che ha saputo difendere il suo spirito ‘democratico’, ‘basic’ si ama dire adesso. Dove i piatti sono quelli della memoria, seppur opportunamente rivisitati. Il palato e la mente ne riconoscono il codice genetico: pensiamo ai bigoli con la

Renato Malaman, noto enogastronomo padovano visita per la nostra rivista i ristoranti della Bassa Padovana, dell’area euganea e dei territori limitrofi più ricchi di tradizione, per raccontare storie, personaggi e piatti che nel tempo li hanno resi celebri. esprimendo anche una sua valutazione sulla qualità attuale della proposta

L’interno del locale

Osteria nell’anima, un presidio della tradizione che difende il suo spirito Due celebri piatti del “Cavallino”: i bigoli con la sopressa e le tagliatelle fatte in casa con i piselli di Calaone

www.c onipie dip er ter ra.it | n. 41 | Con

I clienti continuano a seguirlo quasi fosse un pifferaio magico

Giovanni è alla perenne ricerca del prodotto nuovo e originale.

Che, va detto, propone sempre con un buon rapporto qualità-prezzo.

Come del resto sono generose le porzionature dei piatti. Sul tavolo l’extravergine euganeo.

L’ambiente è molto intimo: tanti tavolini nella saletta del bancone, dove il viavai è continuo. Poi c’è la sala più grande con alle pareti tante splendide foto dedicate ai personaggi di Este firmate dall’obiettivo artistico di Mario Lasalandra, fotografo atestino che ha saputo fissare e rendere storia tante figure della Este meno ufficiale.

Uno su tutti: la ‘Beina’, un’anziana gattara colta dal fotografo all’alba mentre, utilizzando una vecchia carrozzina, porta da mangiare ai gatti randagi nel parco del castello. Immagini cariche di poesia. La stessa di cui profuma questo locale autentico dove sono state scritte (e si stanno ancora scrivendo) belle pagine di vita quotidiana della città. Cavallino semplice e vero, il Giovanni d’Este se lo tiene ben stretto e la città gli è riconoscente.

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L A R EC ENSIONE

Giovanni e Monica, i fondatori

sopressa (cavallo, pardon Cavallino, di battaglia del locale persino durante la lunga stagione del delivery), agli gnocchi al ragù o con le erbette di stagione, ai maccheroncini primavera (con le verdure), ai tortelloni di baccalà con le cime di rapa, ai tortelloni alle ortiche saltati con noci e crema di parmigiano, alle pappardelle con oca e radicchio, ai risotti con gli asparagi o agli altri prodotti di stagione.

In questo periodo spopolano i piselli di Calaone: con le tagliatelle fatte in casa sono una goduria. E che dire dei secondi? Il baccalà è un piatto irrinunciabile: alla vicentina (o in ‘insalata’ d’estate). Lo era già al ‘Tre Camini’. Pensate poi al ‘musso’: non c’è piatto come lo spezzatino d’asino che accarezzi la memoria come questo. Tra i secondi spicca anche la trippa (sempre richiestissima), il guanciale di manzo al vino rosso, la tagliata di lombo, le scaloppe di vitello con i carciofi, la coscia d’anitra confit con l’indivia e l’ossobuco di vitello.

Insomma, un bel ripasso delle radici della nostra cucina. Ah, fra gli antipasti spiccano i taglieri di salumi e formaggi che Giovanni sa arricchire spesso con prodotti nuovi. “Assaggia questo salame, poi dimmi la tua su questo vino, lo produce un’aziendina dei Colli Euganei…”: gli amici si sentono spesso chiedere questo dall’oste.

Torta di mele e tiramisu, poi, non mancano mai fra i dolci: li prepara con maestria Monica. Nei vini c’è tanta fantasia: le etichette girano,

i piedi per terra

Renato Malaman con i titolari Giovanni e Monica

La pagella #c o ni p i e d i p e r t er ra

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La cucina

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PA NOR A MA G A STRONOMICO

“monselicense” PANORAMA GASTRONOMICO di Riccardo Ghidotti

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Quando si parla di cucina locale non andrebbe mai dimenticato che questa affonda le sue radici nella povertà endemica che ha caratterizzato i nostri paesi quasi fino alla metà del secolo scorso

Spesso sono le materie prime tipiche dell’area euganea a qualificare i piatti locali, altre volte sono preparazioni rivisitate da altri luoghi, ma qualche volta ha rilevanza anche la storia

#c o ni p i e d i p e r t er ra

a cucina di Monselice non si discosta di molto da quella Veneta o più in generale del Nord Italia, tuttavia esistono delle piccole particolarità, figlie soprattutto della specifica area pedecollinare, che definiscono in modo originale la cucina locale. Molto spesso si tratta di ingredienti, ma non mancano vere e proprie preparazioni o ricette che concorrono nell’arricchire l’abbondante e saporita cucina regionale. È, per esempio, il caso della “Zuppa del priaròlo. Un primo a base di cereali integrali spezzati usando il mulino a pietra: grano tenero, grano duro, orzo, farro, avena e segale. Il nome è in riferimento al priarolo, ossia al lavoratore delle locali cave di trachite. Un lavoro faticoso sia maschile che femminile, un tempo ripagato con qualche manciata di cereali, diversi tra loro, diventati poi la base della “magra” alimentazione del tempo. Quando si parla di cucina locale, infatti, non andrebbe mai dimenticato che questa affonda le sue radici nella povertà endemica che ha caratterizzato i nostri paesi quasi fino alla metà del secolo scorso. Una cucina di sussistenza, fatta con materie prime povere ma non per questo priva di sapore. Merito delle nostre nonne che con qualche erba spontanea e qualche ortaggio riuscivano a sfamare famiglie molto numerose anche nei momenti più difficili. È chissà quante volte i Fagioli Santini o Cinerini son venuti buoni per quietare i morsi della fame. Si tratta di una varietà autoctona monselicense dalla buccia fine, di color cinerino con un alone giallo attorno all’occhio, che risultano ottimi se serviti bolliti, ma acquistano maggior sapore in tòcio magari se conditi con l’extravergine tipico dei Colli Euganei.

Se invece parliamo della Mostarda di Monselice, allora il riferimento è quello di un’autentica eccellenza. Meno dolce della cremonese e meno agra della vicentina, veniva prodotta dalla storica ditta Dal Din fino agli anni ’50 del secolo scorso, poi anche dalla S.A.I.A.C.E. laboratorio di confettura divenuto “Colli Euganei”. In alcune famiglie tradizionali viene ancora tramandata la ricetta, fortunatamente trascritta in un manoscritto di Pietro Bonatti conservato nell’archivio del Museo Storico di Monselice della Collezione Ruzzante. Un particolare piatto che risale al medioevo è la Trippa porrata; in alcune varianti locali anche il Fegato porrato; piatto antico monselicense in cui questo ortaggio sostituisce la cipolla importata da Marco Polo che ha reso famoso il piatto tipico veneziano del Fegato con cipolla.

Tra i dolci monselicensi non possono essere dimenticati il Fagottino di ricotta di Monselice, guarnito con fragoline di bosco, e la Torta dell’Imperatore. Quest’ultima ideata e prodotta dalla locale Pasticceria Lazzarin in ricordo di Federico II di Svevia. Si tratta di una ricetta particolare, a base di mandorle, frutto di ricerca storica degli ingredienti disponibili al tempo in cui l’imperatore venne a Monselice nel 1239, quando creò la città sua “Camera speciale imperiale”.

Logo dell’industria dolciaria Dal Din (1900 - 1959)

Fagioli Santini o Cinerini

Fagottino di ricotta di Monselice

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Fattoria Il Brolo Monterosso Esperienze di Natura

Nel comune di Teolo è nata una nuova sensibilità nel condurre la terra.

Produzioni agricole biologiche che nascono dall’etica nel lavoro, dalla tutela dell’ambiente e dalla costante ricerca della qualità

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l Brolo è un’impresa agricola sociale nata solo qualche anno fa, ma con le idee decisamente chiare sul ruolo da svolgere all’interno del vasto areale euganeo. Ossia distinguersi attraverso un’idea del lavoro inclusiva e sensibile, una decisa valorizzazione del territorio attraverso produzioni che ne rappresentano storia ed eccellenza e integrare l’offerta turistica collinare con proposte slow, sia in termini di visitazione che di ospitalità. Il Brolo pone al centro l’uomo e le sue relazioni, interpretando le sfide come un’opportunità di lavoro e socialità autentica, anche per persone in situazioni di svantaggio e con disabilità. Lo sviluppo, la produzione e l’accoglienza nell’ambito rurale della fattoria, permettono a molte persone di mettersi in gioco, libere dai pregiudizi, realizzando un doppio valore: Etico e Qualitativo.

Vini Biologici certificati I 10 ettari di vigneto della Fattoria Il Brolo si trovano in un’area particolarmente vocata alla viticoltura. Nei pressi dell’Abbazia di Praglia, tra il Monteortone e il Monterosso, in una fertilissima valle ricca degli apporti minerali, dati dalle rocce basaltiche di origine vulcanica e da quelle calcaree di scaglia bianca tipiche euganee, vengono coltivate nel rispetto del disciplinare di coltivazione biologica varietà storiche locali, come il Glera o il Raboso, e vitigni resistenti PIWI che non richiedono trattamenti fitosanitari e sono particolarmente adatti a favorire la Biodiversità ambientale.

