I miei grandi comici di Vito Molinari

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Collana “Album”

I MIEI GRANDI COMICI

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VITO MOLINARI

I MIEI GRANDI COMICI NEI

RICORDI DEL PIÙ LONGEVO E VERSATILE

DEI NOSTRI REGISTI, MATTATORI,

E CARATTERISTI DI OLTRE

“SPALLE” SESSANT’ANNI DI

SPETTACOLO, TRA RIVISTA, CABARET E TELEVISIONE.

Prefazione di

Gigi Proietti

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A Hilda a Elio e Sandra ai nipoti: Alessandro, Laura, Alberto, Enrico ai pronipoti: Matteo, Margherita, Niccolò, Emma, Vito, Marta, Luca, Sara, Michele, Alba

«La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda, e come la si ricorda, per raccontarla» Gabriel García Màrquez

Copertina: Patrizia Marrocco Immagini di copertina: in prima di copertina, Nino Taranto, Alberto Sordi, Erminio Macario, Aldo Fabrizi, Totò, Gilberto Govi; nel risvolto di sinistra, Renato Rascel, Dario Fo, Paolo Villaggio, Gino Bramieri, Walter Chiari, Enrico Montesano; nel risvolto di destra, Carlo Dapporto, Alighiero Noschese, Gigi Proietti, Ettore Petrolini, Peppino De Filippo, Paolo Poli. Fotografie: Per quanto consti all’Editore, tutte le foto pubblicate in questo volume destinato alle discipline dello spettacolo sono di pubblico dominio. Per il caso in cui taluna di esse fosse tutelata da copyright, l’Editore si scusa per non averne dato la doverosa segnalazione, dichiarandosi sin d’ora disposto a revisioni in sede di eventuali ristampe e al riconoscimento dei relativi diritti ai sensi dell’art. 70 della legge n. 633 del 1941 e successive modifiche. Stampa: Printonweb – Isola del Liri (FR) 2018 © Gremese International s.r.l.s. – Roma Tutti i diritti riservati. Nessuna copia di questo libro può essere riprodotta, registrata o trasmessa in qualsiasi modo e con qualsiasi mezzo, senza il preventivo consenso formale dell’Editore. ISBN 978-88-6692-046-5

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SOMMARIO prefazione di gigi proietti

il copione non basta ......................................................................................................... 7 Introduzione

Considerazioni intorno al "comico" ........................................................... 9 I miei grandi comici Erminio Macario .............................................................................................................................. 17 Nino Taranto ..................................................................................................................................... 27 Carlo Dapporto ................................................................................................................................. 35 Renato Rascel .................................................................................................................................... 45 Aldo Fabrizi ........................................................................................................................................ 53 Gilberto Govi ..................................................................................................................................... 61 Peppino De Filippo .......................................................................................................................... 83 Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello ......................................................................................... 91 Walter Chiari .................................................................................................................................. 113 Paolo Villaggio................................................................................................................................ 127 Gino Bramieri................................................................................................................................. 133 Raffaele Pisu.................................................................................................................................... 143 Dario Fo ............................................................................................................................................ 149

E tanti, tanti altri‌ ........................................................................................................ 157 La Spalla ...................................................................................................................................... 185 Carlo Campanini ........................................................................................................................... 187 Gianni Agus..................................................................................................................................... 189 L'avanspettacolo ............................................................................................................ 191 Gli antenati .............................................................................................................................. 197 I fratelli De Rege............................................................................................................................ 197 Ettore Petrolini ............................................................................................................................... 203 La censura ................................................................................................................................. 211 Indice dei nomi ....................................................................................................................... 217

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il copione non basta Prefazione di Gigi Proietti

