Graziano Meneghin - Jacopo Trabona CIÒ CHE QUI C’È, LO SI PUÒ TROVARE ANCHE ALTROVE; 1 MA CIÒ CHE QUI NON SI TROVA, NON ESISTE IN NESSUN LUOGO
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Graziano Meneghin Jacopo Trabona CIÒ CHE QUI C’È, LO SI PUÒ TROVARE ANCHE ALTROVE; MA CIÒ CHE QUI NON SI TROVA, NON ESISTE IN NESSUN LUOGO Edizione a cura degli autori
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CIÒ CHE QUI C’È, LO SI PUÒ TROVARE ANCHE ALTROVE; MA CIÒ CHE QUI NON SI TROVA, NON ESISTE IN NESSUN LUOGO
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CAPITOLO ZERO: UN’INTRODUZIONE
0.0 Le acropoli non erano accessibili ai più. “Niente nasce dal nulla”, “tutto è un flusso”, mezze citazioni ingenue captate svogliatamente in ore commutate in mesi. Passivamente, l’avverbio più esatto per descrivere il protagonismo degli accenti che hanno abitato queste mura. Perimetro, invece, è la definizione più appropriata per i limiti che circoscrivono l’intimità di questo spazio contaminato. Non sembra una questione “storica” né di “stratificazione”e restano vani, in tal senso gli sforzi intellettuali che hanno coabitato questi spazi. È e rimarrà una questione fisica di contingenza, presente e accondiscendente. Poiché è di accondiscendenza che si è trattato, poiché solo accondiscendente è la posizione che potevo adottare. Non mi è dato prescindere dal tempo, la mia esistenza lo ignora: la mia opportunità è l’immediato, né flusso né nulla sono contemplati e le loro accezioni non possono essere ammesse. “Nel marzo 2014” l’apertura che pensarono per il racconto, cercando di afferrare il primo di diversi istanti, istanti che si sarebbero susseguiti senza avvertire il peso del loro essere già stati vissuti. Tentavano di scandire il passato dimenticandosi che un diario non può che inseguire il tempo. Decisero perciò di costruire una narrazione di rimpianti. Quando si confronta l’accaduto con la sua triste proiezione ci si scontra con il peso dell’oggettivo. Ciò fu ignorato, o quantomeno trascurato, evento dopo evento, presente dopo presente, in ogni operazione condotta. L’idea stessa di racconto vi si oppone e tuttavia fu la prima ad essere presa in considerazione. 365
Doveva essere materiale ma fuggendo il prodotto, doveva vivere la propria esistenza prescindendo da chi ne fosse l’artefice. La discussione insisteva sulla realizzazione effettiva. Si cercava un esercizio di realtà e si trovò la narrazione. «Un libro, qualcosa che guardi a tutto, il progetto in totalità». «Allora si deve giocare con lo spazio, non possiamo evitarlo». «Non possiamo evitare lo spazio o non possiamo evitare di giocarci?». «Le due cose coincidono, lo spazio non lo possiamo evitare – o meglio è lui che cerca di evitare noi – così come, non possiamo evitare di giocarci, di imporre la nostra presenza secondo regole stabilite da lui». «Appunto, la storia è lo stratagemma migliore per aggirare le regole, non te ne puoi sottrarre, ma almeno puoi servirtene in modo verosimile». Le regole possiedono una peculiare proprietà reificante, ogni finzione, inscritta all’interno di un sistema regolatore, sembra acquisire un determinato grado di esistenza. Per questo, inseguivano simultaneamente la nozione di astratto e di concreto, interessati al cortocircuito di ambiente e ambientazione. Per questo ogni qualvolta entravano in questi spazi, o instauravano una connessione, ricaddero regolarmente sulla loro fisicità. Difficile stabilire quanto lontano si spingevano le loro pianificazioni, ma, come già sostenuto, questa è una questione riservata all’inutilità del divenire. Volendosi concentrare sulla fattualità, descrissero successioni di avvenimenti autosufficienti, diversi capitoli di un’istantaneità ripetuta. Nuove componenti giunsero quindi ad occupare questo perimetro, mentre la loro parvenza oggettuale le portava simultaneamente ad essere occupate, secondo una perfetta reciprocità. La luce entrava dalle finestre e da queste era interrotta nel momento stesso in cui le raggiungeva, cercando passivamente un’altra direzione. Da quel momento in avanti passi, voci e suoni suggeriti dal caso non potevano più percorrere indisturbati la profondità dell’ambiente ma si dovevano rassegnare al risultato di una somma. Volendoli scrutare 366