IL CAVALIERI DELLA SETA, un Sauvingnon Krètos da uve resistenti. Caratterizzato da profumi intriganti di fiori e da note di mentuccia e rosmarino. Valori sensoriali che vengono preservati nel prodotto finale grazie ad un sistema di vinificazione che prevede una vendemmia anticipata e un processo di criomacerazione enologica degli acini, dopo la pigiatura e prima della fermentazione, così da trattenere il massimo degli aromi del frutto. Ne esce un calice elegante e delicato, perfetto per accompagnare antipasti, risotti a base di pesce, crostacei e formaggi freschi.

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Una realtà autentica di sostenibilità inclusiva, immersa nei Colli euganei, che realizza servizi e prodotti Etici e Pregiati, ad alto valore relazionale e sociale, favorendo la consapevolezza del proprio BenEssere TRA I GELSI,

BOLLICINE DI SETA,

Tra i Gelsi è un vino di buon corpo ed armonia che incarna le differenti peculiarità del territorio ai piedi dei Colli Euganei, concentrandone l’essenza. È un blend ottenuto da uve Merlot e da uve resistenti Khoruse e Kanthus vendemmiate a mano. La maturazione avviene in acciaio per 6-8 mesi alla quale segue un successivo affinamento in bottiglia per un periodo non inferiore ai 3 mesi. A livello olfattivo sono ben evidenti le note di frutti di bosco, ciliegia ed amarena al gusto risulta fresco e fruttato, con un tannino morbido ed equlibrato.

Ideale compagno di cibi dal gusto deciso, dialoga con i salumi, primi piatti di valore e carni rosse.

prodotto dal 2019 è un Prosecco DOC 100% glera monovitigno, ottenuto con il metodo Satèn. Si tratta di un vino biologico nato dalla tradizione e dalla rifermentazione naturale in bottiglia per almeno 12 mesi, contraddistinto dal classico “fondo”, ossia dai propri sedimenti. La naturalezza e l’interezza del vino è confermato da una spuma persistente alla quale si accompagna un intenso bouquet olfattivo dove prevalgono le note di crosta di pane e le note fresche e fruttate tipiche del Glera. Un vino social, nato per il brindisi e l’aperitivo, ma che sta bene con il pesce, le insalate e i piatti unici estivi.

La nostra storia e i nostri prodotti li trovi al sito www.fattoriailbrolo.it Nel gelseto il ritorno alla campagna delle origini e la tutela dell’ambiente Una tipologia di allevamento che sulle prime potrebbe sembrare una forma di nostalgia legata ai tempi passati della nostra campagna o come un laboratorio sociale rivolto a mantenerne viva la memoria. Invece, la gelsibachicoltura è figlia di una richiesta di seta di qualità che arriva direttamente dal mondo del fashion attraverso CREA. I grandi marchi della moda faticano a trovare seta di qualità, perché il prodotto finale risente fortemente dell’inquinamento ambientale. Infatti, è importante che i bachi si nutrano di foglie di gelso non contaminate da pesticidi o anticrittogamici per produrre un filo spesso e omogeneo. E nella Fattoria Il Brolo questa produzione, che occupa 3 ettari di campagna, ha trovato una sua “isola verde” grazie al rispetto dell’ambiento e a colture totalmente naturali.

Con le sete prodotte nel nostro laboratorio sono state realizzate delle opere d’arte, oggi esposte al MoMA di New York

La Fattoria sociale Il Brolo si trova a Monterosso, nel Parco dei Colli Euganei. È l’affaccio a Est della conca di Praglia, dove da oltre mille anni i monaci benedettini, dell’omonima abbazia, tutelano e curano con esperienza e mani sapienti l’ambiente, insegnandoci a proteggerlo.

FATTORIA IL BROLO S.R.L. I.S. via IV novembre 40, TEOLO 35037 (PD) | cell +39 342 7652 826 | info@ilbrolo.bio www.fattoriailbrolo.it

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AD OGNUNO IL SUO CALICE di Silvano Bizzaro - sommelier

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A D O G NUNO IL SUO C A L ICE

Arriva l’estate,

accogliamola con cinque calici espressione del territorio

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’estate incombe, la brutta stagione ormai è alle spalle compreso il lungo periodo dominato dal Covid che davvero ci si augura concluso, almeno nei suoi eccessi più terribili. E’ tempo, dunque, di ritornare alla nostra vita, quella di sempre, quella senza restrizioni e senza paure e di guardare al futuro con più ottimismo. Il caldo e il sole, ne sono sicuro, ci faciliteranno il buon umore, come d’aiuto sarà un buon bicchiere di vino che, come sostiene la saggezza popolare, “fa buon sangue” e lo conferma anche uno studio dei ricercatori dell’Università di Buffalo, nello stato di New York, sostenendo che il resveratrolo, contenuto soprattutto nel vino rosso, contrasta l’ansia e la depressione. Forse non serviva la ricerca di un’importante ateneo americano per farcene convinti, gli antichi greci identificando in Dionisio, il dio del vino, la rappresentazione dell’estasi, dell’ebrezza e della liberazione avevano già ampiamente anticipato le stesse conclusioni. E, dunque, ecco le mie cinque proposte dionisiache, scelte tra il padovano e il trevigiano, con l’augurio siano quelle con cui brinderete felici a questa nuova stagione.

UN GRANDE CLASSICO

“Covolo” Colli Euganei DOC Rosso 2017 - Azienda Agricola Vignale di Cecilia - Baone (PD)

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Vino di terroir, semplice ma ricco di emozioni

#c o ni p i e d i p e r t er ra

a Cantina Vignale di Cecilia è stata fondata alla fine degli anni ’90 dalla famiglia Brunello in quel di Baone, sui Colli Euganei.

Una realtà rimasta orgogliosamente famigliare e per questo convintamente dedita alle piccole produzioni (circa 30mila bottiglie annue nelle varie tipologie) concentrando il proprio lavoro su ogni aspetto della vinificazione. Solo così un prodotto rimane davvero figlio della terra. E il “Covolo” Colli Euganei Rosso è l’espressione più autentica di questa filosofia, un vino di terroir semplice, ma allo stesso tempo ricco di emozioni.

Viene prodotto da uve Merlot e Cabernet Sauvignon, la vinificazione e il successivo affinamen-

Alla vista risulta color rosso rubino intenso, al naso si pronuncia su note di frutta a polpa rossa e di piccoli fiori viola

to avviene in cemento vetrificato e in barrique non nuove al quale segue un’ulteriore sosta in bottiglia per altri 3 anni. Alla vista risulta color rosso rubino intenso; al naso si pronuncia su note di frutta a polpa rossa e di piccoli fiori viola, con un chiaro sentore vinoso; in bocca si sviluppa con grande semplicità su un bel corpo e una bella spalla acida. Rosso che esprime appieno lo stile della cantina. Questo blend di merlot e cabernet sauvignon si sposa magnificamente a primi e secondi piatti a base di salse al pomodoro o di carne, come delle lasagne alla bolognese o delle braciole di maiale o altra carne arrosta. Da stappare almeno un ora prima della consumazione a 18-20 °C usando ampi calci (ballon) per il servizio.

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i piedi per terra

UN VINO NUOVO

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Prosecco Rosé Millesimato 2020 Brut - Cantina Barollo Winery - Preganziol (TV)

na bottiglia nata alla fine dello scorso anno nella macro-area veneta e friulana del Prosecco DOC, nella celebre maison Barollo Winery di Preganziol. Un prodotto atteso soprattutto dal mercato internazionale: oltre 20milioni di bottiglie erano già state vendute ancor prima che il vino venisse imbottigliato (vendemmia 2020, Millesimato). Si tratta di un blend le cui parti sono rappresentate dal Glera (85%) e dal Pinot Nero (15%) vinificato in rosso. Prevede una fermentazione in autoclave per un periodo di almeno 60 gg.

Versioni previste in questi rosé da Brut Nature a

Extra Dry, il tutto da disciplinare di produzione. Recentemente ho avuto modo di degustare questo Rosé di Barollo che vedete nella foto; azienda che produce ottimi vini nella provincia trevigiana che registra molti riconoscimenti all’attivo.

Di colore rosa tenue presenta un perlage molto fine e persistente. All’olfatto si muove tra sentori fruttati (ribes, fragolina di bosco), lievi note agrumate (buccia d’arancia) e una gradevole sensazione di salvia.

Al palato si presenta sapido, fresco con una buona persistenza. Croccante la bollicina. Ideale compagno per la convivialità nonché di antipasti a base di pesce (anche crudi) e primi piatti come risotti e paste. Volendo azzardare si può accompagnare con pesce crudo pregiato (ostriche).

A D O G NUNO IL SUO C A L ICE

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L’etichetta attesa soprattutto dal mercato estero

Ideale compagno per la convivialità sa dialogare con i piatti importanti che provengono dal mare, comprese le ostriche

UN VINO SOCIAL “VIGNETO DEL FAÈ” VALDOBBIADENE DOCG PROSECCO SUPERIORE DOSAGGIO ZERO Canevel Spumanti - Valdobbiadene (TV)

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Sua maestà la Bollicina veneta di un dosaggio zero (molto secco) stimola la secrezione gastrica e quindi “chiama” qualcosa in bocca: si sposa benissimo con piatti di pesce saporiti, come il baccalà e le sarde in saor. Come per tutti gli spumanti è obbligatorio servirlo a 6-8 °C. Per questa tipologia di spumanti, avendone degustati più di uno, questo di Canevel per me rimane uno dei migliori.

Canavel”, in dialetto trevigiano, significa piccola cantina, laddove vengono prodotti e custoditi gelosamente i vini migliori

(1) Dosaggio Zero: indica un residuo zuccherino inferiore a 3 gr./lt. Al palato il vino si presenta molto secco.