Purtroppo ho conosciuto pochi grandi comici. La mia è stata una generazione “di mezzo”. Fra quelli che ho conosciuto meglio posso e voglio citare Rascel, con il quale ho lavorato nel musical dal titolo Alleluja brava gente. Ero giovanissimo e venivo da un’esperienza di teatro molto diversa; quella destinata più ai critici che al grande pubblico. Quindi nelle prove mi trovavo un po’ spiazzato. Canzoni comiche, sentimentali, balletti, dialoghi pieni di battute esilaranti ma soprattutto scrutavo e scoprivo pian piano l’arte di Renato. Dico pian piano perché molte cose in prova non le capivo. Solo dopo l’andata in scena davanti al pubblico mi divennero chiare. Intuii che da quel grande Artista potevo imparare tanti segreti per me sconosciuti. Me lo guardavo dalla quinta e ogni sera mi stupiva la sua leggerezza. La sua comicità, al di là del talento, dei tempi comici perfetti, spesso derivava da un modo tutto suo, astratto a volte, di dire una battuta. Capii che un attore può avere a disposizione un copione di grande comicità, ma se non ha il “senso” del comico e un suo particolare stile, il copione non basta. Conobbi Fabrizi nel film La Tosca di Gigi Magni e fu una conferma per me che il comico deve avere un dono specialissimo e, al limite, anche caratteristiche fisiche particolari. Fabrizi, corpulento com’era, poteva essere considerato fisicamente l’opposto di Rascel, ma riusciva, se voleva, a essere lieve come una libellula. Mi recitò, in una pausa, un piccolo monologo, dal titolo La corrida vista dal toro, toro ovviamente romano: esilarante. Purtroppo quel monologo non l’ho mai ritrovato. Io non saprei definire con esattezza cos’è la comicità, ma credo di essere in buona compagnia: altri ben più autorevoli di me hanno provato a definirla, scrittori, filosofi, intellettuali, ma in sintesi nessuno ci è mai riuscito in modo soddisfacente. Ringraziamo Vito Molinari per il prezioso e doveroso ricordo di questi “eroi del tempo”. Lui ha avuto la fortuna di conoscerli meglio di me. Potrei citare Sordi, Chiari, l’amatissimo Totò (che purtroppo non ho mai incontrato), ma li ho apprezzati solo attraverso il cinema o la tv. Dal vivo ho visto soltanto qualche “minore” nell’avanspettacolo; e tutti sanno che grande scuola sia stata questa strana forma di intrattenimento ora scomparsa: Cinema-Teatro. Mi è rimasta

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la curiosità di vedere Totò in teatro, la Magnani o addirittura Sordi che, al di là della critica all’“italiano medio” (che è stata il suo punto di forza), è riuscito a usare un linguaggio popolare, tipico della Roma postbellica, sublimandolo e rendendolo poetico e universale nel cinema. Li ringrazio tutti, grandi e piccoli, e chissà?, forse è proprio per loro che ho continuato a fare il mestiere che ancora amo: l’Attore.

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Considerazioni intorno al "comico"

Homo ridens. Tra tutti gli esseri viventi, solo l’uomo conosce il riso (Aristotele, De anima), ridere è proprio dell’uomo che, infatti, è l’unico animale che ride. «Rider soprattutto è cosa umana» (Rabelais). Come si ride? Sorprendentemente Alberto Sordi ne ha dato una spiegazione tecnica: «È molto semplice: premesso che il riso è una facoltà propria dell’uomo, è sufficiente modificare il ritmo respiratorio e la mimica del volto. Si ha dapprima dilatazione e contrazione dei muscoli delle labbra e delle guance, mentre l’espirazione viene sospesa; quindi le contrazioni si rafforzano e si estendono a tutti i muscoli della faccia, le scosse si ripercuotono nella gola e le spalle cominciano ad agitarsi; infine tutto il corpo vi partecipa convulsamente, sino al punto di potersi verificare la lacrimazione, perdita di urine, specialmente nelle donne, dolor di ventre per gli urti del diaframma sulla massa intestinale. Il riso, in conclusione, può essere pericolosissimo. Infatti, si dice: “Morire dal ridere…”, “Ho riso da morire…”. Mentre non si dice: “Morire dal piangere…”, “Ho pianto da morire…”». Di chi, o di che cosa si ride? Ancora Sordi: «Il comico è uno degli esempi tipici di sentimento misto di piacere e di dolore. Comico è il personaggio che improvvisamente subisce una delusione, circa le qualità e le possibilità di cui crede di disporre, senza nello stesso tempo apparire odioso e temibile; e il gusto che ne ha lo spettatore è la soddisfazione di una celata invidia, che di questa ha insieme il dolce e l’amaro. Il senso del comico, così, si risolve, in sostanza, nella percezione della propria superiorità, rispetto alla persona che appare tale. Per Aristotele, più semplicemente, la comicità di un personaggio è determinata dal presentarsi di un suo difetto o errore, in quanto però esso non appare odioso e non suscita repulsione. L’origine del comico è comunque vista sempre nell’avvertimento di una sorta di contrasto, di dislivello: si manifesti esso tra la cosa e lo spettatore, o tra la cosa reale e l’idea che altrimenti se ne possa avere» (da un articolo del «Corriere della Sera»). Secondo Henri Bergson «si ride di uno che inciampa (a noi non sarebbe successo, è il pensiero sottinteso)». Si ride di uno che scivola su una buccia di banana. Si ride di un gelato che cade nel seno di una signora anziana e prosperosa, ma non si ride se il gelato cade nel seno di una bella, giovane ragazza. Si ride dei difetti, 9

