Romania 1989

Page 1


Introduzione No. Non è stato un viaggio facile. Le dure condizioni di vita della gente nel buio di uno stato di polizia corrotto e tirannico provocarono in noi un profondo coinvolgimento emotivo. Pochi mesi dopo, una rivoluzione, la cui scintilla si sarebbe accesa a Timisoara, avrebbe abbattuto con violenza la dittatura di Ceausescu. In quel caldo agosto 1989 in Romania si respirava aria di insofferenza e ogni cosa sembrava arrivata all’apice dell’insostenibilità. Problemi e difficoltà si presentavano per noi ogni giorno e a volte ci chiedevamo cosa ci facciamo qui? non potevamo scegliere una meta più tranquilla? Ma proprio questa è stata la vera gazolina del viaggio, l'elemento catalizzatore di eventi e di incontri di straordinaria ricchezza umana. E noi, ragazzi in vacanza, figli di un paese che da lì appariva come la terra dei sogni, ci siamo ritrovati spesso ad essere aiutati da persone che avevano persino il problema del pane quotidiano. Dunque siamo noi che siamo in debito. E questo è solo un modo per dire: Multumesc Romania. Grazie.


31/07/1989 da Timisoara a Baile Herculane Prime impressioni

Piena di luci. Timisoara è piena di luci! Tutta illuminata! Così ci avevano detto alla frontiera. Così la immaginavamo. Un gioiello scintillante nella notte, che sarebbe apparso alla fine di quella lunga giornata in moto, a dare glorioso inizio al nostro viaggio in Romania. Stanchi, pregustavamo il riposo, la meta accogliente alla fine della strada. Invece era buia. Scura e sinistra come una città in guerra al coprifuoco. Neanche un lampione acceso, o un'insegna, o le luci di un bar. Nonostante questo, non era deserta. Tante persone vagavano a piedi nell'oscurità, rendendo pericoloso il nostro stupefatto transitare per le vie del centro, del tutto prive di automobili. Solo il doppio faro della nostra moto a forare il buio e illuminare fantasmi. Timisoara non è piena di luci - ci siamo detti - è piena di ombre. Ombre di uomini e donne che camminano in silenzio per strade buie. L'albergo è decadente. La carta da parati dai colori vistosi si stacca dai muri umidi di muffa. La moquette, color ruggine, sembra aver assorbito troppo fumo, troppi passi. Nella sala da pranzo pochi clienti ai tavoli e tanto movimento intorno. Camerieri sgarbati e indifferenti, guardinghi trafficanti di cambio nero, ambigui individui a caccia di stranieri per vendere o rimediare qualcosa, topi di hotel. Una strana fauna che tesse trame attorno alle cene e ai pranzi di gente di passaggio. Anche noi entriamo in questa giostra. Scambiamo due parole con un fiorentino che ha casa,


famiglia e lavoro da queste parti. Si meraviglia del nostro entusiasmo e noi incassiamo con un sorriso convinto i suoi auguri dubbiosi. Poi, da un uomo dall'aria scaltra, acquistiamo due orologi russi. Costano pochissimo e ci sembrano molto belli. Un altro compare vorrebbe venderci scatolette di caviale. Iniziamo a circondarci di trincee di no e diffidenza.Tutto sembra sfuggente, poco sicuro, vagamente pericoloso. Ci sentiamo frastornati. Rimpiangiamo la nostra tenda blu e gli intrepidi accampamenti da viaggiatori solitari delle nostre solite vacanze, ma all'agenzia, in Italia, erano stati categorici, niente campeggio libero in Romania. Se non facevamo parte di un viaggio organizzato, dovevamo acquistare obbligatoriamente un blocchetto di buoni, per pernottare negli alberghi. Qui li chiamano cuponi. La sola parola ci fa ridere e ci dà, allo stesso tempo, un senso di oppressione. Timisoara è una città dove le persone vagano in eterno movimento. Così era ieri notte nel buio e così è questa mattina nella luce polverosa del sole pallido. Tram rugginosi e sgangherati stridono sui binari, ma la luminosa armonia della piazza Unirii è come un calmante per il respiro ansioso della città. Gli edifici sono delicate bomboniere barocche dai colori sgargianti. Gruppi di militari, zingare straripanti di gonne colorate, bambini spettinati, vecchi silenziosi, l'intera città ci gira intorno come una vecchia giostrina malandata al ritmo di una musica balcanica. Una musica che suona nella nostra testa e nel motore acceso della moto e ci invita a metterci in strada in questo giorno d'estate così pieno di promesse. A Lugoj ci fermiamo per un caffè e subito una piccola folla curiosa si assiepa attorno a noi e alla nostra moto. Ci chiedono di tutto: sigarette, scarpe, pile, medicine, addirittura la carta stradale della Romania. Dopo mille tristi no possiamo ripartire, sballottati da una strada tutta fosse come biglie in un bussolotto. Nel cuore di una campagna fresca e rigogliosa dobbiamo fermarci per rimediare alla perdita di una vite del porta borse. Le vibrazioni sono state micidiali. Per precauzione diamo una controllata a dadi e bulloni. Adesso che siamo fermi, la pace è assoluta. Solo il fruscio dell'erba, la nota continua dei grilli e il ritmico sibilo delle falci dei contadini lontani. La strada è quasi deserta, tranne qualche carro trainato da cavalli stanchi e qualche mucca che pascola sul ciglio dell'asfalto, e noi corriamo, volando sopra le buche, improvvisamente consapevoli di essere finiti in un mondo antico, dal respiro lento, legato ai ritmi della terra. Saliamo su per le colline, lasciandoci dietro i campi di granturco e i prati punteggiati di mucchi di fieno. Abbiamo attraversato villaggi dalle case luccicanti di maioliche colorate, tutte in fila lungo la strada come collanine da quattro soldi, con le vecchine all'ombra intente a filare la lana e i bambini che, al nostro passaggio, corrono a nascondersi dietro ai cancelli, lasciando campo libero all'onda dondolante delle oche bianco-splendente.


Ora non più una casa, non più un incontro tra questi alberi antichi che fanno un'ombra fredda e profumata. Dopo Anjna la strada scende e torna viva. Al tramonto i contadini rientrano dai campi. Passano uomini a piedi, con gli attrezzi sulle spalle e donne con le mucche al ritorno dal pascolo; i calessi di legno sono carichi di fieno e di bambini che ci salutano con la mano. Cagnolini ringhiosi ci corrono dietro abbaiando. Il sole rosso e pesante sta calando dietro la linea ondulata dell'orizzonte e già una nebbiolina azzurra sale dalle sponde del fiume Minis, che, dopo aver dato vita a gole selvagge, scende a riposare tra queste colline. Dopo un lungo peregrinare di albergo in albergo ci sistemiamo nel pretenzioso quanto decadente Hotel Diana di Baile Herculane, zona termale di grande bellezza tra boschi e alture, atrocemente sfregiata da un'orribile catena di grattacieli-alberghi intitolati a varie divinità greco romane. Ottenere la stanza non è stata cosa facile. Alla reception non avevano voglia di compilare i moduli per i cuponi , ma noi non avevamo voglia di andare all'hotel Mercurio, dopo che già eravamo stati respinti dal Nettuno, dall'Afrodite e dal Minerva. Così siamo stati irremovibili, fosse calato giù pure Zeus insieme a tutti gli dei dell'Olimpo e ora possiamo riposarci in questa tetra camera, con le luci di emergenza al posto dei lampadari e i mobili mal ridotti. Pazienza se, pur trovandoci in una zona termale ricchissima di sorgenti, in tutto l'albergo non scorre un filo d'acqua. Le luci del salone ristorante si sono spente puntualmente alle 22 insieme alle ultime note dell'orchestrina. Un uomo con la camicia bianca e una donna con un vestito a rose gialle hanno continuato a ballare un minuto ancora nel buio, mentre noi salivamo le scale.


01/08/1989

da Baile Herculane a Tirgu Jiu

Una casa bianca e verde sotto la pioggia

Pioggia fitta su Baile Herculane, questa notte Pioggia sui boschi e sulle colline, sui muri screpolati degli alberghi e sull'asfalto consumato della strada che ora ci porterà via da qui. Ci svegliamo tardi, dopo un sonno di piombo, interrotto solo dallo scrosciare dell'acqua dai rubinetti lasciati aperti ieri sera. Indossiamo le camicie pesanti e ci rimettiamo in marcia nell'aria fredda. A Orsova facciamo benzina. I palazzi sono nuovi ma sembrano già vecchi. Squadre di zingari puliscono le strade, curano le aiuole, ma tutto sembra uniformemente appannato, come velato da una patina di polvere. Il Danubio è largo e pesante sotto un cielo piatto dello stesso colore grigio. Acqua metallica, opaca, senza un riflesso. Le Porte di Ferro che un tempo indicavano una pericolosa strettoia irta di scogli, ora sono veramente degli enormi sbarramenti sul fiume. Poi centrali idroelettriche come immensi puntaspilli di tralicci. Viaggiamo quasi rattrappiti sulla nostra moto, unica nota di colore in un universo grigio che mette i brividi al cuore.