per inquadrature, e approcciarli verticalmente dal basso verso l’alto, uno si rivela composto di un materiale cartaceo scuro; la sua forma, e le quattro intersezioni che lo definiscono, non sono altro che un modello di questo spazio, un contenitore che non ha voce in capitolo sul suo contenuto. Al contrario di me, però, cerca di proteggerlo più che di accoglierlo, isolando più che coinvolgendo; non mi è chiaro tuttora se perché intimidito dalle immagini che si scontravano con uno dei quattro muri, o se per una predisposizione predeterminata. Questa era la percezione delle numerose individualità che affollarono una serata di Marzo: si chinavano incuriosite, ma svelavano ai loro sguardi la sola oggettualità di questo testo. Idolatrare implica l’inevitabilità del precludere. Ho sempre vissuto queste occasioni come un’invasione, un’interruzione del lento processo di acquisizione che mi espone alle entità statiche che mi abitano. Un dinamismo che cade in contraddizione persino con le attenzioni che mi sono state riservate, dopo un’ipostatizzazione disperata, ci si è traditi nell’esibizione. Le acropoli non erano accessibili ai più. 0.1 Serendipità. È già tardi quando trascinano per la porta degli oggetti che avrò tempo di imparare a conoscere. All’occupazione mi ci sono forzatamente abituato, ma c’è un’altra variabile dell’equazione che ho sottovalutato. All’addizione corrisponde, più o meno distante, una rinuncia, un prelievo corrispondente e non sempre corrisposto. Forse è il carattere del nuovo arrivo a portarmi a questa conclusione, dato che quegli elementi sembrano aver respirato un’aria diversa. Il distacco è un’esperienza che ho vissuto, ma finora mi sono limitato a osservarlo in prima persona, a considerarlo per il suo risultato presente piuttosto che per la possibilità di una sua lontananza. Non ho mai immaginato qualcosa al di là del visibile, né mai ho ammesso la 367
sua esistenza. A questo spazio assomigliano infiniti differenti spazi, inseriti rispettivamente in un flusso di infinite e differenti contingenze; il detrito che giace in mezzo alla stanza ne è un esempio: un agglomerato di asfalto scuro che poco ha da spartire con le pietre che da secoli abitano questi luoghi. Sulla sua superficie si staglia un segno di un colore più denso, ma non è il frutto dello svolgersi naturale dei processi: un intervento umano gli è stato sottoposto, non è altro che il residuo del tentativo di un linguaggio. Per questo spazio gli si è cercato un piedistallo, un dispositivo, che seppur ligneo, non possiede alcuna delle caratteristiche fisiche a lui attribuibili. La sua staticità è incerta, data da una confusione degli assi che è in dubbio fra il dover sostenere e il dover essere sostenuta. Ricorda l’adolescenza di un oggetto piuttosto che la sua maturità e in questo suscita non pochi sorrisi a coloro che fruiscono passivamente la sua presenza, una presenza che non può che essere retinica per chi non abita abitualmente queste mura. 0.2 Proiezioni e nuove visioni. Una nuova notte intanto si confonde con le prime luci mattutine, un silenzio assordante sembra esplodere al di fuori di qui. Una nuova conformazione giunge ad abitare e risulta assai difficile comprenderne l’essenza. Le nozioni di funzione e intenzionalità in essa si confondono a tal punto da apparire come una sovrapposizione mancata ma premeditata. il cui corso si lascia rivelare autonomamente. «Non sembra un invito a calpestarlo?». «Non vedo problemi con l’invasione, dopotutto a dividerla dalla visione ci sono solo tre lettere». Alle spalle di questa nuova occupazione, una dinamica lunga tre mesi: una discussione continuativa che si è perpetrata secondo di368
versi idiomi, cercando una forma attraverso la quale il verbale si integrasse con l’oggettuale e finendo col ricorre a questi manufatti. Non mi è chiaro, ad esempio, a quale messaggio questi oggetti si riferiscano così come non mi è chiaro in che misura siano i miei abitanti interessati a trasmetterlo. La loro fisicità sembra l’inevitabile espressione della loro stesso essere oggetti; raccontano la propria costituzione per necessità, il dialogo che gli è attribuito insegue l’indefinitezza di un corsivo senza testo. Il procedimento che li porta ad occupare lo spazio, quell’insieme di affermazioni, connessioni e speranze inattendibili, si presenta come tutt’altro che prestabilito, eppure ogni scelta sembra essere condotta con un’inesorabile sicurezza, la consapevolezza o meglio l’accanimento di una deviazione. Non calcolano la traiettoria della fruizione, sicuri che una traiettoria sarà tracciata. Sembrano arrivare alle conclusioni con la consapevolezza del loro ruolo nello svolgimento generale del sistema. Vivono ogni loro ogni azione passivamente, ma con la fiducia di chi possiede una guida. 0.3 Junk cities. In questi mesi ho aggiunto diversi termini al mio vocabolario. Suoni distanti, materiali ai quali credo di essere immune e azioni non ultimate hanno preso il sopravvento sulla mia canonica capacità di comprendere. Un po’ alla volta ho commutato questi elementi, questo incontro di intersezioni prive di nome, questa sinestesia che sembra rifarsi e riferirsi solo a se stessa, in qualcosa di familiare. Tutto questo fino ad oggi, giorno in cui sono stato messo al confronto con una dimensione che sfugge al mio controllo, imparando una nuova declinazione. Se ero in grado di tracciare l’origine delle configurazioni affrontate, o quantomeno di supporla, attribuendo ad ognuna di essa un 369