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delle deformazioni altrui. È come guardare in uno specchio deformante; ridiamo senza accorgerci che, in fondo, ridiamo di noi stessi riflessi. La risata è liberatoria, è contagiosa. Bernardo Cantalamessa ne ha dato un esempio perfetto con la sua macchietta ’A risa. Non una parola; solo una risata che inizia piano, quasi soffocata, ma aumenta, sale, raggiunge l’apice, accompagnata da una melodia che diventa sempre più ritmata, veloce e travolgente. Pare che, alla sua esecuzione, gli spettatori venissero coinvolti e trascinati a ridere in modo irresistibile assieme al comico. La comicità è sempre esistita. Atene aveva locali speciali, dedicati agli spettacoli comici, una specie di cabaret, dove gli ateniesi accorrevano per ridere della presa in giro di personaggi famosi e di politici. Era anche un modo per tenerli sotto osservazione, per controllarli. Nella sua commedia comico-satirica I cavalieri, Aristofane mette in scena, parodiandolo, un demagogo cialtrone. Un noto proverbio consiglia: «Scherza coi fanti, ma lascia stare i santi». Ma nell’età classica della Grecia, degli dèi si rideva; si satirizzavano gli amori di Diana, le scappatelle di Giove. Professore di letteratura greca, l’“antichista” Guido Guidorizzi, afferma: «Scherzare sugli dèi era il modo in cui il popolo si avvicinava alla sfera divina. Rappresentando le divinità sotto sembianze umane, per quanto immortali, evitava di rinchiudere la religione nella morsa dell’integralismo». Nell’Orfeo all’inferno di Hoffenbach, tutto il secondo atto si svolge sull’Olimpo, dove le divinità sono impegnate a spettegolare sulle reciproche avventure; e sono deliziosi i couplets in cui mettono in piazza, rinfacciandoglieli, gli amorazzi di Giove, che per raggiungere i suoi scopi si trasforma in toro o in cigno. Ma in realtà le allusioni sono riferite ai comportamenti erotici dei potenti contemporanei. Nelle “macchiette” della grande tradizione napoletana, spesso vengono messi alla berlina politici corrotti, giornalisti collusi e compiacenti, militari infingardi, maneggioni cialtroni. La nostra comicità ha tradizioni millenarie: ha radici nelle farse atellane, in Plauto, e si conferma nel ghigno irridente delle antiche maschere della Commedia dell’Arte. Il giullare medioevale, il buffone di corte, il clown, sono interpreti della difficile arte della comicità. Diceva Molière: «Quando vai a teatro e vedi una tragedia, ti immedesimi, partecipi, piangi, piangi, piangi, poi vai a casa alla sera e dici: Come ho pianto bene questa sera! E dormi rilassato. Il discorso politico ti è passato come l’acqua sul vetro. Mentre invece, per ridere, ci vuole intelligenza, acutezza. Ti si spalanca nella risata la bocca, ma anche il cervello, e nel cervello ti si infilano i chiodi della ragione». Ridiamo, insomma, ma davvero la comicità è una cosa seria. Ridiamo col comico delle sue critiche ai costumi. Ridendo, castigat mores; “Ridendo castiga i mori”, traduce Totò. L’uomo sa ridere, ma anche fa ridere. Inconsapevolmente, o con10