I viali perpendicolari e le geometrie perfette di Dobreta Turnu Severin sono un teorema che dimostra matematicamente la natura severa e cupa di questi luoghi. Uno stabilimento industriale, rumoroso e fumoso, pianta nel cielo le sue ciminiere come coltelli. Grovigli di tubi simili a grossi serpenti sembrano fuggire dal cuore della fabbrica e strisciano lungo la strada, le passano addirittura sopra per correre dall'altra parte. Le persone che incontriamo hanno facce scure e stanche. Ci fermiamo a chiedere informazioni a un ragazzo. Tiene in mano una tortora viva, che agita a destra e a sinistra nell'indicarci la direzione, mentre guarda con occhi avidi la motocicletta. Non capiamo bene, ma ce ne andiamo via comunque, per il bene dell'animale. Alcuni chilometri più avanti la strada diventa sterrata. Colline verdi disegnano un orizzonte ondulato sotto nuvole scure di temporale. Non si incontrano case, né trattori, né auto, solo un'unica infinita campagna, antica, dura e silenziosa. Sul crinale di un colle uomini con le falci fienarie si stagliano contro il cielo, in una specie di danza macabra. In basso donne con fazzoletti colorati in testa raccolgono il fieno, mentre bambini scarmigliati giocano attorno. Strane croci di legno simili a simboli pagani benedicono i campi. Sobbalzando sulla strada sassosa, giungiamo a Balta. Le case sono di legno dipinto; collane di steccati tengono a freno piccoli dimenticati fiori di campagna che sembrano crescere e sbocciare con furore incontenibile. Ci dicono che in paese c'è una famiglia italiana, ci indicano la casa ed ecco che si affaccia la proprietaria, in realtà una rumena, moglie di un italiano, che è tornata qui in vacanza con i suoi tre bambini. Mentre inizia a piovere veniamo invitati a entrare con grande cortesia. Casa tradizionale in legno, bianca e verde, fiancheggiata sul davanti da una piccola veranda, un tempo aperta e ora chiusa da vetrate. La pioggia cade a dirotto e si sta bene seduti sul divano verde a chiacchierare come dei buoni vicini, ascoltando il rumore dell'acqua sulla pergola. Le tendine bianche si gonfiano nell'aria fresca. Profumo di terra bagnata. Maria ci parla di suo marito che lavora in mare ed è sempre lontano, della sua gente e di questa casa che apparteneva ai suoi nonni. Ora ci vive solo sua madre, una silenziosa donna anziana dai lineamenti scolpiti. Quando andò ad abitare nella casa italiana, non resistette più di un mese e disse che lei doveva appoggiare i piedi sulla vera terra della sua terra. Così ritornò qui, con l'aereo, anzichè col treno, per non soffrire un giorno di più la nostalgia. Guardo lontano verso le colline così dolci attraverso la pioggia e la capisco perfettamente. Ci invitano a cena nella pulitissima cucina imbiancata a calce.


Pasto tipico rumeno: brodo con grossi gnocchi di semolino e foglie di cavolo ripiene di carne e riso. liquore di lamponi dell'orto e fresca acqua di pozzo. Si sta facendo scuro e vorrebbero ospitarci per la notte in una delle piccole stanze interamente tappezzate di tessuti fatti a mano, in cui, con lo stesso furore, fioriscono i disegni dei medesimi fiori visti prima negli orti. Ma la strada ci chiama e ripartiamo, incantati e felici, verso Baia de Arama. Lo sterrato è ora tutto fango, crivellato di pozze d'acqua gialla. Urliamo come matti, alzando le gambe, quando ci finiamo dentro. Slalomiamo per evitarle e scalciamo contro i cani che ci rincorrono furiosi. E' una sera magica e non importa se si è fatto tardi, se la strada è brutta e se sarà difficile trovare un albergo. L'albergo lo troviamo nella notte senza lampioni di Baia de Arama, dopo aver superato tutte le insidie di uno sterrato già impegnativo alla luce del giorno, ma non c'è verso di ottenere una stanza nè in cuponi, nè in lei, nè in lire. Un signore gentilissimo ci fa strada fuori dal paese con la sua vecchia jeep. E ora la notte è tutta nostra, con il freddo, la pioggia intermittente e la triste prospettiva di un altro paese buio e inospitale. Rimpiangiamo l'esplosiva fioritura dei tappeti e delle coperte della casina bianco-verde, ma ormai non possiamo far altro che andare avanti nella notte. A Tismana l'unico hotel è chiuso, lugubre e tetro con l'insegna spenta. Poi di nuovo campagne senza luci e una strada senza catadiottri, ai cui lati le forme vaghe degli alberi si agitano nel vento. Solo le gocce di pioggia ci arrivano addosso come lucciole illuminate dai fari della moto. All'improvviso scalpiccio di zoccoli e la visione quasi sognata di una carovana di calessi trainati da cavalli che avanzano nel buio, senza una lanterna, un lumino, qualcosa che ci assicuri della loro realtà. Sui carri figure intabarrate in teli di plastica e mantelli, silenziosi fantasmi che appaiono e scompaiono nei fumi di nebbia che arrivano a folate. Arriviamo finalmente a Tirgu Jiu. Un camionista dal cuore gentile si ferma a darci indicazioni per l'albergo più vicino, e così, a mezzanotte in punto, possiamo apprezzare il conforto di una doccia calda e di un letto. Per il resto della notte continuiamo a sognare di cavalli nella nebbia e di fiori esagerati.


02/08/1989 da Tirgu Jiu a Petrosani Nimic gazolina

Una mattinata a Tirgu Jiu è come scendere a una fermata d'autobus nella periferia senza nome di un tempo passato. Vediamo persone tristi vagare con grandi borse vuote o fare la fila per il pane. Dalle vetrine spoglie dei negozi alimentari qualche sbiadito fiore di plastica cerca inutilmente di rendere allettanti improbabili scenografie fatte con vecchi tubetti di conserva e barattoli di cetrioli. Barbierie di un'altra epoca sfoggiano foto in bianco e nero di uomini con grandi baffi e chiome balcaniche impomatate. Percorriamo strade assolate e desolate fino al rifugio verde e ombroso del parco dedicato al grande scultore rumeno Brancusi. I nostri passi scricchiolano sul brecciolino dei vialetti tra le siepi di bosso dall'odore pungente. Opere imponenti di massiccia pietra grigia fanno da controcanto alla precarietà di bancarelle sbilenche svolazzanti di abiti estivi e fazzoletti. La "tavola del silenzio" ha sgabelli di sasso a forma di clessidra, ma la polvere del tempo che fugge non scorre più e sembra essersi depositata come un velo immobile sull'intera città. Torniamo all'hotel per prendere la moto, come al solito accerchiata da una piccola folla, davanti alla quale la nostra preparazione assume la ritualità di una vera e propria vestizione. Decidiamo di ripercorrere indietro la strada di ieri notte, per andare a visitare il monastero di Tismana e anche per fare il pieno, visto che a Tirgu Jiu , nell'unico distributore esistente, c'è solo la regular.


Alla luce del sole tutto appare diverso. Incrociamo molti vecchi camion sbuffanti e sgangherati, poi un paradiso di prati verdi e ondulati dove pascolano mucche, cavalli e oche. Scopriamo che i misteriosi carri trainati dai cavalli, incrociati la notte scorsa, appartengono a zingari che si radunano all'incrocio di Tismana, probabilmente per procacciarsi dei lavori, tipo piccoli trasporti di fieno, o altro. Ora sono tutti lì, in attesa presso la strada, coi cavalli magri che sferzano l'aria con le code per scacciare le mosche. Hanno l'aria tranquilla, rilassata, quasi indifferente di chi mangia pane e problemi ogni mattina e non ci fa più caso. Noi invece, che abbiamo problemi irrilevanti, come il carburante che non si trova, non abbiamo ancora imparato niente e siamo preda delle nostre preoccupazioni. A Tismana il distributore è chiuso. Le domande che facciamo in giro ricevono solo alzate di spalle e gesti di rassegnazione. Niente benzina. Nimic gazolina! Torniamo indietro fino a dove è iniziata la nostra odissea notturna di ieri, ma anche qui pompe chiuse. "Inchis! Inchis!" chiuso, ci sottolineano le persone, come se fosse normale, come se si parlasse del tempo, che uno non può farci niente. Un camionista si sta lavando le mani in una pozza d'acqua fangosa. "C'è benzina a Baile Herculane e a Timisoara, ma qui in zona niente" dice, mentre rivoli scuri gli corrono giù per le braccia. Nel serbatoio restano ormai pochi litri con cui possiamo a malapena tornare a Tirgu Jiu, ma decidiamo comunque di non pensarci e di visitare il monastero di Tismana. Poi si vedrà. Gli zingari evidentemente ci hanno insegnato già la lezione numero uno. Parcheggiamo davanti al monastero insieme a due Dacia polverose. Gente di Bucarest in gita. Dicono di averci visto a Tirgu Jiu questa mattina. Mentre parlano con noi si guardano attorno con timore. La Securitate (la temutissima polizia di stato) non tollera che i rumeni abbiano contatti con gli stranieri. Nonostante questo, vogliono sapere da dove veniamo e dove andiamo e, quando raccontiamo dei nostri problemi con la benzina, ecco che senza dire una parola, aprono il portabagagli e tirano fuori taniche, tubo e imbuto e in un attimo tutto è risolto. Si rifiutano di accettare denaro: nè lei, nè lire. E' un regalo - dicono - per solidarietà, per amicizia, per simpatia! e quasi a forza riusciamo solo a infilare in una delle loro borse un barattolo di caffè solubile. Il monastero di Tismana è annidato in un verde profondo come un'oasi benedetta. C'è una quiete dorata tra le sue mura candide, su cui si disegnano nere le sagome delle monache dai volti pallidi e severi. All'interno una vertigine di incenso. Alle pareti un universo di affreschi scuriti dal tempo. Le superfici piane e le linee rette sembrano dissolversi sotto le pitture in un'unica bolla di dorate visioni mistiche.