(2) Cru: si riferisce a un determinato vigneto, di una precisa e delimitata zona geografica, da cui si ricava un vino considerato di qualità superiore alla media (3) Martinotti-Charmat: è un processo di spumantizzazione eseguito in autoclave. Ideato da Federico Martinotti nel 1895 e poi copiato successivamente da Eugene Charmat (1910).

#c o ni p i e d i p e r t er ra

antina nata alla fine degli anni ’70 da Maro Caramel, considerato esperto spumantista con la mission di produrre spumanti di qualità in quel di Valdobbiadene. “Canavel”, in dialetto trevigiano, significa piccola cantina, laddove vengono prodotti e custoditi gelosamente i vini migliori con i loro segreti e le antiche tradizioni. Di questa cantina voglio presentarvi un favoloso ed elegante Dosaggio Zero (1) che nella fattispecie è un Cru (2), lavorato in autoclave con metodo Martinotti-Charmat (3) e affinamento di quattro mesi. La materia prima, ovviamente, è l’uva Glera proveniente da un vigneto dedicato posto sulle splendide colline del territorio di Valdobbiadene. Il vino è di un bel giallo paglierino con riflessi verdolini; perlage fine e persistente. Al naso sprigiona note floreali di gelsomino con un susseguirsi di sentori fruttati, dalla mela alla pera, con finale di mandorla. Al palato è fresco, sapido e con una bollicina croccante. Finale secco e lungo.

Oltre ad essere un ottimo aperitivo social, può essere consumato a tutto pasto. Trattandosi

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UN VINO RARO LONGHIGNOLA ROSSO CORTI BENEDETTINE DEL PADOVANO DOC Azienda Agricola X Prese – Conetta di Cona (VE)

A D O G NUNO IL SUO C A L ICE

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Un vino che ha vinto la battaglia contro il tempo

’Azienda Agricola X Prese affonda le sue origini nel lontano 1890 e indubbiamente rappresenta un riferimento importante per i vini del territorio, compreso il vino autoctono per eccellenza: ossia il “Friularo”. Qui, infatti, è stata conservata la varietà originale, una scelta che ne evitò l’estinzione. La “Priara” è un vigneto il cui impianto risale agli anni ‘30 del Novecento, è una sorta di museo vivente.

Tuttavia la bottiglia che vi presento coinvolge solo marginalmente, seppur l’impronta sia profonda, il Friularo. Il Longhignola DOC 2017, infatti, è un taglio bordolese con presenza di Cabernet Sauvignon al 70%, di Merlot al 30% e Friularo in Ripasso, vinificato con il metodo Governo alla Toscana (4), un sistema poco in uso dalle nostre parti che prevede una serie di fermentazioni e affinamenti. In questo caso 10 giorni con malolattica, un successivo ripasso sul “Friularo”, dopo un appassimento di circa 20 giorni, e un affinamento in acciaio per un anno, più altri 4 in grandi botti francesi, ai quali seguono altri 12 mesi

in acciaio. Conclude il suo percorso in bottiglia per 6 mesi prima dell’immissione in commercio. L’annata attualmente in vendita è il 2017 di cui sono state prodotte solo 4000 bottiglie. Anche per questo è un vino raro e straordinario: al palato caldo e rotondo, con un appunto di acidità importante e la nota astringente tipica del Friularo.

Da abbinarsi a piatti fortemente proteici con una temperatura di servizio di 18-20 C°.

L’annata attualmente in vendita è il 2017 di cui sono state prodotte solo 4000 bottiglie

(4) Governo alla Toscana: consiste in una particolare vinificazione del Chianti scoperta e introdotta dal Barone Bettino Ricasoli, tra il 1834 e il 1837, per ottenere vini fruttati di pronta beva. Si prende una parte di uva, la più sana e matura, meglio Sangiovese che Canaiolo, raccolta in anticipo e lasciando i grappoli per sei settimane, disposti su graticci, all’aria perchè appassiscano. Pigiate, queste uve producono un mosto che aggiunto al vino che ha appena terminato la fermentazione ed ha bruciato tutti gli zuccheri fa partire una seconda fermentazione, prolungata sino a primavera. Il vino che si ottiene può essere messo in commercio entro l’anno successivo alla vendemmia e a differenza della moderna scuola di Chianti, intesi come vini di grande corpo che si evolvono dapprima in botte quindi in bottiglia per durare svariati anni; è un vino che gioca tutte le sue carte sulla freschezza, la piacevolezza, la vivacità del fruttato.

UN VINO PROMESSA Manzoni Bianco IGT – Azienda Agricola Le Volpi - Baone (PD)

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Il bio che guarda lontano

#c o ni p i e d i p e r t er ra

iamo sul Monte Gemola, uno dei più belli, tra i Colli Euganei, e ricchi di storia se non altro perché impreziosito dalla presenza di Villa Beatrice, l’aristocratica residenza dove trascorse parte della sua vita la Santa nata nel 1191 nella corte degli Este. Qui sorge anche l’Azienda Agricola Le Volpi, una realtà moderna a conduzione biologica nota anche per la sua cantina dalla quale escono ottimi vini, tra cui il Manzoni Bianco Igt a cui ho scelto di dedicare queste righe. Il vitigno, un incrocio di Riesling Renano e Pinot Bianco, trova la sua massima espressione territoriale nel trevigiano e in Veneto, ma nel tempo ha incontrato sviluppo e ap-

prezzamento anche in Friuli Venezia Giulia e in Trentino, a dimostrazione della capacità di adattamento ai diversi terroir. Di colore giallo paglierino con riflessi verdognoli, si apre su intensi e complessi sentori floreali di glicine e gelsomino, note fruttate di ananas e mandorla dolce con finale di erbe aromatiche che ne completano il bouquet. Al gusto è di corpo, sapido e fresco, con equilibrio in divenire; chiude con lunga persistenza su scia fresca e minerale.

Un vino che si presta ad accompagnare piatti di pesce di mare, perfetto per le alici marinate o per le sarde in saor, ma è da provare anche con carni bianche. Ha una gradazione importante: 14% vol, va servito ad una temperatura attorno ai 12 C° in calici per vini bianchi giovani e freschi.

Si presta ad accompagnare piatti di pesce di mare, perfetto per le alici marinate o le sarde in saor

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IL NOSTRO MODO DI STARE AL PASSO CON LE STAGIONI...

È ASSECONDARLE Giugno: voglia di lontananze e di evasione, ma a volte basta un angolo fresco di un giardino, una comoda veranda e il piacere di sapori curati da abili mani, il calice riempito per un brindisi, per vivere il sentimento dell’estate

HOSTARIA RISTORANTE SAN BENEDETTO | via Andronalecca, 15 | 35044 Montagnana (PD) seguici tel 0429 800999 | mail info@hostariasanbenedetto.it www.hostariasanbenedetto.it

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CAFFÈ? SÌ GRAZIE di Elisabetta Testolina, maestro del caffè

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C A F F È? SÌ G R A Z IE

tutta un’altra

s toria

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Non sono chiare le origini di questa bevanda, ma sicuramente i mesi estivi sono quelli in cui se ne sente maggiormente il bisogno

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Alcuni sostengono che i primi a bere il caffè freddo siano stati gli abitanti di Valencia nel Seicento, con il tradizionale “cafè del tiempo”

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el calendario di tutti gli amanti del caffè, i mesi estivi sono un momento particolare, un’occasione in cui si dà sfogo alla propria creatività sperimentando tantissime ricette con protagonista principale il caffè.

Chi non ha mai sperimentato un fresco caffè nelle calde giornate? Magari in spiaggia sotto un colorato ombrellone gustando una fresca e deliziosa crema al caffè?

Oggi siamo più esigenti, sempre alla ricerca di sapori unici e diversi che ci stupiscano; il caffè caldo è ormai ben conosciuto e diffuso, ma il caffè freddo è ancora da scoprire in tutte le sue

varianti e personalizzazioni, gustarlo ci porta a scoprire un sapore rinnovato e speciale che appaga tutti i sensi.

Quali sono le origini di questa antica usanza estiva?

Se le origini della bevanda a base di caffè e la sua diffusione dall’Etiopia è fatta risalire circa al 1400, anche il caffè freddo, o con ghiaccio, vanta una storia altrettanto lunga. Pochissimi sono i testi scritti e pressoché nessuna è la testimonianza che attribuisca l’origine al caffè freddo. Come nelle più affascinanti tradizioni gastronomiche della sto-

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I METODI DI ESTRAZIONE Il caffè freddo si può ottenere con qualsiasi metodo e tipo di caffè, ma per ottenere un estratto aromatico ed equilibrato esiste una miscela di caffè dedicata, in genere composta da chicchi della va-

rietà arabica.

Nato nel 1832 il cold drip o cold brew è il metodo più conosciuto per l’estrazione fredda del caffè. Il cold brew o cold drip è un metodo di estrazione a freddo che richiede tempi molto lunghi (almeno 7/8 ore). Lo strumento utilizzato è piuttosto scenografico, si compone di tre parti: una superiore in vetro dove viene posizionata l’acqua fredda, un contenitore centrale per il caffè macinato e una caraffa inferiore per raccogliere il prodotto finale. Il caffè viene attraversato dall’acqua una goccia alla volta, tramite percolazione di circa 8 gocce d’acqua ogni 10 secondi.

Per ottenere il caffè le gocce passano attraverso la polvere del caffè, catturandone le caratteristiche, gli aromi e le sostanze tipiche. Questo caffè ha una shelf life (tempo di conservazione) che consente di prepararne anche grandi quantità alla volta; un caffè estratto con questo metodo si conserva infatti fino a 2/3 giorni in frigorifero.