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introduzione

sapevolmente come fa l’attore comico. In origine il termine “comico” significava “attore di professione”, indipendentemente dal genere che interpretava: tragico, drammatico, satirico. In seguito si è differenziato l’attore tragico, l’attore comico e il “comico”. Quest’ultimo possiede la vis comica, cioè è in grado di esprimere fascinazione, ha il famoso quid del fabulatore. Ossia ha il “carisma”. Io sostengo che Dio ha creato Adamo, poi Eva, poi il comico. Che è un “diverso”. Per Villaggio il comico è “un alieno”, una eccezione della natura: «Scopri all’età di sei anni che non sei uguale agli altri, che hai un comportamento atipico. Che fai ridere senza volerlo. Non so se è più un dono o una condanna». Il pubblico sa che col comico può ridere, con lui vuole ridere, lo pretende. Il vero comico interpreta sempre e solo un personaggio: se stesso. Il comico fagocita l’interprete, utilizza il meglio del personaggio a suo uso e consumo, per dare il meglio di sé, rimanendo sempre fedele alla sua personalità unica e originale. Al di là delle truccature, delle interpretazioni diverse, il comico di razza sarà sempre e solo se stesso. L’attore comico, invece, interpreta personaggi diversi, identificandosi con i caratteri interpretati. Si mette al servizio del personaggio, cerca di entrare nelle caratteristiche del tipo, fino ad annullarsi nell’interpretazione. Attori comici, anche bravissimi, non saranno mai “comici”. Comici si nasce. Si può migliorare, imparare la tecnica, i tempi, i ritmi, le pause, ma non diventi un comico se non ci sei nato. È difficile definire la comicità. I comici non sempre si rendono conto di questa loro diversità. Macario osservava: «Il comico ha un quid in più. Ma cosa sia questo quid nessuno lo sa». Gilberto Govi diceva che la comicità è una pura questione di tempi: «È come l’equilibrismo di un acrobata al trapezio». Un comico può essere anche un bravo interprete tragico, e spesso desidera dimostrarlo, impegnandosi nell’interpretazione di testi classici. Ma è raro che un bravo attore tragico, pur potendo interpretare testi comici, diventi anche un “comico”. Ci riuscì Monicelli, che fece di Gassman un comico vero. Avanspettacolo, varietà, rivista poggiano su due pilastri fondamentali: comicità e sesso. Che sono spesso accostati, esibiti. E che sono motivi di riso. Basta ricordare Lisistrata e lo sciopero sessuale delle donne. O Macario e le sue “donnine”. O le sequenze allusive e piccanti dei film di Totò. Il riso non può essere assolutamente giusto. Non deve essere neppure buono. Il vero comico è cattivo, irride alla bontà, ai buoni sentimenti, sa che il pubblico riderà in modo liberatorio di una cattiva azione, che avrebbe forse voluto compiere, ma di cui non sarebbe stato capace. Il comico aggredisce, corrode, disgrega. Perciò è sempre stato temuto, sospettato, controllato, contrastato, perseguitato dai poteri forti; specie quello politico e quello religioso. Così è nata la censura, contro la satira. La satira è un aspetto della comicità, rivolto 11

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alla sfera pubblica. La satira è considerata un mezzo rivoluzionario, un pericolo, dai poteri costituiti. Dario Fo: «La satira è indignazione, soprattutto. Acerba, dura, ostica. E anche paradossale. Anche con limiti che possono essere scambiati per follia. L’indignazione spinta al punto da rasentare il cinismo. La satira non ha confini. Come non ne ha la tragedia. Ambedue denunciano in fondo le cose più infami dell’uomo: la violenza, lo strapotere, l’incesto, lo stupro, la strage». Nel romanzo «Il nome della rosa» di Umberto Eco, la vicenda gira tutta attorno al libro perduto di Aristotele sulla commedia. La teoria intorno al riso è pericolosa, sovversiva, va combattuta in ogni modo, anche arrivando a uccidere: «Il riso uccide la paura, e senza paura non ci può essere la fede». Le forme di comicità sono diverse: c’è la comicità di battuta e quella di situazione. Si può ridere di pancia o ridere di testa. La comicità utilizza mezzi bassi, deteriori, grossolani, oppure sofisticati, sottili, ironici. L’ironia è componente fondamentale della comicità. «L’umorismo è il solletico al cervello», diceva Achille Campanile. L’umorismo appartiene più alla letteratura, alla scrittura che allo spettacolo. Fa sorridere, fa pensare. Dario Fo: «C’è risata e risata. La cultura del ridere indica la qualità di un popolo. C’è chi sghignazza, e c’è chi sbraga… e chi ha il senso dell’ironia. Quest’ultima è la risata più alta. In Italia sono pochi a saperla mettere in pratica: i napoletani, i toscani, i veneti, i lombardi. Gente allenata a non prendere mai sul serio il potere. Lo humor è interclassista, non lo impari né a scuola, né in salotto. La cultura dell’ironia è trasversale; i contadini, per esempio, l’hanno praticata da sempre nei Fabulazzi e nei Mariazzi, le storie orali tramandate da sempre in occasione di matrimoni e altri eventi sociali. (Spettacoli veri e propri, anche senza testo. Bisogna allargare le pareti del termine spettacolo. Se ci sai fare, allora anche una lezione può diventare intrattenimento, teatro nel senso più vero e originario del termine)». Per Baudelaire, «il comico è un elemento condannabile e di origine diabolica». Arlecchino ha sulla maschera, sulla fronte, un bitorzolo rosso; è quanto è rimasto dell’originario corno diabolico, tagliato alla base. Nel comico il diabolico è sempre presente, non si può mai nascondere del tutto. Il comico stesso è diabolico; per lungo tempo la sua professione è stata considerata infamante; l’attore non poteva essere sepolto in terra consacrata. Ma il comico ha considerato la sua attività come una missione. Ridere è un riflesso primordiale, addomesticato dalla società. Far ridere, nel mercato planetario, è arma di potere. Il comico è rivoluzionario o conservatore? È di destra o di sinistra? È maschio o femmina? Sfida il potere o è un anestetico dell’anima? Umberto Eco: «Il comico è come il sonno: fortifica o rincretinisce a seconda della dose, dell’ora, della stagione». Edoardo Sanguineti: «Dimmi come ridi, e di che, e ti dirò chi sei. Chi riesce a farti ridere, quello già ti possiede, in certa misura, 12