Odore di minestra dalla mensa per i poveri. Uomini dagli abiti dimessi e laceri ci guardano mentre ci prepariamo a ripartire. Tristi sguardi stupiti e mormorii di ammirazione accompagnano i nostri gesti. Avremmo preferito che si fossero attardati a bere alla fontanella tra i fiori con il bicchiere smaltato attaccato alla catenella. La loro attenzione su di noi ci mette in imbarazzo, ci fa quasi vergognare dei nostri giubbetti di pelle, dei guanti, della moto. Ripartiamo lentamente, senza dare sfoggio di gas, per pudore, anche se, sicuramente, essi avrebbero preferito. Il fiume Jiu corre insieme a noi. E' un ottimo compagno di viaggio e la strada non lo molla mai. A Bumbesti Jiu passiamo davanti a una stazione ferroviaria animata come un formicaio. Una folla stanca scende dai treni e un'altra folla più agitata si accalca per salirvi. Tutti hanno vecchi borsoni, o valige attaccate malamente con lo spago. Bagagli pesanti come le pietre di Brancusi, che, eppure, non contengono quasi nulla. Bagagli leggeri fatti di vuoto ma che pesano più del piombo. Il cielo si è fatto cupo. Nuvole in metallo pesante vanno a incagliarsi come vecchi relitti di navi rugginose sopra i tetti di Petrosani, che si profilano già davanti a noi. Eccettuato il fatto che troviamo benzina e che l'albergo è abbastanza decente, per il resto è una città senza capo né coda, né centro né periferia. Vie deserte tra cupi palazzi e caseggiati, enormi negozi vuoti, piazze di asfalto e cemento dove, invece dei fiori nelle aiuole, crescono solo inquietanti cartelloni di propaganda al regime. Un non-luogo di desolazione senza salvezza. Infreddoliti dalla pioggia che cade sottile, cerchiamo invano una caffeteria, finchè, stanchi, decidiamo per un latte bollente sul nostro fornelletto da campeggio nella stanza d'albergo. Piccolo conforto che ridà buonumore e calore. E di nuovo usciamo fuori per decifrare questo strano mondo grigio che dalla finestra della stanza appare ancora più enigmatico e lontano. A cena, nel salone ristorante, il solito complessino per un po' di musica senza pretese e le solite coppie che ballano coi vestiti della festa e le scarpe buone. Una coppia di turisti chiede di sedere al nostro tavolo. Lui è un ingegnere svizzero innamorato dei paesi dell'est. Ci racconta di queste terre con passione fino a che spengono le luci e ancora indugia con una pila tascabile sulla nostra carta stradale per seguire percorsi, indicarci luoghi speciali. Usciamo fuori per prendere dal bagaglio della moto i pigiami e le maglie pesanti per domani mattina. Aria transilvana fredda e pulita. Dal ristorante escono gli ultimi clienti. Un uomo con un gran sorriso pieno d'oro esce fuori dal buio e ci grida nel vento: "ehi camarad, vuoi Dacia per moto?"


03/08/1989 da Petrosani a Deva Temporali estivi

La deviazione da Petrosani a Cimpulung Lui Neag doveva essere, secondo la nostra immaginazione, una magnifica escursione fino ai piedi dei monti Retezat, attraverso boschi, piccoli villaggi e paesaggi incontaminati. Mai fare previsioni in una terra imprevedibile. Qualcuno qui ha cambiato le carte in tavola, ha tolto qualcosa, ha messo qualcos’altro, sconvolgendo per sempre l’ equilibrio delicato di un paesaggio che doveva essere così innocente sotto questo cielo senza memoria. La strada, tutta buche e crepe, si perde tra i paesi più squallidi, i palazzi più decrepiti e le fabbriche più agghiaccianti che abbiamo mai visto. Ci sono miniere di carbone nella zona, grandi lavori in corso in cantieri sgangherati, capannoni in disfacimento e un traffico asmatico di camion decrepiti che ci investono di fetide folate di fumo nero. Passiamo vicino a un enorme lavoro di scavo in cui ruggiscono le ruspe come un branco di animali feroci. Conca di fango da garimpeiros. Gironi dannati di melma rossa. Il fango portato sulla strada e l’asfalto spaccato dai mezzi pesanti ci fanno muovere molto lentamente. Un tour all’inferno fatto a rallentatore. Anche il cielo ha perso lo smalto e si affloscia umido come una coperta bagnata sopra questo scempio.


L’aria è gelida e noi siamo intirizziti, sebbene coperti da camicie pesanti, maglioni e calzamaglie. Il freddo più profondo viene da dentro, dove si è depositato un sapore di fango, ruggine, nafta e carbone. Preoccupati per il problema della benzina, così difficile da reperire, facciamo tappa a Lupeni e a Vulcan in cerca di una tanica. Non appena ci fermiamo veniamo istantaneamente accerchiati dalla gente del luogo e tutti ridono e scuotono la testa quando capiscono cosa stiamo cercando. Sotto la desolazione di palazzi alienanti, gli sguardi sono cupi e spenti. Ci viene in mente il film “Il cielo sopra Berlino”, ma questa zona è interdetta anche agli angeli. Deve esserci un cartello di divieto anche per loro, insieme al cartello “vietato fotografare”, piantato ai quattro angoli della terra, per rendere invisibile al cielo e al mondo questo luogo diseredato. Non troviamo la tanica, ma almeno impariamo che si chiama canestru e che rientra nella categoria delle cose rare e introvabili. Ci si scioglie il cuore nel ritrovare il verde pulito della campagna, gli alberi dalle chiome folte e le piccole case col tetto di tegole rosse, calato basso come una cuffia sulle finestre. Per fortuna questo mondo esiste ancora, forse verrà risparmiato, forse farà in tempo a salvarsi, prima che la macchina tritatutto del regime lo riduca a uno squallido sobborgo di condomini senz’anima. Mentre ci fermiamo per scattare alcune foto in un villaggio, una donna mi corre incontro. Ha un fazzoletto a fiori legato sotto il mento, un vestito giallo ocra e un sorriso nervoso in cui brillano denti d’acciaio. Mi bacia la mano, mi dà baci sopra al casco, mi abbraccia e mi tira verso casa sua per offrirmi del cibo, e per mostrarmi qualcosa di molto importante. Alla fine riesco a capire. In questa sua folle agitazione vuole farmi partecipe dell' enorme dramma che si è abbattuto sulla sua testa. Le sue tre capre sono state trovate sgozzate questa mattina. Mentre continua a insistere per farmele vedere, arriva l’auto della polizia. “Sorriso d’acciaio” si allontana per parlare coi poliziotti e noi approfittiamo per una fuga all’inglese. Non vorremmo essere coinvolti in qualche reato di abigeato o di razzia di bestiame, secondo qualche codice giuridico medioevale ancora in uso da queste parti. Il cielo che ci ha tenuti continuamente in scacco con minacce di pioggia, ci raggiunge con rabbia nel sito archeologico di Sarmizegetusa, ma è solo un temporale passeggero, che ci lascia in dono un prato di trifoglio luccicante sotto il sole e rovine romane ben lavate. Poco più avanti ci fermiamo a parlare con gli abitanti di un piccolo villaggio. Ci sono donne che lavano i panni nel fiume e mucche che ci guardano curiose. Chiediamo ancora della benzina e del canestru. Qualcuno ci consiglia, quando troveremo una pompa aperta, di riempire di super, borse e bauletto.