IL CAFFE’ FREDDO NEL MONDO Se si parla di caffè freddo si devono assolutamente citare le preparazioni che hanno contribuito alla sua diffusione: il caffè del tiempo, Cà phè dà e il cafè Helado.

I l “cafè del tiempo”

drink Oggi questa preparazione è uno dei ati rezz app e iesti rich estivi analcolici più ee plic sem to mol è tta al mondo. La sua rice o lung è caff un nti: edie richiede pochi ingr liqua a ottim di cela mis preparato con una etti cub cia, aran o ne tà, una fettina di limo piacere. di ghiaccio e zucchero semolato a

Spagna

vamente i cuiate raffreddare. Versare successi Versate il caffè in una tazzina e lasc una fettina di con e rnit gua e (tumbler) o medio betti di ghiaccio in un bicchiere alto è lungo. limone o arancia e per ultimo il caff

#c o ni p i e d i p e r t er ra

con la Per prima cosa preparate il caffè moun cio mer moka, se trovate in com a sua nell ire offr sa norigine Arabica che risulil tati frut e ali estrazione aromi flore nte. tato finale sarà travolge

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C A F F È? SÌ G R A Z IE

ria, per ricostruire il percorso di questa preparazione si deve fare affidamento a racconti e ricette tramandate da generazioni, che si sono poi diffusi nel tempo fra i diversi popoli con varianti e interpretazioni diverse a seconda dell’epoca e della cultura.

Diverse e combattute sono le ipotesi della sua paternità; alcuni sostengono che i primi a bere il caffè freddo siano stati gli abitanti di Valencia nel Seicento, con il tradizionale “cafè del tiempo”. Secondo altri invece la prima comparsa del caffè ghiacciato si ha ben due secoli dopo, nel lontano Vietnam. Ma la paternità potrebbe addirittura risalire anche al 1840, dove il primo vero caffè, in versione fredda chiamato Mazagran, veniva servito ai soldati francesi in Algeria.

Dalla Spagna al Salento, dal Seicento ai giorni nostri, il caffè freddo rappresenta la bevanda ideale da gustare a qualsiasi ora in una calda giornata estiva; ci si concede una rigenerante e rinfrescante pausa appagando con soddisfazione anche il palato più esigente e donando un carico di energia.

i piedi per terra

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Il “Cà phê đá” e il “Cà phê sữa đá”

C A F F È? SÌ G R A Z IE

produttori della varietà Il Vietnam è uno dei paesi maggior preparazioni gourmet robusta, e come tale vanta diverse In questo paese il caffè tra cui il caratteristico caffè freddo. bar, per strada e nei freddo si può trovare ovunque, nei è richiede ritmi lenti ristoranti. La preparazione del caff una bevanda ricca di e l’attesa è ripagata dal piacere di burro di cacao usato aromie note di mandorla, grazie al ito freddo o con durante la tostatura dei chicchi. Serv uovo crudo e latte di a crem una ghiaccio, arricchito con istiche, il caffè viecondensato a seconda delle caratter tnamita può essere:

Vietnam

nostro caffè nero, al Il Cà phê dá è il corrispettivo del a piacere; Il Cà phê hero zucc o quale viene aggiunto dell del caffè tostato ione olaz perc a sda, invece, si ottiene dall e un filtro tipiiant med na sola con una macinatura gros latte condendi a iunt l’agg con co vietnamita in metallo nero ottenuto mediante sato; il Cà Phê Đen dá è un caffè unta di cubetti di ghiaccio. percolazione con successiva aggi

I l “cafè Helado”

Chile

Un tradizionale caffè che si ottiene di cafunendo un caffè espresso, polvere ella, cann , tilly chan a fè macinata, crem a secc ta frut e e lech de e vaniglia, dulc è caff sto Que ). ciole (mandorle o noc il dolce e aromatico è una delizia per palato.

E in Italia? Possiamo trovare diversi prodotti di caffetteria, ma i più famosi sono: il caffè con ghiaccio, il caffè shakerato e la crema al caffè.

Come sperimentare il caffè freddo a casa? #c o ni p i e d i p e r t er ra

Tutti in estate, almeno una volta abbiamo provato a preparare un caffè freddo. Le ricette variano di regione in regione e di paese in paese ma di fondamentale importanza è la scelta di un ottimo caffè.

Il caffè casalingo con l’intramontabile moka è molto diffuso tra studenti, lavoratori e tra gli appassionati escursionisti. La preparazione è consueta e tradizionale; si preparano 2/3 moka e alla fuoriuscita si trasferisce il caffè estratto in una caraffa, si ripone in frigo per tutta la notte. E il giorno dopo?

Riserverà un ottimo risveglio o pausa pomeridiana.

Mentre una variante dopo pasto è l’aggiunta di un distillato aromatico in un bicchiere ghiacciato. E ora? Andiamo a preparare un ottimo caffè freddo.

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Luca Pasin e Elisabetta Testolina, titolari ed esperti del sapore

Il Salus Caffè di Noventa Padovana, non è solo la bottega delle eccellenze del territorio, ma un nuovo modo di concepire la spesa, dove alla qualità dei prodotti si accompagna l’esperienza degustativa e la puntuale informazione per il loro migliore consumo a tavola o impiego in cucina.

Come? Grazie alla competenza di Elisabetta, consulente gastronomico e maestra di caffetteria, e di Luca, consulente gastronomico e sommelier del caffè, autentici esperti del gusto che sanno accompagnare la curiosità e le papille gustative dell’affezionata clientela a cogliere gli aspetti più alti del sapore con proposte di acquisto su misura per ogni palato in forma esclusiva e personalizzata oppure attraverso corsi di degustazione rivolti

ad approfondire i valori culturali, organolettici o sensoriali di caffè, miele, olio, distillati. Veri e propri percorsi formativi che possono essere seguiti in presenza all’interno del negozio, on line, oppure scaricati direttamente dal sito saluscaffe.com semplicemente lasciando la propria registrazione.

Durante i prossimi mesi, inoltre, verranno organizzati appuntamenti dedicati alle eccellenze enogastronomiche, incontri con i produttori e approfondimenti. Un modo per dimostrare una volta in più il legame con il territorio e l’amore per la conoscenza delle sue preziosità.

Per rimanere informati basterà seguire i social Facebook e Instragram

Per conoscere l’intera offerta inquadra il Qr-code qui a fianco con il tuo cellulare L’acquisto, oltre che al negozio Salus Caffè, è possibile collegandosi al sito

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Una bottega di prodotti rigorosamente artigianali I prodotti di Salus Caffè sono oggetto di una scrupolosa selezione rivolta a creare una proposta con solo il meglio dell’agroalimentare, sicuro e certificato, frutto delle abilità artigianali e non della serialità industriale. Prodotti espressione del loro territorio di origine, interpreti delle tradizioni locali e ricercate interpretazioni che sanno sempre meravigliare i sensi.

Tra queste una vasta selezione di caffè, distillati come il Liquore alla Lavanda e Rosmarino, quello al Cioccolato, l’Antico Rosolio o l’Amaro del Folpo, prodotto della casa, diverse preparazioni a base di Cioccolato, la pasta, il riso, i sughi, i dolci tradizionali, i migliori vini del territorio per accompagnare ogni palato verso un trionfo del gusto... e per realizzare Idee regalo o bomboniere gourmet per ogni ricorrenza e cerimonia.

SALUS CAFFÈ | P.zza Giovanelli, 48 NOVENTA PADOVANA 35027 (PD) 049.6226155 cell +39 371.3357344 | info@saluscaffe.it - marketing@saluscaffe.it Orari di apertura: Lunedì-Sabato 9.00-12.30 / 15.30-19.30 Domenica CHIUSO www.saluscaffe.it

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FI

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SC OPR IR E IL TER R ITOR IO

di

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cammino

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Dagli Euganei ai Berici, tra boschi, eremi e panorami mozzafiato per seguire le orme della bella imperatrice

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Quasi 100 km da dividere in più tappe.

Perfetto per chi ha gamba buona ma anche per chi cerca nuove scoperte

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i piedi per terra

Caratteristiche del percorso Il Cammino di Adelaide è un percorso, da fare a piedi o in mountain bike, che per la sua natura storica, naturalistica e culturale è adatto a tutti: sia agli esperti della camminata che coloro che cercano un po’ di evasione all’interno di un contesto naturalistico. Solo il chilometraggio è piuttosto impegnativo: quasi 100 Km! Per questo è opportuno suddividerlo in diverse tappe lungo le quali sono presenti tutti i servizi necessari per un cammino confortevole.

Sconti per i servizi grazie alla credenziale La Credenziale del Cammino di Adelaide è un documento ufficiale, univoco e numerato, che dà diritto ad una sola persona di poter favorire dei prezzi scontati lungo tutto il cammino nelle attività convenzionate. Una volta ricevuta nella Credenziale bisogna scrivere i propri dati e durante il cammino si possono far apporre i timbri delle diverse tappe lungo il percorso.

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SC OPR IR E IL TER R ITOR IO

iamo abituati a considerare i Colli Berici e quelli Euganei come ambiti territoriali diversi e divisi, ma in realtà sono molto vicini e legati da elementi in comune. Uno di questi è il Cammino di Adelaide, un itinerario della lunghezza di quasi 100 km, a seconda delle varianti, che si snoda sul piatto ventre della pianura veneta, nel suo ombelico immaginario, tra due sistemi collinari di diversa orogenesi, collegando l’area Euganea all’Eremo di San Cassiano, a Lumignano, nel vicentino. Un tracciato millenario, percorso fin dai tempi dei cacciatori e raccoglitori neandertaliani, ma che deve il suo nome ad Adelaide di Borgogna, vissuta negli ultimi anni del X secolo d.C.. L’imperatrice franca, del Sacro Romano Impero, rimasta vedova di re Lotario II, venne insidiata Berengario II d’Ivrea che la voleva sposa per il figlio. La giovane sovrana trovò proprio nell’eremo di S. Cassiano un rifugio sicuro dal suo aguzzino e una volta tornata libera ordinò che il piccolo centro di fede ricevesse regali e investiture rendendo storico anche il percorso che essa stessa compì per aver salva la vita.