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introduzione

perché, infine, ti seduce». “Sun zeneize, risu reu…”, “Sono genovese, riso raro…”. Raro ma consapevole e, ispirandosi ai cugini inglesi, riso all’humour nero. Beckett: «Non c’è nulla di più comico dell’infelicità». Dario Fo: «A monte delle storie che narra il comico, affiora una tragedia. La satira, per potersi manifestare, ha bisogno di avere il dramma dietro. Nel senso che la tragedia ne è la chiave motrice». Alla base del comico c’è il tragico. Alberto Sordi: «La maggior parte dei miei film sono delle commedie di costume. Ho sempre cercato, attraverso i miei personaggi, di colpire, di condannare i difetti dei miei simili. L’arma del ridicolo ritengo sia l’arma più efficace, perciò molti miei film sono comici in superficie, ma nel fondo, sono anche, talvolta, tragici». Peppino De Filippo: «Il dramma della nostra vita, di solito, si nasconde nel convulso di una risata. Spesso nelle lacrime di una gioia si celano quelle del dolore. Allora la tragedia nasce e la farsa, la bella farsa, si compie». Charlie Chaplin sosteneva che «un giorno senza sorriso, è un giorno perso». Il riso è anche terapeutico. Lo dimostrano i medici-clown che applicano ai pazienti, con successo, la “comicoterapia”. La “clownterapia” è stata inventata dal dottor Hunter “Patch” Adams, il clown-dottore più famoso del mondo, artefice della “rivoluzione col naso rosso” e interpretato in un film da Robin Williams; oggi oltre 4000 operatori se ne occupano, in Italia. Ridere fa bene alla salute. Aiuta persino a buttare giù i chili di troppo. Pare che un’ora di risate faccia consumare cento chilocalorie, l’equivalente di una cioccolata o di un pacchetto di patatine. Mezz’ora di buonumore giornaliero fa perdere tre chili in pochi mesi. Per contrappasso, si dice che il comico sia triste, nel privato. Effettivamente la maggior parte dei comici che ho frequentato, nel privato era riservata, seria, talvolta malinconica. Lino Banfi ammette: «È vero, siamo tristarelli. Condannati a divertire il prossimo, in privato ci ripieghiamo su noi stessi. Forse è la malinconia a farci aguzzare la vis comica». Carlo Verdone: «È una reazione. Non ho mai conosciuto un vero, grande comico, che nel privato fosse ridanciano. È un bisogno fisiologico, per ricaricare le batterie». La comicità ha spesso utilizzato la musica per raggiungere il suo scopo. Comicità in musica: frizzi, lazzi, doppi sensi, allusioni, qui pro quo, rivestiti di note, sono gli ingredienti fondamentali del café chantant, tra fine ’800 e primi del ’900. Canzoncine umoristiche sono le “macchiette”: schizzi, ghirigori, parodie, per trasformare, con l’esagerazione, un tipo umano in caricatura. Ridere fa bene a corpo e anima, secondo uno studio dell’Università del Maryland. Ogni giorno, almeno venti minuti andrebbero dedicati al ridere. Quindici minuti di risate equivalgono a trenta 13