A Densus troviamo un’antichissima chiesa costruita con materiale proveniente da scavi romani, prati verdi sotto alberi di melo e una vecchissima donna che accende una candelina d’incenso presso una lapide. I temporali ci attorniano, girano come stormi di corvi neri nel cielo e poi si ammassano come eserciti in corazza d’acciaio pronti alla battaglia. Ora davanti a noi c’è un muro di nuvole, una barriera di pioggia che ci attende al varco. Ci ripariamo, insieme alla moto, sotto la tettoia di una fermata d’autobus. Mentre guardiamo la pioggia, un uomo esce fuori dal bar di fronte e ci viene incontro, incurante dell’acqua che arriva giù a secchiate. Dopo le solite domande sull’Italia, venendo a conoscenza dei nostri problemi di rifornimento, ci dice di aspettarlo un momento e di nuovo si rituffa nel temporale per tornare poco dopo con una magnifica tanica da 5 litri. Per festeggiare gli offriamo da bere, e poi, non resistendo agli sguardi desolati e desiderosi dei presenti, paghiamo un esotico e inarrivabile cognac a tutti quanti. Ora corriamo, sfacciatamente felici, in cerca di un distributore per le strade malmesse della periferia di Hunedoara, quasi volando su un pavè spacca tutto, tra grandi fabbriche che fanno rabbrividire il cielo, sotto il fumo nero delle ciminiere che fa impallidire le nuvole, mentre gli operai tornano a casa dal lavoro e i condomini spalancano i buchi neri delle finestre su cortili di desolazione. Bisognerà arrivare a Deva per trovare un po’ di super, ma la pioggia, dopo aver giocato a rimpiattino con noi per tutta la giornata, infine ci raggiunge senza possibilità di scampo tra palazzi senza portici e senza ripari.. Bagnati ma contenti, guardiamo il sole che squarcia le nuvole e, tramontando, cola come oro sulla città. Per qualche minuto le pozzanghere della strada non sono più buche piene di acqua sporca, ma specchi perfetti, in cui ogni cosa raddoppia il suo splendore.


04/08/1989 da Deva a Sibiu Il talismano

Il castello di Hunedoara ha molte storie da raccontare. Protagonista in tempi foschi di lotte di conquista e di sangue, appare ora quasi innocente e sprovveduto di fronte allo scempio di un'industria siderurgica che ha piantato le sue ciminiere e i suoi impianti proprio sotto le sue mura. L'ultimo assedio, il più fatale. Fumi rossastri e velenosi hanno depositato spessi strati di polvere e incrostazioni sopra le vecchie pietre, fino a dare a tutto l'edificio l'aspetto di una colata di fango, una zolla di terra bagnata. Il corvo nero, simbolo di Hunedoara, ha ormai le piume color ruggine e vola basso sugli spalti. In una delle sale fiocamente illuminate il conte Vlad Tepes ci guarda con occhi spiritati, prigioniero di una vecchia cornice. Non occorreva certo una leggenda di vampiri per rendere più inquietante questo feroce massacratore di turchi. La strada per Sebes è più grande e più liscia del solito, trafficata da camion sbuffanti fumo nero. Per un bel pezzo restiamo presi tra due tir turchi che, in barba al conte Vlad, scorrazzano sulle strade rumene con la delicatezza di macchine da guerra del XV secolo. Li rincontriamo molto più avanti, fermi presso una bettola malandata, insieme a tanti altri camion turchi. I due camionisti ci salutano calorosamente, facendo segno di fermarci per il pranzo, ma noi preferiamo andare avanti. I nostri stomaci non hanno ancora abbastanza pelo per certi menù!


A Sebes la grande chiesa evangelica ci racconta un medioevo altero e spirituale che emana silenzi profondi nel vuoto delle sue navate. Fuori, lo spettacolo sempre vario e movimentato della gente attira la nostra attenzione e i nostri scatti fotografici, ma un uomo alto e arrogante ci si para davanti. Polizia - borbotta - no foto, pagare ammenda. Chiediamo di vedere un documento, un tesserino e lui ci mostra di sfuggita un biglietto da visita sgualcito e unto. Misero, banale espediente per tentare di rubarci un po' di denaro. Dimentichiamo presto lo spiacevole episodio nel rassicurante lindore della cittadella di Alba Iulia. Archi barocchi e palazzi neorinascimentali danno alla città un respiro ampio e solenne, un'eleganza di tipo viennese. Le aiuole sono una festa di fiori, gli alberi dei viali sono voliere per uccellini cinguettanti, la gente sembra più rilassata. Tutto ci sorride. Troviamo addirittura il modo di controllare la pressione delle gomme della moto grazie a un automobilista gentile che ci presta un aggeggio con manometro, di quelli per gonfiare i gommoni, miracolosamente estratto da un altro di questi incredibili bagagliai di Dacia che sembrano contenere interi bazar. La deviazione per Cilnic è una strada appartata e quieta che scivola tra le colline con la sicurezza di una voce che ci dice "vieni via con me!". In soli 3 km dal bivio della trafficata nazionale, riesce a cancellare con poche curve il rumore dei camion, le brutture delle costruzioni moderne, lo squallore dei paesi snaturati dal regime e la piatta monotonia dei campi delle cooperative. Qui la terra ha curve dolci, boschetti fragranti, silenzi profondi. Il paese ha un'anima contadina ruvida e dolce, un cuore di pane di segale caldo, un odore di letame e di bucato, pollaio e lavanda. Una bambina dagli occhiali spessi ci accompagna dalla famiglia custode della fortezza paesana per richiedere le chiavi, ma sono tutti nei campi a lavorare. Una penna rossa in regalo per la sua aria di piccola studiosa diligente e poi non ci resta che girovagare con il nostro passo forestiero tra le deliziose casette colorate dalle grandi porte di legno, tutte attaccate in un doppio filare ai lati della strada. Anche Girbova è un villaggio che non si dimentica. Robuste mura fortificate difendono la chiesa e il suo bianco campanile, faro di fede nella campagna. Un uomo che parla italiano ci accompagna dentro le mura, ci mostra un deposito comune di prosciutti e pancette. Ogni famiglia del paese ha il suo sigillo e può prelevare un pezzo due volte la settimana. Per ripidi scalini di legno saliamo in cima al campanile fino alle campane e al grande orologio, disturbando la pace dei colombi e delle rondini. Sotto le scure travature di legno della guglia si scopre il mosaico dei tetti e il ventaglio verde dei campi.


Il ticchettio dei vecchi ingranaggi dell'orologio e lo scatto cadenzato delle grandi lancette ci danno la sensazione di un tempo dilatato, senza più l'ansia e la fretta delle città. Questa bianca torre è un vecchio mulino di legno scricchiolante che invece del grano macina il tempo. Una colorata scorta di monelli accompagna i nostri passi per le vie sterrate del paese. Voci rumene si mescolano a voci tedesche, ricordandoci che Girbova è un antico villaggio sassone, dove è normale vedere biondi bambini prussiani giocare con scuri bimbi tzigani. Se poco prima, a Cilnic, un ottuso poliziotto (vero questa volta) ci aveva costretto a bruciare alla luce due interi rullini, in nome di un fantomatico divieto di fotografare gli zingari, ora ci sentiamo riconciliati e in pace con questo piccolo cosmo rurale che ci guarda innocente con occhi azzurri e neri. Ma è ora di ripartire per seguire il nostro itinerario. Il viaggio è sempre ago di bussola che ci indica costantemente il cammino e ago di bilancia che pesa quanto siamo riusciti a imparare. La strada in terra battuta corre tra due file di alti pioppi verso la fine di un pomeriggio azzurro pallido. Un uomo seduto in mezzo a un'enorme mucchio di sacchi di cipolle, vestito di panni scuri e spessi, ci mostra il suo giaciglio ricavato in una nicchia tra balle di paglia. Passerà la notte qui, fino a domani mattina, quando arriverà il camion per caricare il suo tesoro. La sera celestina che già inizia a inumidire il cielo trasparente, misura la solitudine sul ciglio di questa strada transilvana e accresce il piacere di un incontro, di un saluto e anche di un dono. Una grossa treccia di cipolle dorate ora sballonzola allegramente, attaccata al bauletto della moto, mentre corriamo lungo la nazionale che ci riporterà a Sibiu. Se l'aglio ci avrebbe difeso dai vampiri, queste cipolle saranno il nostro talismano contro il vero dracula che cerca di distruggere la bellezza di questa terra eccezionale! Nell'albergo facciamo conoscenza con due abbattutissimi motociclisti di Bergamo. L'impatto con la Romania li ha messi KO e stanno tornando indietro di gran fretta. Vorremmo convincerli che sarebbe un grande errore e che dovrebbero invece passare per una certa strada tra due filari di alberi, dove c'è un uomo tra le cipolle che regala antidoti e talismani. Forse cambierebbero idea. Ma ognuno ha la sua strada e dall'undicesimo piano dell'hotel Continental di Sibiiu ora si vede solo il buio della notte.


05/08/1989 Da Sibiu a Sighisoara Una giornata di straordinaria normalità

Si può passeggiare a lungo per le strade di Sibiu senza sentirsi stanchi e senza avvertire quel senso di estraneità che si può provare a Timisoara o a Petrosani. Saranno le origini sassoni che hanno modellato il volto di questa città, saranno i colori delle case, o forse sarà il cielo, che oggi è tornato così luminoso e dorato. Nel variopinto caleidoscopio delle piccole case, la torre dell’orologio e la chiesa gotica sono due gioielli di pietra grezza. Musica possente si riversa come acqua cristallina dalle canne d’argento di un organo antico. Le navate non riescono a contenerla e la lasciano traboccare fuori, sui cortili malandati di Sibiu, sui banchetti della lotteria, sul sorriso dei bambini pallidi, sul volo gracchiante dei corvi. C’è un invisibile confine, oltre il quale termina la città vecchia e ci si ritrova in un luogo anonimo e identico a tante altre città, dove il peso del vuoto degli immensi spazi tra i condomini è più pesante di mille tonnellate di cemento. Autobus stracarichi e pendenti su un fianco vengono presi d’assalto alle fermate. A volte se ne incontrano di fermi in mezzo alla strada, abbandonati per un guasto improvviso, oppure con il conducente infilato sotto ad armeggiare, mentre una povera schiera di persone stanche attende fuori, rassegnata. Ma una campagna fresca e seducente ci aspetta subito fuori città.