Alcuni dei luoghi più suggestivi toccati dal cammino Eremo del Monte Rua – Torreglia L’originaria fondazione dell’Eremo di Santa Maria Annunziata di Torreglia risale al 1339, durante il periodo di piena espansione camaldolese, ma successivamente furono due eremiti appartenenti alla comunità di S. Mattia di Murano a raggiungere la sommità del monte Rua (416 m s.l.m.), a dare impulso a quello che sarebbe diventato uno dei simboli della spiritualità di tutto il Veneto. Caratterizzato dalle forme del tipico Eremo Camaldolese è composto da una chiesetta attorniata da 14 celle a forma di casette per i monaci, ognuna fornita di un piccolo orto. È possibile soggiornare grazie all’ospitalità dei monaci, inoltre è possibile trovare alcuni prodotti tipici ed esclusivi che i monaci riescono a confezionare con la cura e la sapienza tramandata nei secoli.

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Ospitalità e offerta di prodotti tipici sul percorso di Adelaide.

Una “tappa” irrinunciabile per chi cerca i sapori autentici dei Colli Euganei

La Campagnola conserva l’antico spirito dell’ospitalità, caro alla civiltà contadina. Qui, da tre generazioni, il mestiere della “terra” viene condotto nella produzione di vini autoctoni di qualità – come il Fior d’Arancio e il Serprino – e con il sentimento dell’accoglienza attraverso l’offerta di una cucina interprete dei sapori semplici, ma autentici, della tradizione euganea e il comfort di 4 camere destinate ad alloggiare chi è alla ricerca di relax e del piacevole svago a contatto con la natura.

Una tappa obbligata per i tanti escursionisti che intraprendono il Percorso di Adelaide, ma anche un angolo incantato per chi ama staccarsi dalla vita di tutti i giorni e vivere la semplicità dei valori genuini

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AGRITURISMO

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L’enoteca è aperta tutti i giorni su prenotazione per gruppi di almeno 10 persone

Piatti tipici euganei, realizzati con prodotti dell’azienda e seguendo la stagionalità

4 stanze dotate di ogni comfort e al mattino la colazione di Monica per un pieno di energia

Ci troviamo a: 20 km da Padova | 25 km da Vicenza | 10 km da Abano Terme | 12 km da Montegrotto Terme Aeroporto Marco Polo di Venezia a 60 km | Aeroporto Valerio Catullo di Verona a 70 km

AGRITURISMO “LA CAMPAGNOLA” | Via Giuseppe Verdi, 90 | 35030 Rovolon (PD) tel 049 5227068 | cell 348 2713641 | mail info@lacampagnola.eu www.lacampagnola.eu

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i piedi per terra

Chiesetta di San Antonio Abate e Grotta di Santa Felicita – Teolo La chiesa, situata sul Monte della Madonna in località Teolo, è stata costruita sui resti di un antico monastero ed è dedicata a Sant’Antonio Abate. L’edificio sacro sorge accanto ad una grotta naturale, al cui interno si trova una delle sorgenti d’acqua più elevate dei Colli Euganei. Secondo la tradizione, tra l’VIII e il IX secolo vi abitò Santa Felicita, che avrebbe rinunciato ad agi e ricchezze per condurre in questo luogo una vita eremitica. Di grande interesse è anche l’ambiente naturale circostante, dove cresce spontaneamente il fico d’india nano, pianta tipicamente mediterranea e originaria degli altipiani rocciosi dell’America Centrale.

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SC OPR IR E IL TER R ITOR IO

Rocca Pendice – Teolo Rocca Pendice è un parete naturale, geologicamente un filone di roccia vulcanica (trachite) in affioramento rispetto alle più tenere ed erose rocce sedimentarie sottostanti.

Recentemente acquisita dall’Ente Parco Colli Euganei per la maggior parte della sua estensione, questo sito ospita tradizionalmente l’attività di arrampicata sportiva ed è molto frequentato dagli appassionati di questa disciplina. Presso la sommità si trovano i ruderi del castello di Speronella, mentre nei dintorni furono rinvenuti scolpiti nella roccia i caratteristici “carri” simbolo della famiglia dei Carraresi; la presenza del Falco pellegrino, che qui ogni anno torna per nidificare, è l’aspetto naturalistico di maggior rilievo.

Grotte di San bernardino - Mossano La Grotta di San Bernardino conserva la testimonianza preistorica più antica di tutto il territorio vicentino, costituita dalle tracce di vita dell’uomo del Paleolitico inferiore, 150-250 mila anni fa. Testimonianza di questa antica presenza i materiali rinvenuti durante diverse campagne di scavo, raschiatoi, punte, lamelle in selce e numerosi resti ossei della fauna del tempo quali il lupo, l’orso bruno, il cervo, il daino.Oggi gli spazi interni sono decorati da un bassorilievo raffigurante la Madonna e un affresco di San Bernardino. La bellezza di questo luogo è dato anche dalla natura: sopra la grotta svetta un pinnacolo calcareo: l’unica torre di roccia di tutti i Berici.

Per collegarti al sito e scaricare la road-map inquadra il qr-code qui a fianco con il tuo smatphone

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Eremo di San Cassiano – Lumignano Le pendici dei colli attorno a Lumignano sono caratterizzate da grotte e anfratti, detti covoli. Da sempre hanno offerto ripari ai primi colonizzatori dell’area, ma in epoca medievale divennero anche luoghi del romitorio. Il più suggestivo e famoso è l’eremo di San Cassiano, una costruzione che risale al XVII secolo e fu eretta incorporando una chiesa di mille anni più antica dove sono ancora visibili delle sepolture scavate nella roccia databili ad un periodo compreso fra il V e il IX secolo. La tradizione vuole che sia proprio qui che l’imperatrice Adelaide abbia trovato rifugio, ma altre alla storia c’è tutta la bellezza del presente data dalla floridezza della natura e dalla suggestività di questi spazi scavati da un antico mare scomparso 32 milioni di anni fa.

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INGIROPIEDANDO a cura di Giada Zandonà

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ING IROPIEDA ND O

UN NUOVO MODO di RACCONTARE il TERRITORIO Una proposta rivolta ai giovani: un percorso didattico e formativo di alta qualità, una serie di esibizioni live e la realizzazione di un album che verrà distribuito nelle principali piattaforme digitali, come Spotify, Apple Music, Tidal, Deezer Partner di progetto

Progetto sostenuto da

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n progetto innovativo, per portare un gruppo di ragazzi ad acquisire tecnica e professionalità in campo musicale e per educare un territorio a una nuova visione della musica, cogliendone tutte le valenze in ambito professionale, sociale e culturale. Bassanova Music Factory è tutto questo e molto di più. Sulla carta è un progetto culturale ideato e voluto dal Circolo Musicale Il Cenacolo di Villa Estense nell’ambito del Bando Culturalmente 2020 proposto dalla Fondazione Cariparo, che ne è il principale sostenitore. Concretamente, è una rivoluzione culturale.

Il progetto nasce dalla volontà di sensibilizzare le nuove generazioni sulla reale filiera del mondo della musica e dell’arte #c o ni p i e d i p e r t er ra

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Il progetto A tenere le redini del progetto è il Circolo Musicale Il Cenacolo, un’associazione senza scopo di lucro il cui obiettivo principale è l’organizzazione e lo sviluppo di attività e iniziative nell’ambito musicale, e non solo, nella Bassa Padovana. Fondata a Villa Estense nel 2001 da un gruppo di ragazzi appassionati di musica, l’associazione è diventata negli anni un punto di riferimento nel territorio. L’esperienza acquisita ha portato il direttivo a proporre progetti nell’ambito di vari bandi provinciali e regionali.

Tra questi si inserisce Bassanova Music Factory, un progetto che propone un percorso didattico e formativo di alta qualità per aspiranti musicisti, cantanti e operatori audio. I ragazzi che supereranno le selezioni potranno seguire le lezioni tenute da docenti qualificati, che utilizzeranno un metodo specifico focalizzato sul fare esperienza, sul confronto diretto con il mondo professionale, sull’attuazione di progetti concreti.

Frutto del percorso saranno esibizioni live e la realizzazione di un album, che verrà distribuito nelle principali piattaforme digitali, come Spotify, Apple Music, Tidal, Deezer.

Il territorio che produce musica…

Il progetto si rivolge a ragazzi e ragazze del territorio, dai 14 ai 25 anni (ma con più di 18 anni per il percorso formativo per operatori audio). È richiesta la residenza in zona dal momento che le lezioni si svolgeranno tutte le settimane, dal prossimo settembre a giugno 2022, nella sede del Circolo, a Villa Estense. Gli interessati dovranno partecipare a un percorso di selezione, durante il quale dovranno dimostrare di essere già in possesso di un bagaglio musicale di base. …la musica che racconta il territorio Al centro del progetto non poteva mancare una forte connessione con il territorio. Bassanova vuole valorizzare e raccontare la Bassa Padovana attraverso l’arte musicale. Il legame con il territorio è rafforzato dalla solida rete di collaborazioni che Bassanova ha saputo creare con le realtà della zona. Oltre all’importante sostegno della Fondazione, il progetto può contare sul contributo del Comune di Villa Estense. Partner di progetto sono la Fondazione IREA, il Gal Patavino, l’associazione Euganea Movie Movement, il Comune di Sant’Elena e il Comune di Granze.

