George Steiner - Linguaggio e silenzio - poscritto

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la buona sorte durerà, può darsi che paia loro remoto come a molti dei miei contemporanei. Se le cose vanno male, può forse aiutarli a ricordare che da qualche parte la stupidità e la barbarie li hanno già scelti come loro obiettivo. Questa è la loro eredità. Più antica e inalienabile di ogni patente di nobiltà.

Poscritto

Due brani a caso: il primo da Pergamena d'agonia: Il diario di Varsavia di Chaim Kaplan, il secondo dallo studio di Jean-Francois Steiner, Treblinka : A Lodz un rabbino fu costretto a sputare su una pergamena della Torah che si trovava nell'Arca Sacra. Temendo per la propria vita egli ubbidì e profanò ciò che per lui e il suo popolo è sacro. Dopo un po' di tempo non aveva più saliva, la sua bocca era secca. Quando il nazista gli chiese perché aveva smesso di sputare, il rabbino rispose che aveva la bocca secca. Allora il figlio della << razza superiore >> cominciò a sputare nella bocca del rabbino, e il rabbino continuò a sputare sulla Torah. Malgrado tutte le precauzioni prese dai suoi amici, il professor Mehring fu chiamato fuori dai ranghi durante l'appello. Quando la squadra di punizione, che eseguiva il proprio << esercizio >>, cominciò ad assottigliarsi, il professor Mehring fu preso da una straordinaria voglia di vivere e cominciò a correre come un pazzo. << Lalka >> lo notò e, quando un quarto dei prigionieri fu crollato, fece continuare 1' << esercizio >> per vedere per quanto tempo il vecchio, che correva pochi metri dietro agli altri, poteva resistere. Urlò - Se riesci a raggiungerli, hai salva la vita. E diede l'ordine di incitare i superstiti alla corsa con la sferza. I superstiti barcollavano e rallentavano per aiutare il professore; ma i colpi raddoppiarono, facendoli incespicare, squarciando i loro abiti, coprendo i loro volti di sangue. Accecati dal sangue, vacillanti di dolore, aumentarono di nuovo l'andatura. I1 professore, che aveva guadagnato un po' di terreno, li vide staccarsi di nuovo da .lui e protese le braccia, quasi ad afferrare gli altri prigionieri, quasi a intercedere presso di loro. Incespicò una prima, quindi una seconda volta; il suo corpo torturato


sembrò spaccarsi; cercò ancora una volta di ritrovare l'equilibrio, poi, tutt'a un tratto, s'irrigidì e crollò nella polvere. Quando i tedeschi gli si avvicinarono, videro un filo di sangue uscirgli di bocca. I1 professor Mehring era morto. Piuttosto fortunato, a dire il vero: non appeso per i piedi e frustato a morte come Langner, con delle frustate così calcolate da non farlo morire che alla sera. E nemmeno buttato vivo nel forno crematorio. Né annegato, come lo furono molti, con una lenta immersione nell'orina e negli escrementi. Soprattutto, forse, senza aver impiccato con le proprie mani il suo bambino nella baracca, di notte, per risparmiargli nuove torture al mattino. Una delle cose che non riesco ad afferrare, pur avendone scritto spesso, cercando di metterle in una specie di prospettiva tollerabile, è il rapporto temporale. In un momento precedente del tempo razionale, il professor Mehring era seduto nel proprio studio, stava parlando ai propri figli, leggendo libri, passando la mano sulla bianca tovaglia il venerdì sera. E, scorticato vivo, << con il sangue che gli colava lentamente dai capelli », Langner era, in un certo senso, lo stesso essere umano che un anno prima, forse meno, camminava di giorno per via, trattava affari, non vedeva l'ora di fare un buon pasto e leggeva una rivista mensile intellettuale. Ma in che senso? Esattamente nella stessa ora in cui Mehring o Langner venivano messi a morte, la stragrande maggioranza degli esseri umani, a due miglia di distanza nelle fattorie polacche, a cinquemila miglia di distanza a New York, stavano dormendo o mangiando o andando al cinema o facendo l'amore o preoccupandosi del dentista. È qui che la mia immaginazione si rifiuta di proseguire. I due ordini di esperienza simultanea sono così diversi, così irriconducibili a una qualche norma comune di valori umani, la loro coesistenza è un paradosso così spaventoso - Treblinka esiste sia perché alcuni l'hanno costruita sia per'ché quasi tutti gli altri l'hanno lasciata esistere - che il tempo mi lascia perplesso. Vi sono, come insinua la fantascienza e la meditazione gnostica, diverse specie di tempo nello stesso mondo, << tempi buoni >> e spire awolgenti di tempo disumano, in cui gli uomini cadono nelle mani lente della viva dannazione? Se rifiutiamo un modulo del genere, diventa troppo difficile afferrare la continuità tra l'esistenza normale e l'ora in cui l'inferno si scatena, sulla piazza cittadina quando i tedeschi danno il via alle deportazioni, o nell'ufficio