Sura Mare snocciola le sue casette come perline di un rosario lungo la strada. Anziane donne in costume tradizionale e uomini con pesanti grembiuli da lavoro, bambini biondi che ci salutano con la mano e gatti senza tetto e senza legge che saltano via spaventati al nostro passaggio. Da un calesse di venditori di scope si alzano grida acute di richiamo che non sembrano risvegliare le finestre delle case con le imposte serrate. Solo due zingare presso un pozzo corrono a guardare, ma poi si accorgono di noi e, ritenendoci molto più interessanti delle scope, si avvicinano per chiederci sigarette, gomme, penne e cioccolata, neanche fossimo una jeep di americani liberatori. La strada corre, come sempre sottolineata da una doppia fila di alberi alti e fruscianti che la benedicono con la loro ombra e la rendono sacra. Qualche corriera polverosa, tanti calessi cigolanti, tanti contadini a piedi che ci sorridono e ci salutano. Sembra il ritorno da una festa di campagna antica e remota, che fa immaginare canti, balli, pane e vino e amori dietro i covoni di fieno. Ma sappiamo già che non è così. La realtà è sudore e fatica e basterà lo sguardo assente degli avventori delle birrerie, o una coda per il pane, o le scarpe rotte di un contadino per svegliarci da questo sogno. Anche questo pulviscolo dorato che aleggia nell’aria, in fondo è solo la polvere che si mischia con la luce. Rasinari però non è un posto dove i sogni sfumano così facilmente. Le sue case hanno colori di fantasia. Sotto tetti alti e ripidi risplendono di verde, di giallo, di azzurro. Si accostano le une alle altre con combinazioni cromatiche che sembrano concordate a tavolino. Nell’antica chiesa ortodossa il pope cantilena il suo salmo e i fedeli si inginocchiano toccando terra con la fronte. La nenia ondeggia nell’aria insieme alle fiammelle vacillanti delle candeline d’incenso e alla “ola” silenziosa dei fazzoletti colorati delle donne che si alzano e si piegano al ritmo di un’unica preghiera. Di nuovo si torna a Sibiu. E’ una delizia sorpassare clacsonando i carri trainati dai cavalli. Ci accompagna il rumore secco degli zoccoli sull’asfalto, la visione fuggente di nappe, fiocchetti rossi e criniere sfilacciate e il suono di sonaglini e voci di saluto che si perdono nella distanza. La strada per Agnita corre tra i pioppi, crivellata di buche e pozzanghere, così come conviene a una strada fuori mano, sulla quale mucche, muli, asini e oche rivendicano un assoluto diritto di precedenza. Insieme al volo dei corvi, il silenzio si posa sull’oro pallido dei campi d’avena, sull’oro vecchio dei campi di stoppie. Calessi carichi di paglia e di contadini, con puledrini e cani al seguito, incedono lenti verso lo sciame variopinto delle case, verso i villaggi addormentati cresciuti all’ombra di rudi e poderose fortezze paesane dalle mura spesse. Un lento treno attraversa la campagna col suo carico di gente dietro i finestrini aperti che ci guarda passare e ci saluta con la mano.


Come ormai abbiamo imparato, nell’ora del tramonto inizia lo spettacolo quotidiano del ritorno. Si ricoverano gli animali nelle stalle, si radunano le oche, ci si ferma a chiacchierare davanti ai cancelli, si ripongono le falci, i forconi, i rastrelli, i cappelli di paglia, si abbeverano i cavalli. E di nuovo una campagna ancestrale e magica torna a galla nel nostro cuore, come se avessimo scoperto una chiave segreta per aprire una scatola di latta arrugginita sepolta sotto una vecchia quercia, di cui avevamo perso il ricordo. In quel povero scrigno ritroviamo il profumo del fieno e della pioggia, il silenzio dei campi sotto il sole, i colori perduti dei fiori di campo e il canto delle lavandaie giù al fiume. La strada, sempre più dissestata, ora sale sui colli dove non resta che lo spazio per qualche minuscolo campo di granturco al confine dei boschi scuri e fitti. Il sole corre insieme a noi sul crinale delle colline, lungo il tagliente profilo a denti di sega del bosco che lo taglia a metà prima di inghiottirlo. L’aria si fa fresca e azzurrina, porta profumo di pini e di fossi umidi. Dietro una curva compare all’improvviso il Medioevo dei tetti di Sighisoara. Ben sistemati all’hotel Steana, dopo una cena ancor più spartana del solito, a causa di un banchetto di nozze che pare abbia prosciugato tutte le riserve alimentari (e soprattutto alcoliche) del ristorante, usciamo per una passeggiata su per la cittadella. Non un lampione si accende nell’oscurità che avanza, nessun passo risuona sul vecchio selciato. Solo l’orologio della torre continua a battere le ore di un tempo immemorabile, mentre nella casa del conte Vlad la taverna si accinge alla chiusura. Camerieri silenziosi tolgono le ultime briciole dalle tovaglie e mettono garofani appassiti nei bicchieri di vetro.


06/08/1989

Da Sighisoara a Brasov

Ciorba e salsicce speziate

A mezzanotte le statue del carillon della torre hanno compiuto il loro spettrale girotondo nel buio più fitto. Uno spettacolo d’autore senza uno spettatore, uno sguardo ammirato, un click fotografico. Solo allora il conte Vlad è uscito fuori gemendo insieme al vento, per fare, come ogni notte, il giro delle sette torri della sua sospirosa Sighisoara. Al nostro risveglio tutto era normale. La città si era già rivestita dell’ abito diurno, dopo aver nascosto in fretta i suoi misteri gotici e ci mostrava, sorniona, un’aria innocente e sonnolenta nel pigro mattino domenicale. Ma l’inganno continua a trapelare dai silenzi che riempiono le piazzette deserte, dai gatti che scompaiono dentro androni polverosi, dallo sguardo consapevole e serio dei bambini che ci spiano dai portoni socchiusi. Le case hanno colori visti solo nei sogni: i rosa più luminosi, i gialli più solari, gli azzurri più elettrici. Colori fragili che si scrostano e si sbriciolano ad ogni gracchiare di corvo, ad ogni rintocco d’orologio e che solo una ragnatela impalpabile fatta di polvere e di secoli riesce miracolosamente a tenere insieme. Nella chiesa si sta celebrando la messa secondo il rito protestante. Musica d’organo e canti severi in lingua tedesca. Sembra di essere capitati in un altro mondo, ma deve essere un altro dei misteri transilvani di questa città.


Una scalinata coperta in legno di 177 gradini ci porta sulla collina, dove una slanciata chiesa gotica sovrasta come un diadema di pietra la cittadella. Arriviamo in cima con le gambe di piombo e il fiato corto. Il sole scalda le vecchie pietre ed estrae profumi buoni dall’erba folta cresciuta tutt’attorno, nel silenzio e nell’abbandono. Lasciamo Sighisoara quasi in punta di piedi, per non disturbare col rumore del nostro motore la sua atmosfera di passato e nostalgia. La vedo scomparire dagli specchietti retrovisori, già intenta a tessere nuove trame medioevali per la prossima notte. A Saschiz il corteo di un matrimonio sta uscendo dalla grande chiesa fortificata, preceduto da una piccola banda. Dietro agli sposi, uomini in antichi abiti blu costellati di bottoni d’oro e un alto cappello in testa, sembrano usciti da una fiaba dei fratelli Grimm, o dal municipio di Brema, ai tempi della Lega Anseatica. Fanno seguito le donne anziane in costume bianco e nero, severo e monacale e infine le più giovani nel ricco abito tradizionale a colori vivaci e un cappello nero ornato da una spilla. Vedendoci fermi sul bordo della strada, la banda si scompone, la musica si sfalda, le note del trombone dileguano e il tamburo perde colpi. I suonatori ci guardano come se noi fossimo extraterrestri e noi li guardiamo come se loro fossero usciti da un film storico o da un museo di etnografia. Qualcuno di noi deve aver sbagliato tempo. Lungo la strada per Brasov si incontrano paesi tranquilli e puliti, spesso pervasi da un evidente carattere alemanno, con un cuore di granito duro protetto da muraglie e torrioni. Per sterrati e mulattiere arriviamo alla fortezza di Roades, perduta fra silenzi agresti e profumo di fieno fresco, poi, bianca e assorta nello stormire dei platani, la chiesa gotica di Bunesti, tutta chiusa in un giro di portici di legno e di mura spesse. L’erba del prato è così folta e splendente e il silenzio così profondo da sembrare abbandonata, invece, aprendo una porticina, scopriamo alcune vecchiette sedute sui banchi di legno ad ascoltare la predica di un giovane prete di campagna. Inni tedeschi si levano all’improvviso sulle note gorgoglianti dell’organo. Altri paesi come Rupea, Homorod, Cata disegnano nel cielo pallido il profilo battagliero delle loro fortezze, dei torrioni dal tetto di legno e delle chiese fortificate. La Transilvania ci si presenta così, come una misteriosa regina paesana, dalla pesante corona di ferro messa di sghimbescio. Una vecchia regina guerriera, nata all’ombra delle foreste dei Carpazi, avvezza a battaglie, incendi e saccheggi, con la spada in una mano e un pane scuro nell’altra. Di paese in paese l’ora di pranzo è passata da un pezzo e non ci sono possibilità di incontrare ristoranti decenti al di fuori delle grandi città. E’ così che ci fermiamo in una piccola bettola di montagna, scura e affollata. Un posto da boscaioli e da briganti dove, senza parlare, ci servono ciorba, salsicce speziate e vino rosso.