La curiosità del nome Da dove nasce il nome Bassanova? “Abbiamo preso spunto dalla Bossa Nova, un genere musicale nato in Brasile e ricco di contaminazioni. – spiega Mirko Borsetto - L’assonanza tra i termini “bossa” e “bassa” e il forte legame tra il Brasile e le province di Padova e Rovigo, da cui negli scorsi decenni sono partiti moltissimi immigrati, hanno avvalorato la scelta del nome per questo nuovo ed entusiasmante progetto”.

Come iscriversi Iscriversi al percorso di selezione è semplicissimo: basta seguire tutte le indicazioni presenti nel sito www. bassanova.it. Per altre necessità o richieste è possibile scrivere a info@bassanova.it o telefonare al 351 6788713

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L’obiettivo Il progetto nasce dalla volontà di sensibilizzare le nuove generazioni sulla reale filiera del mondo della musica e dell’arte, estrapolandola dal semplice contesto “hobbistico” e inquadrandola dal punto di vista professionale, ma anche sociale e culturale. L’obiettivo finale è educare l’intero territorio a una nuova visione della musica.

“Ci rapportiamo con una realtà territoriale dove spesso si fatica a comprendere e conseguentemente a rispettare la figura del musicista o dell’addetto ai lavori - spiega Mirko Borsetto, presidente del circolo il Cenacolo - né si è in grado di cogliere pienamente le opportunità offerte da questo settore nella futura economia, soprattutto in questo momento storico che ci impone, ma allo stesso tempo ci offre, una visione alternativa del nostro paese in cui il terzo settore e i prodotti intellettuali possono rappresentare alcuni dei più importanti vettori di rinnovamento e ricrescita”.

Da questa consapevolezza è nata l’esigenza di creare un progetto che fosse in grado di assumere un ruolo di

portavoce, e nel territorio della Bassa Padovana anche e soprattutto di precursore, di una visione nuova affinché il settore musicale possa diventare sostenibile e arricchente, anche e soprattutto al di fuori di esclusivi sistemi già consolidati.

ING IROPIEDA ND O

Il legame con il territorio è rafforzato dalla solida rete di collaborazioni che Bassanova ha saputo creare con le realtà della zona

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I TANTI PAESAGGI di Massimo Trevisan

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I TA N TI PA ESA G G I

Antonio Caregaro Negrin il canto del cigno del giardinismo veneto Creare armonia nel paesaggio, questo era il suo scopo.

Sospeso tra geometria e paesismo adotterà un canone che applicherà a contesti tutt’altro che scontati come quelli delle nascenti fabbriche vicentine di metà Ottocento

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’ultimo grande protagonista del giardinismo veneto dell’ ‘800 è Antonio Caregaro Negrin. Dopo Giuseppe Jappelli e Francesco Bagnara è a pieno titolo l’erede della tradizione veneta del giardino paesaggistico, ossia la tipologia di giardino ispirata alla pittura di paesaggio, dove il rigore della geometria viene progressivamente sostituito dall’imitazione della natura, per uno spazio pieno di stati d’animo, di giochi d’acqua, di situazioni di finzione sospese tra il sogno e la realtà. Un canone che Negrin interpreterà alla perfezione, applicandolo a contesti tutt’altro che scontati come quelli delle nascenti fabbriche vicentine di metà Ottocento, e che egli stesso ha contribuito a codificare come si evince dalla lettura del suo intervento in occa-

“…ancora io ricordo con piena soddisfazione le molte peregrinazioni che con amici ed artisti feci sui colli Berici... quei colli che inghirlandano la bella Vicenza…”

sione della Prima Esposizione italiana di Architettura, a Torino nel 1890 (Dell’Arte dei Giardini.

Parte storica).

Gli ingredienti del giardino sono sempre gli stessi: “i tracciati, i movimenti di terra, la condotta delle acque, i bacini, i giuochi d’ acqua, le fontane, le rocce artificiali, i motivi vari della natura, il collocamento dei frammenti archeologici, e infiniti ricordi storici, la scelta e vasta collocazione delle piantagioni, coi dovuti riguardi alla specie numerosissima degli alberi, degli arboscelli ed arbusti, alla loro forma e sviluppo, alle singole dimensioni e grado di colore. Poi la creazione dei fabbricati d’abitazione, le singole adiacenze, le serre, le palestre, i pensili, i padiglioni, e fino alle fabbriche rurali...”.

Vi appare perfino un diretto richiamo alla polemica di quasi un secolo prima (tra il 1792 e il 1796) circa il primato dell’Italia nell’ invenzione del giardino paesistico, sostenuto all’Accademia patavina dal Malacarne, dal Pindemonte e che il Negrin conferma a scapito dell’idea comune che

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I TA N TI PA ESA G G I

L’architetto Antonio Caregaro Negrin

La serra moresca del parco Bolasco di Castelfranco Veneto, progettata da A. Caregaro Negrin

Antonio Caregaro Negrin, nato a Vicenza nel 1821, fece pratica di cantiere in età precocissima e seguì un corso di istruzione tecnica e di disegno con i professori Bongiovanni e Magrini che lo indirizzarono agli studi superiori. Nel 1841 Negrin apre un’azienda che dirige come capomastro, pur continuando ad approfondire i suoi studi artistici. Tra il 1841 e il 1848 datano i suoi primi lavori architettonici, eseguiti a Vicenza e in provincia per commissione di illustri famiglie del tempo: Salvi, Nievo, Fogazzaro, Cabianca ecc... L’esperienza per lui più coinvolgente è il restauro della scena del Teatro Olimpico, affidatogli nel 1847 dall’Accademia Olimpica in occasione della rappresentazione dell’Edipo re, e in virtù del quale egli venne nominato Accademico. Le sue capacità vengono anche riconosciute dall’Accademia di Belle Arti di Venezia che nel 1853 lo nomina architetto civile. Nel 1856 contribuisce alla fondazione della Scuola di Plastica e Disegno di cui sarà presidente dal 1862 al 1885, dimettendosi in seguito ai dissidi con il pittore Pietro Negrisolo. Muore a Vicenza nel 1898, antesignano del liberty e riconosciuto da Atenei, Collegi ed Accademie prestigiosi in tutta Italia. Un utilissimo riferimento bibliografico sulla vita e sull’opera dell’architetto vicentino viene fornito dal volume di Bernardetta Ricatti Antonio Caregaro Negrin. Un architetto vicentino tra eclettismo e liberty, Padova 1980.

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fosse l’Inghilterra la patria di questo gusto.

C’è tuttavia in Negrin anche la nuova consapevolezza di essere un professionista, in possesso di una strumentazione ormai matura, un tecnico, insomma, cui non si chiede solo di essere fantasioso artista ma anche scienziato, competente d’ ingegneria quanto di botanica (egli ricorre spesso alle competenze del direttore dell’Orto botanico dell’Università di Padova).

Egli conosce le novità europee, anche in campo tecnologico, che ha avuto modo di toccare con mano nei numerosi viaggi in Belgio, Francia, Germania, Inghilterra, ed ammette che lo stile formale o simmetrico possa essere usato nei giardini accanto allo stile paesista, convenendo il primo ai giardini sontuosi e vasti, ma essendo il secondo preferibile, poiché “si presta a qualunque sito...a qualunque mezzo di fortuna, dalla reggia alla capanna”.

Il punto, tuttavia, non è la scelta tra l’uno o l’altro stile quanto “il saper armonizzare la creazione di un giardino coll’aspetto della natura che lo circonda”. Il giardino è condizionato “dalla natura dei siti, dalle circostanze locali, dal clima, dal cielo, dallo sviluppo delle piante” e l’abilità del progettista consiste appunto nell’ “immedesimarsi col carattere della natura circostante del paese stesso ove [esso] sorge”. È interessante la sua confessione che, accanto alla lezione di Jappelli e Bagnara, è tuttavia la bellezza del paesaggio veneto ad averlo ispirato: “Associate a questi nomi cari e riveriti dè miei illustri maestri, in me rivivono spesso le memorie dei luoghi veduti e studiati, di quei luoghi dove la natura svariatissima m’insegnava a mettere in atto precetti appresi dall’arte. Onde ancora io ricordo con piena soddisfazione le molte peregrinazioni che con amici ed artisti feci sui colli Berici...quei colli che inghirlandano la bella Vicenza offrono tesori di bellezze svariatissime ed in tanta copia che difficilmente s’incontrano altrove. I colli Berici che si congiungono cogli Euganei qua vanno a finire colla vasta pianura, là restano di poco divisi dalle Prealpi venete, e quindi dalle severe giogaie che maestose incorniciano la nostra patria, e per questa loro positura le scene ed i contrasti di bellezza vengono naturalmente accresciuti più che altrove, e coi loro stupendi e vaghi accidenti sono cosa feconda a svariatissimi concetti per l’arte dei giardini, vuoi tu che tengano del grazioso e dell’ameno, o del severo e sublime...”

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I TA N TI PA ESA G G I L‘esedra nel giardino del laghetto di Santorso: al di sopra la via pubblica, e più oltre la Villa Rossi. La villa era un edificio cinquecentesco riprogettato ed ampliato dal Negrin in stile pompeiano.