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minuti di esercizio fisico. All’Università di Harvard il corso più seguito è quello di “Psicologia positiva”, che insegna ad affrontare stress e ansia, con creatività, empatia e senso dell’umorismo, puntando all’ottimismo. Alla Sorbona è nata una Scuola della risata, la “Sorbone drolatique”, per migliorare la società e la vita. Per alleggerire l’anima dallo stress, l’Ecole Française du Rire et du bien-être, di Lione, tiene workshop che mescolano tecniche da clown, prove di creatività e metodologia del buonumore. Il medico indiano Madan Kataria, nel ’95, ha fondato il Club della risata. Oggi il club è diffuso in 75 paesi; insegna una ginnastica che lavora sulla respirazione profonda, con esercizi di risata, vocalizzi e stretching: ridere produce un benefico massaggio interno, che libera da stress e malumori. Insomma bisogna esser grati ai comici, che ci aiutano a vivere meglio. Dai primi, Petrolini, De Rege, Totò, Musco, Viviani, ai grandi del ’900, fino a quelli contemporanei. Anche se, per la verità, il comico di tradizione è scomparso. Curzio Maltese, in suo articolo su «Repubblica», dal titolo “Alla ricerca del comico perduto”, scrive: «Il vero, recente disastro della tv pubblica italiana, è nell’uso del comico. O meglio, nella distruzione dell’arte comica. La ragione non può essere la volontà del pubblico, che è molto meno stupido di quanto faccia comodo immaginare. Piuttosto la volontà dei pubblicitari. In tv, anche in Rai, comanda lo spot. E lo spot ha bisogno di un pubblico onnivoro, infantilmente disposto al consumo. Guai a svegliarlo con una battuta intelligente o satirica. Nella comicità si può essere a un tempo d’avanguardia e popolari, raffinati e di successo, com’erano Karl Valentin e Petrolini, si può essere idoli degli intellettuali e star televisive, come Groucho Marx e Andy Kaufman, i Monty Python e Peter Sellers e Totò. O almeno, si poteva, fino a quando non sono arrivati gli strateghi dell’audience a spiegare che il pubblico vuole solo urlare “ahraara!” con i Fichi d’India». Certamente è cambiato il modo di fare comicità, che si è adeguato ai tempi. Oggi gli unici che possono ricordare i grandi comici del passato sono Benigni, geniale divulgatore, e Fiorello, eccezionale “entertainer” all’americana. Ma sono eccezioni. Oggi la comicità dilagante è quella di Zelig: ricambio continuo di talenti, rapidità nelle esibizioni; velocità, ritmi frenetici, esasperati. Cabarettisti allo sbaraglio, spesso, come diceva Marchesi, “riciclatori di battute”. La comicità di una volta viene riproposta nel programma Rai Techetechetè, un “blob” della comicità, un “Bignami”: interventi spezzettati in brevi flash, rimontati e assemblati a creare comiche contrapposizioni. Ma non riesce a far comprendere la comicità di un tempo. Mi è parso perciò giusto ricordare in questo libro “i miei grandi comici”. Perché non vengano dimenticati.

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Erminio Macario

«Tutta colpa di Petrolini. O forse tutto merito di Petrolini. Perché allora io mi esibivo secondo le usanze. Il comico doveva essere buffo, un mamo. Così io mi mettevo una parrucchetta color carota, pomelli e naso rossi, occhi truccati. Una sera Petrolini venne a vedermi. Dopo lo spettacolo, in camerino, mi disse: “Sei bravo. Ma devi essere te stesso. Non serve la parrucca, il trucco. Via, via tutto. Al massimo tira giù un ricciolo. Così”. E con un piccolo gesto mi fece scendere un ricciolo sulla fronte. Nacque così la maschera Macario». In un momento di confidenze, molto raro per lui, Macario mi raccontò così la nascita del suo personaggio. Nella vita privata Macario era piuttosto chiuso, riservato. Aveva quasi sempre una caramella in bocca, ne portava sempre nelle tasche, pronto a offrirle e a stupirsi se venivano rifiutate. Anche perché erano ottime, di una famosa ditta piemontese, naturalmente. Erminio Macario, ma solo “Macario” per tutti. Io gli ho sempre dato del lei, anche se – dopo anni di conoscenza – mi aveva invitato a dargli del tu. Non era soggezione, era rispetto, ammirazione. L’ho conosciuto nel 1955, per un programma televisivo. Lui era al culmine della carriera, aveva cinquantatré anni, io venticinque. Naturalmente l’avevo visto più volte a teatro; forse la prima volta nel ’47, al Teatro Margherita di Genova. Imbucato in loggione, occhi sgranati, emozionato dalle “donnine” di Follie d’Amleto; una serata finita con l’intervento della Celere, per la ressa sotto la passerella, e l’eccessivo entusiasmo degli spettatori. Poi, ancora, ne Le educande di San Babila, Oklabama, La bisbetica… sognata, Votate per Venere, la strepitosa Made in Italy di Garinei e Giovannini, con Wanda Osiris, e infine Tutte donne meno io, lui con quaranta “donnine”. Ma era diverso conoscerlo personalmente, lui, Macario, il massimo rappresentante della rivista, il primo interprete del cinema comico italiano, un mito. Al primo incontro ricordo che notai la sua altezza poco inferiore alla media, un fisico molto normale, ma mi colpì particolarmente il viso. Un volto “a uovo”, con occhi grandi, mobilissimi, curiosi. «Una caramella?». «No, grazie». Primo errore. Ma non potevi smettere di osservare quel viso. Una faccia “lunare”, surreale, candida. Ricordava, ma lo scoprii qualche tempo dopo, un comico americano, Harry 17