Il giovane autista di un vecchio camioncino carico di legna ci si avvicina curioso. Gli offriamo il nostro vino e, un po’ a gesti, un po’ a parole, ci racconta di quanto è dura e difficile la vita tra questi boschi. Inverni freddi e nevosi che non finiscono mai. Gelo e fatica. Però almeno qui è bello, dice, non come in città e poi trovi sempre un po’ di granturco per farti una mamaliga, o un vicino che ti dà una mano. Ha studiato, ma è costretto ad arrangiarsi con piccoli lavori per sostenere la famiglia, e sogna, un giorno, di fuggire via da questa terra dove tutto manca. Niente è facile da queste parti e nulla è regalato. Noi, figli dell’abbondanza, noi del regno della pappa pronta, ci sentiamo fuori posto come una nota stonata e ce ne andiamo, lasciandolo alle prese con le nostre salsicce speziate. Ci saluta agitando la forchetta e gridando “Noroc! Noroc!” buona fortuna, come se lui ne avesse da vendere. A Brasov troviamo alloggio in un albergo e partiamo via subito per una puntata, andata e ritorno a Sinaia. Mentre affrontiamo una salita, un improvviso rumore ci fa fermare: il bauletto ha perso un aggancio, un perno si è spezzato, tranciato dalle vibrazioni causate da asfalti assassini e sterrati per muli. Rimediamo con un’imbracatura volante di corde elastiche e poi continuiamo a salire sempre più in alto, tra distese di foreste profonde, verso montagne impervie e rocciose che sbarrano l’orizzonte, fino al monastero di Sinaia, oasi di pace soprannaturale, abitata da monaci dalle lunghe barbe grigie. Discendendo verso Brasov incontriamo alcune famiglie in gita domenicale con i plaid sull’erba, i bambini che giocano a palla, le auto con i cofani aperti per raffreddare i motori dopo la salita. Fanno cenno con la mano di fermarci per offrirci il loro semplice pic nic, un biscotto o una bottiglietta di aranciata, come sempre ospitali e sorridenti verso lo straniero che passa e che di sicuro avrà fame, avrà sete, avrà bisogno di una parola o di una stretta di mano che lo faccia sentire meno solo nel suo viaggio. Piccole lezioni da riportare a casa, da riporre nel bagaglio con la massima cura, tra due maglioni, affinché non si stropiccino. Si è fatto tardi, l’albergo di Brasov ci aspetta per un meritato riposo e per una cena che ci ripaghi del digiuno nella taverna dei boscaioli. Ma un cameriere sgarbato ci fa attendere fino allo sfinimento. Infine ci annuncia con indifferenza che oggi c’è stato un pranzo di nozze e per la cena hanno solo ciorba e salsicce speziate.


07/08/1989 da Brasov a Bran Scontri e incontri

Non appena ci si svincola dai grandi viali esterni e si oltrepassa la compatta muraglia degli alberghi e dei palazzi nuovi, ecco che Brasov svela il suo fascino e mostra il suo antico cuore medioevale. Daci, Romani, Slavi, Bulgari, Ungheresi, Sassoni, Tatari e Turchi si scontrarono e si incontrarono in questo crocevia della storia. Opposero le armi o prosperarono insieme, mischiando il loro sangue, o in battaglie o in discendenze che popolarono e arricchirono questo angolo di Transilvania aggrappato alle pendici dei Carpazi. E Brasov oggi è questo miscuglio di oriente e occidente, un crogiolo delle tante anime di cui è fatta l’Europa, un albero con tante radici. La chiesa ortodossa di Sfintu Nicolae è umida e fredda come una grotta scura, luccicante dell’oro delle icone che ci guardano con occhi bizantini misteriosi e remoti. Sfrigolano le esili candeline d’incenso piantate nella sabbia e il silenzio sembra ancora più profondo. La grande piazza antica attira come una calamita i nostri passi e la Biserica Neagra col suo slancio gotico proiettato verso il cielo ci rapisce al suo interno con le sue geometrie verticali. Le nervature a stella delle volte sbocciano come fiori in alto e ricadono giù come fuochi d’artificio. La severità delle pareti è spezzata dai colori caldi e vellutati dei tappeti orientali e dalle lame nette di luce che piovono dalle altissime finestre.


Nell’ampia via Repubblica si può camminare tranquillamente tra le persone indaffarate, curiosare nei negozi, più curati e forniti del solito e stupirsi davanti alle bibite dai colori improbabili sui tavolini di piccoli bar all’aperto. Qui la vita della gente sembra meno dura che altrove. Come sempre, nei luoghi dove le radici del passato sono ancora vive, ad esempio nei centri storici come questo, o nei villaggi di campagna che hanno mantenuto le loro tradizioni, il veleno della dittatura non è riuscito a intossicare l’essenza e la bellezza di questa terra. Ma dove lo stato ha spianato con le ruspe le vecchie case e ha appiattito ogni diversità in un’unica formula di esistenza, si è tranciato il legame con il passato, si è persa l’identità e la speranza. Quasi a conferma delle nostre teorie, un nuovo scontro con la Romania dura, ostile e respingente ci attende in albergo all’ora di pranzo. Un’attesa lunghissima e ingiustificata, camerieri indispettiti e sgarbati, discussioni e infine una caraffa d’acqua con dentro una mosca galleggiante che, dopo le nostre proteste, viene semplicemente spostata dal nostro tavolo a un altro. Anche noi allora cambiamo tavolo, e cambiamo hotel, tra altri camerieri maleducati, in un’altra sala enorme e con le luci basse, tra pacchianerie orientali e miseri tentativi di modernità occidentali. Bibite giallo paglierino e verde fosforescente luccicano nelle vetrinette chiuse a chiave; lettere di carta colorata appiccicate alla parete annunciano che il complessino “Muzical fantezie” allieterà la serata. Nu avem cafea!

non abbiamo caffè, risponde impassibile il cameriere alla nostra richiesta,

rifilandoci un conto salato e invitandoci a sloggiare. Un ragazzo e una ragazza rumeni che hanno assistito alla scena, ci invitano al loro tavolo, ordinano per tutti gelato e caffè allo stesso cameriere, che, imperturbabile, non fa alcuna obiezione. E’ la Romania dei grandi alberghi, bellezza!. Il turismo in versione rumena nazional-socialista! Ma l’altra faccia della medaglia sono questi giovani gentili, aperti, fiduciosi che le cose un giorno cambieranno in meglio. Alina e Bogdan sono sposati da poco e, per loro fortuna, non hanno problemi economici. Lui ha un buon lavoro di tecnico in un’azienda meccanica, faceva gare di motocross ed è appassionato di moto e di motori. Ci parlano, guardinghi e a voce bassissima, di come sia difficile avere notizie dall’esterno, ci chiedono se da noi, in Italia, c’è libertà di leggere qualsiasi libro, o ascoltare qualsiasi musica. A noi, che ormai cominciamo a guardare con occhi rumeni la nostra patria, sembra di parlare di un luogo favoloso e irraggiungibile, bello e irreale come un miraggio. Bogdan ci dà il suo numero di telefono. Potrebbe servire nel caso avessimo problemi meccanici, dice, guardando estasiato il motore Ducati della nostra moto. Scambio di doni: una tanica nuova fiammante, come sempre estratta dal mitico bagagliaio Dacia, e, da parte nostra, una bomboletta di lubrificante per catena di marca tedesca. Saluti calorosi, mentre l’incredibile moltitudine di persone che si è radunata intorno alla moto inizia lentamente a disperdersi.


Si è fatto tardi. Lungo la strada, sul bordo di campi mietuti, ci fermiamo per risistemare le nostre cose e travasare la benzina di scorta nella nuova tanica. Almeno qui siamo in pace e nessuno viene a curiosare, fatta eccezione per quattro mucche che ci trovano irresistibili. Di nuovo in sella, nella campagna mitica, dove volano ancora le cicogne e la terra profuma, dove il lavoro dell’uomo è sacro e benedetto dal cielo. L’oro dei campi di stoppie sembra risplendere di luce propria sotto nuvole viola. Il sentore di piogge vicine fa fremere le froge dei cavalli, fa affrettare verso casa la donna col bimbo e la mucca, fa rabbrividire le foglie del granturco e azzurrare le alture lontane. A Cristian un’antica chiesa gialla dentro un anello di spesse mura. All’interno delle fortificazioni c’è un’atmosfera intima e serena, vi crescono fiori d’ogni tipo e meli folti dai rami ricurvi fino a terra. Arriviamo a Bran sotto le prime gocce di pioggia. Nella bellezza cupa dei boschi e delle montagne, il castello si erge alto e severo su uno sperone di roccia, irto di torri e guglie, come in una perfetta fiaba gotica. Non è il caso di affrontare adesso il passo, tanto più che c’è un piccolo motel proprio lungo la strada che sembra molto più accogliente degli hotel di lusso di Brasov. Come sempre alle dieci di sera le luci si spengono, ma noi, tenaci cospiratori, nel cerchio di luce della lanterna, continuiamo a studiare la carta stradale della Romania, come se fosse una mappa del tesoro, una traccia segreta per poter andare ancora lontano e in fondo al cuore di questa terra. Fuori la notte è assoluta.