dello Judenrat o da qualunque parte, un'ora che separa uomini, donne e bambini da ogni precedente di vita, da ogni voce << esterna », in quell'altro tempo del sonno, del cibo e del discorso umano. Sulla falsa piattaforma della stazione di Treblinka, allegramente dipinta e fornita di cassette per i fiori, per non insospettire i nuovi arrivati sui forni a gas a mezzo miglio di distanza, l'orologio dipinto indicava le tre. Sempre. Vi è, in questo, un'acuta intuizione da parte di Kurt Franz, il comandante del campo di sterminio. Tale concetto di differenti ordini di tempo simultanei ma senza comunicazioni o analogie reali può forse essere necessario a noi altri, che non eravamo là, che vivevamo come su un altro pianeta. Sicuramente, è questo il punto: scoprire i rapporti tra quelli messi a morte e quelli che allora erano vivi, e i rapporti tra tutti loro e noi; indiv duare, come sa fare esattamente solo la registrazione e la fantasia, la misura di ignoranza, indifferenza, complicità, commissione che collega i contemporanei o i soprawissuti agli uccisi. Così che, essendo adesso al corrente come mai prima d'ora - ed è qui che la storia è diversa - del fatto che << tutto è possibile », che a partire dal prossimo lunedì mattina, diciamo alle undici e venti, il tempo può cambiare per sé e per i propri figli e non far più parte dell'umanità, possiamo valutare meglio la nostra posizione attuale, la sua disponibilità o vulnerabilità ad altre forme di << possibilità totale ». Rendersi conto in modo concreto che la << soluzione >> non era << finale D, che trabocca nella nostra vita attuale, è l'unico motivo, ma impellente, per costringersi a continuare la lettura di queste testimonianze letteralrnente intollerabili, per ritornare, o forse avanzare, nel non-mondo del ghetto sigillato e del campo di sterminio. Inoltre, nonostante la gran massa di lavoro svolta dagli storici, nonostante le montagne di documentazione ammassate nel corso dei i processi, vi sono delle importantissime questioni di << rapporto >> che restano tuttora oscure e senza risposta. Vi è, in primo luogo, la faccenda della riluttanza delle potenze europee e degli Stati Uniti verso la fine degli anni Trenta a far qualcosa di più di gesti simbolici per la salvezza dei bambini ebrei. Vi è la testimonianza spaventosa dell'entusiasmo mostrato in Polonia e nella Russia Occidentale dalle popolazioni locali quando si trattò di aiutare i tedeschi a uccidere gli ebrei. Dei seicento che riuscirono a scappare da Treblinka nelle foreste, ne soprawissero soltanto quaranta, giacché la maggior parte furono uccisi dai polacchi. << Andate a Treblinka che è il posto di voi


ebrei W , era una risposta non infrequente alle donne e ai bambini ebrei che cercavano rifugio tra i vicini polacchi. In Ucraina, dove molti ebrei rimasero nonostante l'avanzata tedesca perché la politica staliniana proibiva accuratamente di avvertirli in qualsiasi modo delle intenzioni dei nazisti, le cose, se possibile, andavano ancora peggio. Se la gente dellYEuropaoccupata avesse deciso di aiutare gli ebrei, di identificarsi anche simbolicamente con il fato dei loro compatrioti ebrei, il massacro nazista non avrebbe potuto accadere. Questo è dimostrato dalla solidarietà e dal coraggio delle comunità cristiane che aiutavano gli ebrei in Norvegia, in Danimarca e in parte della Bulgaria. Ma che dire del mondo esterno, delle potenze di fatto in guerra con la Germania nazista? Qui le testimonianze sono, fino ad oggi, controverse e ricche di sfumature sgradevoli. Molte questioni rimangono quasi tabù. Vi sono motivi di politica interna, di pregiudizi storici e crudeltà personali che possono forse spiegare l'indifferenza verso e persino la partecipazione alla distruzione degli ebrei ad opera della Russia stalinista. I1 fatto che la R.A.F. e 1'U.S.A.F. non abbiano bombardato i forni a gas e le linee ferroviarie che portavano ai campi di sterminio, dopo che concrete informazioni circa la soluzione finale >> erano giunte a Londra dalla Polonia e dall'ungheria, e dopo che appelli disperati al riguardo erano stati trasmessi da unità clandestine polacche, resta un enigma odioso. L'assenza totale di simili incursioni anche un solo giorno d'interruzione nei forni a gas avrebbe voluto dire la vita di diecimila esseri umani - non può essere spiegata esclusivamente su basi tecniche. Aerei della R.A.F., volando a bassa quota, fecero saltare la porta di una prigione francese, salvando membri importanti della Resistenza da altre torture e dalla morte. Quando esattamente i nomi di Belsen, Auschwitz, Treblinka apparvero per la prima volta negli schedari del servizio informazioni alleato, e che cosa fu fatto al riguardo? Si è detto che la risposta è una risposta di paralisi psicologica, di pura e semplice incapacità da parte della mente << normale W di immaginare e quindi di prestar fede attiva all'enormità della circostanza e quindi dei bisogni. Anche quelli - e può darsi che fossero pochi - che giunsero a ritenere autentiche le notizie provenienti dall'Europa orientale, a credere che milioni di esseri umani venivano metodicamente torturati e uccisi nelle camere a gas in pieno ventesimo secolo, lo fecero con un certo distacco, come potremmo credere a