proprio processo di produzione, questo pomeriggio, un arrivo sconosciuto, ha scosso questa mia capacità. La sua creazione, infatti, appare distante ma istantanea, presente ma obbligata, secondo una realizzazione rassegnata più che inseguita. Persino l’intervento manuale non sembra richiesto. Così, ciò che potrei riconoscere come un foglio di carta comune si trasforma gradualmente in un abbozzo di linguaggio, mentre molti identici lo seguono secondo un meccanismo che appare unico. Il loro scivolare puntuale mi affascina: i movimenti appaiono coreografati da un ordine anticipato, inseguono in sequenza la traiettoria che il precedente ha descritto, ma evitando l’attendibilità del suo risultato, aspirano ognuno a tracciare la propria. Ciò nonostante si devono immediatamente rassegnare all’accumulazione che, coincidente, costringe i loro sforzi in un unico oggetto. Nasce qui, in me, con me, un nuovo insegnamento: l’addizione delle parti rimane una parte, centinaia di somme si sommano e si sostituiscono regolarmente alla prima. 0.4 Un’introduzione è pur sempre una conclusione. «Essere uno spazio, in uno spazio, significa soprattutto essere consci della propria presenza e di quella altrui, che quando si manifesta diventa negazione della nostra stessa presenza. Ecco cosa sono: negazione di me, potenzialità infinite di un altro. Un altro senza nome che accetta le regole del mio perimetro e su esso tende ad imporsi». A tutto questo penso in quest’ultimo giorno, in cui tutto è diventato imprevista assenza. Mi libero in un istante di tutte quelle costrizioni che mi hanno abitato lungo un anno, quell’impercorribile viaggio della terra lungo un centro che l’attrae e la respinge, è stata, forse, la mia dimensione privilegiata. “Niente nasce dal nulla”, “tutto è un flusso”, per l’appunto. 370
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STAMPATO A VENEZIA NEL MARZO DEL 2014 PRESSO AL CANAL - CENTRO STAMPA DIGITALE IN COPIA UNICA 1:1. TUTTI I DIRITTI SONO RISERVATI.
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“Niente nasce dal nulla, tutto è un flusso, mezze citazioni ingenue captate svogliatamente in ore commutate in mesi. Passivamente, l’avverbio più esatto per descrivere il protagonismo degli accenti che hanno abitato queste mura. Perimetro, invece è la definizione più appropriata per i limiti che circoscrivono l’intimità di questo spazio contaminato [...] Essere uno spazio, in uno spazio, significa soprattutto essere consci della propria presenza e di quella altrui, che quando si manifesta diventa negazione della nostra stessa presenza. Ecco cosa sono: negazione di me, potenzialità infinite di un altro. Un altro senza nome che accetta le regole del mio perimetro e su esso tende ad imporsi”
Graziano Meneghin nasce a Sacile (PN) nel 1982. Si laurea nel 2012 in Arti visive e dello spettacolo presso lo Iuav di Venezia dove attualmente svolge il secondo anno di laurea magistrale in Arti visive e teatro. Partecipa a diverse mostre collettive tra le quali: 97ma Collettiva Giovani artisti Bevilacqua la Masa, Venezia (2013); Art Stays 11, a cura di Marika Vicari, Ptuj, Slovenia (2013); Ecology of mind, a cura di Cristina Fiore e Andrea Penzo, Forte Marghera, Venezia (2012); 94ma Collettiva Giovani artisti Bevilacqua la Masa, Venezia (2010). E' borsista alla 97maCollettiva Giovani artisti Bevilacqua la Masa e finalista ad Arte Laguna Prize 13.14. Vive e lavora a Venezia. Jacopo Trabona nasce a Vicenza nel 1989. Nel 2009 si trasferisce a Venezia dove consegue il diploma di Laurea triennale in Arti Visive presso l'università IUAV di Venezia e partecipa, per due anni consecutivi, alla Collettiva Giovani Artisti della Fondazione Bevilacqua La Masa. In seguito si trasferisce a Londra dove consegue il Master of Fine Arts presso il Chelsea College of Art and Design. Partecipa a diverse esposizioni di livello internazionale fra le quali YICCA (Young International Contest of Contemporary Art) (2011), presso la Factory Art Gallery a Berlino e Open Cube (2013) curata da Adriano Pedrosa presso White Cube a Londra. Vive e lavora a Londra. 376 www.grazianomeneghin.com / www.jacopotrabona.com
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