08/08/1989 da Bran a Rimnicu Vilcea Una rosa per ricordare

Dallo spiraglio della tenda rimasta scostata vedo il cielo azzurro e la chioma del platano che si dondola nell’aria mattutina. Una piccola, stupida vendetta è stata messa in atto nella notte. Il ragazzo in maglietta verde che ieri sera a cena ci aveva chiesto delle sigarette, evidentemente non ha creduto che si possa essere non fumatori, provenendo dal paese della cuccagna, e così, per dispetto, ne ha lasciate alcune appoggiate sul manubrio della moto e ha otturato la marmitta col pacchetto vuoto. Per fortuna non è andato oltre e Diablo6 si avvia docilmente, come un bravo cavallo fidato, che sa cosa deve fare. Il castello di Bran è fatto di roccia di montagna, nebbia d’autunno, radici di quercia e ombra di foresta. Ha un cuore d’acciaio, temprato dal fuoco degli incendi di mille battaglie e dalla pioggia delle tempeste di primavera. Si erge impenetrabile al di sopra degli alberi e sembra nato dalla pietra stessa su cui poggia. Nel prato sottostante sono state sistemate alcune case di legno di un antico villaggio. Dalle minuscole finestre si può sbirciare attraverso gli anni e il ricordo, e immaginare momenti di vita quotidiana. Arredi spartani ed essenziali, povere piccole cose di uso comune, così preziose a quei


tempi, da assumere un’aura di sacralità. La culla di legno è divina come la mangiatoia di Betlemme. Il tavolo della cucina, un altare benedetto. Si ha l'impressione che, un momento all'altro, qualcuno tornerà dai campi e lascerà le scarpe infangate davanti alla soglia, un cavallo nitrirà nella stalla, e un pentolone sarà appeso sul fuoco del camino. Ma è solo un sogno. I piatti e i boccali sono pieni solo di polvere. La strada del passo di Bran è sinuosa e dolce. Sale sulla montagna con la grazia di una spirale di fumo. Accende un guizzo frizzante nel sangue nel momento in cui scopre, dopo una curva o un tornante, la distesa brillante dei campi falciati da poco; il rincorrersi eterno dei declivi; la presenza lieve di una piccola casa, o lo spalancarsi immenso dell’orizzonte. E’ tempo di fienagione. Uomini e cavalli lavorano nei prati, sudando e soffrendo sulle forti pendenze, fermandosi ogni tanto a riposare all’ombra dei grandi alberi sussurranti. Piccole nuvole bianche, attirate dall’odore del fieno, pascolano ai bordi del cielo. Malinconici asinelli meditano assorti sotto il sole, con i dolci occhi orientali perduti nel sogno di piccoli mondi ignoti profumati di stalla e di erba. Discendendo incontriamo casette acquattate sotto ripidi tetti, dipinte con i colori più bizzarri e decorate con motivi ornamentali in legno. Da quelle verande coperte si può immaginare come sarebbe bello ascoltare la pioggia durante i temporali estivi, o restare la sera a chiacchierare, mentre la musica elettrica dei grilli invade l’aria azzurra…già! …se solo il lavoro non fosse così pesante per questa gente e la vita così dura. A Curtea de Arges il grande monastero dalle cupole scintillanti e le torrette ritorte ci accoglie come pellegrini accaldati e stanchi nelle sue penombre bizantine, quasi moresche, e nel bagliore d’oro scuro profumato di incenso. Un’enorme ragnatela verde, azzurro e oro avviluppa chi varca la soglia e ne rapisce lo sguardo. Il secondo gioiello di Curtea de Arges è la chiesa bizantina di Curtea Domneasca che, dietro un aspetto esterno di estrema semplicità, ci stupisce con la preziosità dei suoi affreschi e con la sorpresa di un incontro molto speciale . Elena è guida e custode del tempio, parla molto bene l’italiano ed è laureata in filosofia e filologia della lingua rumena. Dice di aver sposato questa chiesa e di averle dedicato tutta la sua vita. Capiamo perfettamente come, nel deprimente panorama che si può immaginare nella città di Curtea de Arges, questo luogo in cui si respira sacralità, arte e bellezza, possa rappresentare per lei il giardino segreto, l’antidoto, la via di fuga dall’oppressione e dall’aridità. Più che custode, lei è angelo custode e di certo conosce, in quel modo speciale in cui si conoscono le sembianze di una persona amata, tutti i volti dei santi, degli angeli, dei martiri e dei profeti, che a loro volta, dalle pareti antichissime, le rimandano occhiate lunari, rapite e per noi indecifrabili.


Quante volte avrà preso in prestito da loro quegli sguardi da icona di Bisanzio, così traboccanti di febbre e di silenzio, per opporre un muro di resistenza ai continui controlli della Securitate. Quante volte avrà preso in prestito le ali d’oro dei cherubini e degli arcangeli per volare via lontano da questa vita senza libertà, dove non è possibile parlare, lavorare, amare, leggere o scrivere secondo le proprie convinzioni. Ci racconta di colleghi invidiosi e delatori. Ci racconta di come sia opprimente vivere sentendosi continuamente spiati dalla polizia, nella paura di poter essere arrestata come dissidente. Ci racconta di quanto sia triste ogni volta tornare a casa, scendere dall’autobus, nella sera senza luci di Curtea e vedere l’ansia della madre dipingersi enorme nel quadro della finestra, a partire da quel piccolo gesto di saluto della mano, che dice “grazie a Dio anche questa sera sei tornata a casa”. Approfittando dell’assenza di altri visitatori e dopo ripetuti controlli, Elena ci mostra la zona dietro l’altare ancora vietata al pubblico e ci indica con amore infinito le parti originali degli affreschi. Ben presto la nostra conversazione si allarga ai temi che più le interessano. Parliamo di libri, di arte, di cinema, dell’Italia e dei nostri viaggi per l’Europa, ma all’improvviso si accorge della presenza di un poliziotto in borghese che ci sta tenendo d’occhio dal giardino. Il passaggio dall’emozione al terrore è istantaneo. Ci fa spostare di qua e di là, si fa il segno della croce mille volte, chiamando in aiuto il fratello, morto per colpa di un poliziotto che lo investì con l’auto e fuggì via, lasciandolo morire vicino alla stazione, una fredda sera di febbraio. Così, nella ieratica benedizione della chiesa, noi che passiamo stranieri e felici e lei che è qui come un punto fermo, incrociamo per un po’ le nostre esistenze, e per un attimo, senza muoverci, ci ritroviamo compagni di strada e, come compagni di strada, parliamo con parole vere. Parole che restano. Quindi scambio di indirizzi e lista di libri da spedire per fornirle nuove ali, oltre quelle consumate degli angeli. Un rumore di calcinacci ci rivela la presenza abusiva di un uomo salito di nascosto sulle impalcature per il restauro. Elena lo redarguisce duramente e lui si allontana indifferente, senza dire una parola. Di nuovo paura e angoscia e il presentimento di chissà quali conseguenze da questo strano episodio. Sospetta che abbia addirittura piazzato dei microfoni, o arrecato qualche danno per dimostrare l’inefficienza della custode. Un gruppo di ragazzini in gita scolastica arriva per la visita. Siamo costretti a lasciarci e lei commossa ci regala una rosa. Fuori la sera è limpida e dorata, così bella da restare incantati. L’aria è leggera e chiara come se la vita fosse una festa di luce appena cominciata e la tristezza soltanto un brutto sogno.


A Rimnicu Vilcea noiosi problemi pratici ci distolgono dalle nostre fantasticherie, sembra infatti che sia impossibile, per noi viaggiatori solitari e indipendenti, riuscire a ottenere una camera d’hotel in città. Tutto pieno - dicono, mentendo spudoratamente – dovete andare a Pitiesti, Sibiu o Bucarest. Ma noi, ormai attori consumati di questo teatrino che va in scena ogni sera nella hall di un albergo, recitiamo a dovere la nostra parte e non molliamo, teniamo duro, non ci spostiamo di un millimetro dal banco della reception. Così, dopo mezz’ora di messa in scena, ci risparmiano il secondo atto, ci consegnano l’agognata chiave e, come già tante altre volte è capitato, per sicurezza, ci fanno parcheggiare la moto addirittura dentro l’ingresso dell’atrio. Si è fatto tremendamente tardi. Fuori passa l’ultimo tram. La rosa di Elena appassisce davanti allo specchio. Nel ricordo resterà un bocciolo.


