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IMPUTATO ASSOLTO, MA NON IMBRATTATECI I SOGNI “Il calcio non è uno sport, è un business”. E’ un po’ di anni che questo concetto riecheggia in varie forme in molti dopopartita italiani, usato non sempre a proposito a sostegno delle tesi più disparate: da chi critica lo svuotamento degli spalti e il riempimento dei divani a chi teorizza che il quarto posto della Juventus è una necessità per chi il prodotto calcio deve venderlo e per chi deve comprarlo. Negli Stati Uniti lo sport è innanzitutto uno spettacolo, al punto che non si può retrocedere; da noi tra vantaggi e svantaggi il pallone ha preso la via del mercato soprattutto con l’avvento della televisione. Un tempo lo sponsor del calcio nell’immaginario collettivo si riduceva a quello che campeggiava sulle maglie. Ogni malato di calcio che abbia superato la trentina sa associare certi marchi alla squadra che li portava sul petto. Ariston, Misura, Mediolanum, Buitoni, Phonola, Barilla, Canon, AgfaColor: il gioco è sin troppo facile. All’epoca la diretta tv era l’eccezione: per passare 90’ nelle case degli italiani bisognava disputare le coppe europee, privilegio per pochi. Il campionato era tabù, 90° minuto regalava poco spazio, con riprese quasi sempre dall’alto che non favorivano la visibilità dello sponsor da petto. Anche le figurine Panini erano spesso crudeli, con sponsor segati a metà o costretti a sollevarsi ad altezza capezzoli per non venire esclusi dal rito dello scambio fuori e dentro le scuole. Insomma non era un calcio a misura di sponsor: i nostalgici di professione direbbero che il pallone non si era ancora venduto l’anima, dimenticando gli aspetti positivi e demonizzando il fiume di denaro che ha d’improvviso cominciato a irrigare il calcio italiano. Oggi in Serie A lo sponsor è ovunque, finanche nel nome stesso: Serie A Tim. Essere nel calcio è più di un’opportunità commerciale, significa far parte di un fenomeno che in Italia come altrove travalica i confini dello sport. Ogni squadra che si rispetti non ha più solo lo sponsor sulla maglia, ha quello tecnico e poi ha i prodotti e i fornitori ufficiali, che producono e forniscono di tutto, dalla pasta all’acCI VORREBBE UNO SPONSOR C'è chi ci mette cuore, muscoli, fiato, destrezza e tecnica e chi ci mette i soldi. C'è lo sponsor colui che finanzia e lo sponsee o sponsorizzato,colui che usufruisce del finanziamento: il primo ottiene come riscontro una massiccia spinta promozionale e pubblicitaria, il secondo un notevole vantaggio economico. E' la nuova frontiera dello sport moderno: quello che deve produrre reddito oltre che risultati e record. L'atleta sfida se stesso o suoi simili. Le aziende sfidano le leggi di mercato: bisogna non solo produrre, ma anche vendere e imporre quello che si produce. L'origine del fenomeno in sè può essere ricondotta addirittura all'epoca romana, quando le famiglie dei nobili traevano notorietà e fama dall'organizzare e finanziare gare e giochi sportivi, accrescendo in questa maniera il loro vanto presso la pubblica opinione. Più avanti il fenomeno si ripresenta in Inghilterra, dove i mercanti che rifornivano i reali non mancavano di sottolineare come i propri prodotti fossero utilizzati dagli esponenti della corona e per questo degni di nota. Forse l'esempio più concreto e recente, che segna la nascita della sponsorizzazione, risale alla metà del Novecento nell'ambito del momdo sportivo e precisamente in quello della pallacanestro. Nel 1947 infatti le due società Dopolavoro Borletti ( quella che produceva macchine da cucire) e Triestina Milano operano una fusione, GLI SPONSOR NEL CALCIO: DA OPPORTUNITÀ COMMERCIALE A FENOMENO CULTURALE Quella che invase i campi dell’Italia pallonara ad inizio anni Ottanta fu una novità destinata a cambiare il mondo del calcio. Gli azzurri si accingevano ad alzare la Coppa del Mondo davanti al presidente Sandro Pertini, ma già le magliette dei nostri beniamini venivano “macchiate” da nomi, spesso ai più sconosciuti. Le uniformi di acrilico - sì proprio quelle che con il sudore erano a rischio strappo muscolare quando venivano tolte a fine partita con l’arrivo degli stranieri nel nostro torneo, videro il loro candore invaso da nomi come Tonini, Barilla, Elah e Ariston, solo per citare rispettivamente i primi sponsor di Lazio, Roma, Genoa e Juventus. L’incasso derivante dai primi marchi, in un’epoca ancora priva dei futuri introti televisivi, era divenuto indispensabile soprattutto per pagare l’avvento di profeti forestieri. Ad arricchire le nostre domeniche attaccati a “Tutto il calcio minuto per minuto” furono i dribbling di Zico con l’Udinese, una bella foto Agfacolor, piuttosto che un’abbuffata di magie di Maradona, appetibili come un succulento piatto di pasta Buitoni. Dall’acrilico all’acetato, arrivando ai nostri giorni