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un pezzo di dottrina teologica o a un fatto storico accaduto in un rcmoto passato. La convinzione non metteva in relazione. Noi oggi siamo homo sapiens post-Auschwitz perché la documentazione, le fotografie del mare di ossa e denti d'oro, di piedi e mani di bambini che lasciano il segno nero delle unghie sui muri del forno, hanno modificato il nostro senso delle disposizioni possibili. Sentendo nuovamente dei sussurri dall'inferno sapremmo come interpretare il codice; il velo delle nostre speranze si è fatto più sottile. Q y t o è owiamente un argomento importante, soprattutto se esteso al problema della consapevolezza tedesca di quanto stava accadendo e alla questione ancor più discussa dell'impreparazione, dell'incredulità, sia pure in un senso passivo o metaforico, dell'acquiescenza degli ebrei al massacro. I1 suolo di Treblinka conteneva, in un angolo del campo, settecentomila corpi, << che pesavano più o meno trentacinquemila tonnellate e occupavano un volume di novantamila metri cubi W . Se gli ebrei non riuscivano a credere che questo fosse vero, se non quando la porta del forno si chiudeva e si levava il tanfo del forno, se l'intelligenza di un popolo preparato all'angoscia apocalittica da duemila anni di tormenti non poteva concentrarsi su questa nuova possibilità finale, come avrebbero potuto farlo gli altri uomini? Uno degli attributi demoniaci del nazismo (come pure della letteratura sadica) è quello di insinuare in quelli che ne accettano le fantasie come letteralmente fattibili - anche quando le respingono con disgusto - un elemento di squilibrio e di dubbio interiore. Credere alle notizie su Auschwitz diffuse dalle forze clandestine, prestar fede ai fatti statistici prima che una simile credenza fosse diventata irrefutabile e condivisa in tutto il mondo superstite, significava cedere in qualche modo ai propositi mostruosi del nazismo. Lo scetticismo (<<cose simili non possono succedere adesso, non a questo punto della storia umana, non in una società che ha prodotto Goethe W ) ebbe la propria parte di dignità umana e di autorispetto. E lo stesso accadde, con tragiche conseguenze, tra gli ebrei dell'Europa orientale, complessamente coinvolti nella cultura tedesca e nell'illuminismo occidentale. Ciò appare chiaramente sia nel racconto fittizio di Vilna all'inizio di Treblinka di Steiner che nelle pagine d'apertura del diario di Kaplan. Le reazioni degli ebrei fluttuavano freneticamente tra la speranza che l'occupazione tedesca portasse un qualche ordine razionale alla sofferenza - l'imprigionamento in un ghetto poteva signifi-


care la protezione dalle brutalità sempre ricorrenti anche se casuali dei vicini gentili - e la speranza che Hitler consentisse presto la partenza degli ebrei dall'Europa. I brandelli di notizie che filtravano su gli stermini in massa compiuti dai nazisti vennero considerati a lungo o come le logiche fantasticherie di chi era atterrito o come pericolose falsità diffuse da agenti provocatori per demoralizzare gli ebrei o incitarli a qualche atto di ribellione. Quest'ultima avrebbe offerto ai nazisti un << pretesto >> per agire << più duramente >>.Soprattutto, c'era la speranza che il mondo esterno venisse in aiuto. 11 24 gennaio 1940, Kaplan scriveva: Un piccolo raggio di luce è brillato da dietro le nuvole disseminate sul nostro cielo. Ci è giunta la notizia che i quaccheri americani manderanno una missione di salvataggio in Polonia. Questa volta l'aiuto verrà offerto alla maniera americana, senza tener conto di razza e religione, e anche gli ebrei potranno usufruire dell'aiuto offerto. Siano benedetti! Per noi questa è la prima volta che ci giunge, invece di << tranne gli ebrei B, la frase << compresi gli ebrei >>, e ci risuona nelle orecchie in modo strano. È proprio vero? E 1'11 giugno 1940, gli ebrei di Varsavia si confortarono con la profonda convinzione che << i francesi stanno combattendo come leoni con ogni residuo di forza >>.La speranza, la qualità fondamentale dell'uomo di considerarsi in qualche sorta di reciproco rapporto con altri uomini, morì a poco a poco. I1 ricordo della speranza grida a gran voce in uno degli ultimi messaggi ricevuti dal mondo esterno durante la rivolta del ghetto di Varsavia: << I1 mondo tace. I1 mondo sa (è inconcepibile che non sappia) e sta zitto. I1 vicario di Dio in Vaticano tace; vi è silenzio a Londra e a Washington; gli ebrei americani tacciono. I1 silenzio è stupefacente e terrificante B . I n effetti, di rumore ce n'era subito fuori dalle mura del ghetto, rumore accuratamente registrato dalle squadre dei cinegiornali tedeschi: la risata e l'applauso frequente degli spettatori polacchi che guardavano uomini che balzavano tra le fiamme e case che saltavano per aria. Quando fu che la credenza si trasformò in certezza? Secondo J.-F. Steiner (ma il suo racconto è ,in parte finzione drammatica e rielaborazione), fu Langner, morente sotto la frusta, a gridare con il suo ultimo respiro che « sarete tutti uccisi. Non possono lasciarvi uscire di qui dopo ciò che avete visto >>. Nella testimonianza di Kaplan il processo di riconoscimento è graduale. Ogni spasmo di tenace