Il Negrin, che ebbe un’intensa attività come architetto - suoi, tra gli altri, le terme di Recoaro, il teatro di Piove di Sacco, la villa Breda di Ponte di Brenta oltre a numerosi edifici per il suo principale committente, l’industriale Alessandro Rossi - ha progettato una quindicina di parchi, perlopiù in Veneto. È lui stesso a indicare come esemplare il suo intervento a Santorso (presso Schio, per A. Rossi), sia per le difficoltà del sito a ridosso del monte Summano e tagliato da una strada pubblica, sia per l’impegnativa articolazione di un programma edilizio che comprendeva la villa ed il parco ma anche un podere modello con scuola di pomologia e fabbrica di conserve alimentari. Il parco (restaurato nelle parti storiche e integrato da proposte ludico- didattiche) comprende due aree separate dalla strada: una minore parte formale nei pressi della villa (il Parco delle rive che mura e robusti contrafforti separano dall’ imminente Summano) ed una parte a valle (parco del laghetto), collegata alla prima da un tunnel che si con-

clude a sorpresa su un’ampia esedra belvedere da cui si apre a ventaglio la vista sul complesso paesaggistico. Essa è contraddistinta dai viali sinuosi, da imitazioni archeologiche, specchi d’acqua e un laghetto, cascatelle, piante esotiche e spazi erbosi.

Tuttavia, tra i più interessanti appare il progetto per il più piccolo giardino Jacquard di Schio (sempre per il Rossi). Qui infatti il Negrin mostra di sapersi misurare brillantemente con la scottante attualità della fabbrica: all’interno dello spazio individuato per il giardino si trovavano infatti alcuni edifici ad uso industriale (tessitura, magazzini, asciugatoi e stenditoi). L’architetto li trasfigura elegantemente e crea un insieme scenografico “organizzato come un grande teatro all’aperto [che] non viene soltanto a concludere con una nota pittoresca il maestoso complesso della fabbrica, bensì ad inserirlo armonicamente nella città” (B. Ricatti Tavone).

Se Jappelli aveva naturalizzato la città, il Negrin qui naturalizza l’industria.

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Per approfondire A. Caregaro Negrin (a cura di B. Ricatti Tavone), Scritti sui giardini, To, 2005 M.B. Autizi, Giardini del veneto, Tv 2017 (interessante per gli spunti che offre per visite ai più importanti giardini del territorio, oltre che per le riflessioni storico-artistiche)

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STOR IA E DIN TOR NI STORIA E DINTORNI di Roberto Soliman

Il Regno Lombardo Veneto, quando non eravamo ancora italiani Oggi sembra una stranezza dirlo, ma la nostra terra è diventata tricolore solo 155 anni fa. I nostri bisnonni erano nati austriaci e forse senza dispiacersene più di tanto. La società era ancora quella dell’ancien regime, ma qualche elemento della modernità iniziò a manifestarsi proprio in quegli anni

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’Unità d’Italia è forse una delle pagine di storia più soggette al revisionismo negli ultimi anni. Forse perché il ritorno dei “localismi” dà adito a nostalgie di vario genere, compreso il rimpianto per i Borboni nel Sud d’Italia o degli austriaci nel Lombardo Veneto. Fatto sta che essere diventati piemontesi non sta comodo a tutte le parti d’Italia, malgrado da quei fatti siano trascorsi 155 anni o, al contrario, perché sono

passati solo 155 anni. Già perché in fondo è storia ancora recente vissuta, appena qualche generazione fa, dai nostri bisnonni ancora analfabeti che dei quei giorni non hanno lasciato racconti, neanche orali, se non storie legate all’endemica povertà di cui era causa un po’ il governo, un po’ l’Altissimo e un po’ tutti e due: “L’Altissimo de sòra ne manda la tempesta e l’altissimo de sòto ne magna quel che resta”. La memoria nazionale di quel periodo compreso

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STOR IA E DIN TOR NI

tra il 1815 al 1866, dunque, spazia tra ciò che rimane della propaganda post unitaria e della personale formazione sui sussidiari di scuola, creando una certa confusione tra i martiri di Belfiore, il feroce feldmaresciallo Radetzky, le cinque giornate di Milano, quelle di Venezia, la bella Gigogìn, e … questa sì impressa nella memoria di tutti … la scritta a doppio significato “W - V.E.R.D.I.”, che l’austriaco non capiva.

Che furbi gli italiani e quanto compiacimento esserlo. Forse anche per via di una storia liquidata facile: Piemonte e dinastia sabauda da una parte, Lombardo Veneto e Asburgo dall’altra, i “buoni e i cattivi”, i “nostri e gli indiani”, ma quelli dei film western di qualche decennio fa perché, anche qui, ora tendiamo più a stare dalla parte dei Siux e degli Apache.

Non c’è storia.

E invece sarebbe una storia da approfondire, proprio perché ancora recente, è storia domestica, una finestra che affaccia sul nostro ieri l’altro.

Il regno Lombardo-Veneto fu un’invenzione viennese del cancelliere Metternich che riunì dal 1815 al 1859 le due regioni sotto la dinastia degli Asburgo ed ebbe la sua fine naturale con la seconda guerra d’Indipendenza, anche se la coda (e il nome) rimase per Mantova e il Veneto fino al 1866, dopo la terza.

A capo del regno c’era un Vicerè di nomina imperiale, dapprima (dal ’18 al ’48) il debole e mediocre Ranieri, ispiratore della filastrocca popolare: “Vedrò, dirò, farò quel che potrò”; poi, dopo la rivoluzione del ’48, Massimiliano, fratello di Franz Joseph, “bello, biondo, colto e gentile” (quello del Castello di Miramare di Trieste per intenderci) in seguito, ahimè, sfortunato imperatore del Messico.

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Ranieri Giuseppe d’Asburgo Lorena nel 1818 succedette al fratello Antonio Vittorio come viceré del Regno Lombardo Veneto

È bene chiarire fin da subito che il Vicerè regnava, non governava. Esistevano poi, e parliamo del Veneto, un governatore a Venezia e un governo regionale chiamato Congregazione, i cui membri erano eletti: 1/3 dai nobili (uno per provincia), 1/3 dai ricchi non nobili, 1/3 dalle città regie (gli attuali capoluoghi più Udine e Bassano); varie magistrature.

Frequenti erano le elezioni (ovviamente tra i maschi di censo), la burocrazia era onesta e notevole l’autonomia. Però ogni importante decisione doveva naturalmente venire da Vienna.

Agostinetti ci ricorda che lo storico Giuseppe Solitro, citando di come fu accolta in Veneto la nuova amministrazione scrive: “…. la nuova dominazione fu accettata dalla maggioranza dei Veneti non con rassegnazione soltanto, ma vorrei dire con gioia”. La spiegazione è semplice: la popolazione non ne poteva più di guerre e di caos. In 15 anni, dal 1797 (fine della Serenissima) al 1813 la gente veneta aveva sopportato otto cambi di governo, dai francesi agli Asburgo e viceversa, con nuove tasse e nuovi arruolamenti per ingrossare le truppe necessarie per fronteggiarsi, fino al Congresso di Vienna.

Il regno Lombardo-Veneto fu un’invenzione viennese del cancelliere Metternich che riunì dal 1815 al 1859 le due regioni sotto la dinastia degli Asburgo

Ferdinando Massimiliano d’Asburgo Lorena, arciduca d’Austria Principe reale d’Ungheria Principe reale di Boemia Principe reale di Croazia e Slavonia Viceré del Lombardo Veneto (1857-1859)

E allora vediamo gli aspetti principali che interessavano la vita della gente comune in quel periodo storico:

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Solitro: “... la nuova dominazione fu accettata dalla maggioranza dei Veneti non con rassegnazione soltanto, ma vorrei dire con gioia”

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STOR IA E DIN TOR NI

Nel 1841 Vienna spendeva 8.083.000 fiorini per l’istruzione pubblica; solo nel Lombardo-Veneto si spendevano 2.987.000 fiorini, cioè più di 1/3 dell’intero bilancio

Le classi sociali, anche con il Regno Lombardo-Veneto erano la nobiltà, la borghesia, il popolo. La prima, che costituiva circa lo 0,5% dell’intera popolazione, possedeva il 50% del reddito, basandosi sul latifondo, come la ricca borghesia che aveva anche interessi industriali, e professionali, oltre che agricoli, e che entrambe non legarono mai con Vienna.

Il popolo di città e di campagna, invece, faceva la fame, soprattutto i braccianti, abitanti i “casoni” o le povere casupole di mattoni “crui”, col tetto di paglia, oppressi dall’usura, dalla miseria, dalla pellagra e col costante disprezzo della nobiltà, non dei regnanti, troppo lontani, quasi eterei.

Per ultimo il clero che, a differenza di quello lombardo di estrazione piccolo borghese, era in genere di origine contadina, e aveva uno stretto contatto col popolo.

L’istruzione. Nel 1841 Vienna spendeva 8.083.000 fiorini per l’istruzione pubblica; solo nel Lombardo-Veneto si spendevano 2.987.000 fiorini, cioè più di 1/3 dell’intero bilancio per iniziare a sconfiggere la piaga dell’analfabetismo diffuso in particolare tra il popolo. Si puntò soprattutto all’istruzione elementare maschile, operante con un unico maestro per tre classi, sotto la direzione del parroco nei nostri paesi. Sempre nel 1841, 6 bambini su 10 frequentavano queste scuole, mentre per le bambine bisognò aspettare qualche decennio ancora.

Il sistema sanitario era tra i più progrediti d’Europa contando su: medici condotti tutti laureati, non come in Francia o nei lander tedeschi dove professavano spesso laureandi o studenti anziani, e con l’inserimento progressivo delle levatrici anche nei paesi, al posto della “comare”, continuando con le vaccinazioni preventive, cose che, nell’insieme, portarono a un allungamento della vita con conseguente aumento demografico mentre le risorse rimanevano al palo: e da qui la successiva emigrazione di massa nella seconda metà dell’ottocento.

