NATALE BITURBO
Prima di poter godere a pieno delle feste di Natale e del riposo dalle quotidiane fatiche della Scuola Elementare, sul finire degli anni Ottanta, per me e la mia famiglia, c’era da risolvere un’importante questione di scelta: pandoro o panettone? Visto che a pochi in casa piaceva l’uvetta e a nessuno piacevano i canditi, il verdetto era abbastanza ovvio, eppure, un grande dilemma rimaneva: Bauli o Melegatti? Il Bauli era una goduria vera e propria, burroso e zuccheroso, con quell’imballo rosa a tronco di cono, perfetto per costruire un elmo da cavaliere medievale pop. Eppure, io spingevo per il Melegatti, di impasto duro e asciutto, tanto da azzerare la salivazione e con un imballo austero, blu e dorato, a forma di campana. In quel pandoro, però, c’era un sogno di affermazione sociale, il primo gradino per la scalata alla via del lusso, sotto forma di coupon: il buono per l’estrazione di una vera Maserati Biturbo! Franca Valeri in persona, occhialoni, maglione girocollo e colbacco bianchissimi, garantiva che in ogni confezione si poteva trovare quello vincente. E allora, perché no? Si dà il caso che in quegli anni, il prestigio automobilistico di via Lupazzi lato ovest, fosse decrescente entrando da via Roma verso via Crocetta. Si incontravano, nell’ordine: una possente Range Rover bianca, una Mercedes 500 SL, una frizzante - appunto - Maseratina Biturbo, due porte, grigio metallizzata, tutte e tre dei ricchissimi cognati commercianti all’ingrosso; proseguendo verso sud, si incappava nella Renault Fuego dell’artigiano orologiaio, un bidone pazzesco che faceva il verso alla Porsche 924, ma pur sempre coupè, con tanta gomma a vista come usava allora; e ancora, fuori concorso, la Fiat 128 di seconda mano di mio nonno, puzzolente di cani da caccia con tanto di riparazioni in plastilina trafugata a suo tempo, su commissione, all’asilo parrocchiale, per arginare lo sfacelo di lamiere corrose e rugginose sul fondo delle portiere; e infine noi, al civico dieci, con il nostro “centopercento-Fiat-devotional” parco macchine, prese con lo sconto dipendenti da uno zio di Modena, consistente in una spartana Panda 45 “Giorgetto Giugiaro” e una futuristica Ritmo 60 prima serie, fanali tondi, vernice carta da zucchero opaca e una tonnellata di plastica al naturale. Immaginare di poter sovvertire quest’ordine gerarchico, elevandosi dalla casta dell’utilitaria con interni in policarbonato e nylon, alla sportivina di lusso, tutta radica e pelle, era all’epoca un esercizio quotidiano, alimentato dai ritagli della rivista Auto Class, incollati su un quadernone a quadretti. I pomeriggi invernali, tra un giro di pista Polistil e una sosta al garage Mattel, passavano nello studio meticoloso delle caratteristiche tecniche comparate dei vari modelli, alternato alla contemplazione delle foto degli interni. Il sogno di poter appoggiare le mie giovani natiche sulla selleria in pelle beige e impugnare il volante sottile in noce e alluminio, cercando la sintonia dell’autoradio, mentre là sotto il cofano, il gas di scarico intermittente dei sei cilindri, muoveva le due turbine, dietro a quel distinto ed aggressivo tridente di Nettuno incastonato nella mascherina cromata, era una libidine vera e propria. E se il prezzo da pagare doveva essere un dolce di Natale meno dolce, si poteva affrontare; non fosse