vitalità - uno scherzo fatto, un bambino nutrito, una sentinella tedcsca adulata o messa nel sacco - pareva a Kaplan una garanzia di soprawivenza: << Un popolo che può vivere in circostanze tremende come queste senza perdere la testa, senza uccidersi - e che sa ancora ridere - ha la certezza di sopravvivere. Che cosa scomparirà prima, il nazismo o l'ebraismo? Sono pronto a scommettere! I1 nazismo sarà il primo! >>. Questo il 15 agosto 1940. Nel giugno del 1942 la possibilità della << soluzione finale » si stava facendo strada nella mente di Kaplan. Pur << imprigionati in un duplice muro: un muro di mattoni per il nostro corpo, e un muro di silenzio per la nostra mente >>, Kaplan poteva affermare, il 25 giugno, che gli ebrei polacchi venivano completamente massacrati. Egli parla persino del << gas letale >>. Ma fu soltanto con l'ordine di deportazione verso la fine di luglio del 1942 che si prese pienamente coscienza del proprio destino. Corse la voce che era stato uno scherzo sadico di Hirnmler, quello di promulgare il decreto alla vigilia del Nove di Ab, << un giorno di castigo, un giorno condannato al lutto per tutte le generazioni. Ma tutto questo non ha importanza. In fin dei conti, si tratta di manifestazioni accidentali, momentanee. Non sono state la causa del decreto. Lo scopo reale è più profondo e fondamentale - la distruzione totale del popolo ebraico >>. Che tale scopo sia sopravvissuto al nazismo in molti individui e in certe società, persino in società in cui non è rimasto vivo quasi nessun ebreo, che esso corra di poco sotto la superficie di molti aspetti della vita sovietica, accresce il bisogno di guardarsi alle spalle. Vi sono elementi dell'antisemitismo più profondi della sociologia o dell'economia o persino della superstizione storica. L'ebreo si pianta come un osso nella gola di ogni altro nazionalismo. « Dio degli Dei! >> scriveva Kaplan all'approssimarsi della fine << dovrà la spada divorare per sempre i tuoi figli? » I1 diario s'interrompe nelle ore serali del 4 agosto, con la polizia ebraica che sotto la supel-visione nazista perlustra la città isolato per isolato. Portati all'Umschlagplata (di cui il regime attuale di Varsavia ha quasi cancellato i tratti e la lapide commemorativa), Kaplan e sua moglie furono deportati. Si pensa che siano stati assassinati a Treblinka nel dicembre del 1942 o nel gennaio del 1943. La preveggenza di Kaplan e l'aiuto di un polacco fuori dal ghetto, assicurarono la sopravvivenza di questi quadernetti d'appunti. Insieme con le Note dal ghetto di Varsauia, questo diario costituisce l'unico documento completo della vita degli ebrei a Varsavia dallo scoppio della guerra