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Langdon. Una maschera, l’ultima maschera della Commedia dell’Arte, derivata direttamente da Arlecchino e Pulcinella; un clown, l’“Augusto” circense. Poco infastidito dalla mia insistente curiosità, molto semplicemente il “mito” mi mise subito a mio agio. Parlava piano, sottovoce, lento, con pause, persino qualche inceppatura. Voleva sapere di me, del mio essere regista di televisione, così giovane. Io ero approdato due anni prima a Milano, chiamato da Sergio Pugliese, già dirigente Eiar, incaricato di creare la televisione italiana. Pugliese aveva visto uno spettacolo diretto da me, e mi aveva fatto l’offerta. Periodo sperimentale, poi dal 1954 in onda. Il 3 gennaio ’54 dirigevo la trasmissione inaugurale della tv. Inizialmente la televisione non aveva programmi originali, né un repertorio. Ma aveva necessità di coprire un certo numero di ore di programmazione. Così si era rivolta ai generi di spettacolo di successo (prosa, rivista, musica, danza), e aveva cercato di accaparrarsi il contributo di personaggi famosi. In questa ottica avevamo deciso di realizzare tre serate dedicate ai maggiori comici dell’epoca: Macario, Taranto, Dapporto. Di qui il mio incontro con Macario. Il programma si intitolò Lo vedi come sono?, parafrasando “Lo vedi come sei?”, il modo di dire del comico. Era una cavalcata su tutta la sua carriera, fin dagli inizi. Ricordo che ritrovai un brevissimo spezzone filmato, in cui un Macario giovanissimo raccontava una barzelletta, un vero reperto d’epoca. La struttura della trasmissione si basava sugli interventi del comico, che, sul filo della memoria, rievocava i momenti più salienti dei suoi spettacoli. C’erano gag di avanspettacolo, sketch di rivista, canzoni, l’intervento di alcune delle sue soubrettes. Un concentrato di comicità, di allegria, di coinvolgente partecipazione. Rigorosamente in bianco e nero. Certo, a rivederlo oggi, il programma farebbe sorridere, per la sua semplicità farebbe quasi tenerezza. Ma per me fu molto importante ripercorrere assieme a Macario le tappe della sua carriera. A cominciare da quando, ragazzo, cominciò come attore di prosa in una compagnia di “scavalcamontagne”; debutto a Belgioioso (Pavia). «Una sola battuta dovevo dire… una battuta semplice, normale, ma il pubblico rise. Compresi così che non ero destinato a diventare un grande attore drammatico». Una lunga gavetta, spesso a pancia vuota. Poi l’occasione di far parte di una compagnia di rivista, quella di Giovanni Molasso, a Torino. Con una paga, anche se piccola, certa, e con… le ballerine! Il giovane Macario si impone all’attenzione del mondo dello spettacolo: il pubblico lo applaude, ride con lui e per lui, si diverte per quel suo personaggio tra il furbo e l’ingenuo, i suoi ammiccamenti, le sue scenette surreali. E sulle locandine il suo nome appare scritto in caratteri sempre più grandi, fino alla sottoditta, alla ditta. Determinante il suo incontro con una grande soubrette, Isa Bluette. 18

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erminio macario

«È stata la mia maestra, mi ha insegnato tutto. Ricordo quando, nel 1928, finito lo spettacolo andò a Parigi, e ne tornò con una trovata straordinaria: la passerella!». Sono gli anni in cui Macario crea il suo personaggio, provando varie interpretazioni, varie macchiette: «La rivista era fondamentalmente uno spettacolo satirico, ma con il fascismo non si poteva più fare della satira. E allora facevo delle macchiette non politiche: dalla donna al prete, al vecchio, all’effeminato, all’esattore, alla suffragetta, al maestro di musica, allo sportivo… Questo bagaglio mi è servito a creare la maschera di Macario». Tante macchiette, per un’unica maschera. Devo dire che con Macario ci fu subito, da parte mia, una grande simpatia, che sentivo ricambiata. Così, qualche volta, mi permettevo qualche curiosità, per esempio sulle “donnine”. «Tutti vogliono sapere delle donnine. Sono nate così, quasi per caso. C’era il balletto, le ragazze viennesi, o quelle inglesi. Belle, tutte uguali, perfette, troppo. Quasi troppo poco “femminili”. Così volli accanto a me, nelle scenette, nelle canzoncine, alcune ragazzette. «Recitavano, ballavano, cantavano, poco e non benissimo, ma si facevano vedere. E il pubblico andava in estasi. Faceva il tifo per l’una o per l’altra. Come oggi per i divi del calcio… Marisa Maresca era una di quelle più ammirate. Aveva quindici anni al debutto, una statua. Due gambe altissime, tre piccoli fiori o tre stelline, il minimo consentito, a coprire strategicamente i punti topici. Era sesso allo stato puro. Ma la Maresca era un po’ anomala, eccessiva. Le donnine erano più normali, non troppo alte. Potevi incontrarle nella vita reale. Come Lilli Granado, maliziosa ma familiare. Ecco, la Granado è stata quella che mi fece venire l’idea delle “donnine”. Bisogna saperle porgere queste donnine. «Dovevano suscitare un sentimento di golosità, ma senza nessuna forma di morbosità. Io non ho mai lanciato battute pesanti. Dicevo cose fortissime, certo, ma con una specie di gentilezza. Facevo ammiccamenti “golosi”, iniziavo un raccontino piccante (“L’ho vista, lei mi ha visto, e poi…”), mi ammutolivo, un’occhiata, un gesto, e lasciavo completare dal pubblico. Non finivo mai la battuta. «Era come se avessi detto: Ecco, siete stati voi, io vi ho portato fino a qui, poi sono andato via, siete stati voi ad andare più in là. Li facevo complici. Attimi, accenni, gesti, e le cose forti perdevano volgarità». La vera inventrice delle donnine era stata la prima moglie di Macario, Maria Giuliano, coreografa. Lei le sceglieva, insegnava loro a vestirsi con abiti provocanti, a muoversi, a stare in palcoscenico. Si inventò un dettaglio folle per quei tempi: le unghie finte, esageratamente lunghe e coloratissime. Qualcosa in più per mettersi in mostra. La presentazione ufficiale delle donnine fu nel 1940, al Teatro Valle di Roma: Carosello di donne, un marchio di fabbrica. E al centro del carosello, Macario, 19