L’economia Veneta era abbastanza positiva, inferiore a quella lombarda ma in buona posizione rispetto ad altre regioni del grande impero danubiano, pur se legata fondamentalmente all’agricoltura. Ma nella Pedemontana incominciò a farsi strada il tessile, con Rossi in particolare, anche se Vienna per

Una delle immagini celebri del Risorgimento, dietro al nome del celebre compositore si nascondeva il moto inneggiante al processo di unificazione nazionale: W Vittorio Emanuele Re D’Italia

le commesse militari privilegiava gli imprenditori carinziani o boemi di più sicura fede verso l’impero.

Per la viabilità furono iniziate le prime linee ferroviarie come la Ferdinandea Milano-Venezia, col ponte translagunare, terminata nel 1857; si fecero vari raddrizzamenti e sistemazioni di strade che poi diventeranno le “Statali” (la frequentatissima Strada del Costo di Asiago è del 1852); venne creato il porto franco di Venezia. Però la gente di campagna e di città continuava a vivere di stenti, anche se questa era una situazione generale in Europa. D’altronde i palazzi reali che ora ammiriamo come turisti sono stati costruiti con il sudore e le privazioni dei nostri avi, dappertutto e in tutte le epoche!

Durante il periodo del Regno Lombardo Veneto sono state realizzate le prime linee ferroviarie come la Ferdinandea Milano-Venezia, col ponte translagunare, terminata nel 1857

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La Leva militare durava 10 anni, anche se in realtà per ragioni economiche si limitava a 2-3 anni e i coscritti veneti venivano estratti a sorte, sorte che cadeva sempre sulla classe contadina perché i più ricchi, se estratti, potevano comprare un supplente o pagare 1500 fiorini per restare a casa!

Va detto, per inciso, che la presenza dell’esercito in rapporto alla popolazione, nel Lombardo-Veneto era molto inferiore rispetto a quella del Regno delle due Sicilie, o a quello di Sardegna, ma anche rispetto allo Stato Pontificio.

Luci e ombre quindi di un cinquantennio terminato con la Terza Guerra d’Indipendenza e il successivo Plebiscito dei giorni 21 e 22 ottobre del 1866 dove i veneti con diritto di voto decisero al 99.99% l’unione alla monarchia sabauda.

Non sono in grado di dare pareri sul risultato plebiscitario, sul quale peraltro sono stati versati fiumi di inchiostro, ma riporto parte della commedia “Le elezioni comunali in Villa”, del farmacista scledense Domenico Pittarini, incarcerato dall’Austria nel 1859 e morto in miseria in Argentina, dove fa colloquiare due contadini semianalfabeti sul modo di votare in quell’epoca e che si dicono: “Ciò, chi ghetu metesto sule schede”? e l’altro: “Mi gnente, me le gà consegnà el cursor scrite e tuto”! riprende il primo: “E anca mi istesso, manco fadiga”, “Manco secàde”, conclude il secondo!

messaggio pubbliredazionale

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Un singolo esemplare può seppellire circa un migliaio di ghiande ogni anno.

Da quelle che non verranno usate come cibo nasceranno nuove piante

AMICI CON LE ALI di Aldo Tonelli

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La Ghiandaia, uccello intelligente che semina alberi In paesi come il Portogallo questo amico con le ali viene sostenuto per rimboschire le foreste bruciate.

Vengono creati dei depositi di ghiande per permettere alle Ghiandaie di accumularle e spostarle su un vasto territorio per far rinascere la foresta

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i piedi per terra

Ghiandaia al bagno con la cresta eretta

Una Ghiandaia alla ricerca di cibo. Tra le sue prede preferite figurano i grandi insetti o le larve, ma non disdegna alimenti vegetali come ghiande, castagne, noci, patate, mele, fichi e bacche

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a Ghiandaia è uno degli uccelli che più amano gli ambienti boscosi, è chiassosa, ingegnosa e sfuggente. Lunga circa 34 centimetri per un’apertura alare di circa 53 centimetri ha un peso che può raggiungere i 170 grammi e viene chiamata in dialetto Gaia o Gasa rossa. Maschio, femmina e giovani sono praticamente indistinguibili tra di loro ma è una specie inconfondibile poiché la colorazione di base è bruno fulva, occhi chiari con fronte bianca screziata di nero, due fasce nere come baffi che dal becco, pure questo nero, si estendono alle guance, la gola è bianca e ha una cresta che solleva quando assume un atteggiamento di difesa del territorio. Le ali superiormente hanno alcune penne azzurre con screziature nere, tipiche della specie, la coda è nera e fa da forte contrasto con il groppone bianco. Si nota facilmente in volo mentre quando è posata, grazie anche a questa colorazione mimetica, sfugge spesso all’osservazione, specie se nascosta tra le fronde degli alberi e arbusti.

Appartiene ai corvidi ma tende a essere solitaria e pur essendo in grado, in particolari condizioni, di coprire grandi distanze, non si aggrega tranne che in autunno quando si formano piccoli e chiassosi gruppi, per lo più di origine familiare, per superare meglio la stagione fredda. Ha un variegato repertorio di suoni che spesso non la rende facilmente riconoscibile: infatti imita il verso di altri uccelli ma emette anche miagolii e rumori di origine artificiale. Spesso emette il verso di rapaci come la Poiana per ingannare i conspecifici e allontanarli dalle risorse trofiche o per difendere la prole. Presente in gran parte del continente europeo, Asia e Nord Africa, fatta eccezione per i climi eccessivamente rigidi e per le aree poste oltre il limite della vegetazione arborea. In Italia è sedentaria con una distribuzione piuttosto ampia dal settore alpino, fino ai 1.800 metri di quota, al resto della Penisola. Predilige le aree dove è maggiore la copertura boschiva e negli ultimi anni si è verificata un’espansione verso la zona di pianura, dove frequenta aste fluviali, boschi igrofili, sponde di canali ove siano presenti alberi o arbusti, parchi di ville anche isolati, siepi, scarpate ferroviarie, zone umide con vegetazione naturale. Risulta assente dalle aree di pianura condotta con tecniche colturali intensive e particolarmente povera di vegetazione naturale. Tuttavia in alcune zone risulta presente anche in frutteti a coltivazione intensiva purché prossimi a lembi anche limitati di vegetazione spontanea, frequenta e si riproduce anche nelle aree verdi urbane. A inizio aprile le coppie costruiscono tra gli alberi un nido dalla forma piatta a un’altezza di circa 2 metri dal suolo con rami e fili di fieno, l’interno viene ammorbidito con radici sottili e muschio.

La femmina depone dalle 5 alle 7 uova una volta l’anno e la fase riproduttiva va dalla fine di aprile a giugno. La coppia, monogama e con un legame che dura spesso tutta la vita, si da il cambio nella cova per 16-17 giorni, mentre i pulcini restano nel nido, dopo la schiusa, per

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Posandosi sopra i formicai si fa letteralmente cospargere di acido formico per eliminare i parassiti. È il cosiddetto “bagno di formiche”

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A MIC I C ON L E A L I Maschio, femmina e giovani sono praticamente indistinguibili dal piumaggio. I colore predominate tuttavia è il bruno fulvo. Caratteristiche sono le due fasce nere che si estendono dal becco alle guance e la parte superiore delle ali, dove spicca una fascia di penne azzurre screziate di nero

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circa 19-20 giorni. La dieta è composta da uova, pulcini, topi, grandi insetti e larve. Per arricchirla, non disdegna alimenti vegetali come ghiande, castagne, noci, patate, mele, fichi, bacche e cereali.

Si distingue per essere un uccello con grandi capacità di apprendimento, così come altre specie di corvidi, avendo un indole curiosa che la porta spesso ad avvicinarsi alle zone più antropizzate ma sempre attenta e diffidente. Spesso effettua il cosiddetto “bagno di formiche” posandosi sopra i formicai e, con le ali dispiegate, si fa letteralmente cospargere di acido formico per facilitare l’eliminazione dei parassiti dal piumaggio che diventa più luminoso e per un periodo meno parassitabile. Mostra inoltre una serie di comportamenti che la fanno definire una vera giardiniera dei boschi. Molto attiva nello stipare il cibo in eccesso, specie le ghiande, in numerosi nascondigli posizionati sotto le cortecce degli alberi o in buche nel suolo del suo territorio in un ampio raggio che può raggiungere fino ai 20 km di distanza dal sito di raccolta. Badando bene di non essere osservata da altri esemplari durante tale operazione, tali provviste vengono accumulate in ogni stagione, con picchi verso la fine dell’estate, allo scopo di far fronte agli eventuali rigori dell’inverno con scorte di cibo adeguate. Un singolo esemplare può seppellire

circa un migliaio di ghiande ogni anno che naturalmente non tutte verranno utilizzate e da cui potranno quindi nascere nuove piante. Questo ha fatto sì per esempio che prima dell’intervento umano le Ghiandaie sono state il principale vettore d’espansione della farnia e del leccio verso nord subito dopo la fine dell’ultima era glaciale. Ci sono paesi come il Portogallo che sostengono le popolazioni di Ghiandaie come contromisura per rimboschire le foreste bruciate creando dei depositi di ghiande per permettere a questi uccelli di accumularle e spostarle su un vasto territorio, riuscendo a far rinascere una foresta.

Ha un variegato repertorio di suoni e spesso imita il verso di altri uccelli, ma emette anche miagolii e rumori di origine artificiale

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