al momento della deportazione. Kaplan non fa che ripetere che questo diario è la sua ragione di vita, che la testimonianza dell'atrocità deve raggiungere il mondo esterno. L'ultima frase dice: << Se la mia vita finisce - che ne sarà del mio diario? B . Kaplan ha vinto il suo giuoco d'azzardo paziente e disperato; la sua voce è prevalsa sulla cenere o sull'oblio. È la voce di un raro essere umano. Insegnante di ebraico, saggista, studioso della storia e dei costumi ebraici, Chaim Aron Kaplan decise di stare a Varsavia nel 1941, benché i suoi contatti con l'America e la Palestina potessero assicurargli un visto d'uscita. Scriveva in ebraico, ma con quella base critica ed erudita di umanesimo classico ed europeo tipica della moderna classe colta ebraica. I1 26 ottobre 1939, egli esponeva il proprio credo: Anche se adesso stiamo subendo delle terribili tribolazioni e il sole s'è fatto buio per noi a mezzogiorno, non abbiamo perso la nostra speranza del sicuro avvento di un'epoca di luce. La nostra esistenza in quanto popolo non sarà distrutta. Saranno distrutti gli individui, ma la comunità ebraica continuerà a vivere. Ogni appunto pertanto è più prezioso dell'oro, purché sia scritto mentre accade, senza esagerazioni né distorsioni. A quest'ultima proposizione Kaplan si tenne fedele in una misura quasi miracolosa. I n mezzo all'inferno, egli distingue tra l'orrore testimoniato e quello semplicemente riferito. Grazie alla precisione estrema, raggiunse una percezione diagnostica profonda. Fin dal 28 ottobre 1939, Kaplan aveva definito la condizione fondamentale dei rapporti tra tedeschi ed ebrei: << Agli occhi dei conquistatori noi siamo al di fuori della categoria degli esseri umani. Questa è l'ideologia nazista, e i suoi seguaci, siano essi ufficiali o soldati semplici, la stanno trasformando in una viva realtà ». Sapeva quel che non molti, a tutt'oggi, sono pronti a vedere chiaramente: che l'antisemitismo nazista è la logica culminazione della millenaria visione cristiana e del suo insegnamento che l'ebreo è l'uccisore di Dio. Commentando le feroci punizioni inflitte agli ebrei da bande tedesche e polacche nella Pasqua del 1940, Kaplan soggiunge: << L' "etica" cristiana ha raggiunto una vita cospicua. E dunque - guai a noi! ». Osservava il singolare mistero della cultura tedesca, della coesistenza nello stesso uomo della bestialità e dell'appassionata cultura letteraria: << Abbiamo a che fare con una nazione di nobile cultura, con un "popolo del

Libro"... I tedeschi sono semplicemente impazziti per una cosa sola libri... Quando il saccheggio si basa su un'ideologia, su una visione del mondo che è sostanzialmente spirituale, non può essere eguagliato per forza e durata... I1 nazista ha il libro e la spada, ed è questa la sua forza e la sua potenza ». Che il libro potesse benissimo essere Goethe o Rilke resta una verità così vitale e tuttavia oltraggiosa che cerchiamo di sputarla via, che continuiamo a declamare le nostre speranze nella cultura come se non fosse lì per romperci i denti. Può darsi che lo faccia, se non giungiamo a comprenderne il significato con un po' della calma e della precisione emotiva di Kaplan. Tale precisione si estende all'osservazione fatta da Kaplan dei momenti di umanità da parte dei tedeschi. I1 rossore imbarazzato sul volto di una sentinella tedesca è registrato con gratitudine; un ufficiale che si ferma ad aiutare un bambino calpestato da un soldato tedesco e che aggiunge: << Vai a dire ai tuoi fratelli che la loro sofferenza non durerà ancora per molto! >> è ricordato come se fosse un misterioso messaggero di grazia ( 31 gennaio 1940). In ogni momento vi è lo sforzo di comprendere come << questo fenomeno patologico chiamato nazismo », questa << malattia dell'anima » possa colpire un'intero popolo o un'intera classe di esseri umani. In Kaplan l'atto stesso dell'osservazione fedele diventa un esercizio nelle possibilità razionali, una dichiarazione contro la follia e la degradazione della piazza. Non vi è praticamente una sola punta d'odio in questo libro, soltanto il desiderio di capire, di mettere alla prova l'intuizione contro la ragione. Vedendo un tedesco sferzare a morte un vecchio venditore ambulante in piena via, Kaplan scrive:

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È difficile comprendere il segreto di questo fenomeno sadico... Com'è possibile attaccare uno che mi è estraneo, un uomo di carne e sangue come me, ferirlo e calpestarlo, e coprire il suo corpo di ferite, di piaghe e di lividi, senza nessuna ragione? Com'è possibile? Eppure giuro di aver visto tutto questo proprio con i miei occhi.

In questo travaglio di comprensione si trova l'unica forma di perdono. Soltanto chi attraversò davvero l'inferno, chi sopravvisse ad Auschwitz dopo aver visto i propri genitori fustigati a morte o uccisi con il gas davanti ai propri occhi (come Elie Wiesel), o chi trovò i propri congiunti tra i cadaveri da cui dovevano estrarre i denti d'o-