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qua, dalle auto al caffè. Ci sono pure le radio e le tv ufficiali e poi gli sponsor “istituzionali”, che per come son ridotte le istituzioni farebbero meglio a trovarsi un nome meno compromesso. Anche tra gli sponsor c’è l’alta e la bassa classifica, per cui a un banale sponsor istituzionale si contrappone il “Top Sponsor Istituzionale”, che però a sua volta deve inchinarsi davanti al “Gold Sponsor”. Non stiamo esagerando di una virgola, se non ci credete andate sul sito di una grande squadra. Per non parlare dei calciatori: se Maradona fosse nato solo dieci anni dopo avrebbe guadagnato cifre venti volte superiori a quelle che è riuscito ad accumulare (e sperperare) in carriera. Gli sarebbe bastato tenere fuori dalle competenze del Barcellona o del Napoli i cosiddetti diritti d’immagine, quelli grazie ai quali oggi non c’è tipologia di prodotto o servizio che non affidi la sua popolarità a quella trascinante di un eroe del pallone. Tutto questo fa male al calcio? Noi non crediamo, come non crediamo a chi sostiene che la formazione del Brasile la fa la Nike e non Dunga e altre storie simili. Se davvero il calcio è peggiore di quello di una volta, non è colpa degli sponsor e di chi agli sponsor da’ massima visibilità, cioè le tv. Sostenerlo significa non voler vedere le vere ragioni, il che spesso fa comodo. E a proposito di far comodo, chi è che ogni anno finanzia il Grandi Firme e ci regala il sogno di sentirci per qualche ora protagonisti e non semplici spettatori? Evviva gli sponsor. Ps: una sola preghiera, a costo di scivolare nel bigotto conservatorismo che abbiamo messo in ridicolo nelle righe sopra queste. Da qualche anno ha preso piede lo sponsor multiplo anche sulle maglie: è un trend che un po’ ci inquieta, ci fa pensare alle tute della F1 o a certe casacche del calcio sudamericano, pastrocchiatissime dall’ombelico alla schiena. Non pretendiamo l’etico e sobrio “Unicef” del Barcellona - a pensarci bene è marketing anche quello, perché l’immagine fa vendere - ma per favore non ci imbrattate troppo i sogni. Palesse Domenico - Ansa dando vita alla Olimpia Borletti Milano: è il presupposto dell'abbinamento, l'antisignano della moderna sponsorizzazione. Sempre in ambito sportivo si può citare l'esempio del ciclista Fiorenzo Magni, primo atleta ufficiale sponsorizzato dalla nostra storia, dopo la firma del contratto con la Crema Nivea. Anche dal punto di vista concettuale il fenomeno subisce un'evoluzione. Inizialmente la sponsorizzazione (in questo caso avvicinabile al fenomeno del patrocinio) consisteva in un libero atto di volontà di un cittadino di norma facoltoso che, con l'intento di voler diffondere e divulgare la cultura, l'arte e lo sport, effettuava delle vere e proprie donazioni unilaterali. Poteva ottenere un accrescimento della sua fama ovvero una maggiore considerazione di se stesso, ma non certo un introito economico. La sponsorizzazione diventa tale solo quando, più avanti nel tempo, acquista la carateristica della bilateralità Più l'attività, sia essa sportiva o culturale, ha un alto grado di coinvolgimento dell'opinione pubblica, più le aziende hanno utilità nell'investire denaro. E più soldi significa essere anche più forti e competitivi. Un pò come mi è capitato quando ero ragazzino: la mia squadra di giocatori in erba di un quartiere di periferia poteva ritenersi fortunata: aveva lo sponsor e per questo avevamo tute, magliette, borse e calzerotti con su scritto: LA SORGENTE. Eravamo battibili sì, ma elegantissimi con i nostri completini in maglina blu. Lello Fabiani - Ballarò/Rai Int con i tessuti lunari adottati da alcuni club, di pari passo l’incidenza degli sponsor sulle magliette perde peso. Soprattutto in Italia, dove il merchandising ufficiale sostanzialmente non esiste, capita a volte di rinunciare agli sponsor, piuttosto che utilizzare marchi di famiglia o loghi riferiti ad enti amministrativi come regioni o province. Il nome sulla propria divisa diventa quindi un fattore non più indispensabile, quasi di rango, andando a sfociare in un ambito culturale, per non dire sociale come mostra la scelta del Barcellona di adottare l’Unicef come main brand. Per tornare alla passione più amata dagli italiani, potremmo dire dalle firme per i grandi al Torneo Grandi Firme, che da umili ci accingiamo a disputare arrotando tacchetti. Rimanendo a Roma, i club capitolini in termini di sponsor offrono due casi particolari. La Lazio dopo aver iniziato il campionato senza, ne ha ufficiosamente uno, ovviamente mai annunciato alla stampa; la Roma ha un marchio sempre in linea, ma il suo capitano è la voce ufficiale di un gestore concorrente. Segno che i soldi degli sponsor servono eccome, la cultura lasciamola ai campioni d’Europa di Guardiola….signori si nasce. Palla! Gianluca La Penna - SKy Sport


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