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candido, innocente, ma furbo e malizioso. Ricordo una sua scenetta famosa. Una bellissima ragazza inizia a togliersi il vestito e si dirige verso una cabina per cambiarsi. Entra Macario, la osserva, ammicca al pubblico, la segue. Apre la porta della cabina, entra, la chiude. Poco dopo la cabina comincia a muoversi con movimenti ondulatori e sussultori sempre più rapidi, a tempo di musica. Il pubblico ride e applaude. La ragazza e Macario sono già da tempo dietro le quinte, nei loro rispettivi camerini. Il momento clou per le donnine era quello della passerella. La passerella era un rito. Lo ha descritto benissimo Orio Vergani, in un articolo sul «Corriere d’informazione» del 1947: «Allo scoccare della mezzanotte comincia la mezz’ora degli assetati, si aprono le porte del paradiso degli entusiasti della coscia tornita, del seno al vento, dei capelli biondo cenere, del birignao americano, dell’occhio bistrato. Passano le “vedette”, passano le fanterie di Venere, le giovani puledre e le poderose cavalle su cui cavalca, eterno iddio, Cupido. Otto, dieci, dodici volte; finché le giovani squadre non sono assalite da urgenti preoccupazioni tranviarie, la sfilata si ripete, mentre alle spalle dei più tenaci la sala si fa malinconicamente vuota». Sì, perché gli amatori della passerella sono i giovani dei posti in piedi, quelli in fondo al teatro, che aspettano solo il momento di avanzare, di affollarsi alle spalle del direttore d’orchestra, per potersi piazzare in prima fila, a un metro dagli ombelichi e dalle gambe delle donnine. Era il paradiso del sesso popolare, sognato a costo zero. L’unico possibile, allora, a parte le case chiuse. Macario spiegava alle ragazze come eseguire la passerella. Avanzare con un passo di danza semplice, ma sicuro. Non guardare in basso, temendo di cadere, ma procedere come volando. Lo sguardo alto, fissando una fila di spettatori, passando da uno all’altro, ma come se dicessero a ognuno di loro. “Ecco, vedi. Sto facendo la passerella solo per te”. E naturalmente sorridendo, sempre, anche in modo eccessivo. E arrivate in fondo alla passerella, dietrofront, un colpo di sedere all’indietro, una specie di “mossa” al contrario, prima di raggiungere il proprio posto nella fila della compagnia. L’ordine di passaggio sulla passerella era rigorosissimo, come da contratto e “da locandina”. Ultima a presentarsi era naturalmente la vedette, la star. Macario spesso non faceva la passerella. Accompagnava la diva fino all’imbocco della passerella, e poi la lasciava sola, a raccogliere gli applausi dei fan. Andava ad attenderla a fine passerella, e la accompagnava al centro della compagnia schierata. Qualche volta, raramente, Macario faceva la passerella per primo. A fine di ogni passerella, sipario. Il velluto rosso scendeva a nascondere le bellezze in mostra. Macario si era inventato le “apri e chiudi” sipario: due bellissime e giovanissime ragazze, Marisa Ancelli e Graziella Tolusso. In mini bikini accompagnavano il sipario, nel suo aprirsi e chiudersi. E quando, avvolte nelle pieghe del sipario, scomparivano, i “passerellari” aspettavano solo di vederle riapparire, ad accompagnare ancora 20

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