ro, un incontro che a Treblinka avveniva ogni giorno, può avere il diritto di perdonare. Noi non abbiamo tale diritto. È questo un punto importante, spesso frainteso. Quello che i nazisti fecero nei campi di sterminio e nelle camere di tortura è assolutamente imperdonabile, è un marchio segnato a fuoco sull'immagine dell'uomo e durerà; ciascuno di noi è stato svilito dalla realizzazione di una subumanità latente in tutti noi. Ma se uno non l'ha sofferto, l'odio e il perdono sono giuochi spirituali - giuochi seri, senza dubbio - ma pur sempre giuochi. La cosa migliore adesso, dopo tante dichiarazioni, è, forse, restare in silenzio; non aggiungere le banalità del dibattito letterario e sociologico all'inenarrabile. Questo sostiene Elie Wiesel, questo sostengono molti testimoni al processo di Eichmann. Subito dopo, ritengo, la cosa migliore è cercar di capire, tener fede a quello che può essere forse l'impegno utopico alla ragione e all'analisi storica di un uomo come Kaplan. Ma mentre scrivo una scheggia minuta dell'enormità va a segno. Non vi è nessun altro uomo proprio come Chaim Aron Kaplan. Avviene così di ogni morte; dal punto di vista metafisica, dal magazzino delle risorse umane scompare qualcosa di assolutamente unico. Ma nonostante la sua democrazia esteriore, la morte non è del tutto equa. L'integrità, la finezza intellettuale, il razionalismo umano sfoggiati in ogni pagina di questo libro indispensabile - che rappresenta una precisa tradizione di sentimento, di pratica linguistica - sono irrimediabilmente perduti. I1 particolare tipo di possibilità umana realizzato nell'ebraismo dell'Europa centro-orientale è estinto. Non sappiamo quasi nulla di riserve genetiche, del materiale grezzo di diversa eredità cui la specie umana attinge per il proprio faticoso cammino. Ma il rinnovamento nuinerico è soltanto una parte della storia. Assassinando Chaim Kaplan e quelli come lui, assicurandosi che i loro figli fossero ridotti in cenere, i tedeschi hanno privato la storia umana di una delle versioni del suo futuro. I1 genocidio è il crimine finale perché mette un'ipoteca sul futuro, perché svelle una delle radici da cui cresce la storia. Non può esservi alcun perdono significativo perché non può esservi riparazione. E quest'assenza dalle nostre speranze attuali, dalle nostre speranze di evoluzione, dei tratti morali, psicologici e cerebrali estinti a Belsen e a Treblinka costituisce da un lato la persistenza dell'azione nazista e dall'altro la lenta, triste vendetta dei morti non ricordati. Nei dibattiti su Treblinka si è potuto notare una mancanza di

modestia, di quelle ironie sottilmente formative che caratterizzano il Diario di Varsavia. Nato nel 1938 da un ebreo in seguito deportato e ucciso dai tedeschi e da una cattolica, Jean-Fran~oisSteiner non sperimentò realmente il massacro. Fu un viaggio a Israele e il ben noto malessere sentito dai giovani ebrei per tutto il processo Eichmann - << perché in Europa gli ebrei vanno come pecore al macello? >> a indurre Steiner a intervistare un gruppetto di soprawissuti di Treblinka (ventidue in Israele, cinque negli Stati Uniti, uno in Inghilterra) e a scrivere un resoconto della << rivolta in un campo di sterminio >>. Salutato da Simone de Beauvoir come una rivendicazione del coraggio ebraico e come un'opera pionieristica nell'interpretazione sociologica e psicologica di una comunità in preda all'inferno, Treblinka è stato severamente attaccato da altri (tra i quali David Rousset e Léon Poliakov) per le sue presunte inesattezze, per il suo razzismo e per quel po' di appoggio che la sua tesi generale della passività ebraica può offrire a Hannah Arendt. Le recriminazioni sono state odiose, come lo erano state nel caso Arendt. E ciò, per quanto umiliante e contrario all'intelligenza, è giusto. Perché non è affatto certo che il discorso razionale possa far fronte a questi problemi, trovandosi essi al di fuori della sintassi normativa della comunicazione umana, sotto il dominio esplicito della bestialità; né è chiaro se coloro che non furono personalmente e totalmente coinvolti debbano affrontare indenni queste agonie. Quelli che c'erano dentro - Elie Wiesel in La Nuit, Les portes de la foret, Le Chant des morts, Koppel Holzmann in Die Hohlen der Holle - sanno trovare il discorso giusto, spesso allegorico, spesso vicinissimo al silenzio, per quanto decidono di dire. Noi che veniamo dopo siamo striduli e ci mettiamo a disagio a vicenda con pretese di collera o di percezione imparziale. Poliakov parla degli << scandali >> successivi che accompagnano tutti i libri sull'assassinio degli ebrei da L'ultimo dei giusti di Schwartz-Bart a I l vicario di Hochhuth e adesso a Treblinka. Silenzio durante l'assassinio, ma scandalo su libri. Steiner si è assunto un compito difficile e alquanto strano: ricostruire la vita e la rivolta in un campo si sterminio in forma di documentario romanzato, di un reportage strettamente documentato che si serve dei dialoghi immaginari, degli abbozzi di caratteri e del montaggio drammatizzato della narrativa. I1 fatto che quasi tutti i superstiti dell'insurrezione del 2 agosto 1943 siano stati in seguito assassinati dai contadini polacchi, dalle bande fasciste ucraine, dalle


