The Pill Outdoor Journal 52 ITA

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Carolina è un medico sportivo, durante la settimana lavora a Brescia trascorrendo parte della settimana dai suoi. Fra è laureato in storia dell’arte alla Cattolica, e lavora a contratto nella segreteria dell’Accademia di Brera. Il giorno dopo, tornando verso Trento, io e Camilla seguiremo da lontano la loro routine del lunedì mattina: la sveglia alle cinque, la colazione, il cibo per i cani, e poi il viaggio in macchina fino al paese vicino, dove le nostre strade si dividono. Da qui loro prenderanno una corriera fino a Varese e da lì un treno per Milano. Fra compie questo tragitto tutti i giorni, all’andata e al ritorno. In tutto trascorre cinque ore al giorno facendo il pendolare, oltre alle otto di lavoro. Il resto del tempo lo dedica ai cani.

i cani non solo se la passano bene, ma sono anche felici e mostrano entusiasmo e rispetto per Fra, che d’altronde si rivolge a loro con affetto e ammirazione. Fra ha cinque Siberian Husky: Indi, Ciuk, Adi, Tulku e Tayen, a cui presto si aggiungerà Dolly. I siberiani sono cani di razza, al contrario degli alaskani che sono incroci, sono più robusti e resistenti al freddo, e i puristi li considerano i “veri” Husky. Ne voglio sapere di più, così telefono a Giancarlo Cattaneo, un ex musher amico di Fra, che ha tenuto cani per ventitré anni, prima siberiani e poi alaskani, e che ha grande esperienza sia nelle traversate in solitaria che nelle competizioni su lunga distanza in Nord America e in Scandinavia. Giancarlo mi spiega che la razza non comporta soltanto diverse caratteristiche fisiche del cane, ma anche un diverso stile di andare in slitta: il siberiano è il cane delle grandi traversate, delle notti in tenda, delle battute di caccia. L’alaskano invece è il cane da competizione, esile e veloce, più facile da tenere e meno resistente al freddo. Giancarlo non ha più cani da una decina d’anni, e ora vive a Dobbiaco. Gli chiedo il motivo del suo ritiro, se così si può chiamare: “Ho smesso perché già dieci anni fa nel sud Europa non c’erano più le condizioni. Il clima cambia, le stagioni sono sempre più corte. Una volta c’era più neve, ci sono sempre più problemi ad allenare. E se devo tenere i cani otto mesi su terra non ha più senso.” Gli chiedo come sia visto da fuori il mondo della sleddog: “Passi sempre per quello che vuole sfruttare il cane, che non gli vuole bene, perché lo fai tirare. Passi sempre per lo sfruttatore. Questo soprattutto nel sud Europa, se vai a nord è una parte della loro cultura.”

Fra, al secolo Francesco Raimondi, ha un’idea abbastanza trascendentalista della vita. Succede a tante persone che conosco, soprattutto trentenni (per noi ventenni è questione di tempo): hai un paio di lauree, un lavoro, delle aspirazioni, e poi arriva qualcosa come l’arrampicata, la corsa o i cani, e ne fa coriandoli. La vita che ti ritrovi a vivere si svuota e diventa d’un tratto finta e artefatta, le priorità cambiano e le motivazioni perdono di senso, e inizi a sentire il profumo delle terre selvagge. Fare outdoor e vivere in una grande città non è incongruo per una ragione geografica, è incongruo per una ragione etica. Chi lo fa accetta un compromesso, ma se vuoi avere dei cani da slitta non puoi permetterti dei compromessi, se vuoi scalare, se vuoi scalare davvero, non puoi permetterti dei compromessi, devi privarti di qualcosa. Fra lo sta facendo, e sono convinto che prima o poi ci arriverà. Dall’altro lato mi chiedo se questo rifiuto delle contraddizioni della società (“umanità della civiltà” la chiama lui, con un tono un po’ sopra le righe) non sia invece un rifiuto della propria quotidianità. Confondere le due cose è sempre una grande tentazione.

Qualche tempo fa lessi un reportage di Brian Phillips sull’Iditarod, una storica competizione di sleddog in Alaska che percorre 1600 chilometri che separano Anchorage da Nome. Phillips scrive: “C’è un solido argomento che gli ambientalisti avanzano contro l’Iditarod, ossia che si tratta di una gara lunga, fredda, pericolosa e a volte fatale, e chi siamo noi per sottoporre delle creature viventi a simili condizioni solo per il nostro divertimento?” La domanda è non solo legittima, ma direi dovuta. Phillips continua:

Dopo pranzo, scendiamo qualche metro rispetto al livello della casa, in una fresca valletta creata dal torrente che attraversa la loro proprietà. I cani stanno dentro a quattro grandi gabbie a loro volta contenute in un recinto. Gabbie e recinti non godono di grande considerazione, e sugli stessi termini vige una sorta di tabù. In realtà

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