unità della resistenza polacca di destra o di sinistra o dalla Wehrmacht, ha costretto Steiner a basarsi sui tormentati ricordi di pochi individui per il grosso del suo materiale. La sua scelta di un genere drammatizzato, che è profondamente onesta nella misura in cui r a p presenta lo sforzo di un non-testimone di immaginare a ritroso, di entrare nell'inferno con un atto di talento fantastico, comporta dei rischi evidenti. Durante il processo di Eichmann, i testimoni smussarono ripetutamente le domande del pubblico accusatore dicendo: << Non potete capire. Chi non era là non può immaginare ». E incapace di immaginare compiutamente, di tradurre il documento in se stesso, nel marchio indelebile sulla propria pelle, Jean-Francois Steiner ricorre, in maniera probabilmente inconscia, alle convenzioni della violenza e della suspense correnti nella narrativa moderna e nel giornalismo d'alto livello. Di conseguenza Treblinka sfrutta la cronologia cinematografica e le pose di un racconto del Time. È ricco di dialogo memorabile e di silenzi drammatici. Personaggi reali e fantastici compaiono in episodi raggruppati e tagliati da un occhio evidentemente esperto (un Truman Capote teso fino al parossismo). La vita mentale di Kurt Franz (<<Lalka ») è resa con sfumature dostoevskiane. Ora non ho dubbi che tutte queste scene mostruose ed eroiche abbiano avuto luogo: che padri e figli si siano aiutati a vicenda a suicidarsi nelle baracche, che ragazze nude si offrissero ai kapos in un ultimo anelito di vita, che guardie ucraine e ebrei condannati danzassero e suonassero insieme nelle calde sere d'estate nel bizzarro villaggio della morte fatto costruire da Franz. So in base ad altre testimonianze che il resoconto dato da Steiner dell'orchestra sinfonica di Treblinka è vero, che gli incontri di pugilato e i cabaret che egli descrive ebbero dawero luogo, che un piccolo numero di donne e di uomini ebrei, perseguitati oltre ogni sopportazione, si presentò volontariamente alle porte di Trebliinka chiedendo di esser fatti entrare e messi a morte. Nella gran maggioranza dei casi, il racconto e il dialogo di Steiner è saldamente basato su prove dirette e documentarie. Ma poiché tali prove sono dominate dal talento letterario dello scrittore, poiché un personaggio narrativo pieno di furore distinto e di forza stilistica si frappone tra il fatto insano e l'economia, e quindi l'ordine, profondamente eccitante del libro, ecco intromettersi una certa irrealtà. Dov'essa è rappresentata con tale abilità, modulazioni intricate intaccano la spaventosa realtà. Diventa più grafica, più terribilmente defi-

nita, ma trova anche una dimora più accettabile e convenzionale nella fantasia. Crediamo; ma non crediamo tuttavia in maniera intollerabile, perché tiriamo il fiato al riconoscere un espediente letterario, una pennellata stilistica, non dissimile in definitiva da quanto abbiamo trovato in un romanzo. L'estetico rende sopportabile. Ma benché questo non sia un libro cui posso prestar fede senza riserve - la pressione che esso esercita sulla fantasia non è sempre quella che ci collega nel modo più prossimo, più scrupoloso alla presenza dei morti - molte delle accuse mosse a Steiner sono ingiuste. È vero che la rivolta non era un fatto raro come Steiner ritiene - lo dimostrano azioni documentate a Bialistok, Grodne, Sobivor, Auschwitz e, soprattutto, proprio a Varsavia. Con tutto ciò Treblinka fu l'unico campo di sterminio veramente distrutto da un'insurrezione ebraica, e le condizioni in cui tale insurrezione fu progettata furono davvero fantastiche. Treblinka non è il primo né il più autorevole tentativo di una sociologia dei dannati. S.S.-Staat di Kogon e The Informed Heart di Bettelheim sono molto più attendibili. Ma le osservazioni di Bettelheim in particolare riguardano una versione precedente e relativamente immaginabile della vita dei campi. In Treblinka, con la sua continua catena di montaggio della morte e la sua tecnologia deil'eliminazione di massa, con la sua falsa stazione ferroviaria e il suo villaggio teutonico, con i suoi cani addestrati ad assalire le parti intime dell'uomo e i suoi matrimoni ebraici ufficiali, la vita ha raggiunto un vertice di estrema follia. Jean-Francois Steiner descrive questo mondo, che sta fuori dai confini della ragione, non, immaginano, neila sua verità assoluta e letterale. Come poteva farlo? << Io che ero là ancora non capisco », scrive Elie Wiesel. Ma quanto egli ha tradotto dai silenzi, dalle dimenticanze necessarie, dal discorso parziale dei supersititi suona spesso vero. Soprattutto, fa comprendere qualcosa di quella tortura deliberata della speranza e della scelta con cui i nazisti spezzarono la molla della volontà neil'uomo. I n un mondo in cui, come nel mito crudele del Gorgia di Platone, gli uomini avevano di fronte agli occhi il calendario delle proprie morti, i nazisti introdussero un meccanismo di speranza minima. << Puoi continuare a vivere se fai questo o quello per nostra soddisfazione. >> Ma il fare implicava quasi invariabilmente una scelta così orribile, così degradante, che sviliva ulteriormente l'umanità di quanti lo facevano. I1 padre doveva decidere di far morire il figlio; il kapo doveva fustigare più dura-

13. Linguaggio e silenzio


mente; l'informatore doveva tradire; il marito doveva fasciare andare la moglie nei forni senza che lei lo sapesse, per non essere scelto subito a sua volta. Vivere era scegliere di diventare meno umani. Questo stesso processo è analizzato da Kaplan. Era il giuoco famigerato dei lasciapassare gialli o bianchi e delle tessere di lavoro. Quale significava la vita, e quale la morte? Oppure vengono rilasciate tre tessere a una famiglia di quattro, costringendo genitori e figli a scegliere uno di loro per lo sterminio. La speranza beffata può spezzare l'identith umana molto più rapidamente della fame. Ma fame ce n'era, e tormento fisico continuo, e la sospensione improwisa di ogni intimità umana. L'enigma dunque non è per qual motivo gli ebrei dell'Europa orientale non siano riusciti a offrire maggior resistenza, per qual motivo, cacciati fuori dall'umanità, privati di ogni arma, metodicamente affamati, essi non si siano ribellati (sostanzialmente, la tesi di Hannah Arendt soffre per il fallimento dell'immaginazione). In realtà, questa è una domanda radicalmente indecorosa, posta come lo è spesso da coloro che rimasero in silenzio durante il massacro. I1 problema è come fu possibile per Chaim Kaplan conservare la propria sanità mentale, e come Galewski e il suo comitato di resistenza abbiano potuto alzarsi sulle montagne fetide dei cadaveri e condurre un attacco contro le mitragliatrici delle S.S. I1 mistero è che anche un solo uomo abbia conservato un ricordo della vita normale sufficiente a riconoscere l'uomo nei propri compagni e nella propria immagine brutalizzata. Soltanto da un simile riconoscimento può scaturire la ribellione e quel supremo gesto d'identità che è dare la propria vita per la sopravvivenza degli altri, come fece l'intero comitato di Treblinka. Taluni mistici ebrei hanno detto che Belsen e Treblinka incarnano una momentanea eclisse o follia di Dio; altri hanno parlato della vicinanza speciale, e quindi insondabile, di Dio ai suoi eletti nei forni a gas e al ceppo di fustigazione. Queste sono metafore della ragione quando la ragione è in preda alla disperazione o a una speranza più penosa della disperazione. Quello che i documenti ci dicono è che nel buio dell'assenza di Dio, certi uomini, sepolti vivi, sepolti da quel silenzio del cristianesimo e della civiltà occidentale che fa di tutti gli indifferenti dei complici dei nazisti, si levarono e distrussero la loro parte d'inferno. Nonostante tutto il suo sgradevole virtuosismo stilistico, nonostante tutti i suoi artifizi e, forse, tutte le sue inesattezze,

Treblink'a ci fa comprendere un poco come ciò avvenne. L'accusa che J.-F. Steiner abbia in un certo senso umiliato gli ebrei mostrandoli attraverso gli occhi dei carnefici tedeschi e ucraini, e che la sua narrazione della paralisi iniziale degli ebrei a Treblinka contribuisca a un mito razzista della passività ebraica, mi sembra infondata. Ne trascura l'intenzione principale che è quella di immaginare per sé e per noi l'inimmaginabile, parlare laddove soltanto il silenzio e il Kaddish per i morti senza numero hanno un posto naturale. Ma basta con le dispute. Questi libri e i documenti che sono soprawissuti non sono da << recensire >>.Non almeno finché << recensire >> significa, come dovrebbe forse significare in questi casi, un << rivedere >>, un rivedere continuo. Come in certe favole di Borges, l'unica << recensione >> assolutamente decente del Diario di Varsazha o di La Nuit di Elie Wiesel sarebbe un ricopiare il libro, riga per riga, fermandosi sui nomi dei morti e. sui nomi dei bambini come lo scriba ortodosso si ferma, quando ricopia la Bibbia, al nome venerato di Dio. Finché non conosciamo molte delle parole a memoria (conoscenza più profonda della mente) e non possiamo ripeterne qualcuna al sorgere del inattino per ricordarci che viviamo dopo, che la fine del giorno può portare una prova disumana o un ricordo più strano della morte. Nel ghetto di Varsavia un bambino scrisse nel suo diario: << Ho fame, ho freddo; quando sarò grande voglio essere un tedesco, e allora non avrò più né fame né freddo >>. E adesso voglio scrivere di nuovo questa frase: < Ho fame, ho freddo; quando sarò grande voglio essere un tedesco, e allora non avrò più né fame né freddo >>. E ripeterla per molte volte, come preghiera per il bambino, come preghiera per me stesso. Perché quando quella frase fu scritta io mangiavo più del necessario, e dormivo al caldo, e stavo zitto.


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