09/08/1989 da Rimnicu Vilcea a Rimnicu Vilcea - Giro dei monasteri dell’Oltenia Stato di polizia, stato di grazia

Oggi si va per monasteri, così come si potrebbe andare per funghi, visto che proprio come funghi sono nati tra le valli e i boschi dell’Oltenia. La strada per Calimanesti Caciulata ha un traffico pesante, ma si capisce che non è nata per essere percorsa da camionisti stanchi diretti chissà dove. E’, nonostante tutto, ancora una strada dal cuore naif, un filo di lana grezza che annoda insieme piccoli paesi, una via di passaggio per carri e bestiame, un mercato longitudinale, dove vecchie e bambini espongono, su traballanti banchetti di legno, povere, contorte melette verdi, sistemate con cura, come gioielli. Senza i bagagli lasciati in albergo, ci sentiamo leggeri e guizzanti come l’aria del mattino. I ragazzini testimoniano il nostro passaggio con fischi e grida, i camionisti ci salutano con vigorose suonate di clacson, i cani tentano inseguimenti disperati e furibondi e i boschi, perfetti e compatti, sembrano tentarci a continue deviazioni con piste sterrate che si perdono nell’ombra verde. Ma tutto questo variegato mondo che si srotola lungo un nastro dì asfalto scompare dalla nostra mente nell’attimo stesso in cui entriamo nel Monastero di Cozia. All’entrata scene di dannazione e beatitudine, inferni e paradisi, demoni e angeli, tra i quali gli esseri umani appaiono piccoli e inermi, come figurine di Bosch in balia di opposte forze soprannaturali. Immagini ad alta tensione, una specie di pila che genera energia spirituale da un polo positivo e uno negativo.


Dentro la chiesa, sulle parti basse delle pareti, le figure degli angeli e dei santi intenti a schiacciare draghi, mostri e satanassi, sono esageratamente grandi; in alto invece le misure sono volutamente rimpicciolite, le immagini più minute, in modo da creare una falsa prospettiva che fa sembrare tutto più alto, più lontano e vertiginoso. Spazio irreale e ipnotico, spazio curvo e dilatato che non conosce geometrie euclidee. Spazio divino. Oro che luccica nella penombra, sagome di esseri ultraterreni che si stagliano scure e misteriose contro aureole dorate e sfondi di luce. Gli angeli sono guerrieri possenti, massicci combattenti in corazze di metallo che mai riusciranno a prendere il volo con quelle fragili ali piumate. Nella località termale di Baile Olanesti il turismo locale è in pieno boom. Famiglie rumene ovunque, accampate in una specie di campo profughi, con tende improvvisate, attaccate le une alle altre su un gran piazzale di cemento. Teli adibiti a ripari, auto che fungono da case provvisorie, dove si mangia, si dorme, si ascolta la radio. Nella piccola piscina si vedono più teste che acqua e, in un recinto riempito di sabbia, una specie di serraglio umano di gente stesa al sole. La piccola deliziosa chiesa Horia, scura di secoli e di tronchi anneriti, se ne sta in disparte, poco lontano da questa confusione, e guarda oltre, verso i boschi dal cui legno venne costruita. Tre linde nonnine con la bellezza del tempo nello sguardo e il candore di un grembiule a fiorellini, sono sulla soglia come angeli custodi, protettrici del Santo Graal. Ma né la pace di questo luogo sacro, né le tre vestali possono proteggerci dall’arrivo improvviso di due poliziotti dall’aria minacciosa. Indicano la moto, che, per assoluta mancanza di spazio, abbiamo malamente parcheggiato sulle strisce pedonali. Pensiamo alla solita multa, ma questa volta non è così semplice. Documenti. Cosa fate qui? Perché state fotografando? Siete giornalisti? Domande rumene che si capiscono benissimo. Risposte italiane che non vengono affatto capite. Questo luogo pieno di gente, pieno di boschi, pieno d’estate, inizia ad assumere l’irrazionalità di un brutto sogno e i colori di un incubo, mentre veniamo accompagnati alla vicina stazione di polizia. Aria che sa di chiuso e di fumo di sigaretta. Pareti dello stesso colore delle dita macchiate di nicotina del commissario. Una mosca fastidiosa che ronza, una striscia gialla di carta moschicida piena di mosche morte, un ventilatore che sibila., un vecchio telefono nero che squilla. I nostri passaporti in ostaggio sulla scrivania. Il rumore dei tasti di una vecchia macchina da scrivere. E una finestra senza tende, coi vetri sporchi, da cui si vedono le colline. Lontane. Una foto incorniciata di Ceausescu ci guarda da sopra la testa del commissario. E’ Vlad Tepes mascherato, lo riconosco, è lui. Intanto viene chiamato un altro agente in divisa che mastica un po’ di italiano e di nuovo rispondiamo alle stesse domande, con risposte che non sembrano convincerli affatto.


Trovano molto strano che non facciamo parte di un viaggio organizzato e non capiscono perché stavamo scattando foto in una località al di fuori dei soliti itinerari turistici. Sospettano che siamo inviati di qualche giornale e che stavamo documentando aspetti sociali che la censura di stato preferisce mantenere nascosti. O forse peggio, pensano che siamo spie. Il commissario beve birra da una bottiglietta. Non ha l’aria di avere fretta. Forse abbiamo spezzato la noia di un ufficio dove non accade mai niente e vuole prolungare il diversivo. Mostriamo la guida del Touring, c’è la descrizione di Baile Olanesti e della chiesa Horia. Non è così strano, dunque, se siamo venuti a visitare questo puntino sulla carta geografica d’Europa. Il tempo passa, scandito da un orologio che segna ogni minuto con uno scatto secco. Su un calendario una squadra di poliziotti posa insieme a una scolaresca di bambini dall’aria intimorita. La mosca fastidiosa preferisce morire sul fondo della bottiglia di birra invece che sulla carta moschicida. Il commissario guarda la mosca con rispetto, si accende una sigaretta, fa una telefonata e finalmente ci restituisce i passaporti. Siamo liberi! Via, via da questo posto, via da questa gente ammassata, dalle terme sulfuree, dalle stazioni di polizia coi telefoni neri e le carte moschicide. Ritroviamo il respiro profondo dei boschi, la purezza dei prati e il silenzio mistico delle valli segrete dove fioriscono i monasteri. Li cerchiamo con pazienza, uno per uno: Govora, Dintr un lemn, Horezu, Bistrita e li infiliamo come perle di una collana; ognuno con una bellezza speciale, una luce diversa; ognuno custode e testimone della cultura, della religione e dell’arte dell’antica Valacchia. Radici di un’Europa segreta, che vengono da oriente. Fortezze di fede che conservarono i semi della civiltà in mezzo alle tempeste e alle battaglie della storia. Una stretta, tortuosa strada sterrata è la via d’uscita da questo microcosmo magico. Il fiume ha scavato un letto incassato nella roccia e le ombre della sera già si addensano azzurre su questa gola remota dove non vivono più neanche gli eremiti. Solitudine assoluta. Noi da soli sulla strada, ma nel cielo schiere di angeli in libera uscita dai monasteri.


10/08/1989 da Rimnicu Vilcea a Calarasi Strade alberate

Una foschia leggera e luminosa aleggia sui campi e sul fiume Olt dalle sponde alberate. Il sole è pallido dietro i veli del mattino Corriamo veloci giù per la Valacchia verso le spiagge del Mar Nero. Superiamo agilmente una lunga teoria di vecchi camion che soffiano fuori tutto il nero dei loro neri polmoni e subito la strada ritrova la sua anima travolgente di zingaro dal sorriso sghembo e lo sguardo randagio e ci porta via, nomade e vagabonda, verso un orizzonte mobile che si sposta sempre più avanti, oltre una nuova linea di confine che corre sempre più veloce di noi. Le voci di saluto se le porta via il vento. Gli steccati di legno delle case se li portano via le curve. I pali della luce se li porta via la fuga immobile delle colline. E gli alberi che ci accompagnano in doppia processione se li porta via la nostra corsa. Sono piante alte e vecchie che bordano i due lati della strada e non l’abbandonano mai, la cullano nella loro frescura, ne disegnano il tracciato per valli e pianure, illudono il viaggiatore che le due file finiranno con l’incontrarsi al termine dei rettilinei, in un punto che però è sempre più lontano, sempre più avanti, oltre lo sguardo, e corre sempre più veloce di noi. L’ombra mobile del fogliame danza nell’aria. Siamo dentro un quadro impressionista e non vogliamo uscirne.


In questo sfarfallio di luce verde-oro vediamo gruppi di contadine che si riposano, o forse aspettano, sul bordo della strada, coi loro attrezzi, i loro fagotti, e la fatica dietro al sorriso. Se ne stanno lungo il confine tra i campi e l’asfalto, nella zona franca delimitata dai tronchi, formando un orto variopinto con i loro fazzoletti e i loro lisi grembiuli di cotone. Al nostro passaggio non si sbracciano in saluti e richiami, restano ferme e dignitose, come povere regine diseredate nel loro regno di terra scura. Pitesti ci appare immersa in un riverbero polveroso e abbacinante, in cui la gente si muove con frenesia da incubo. Palazzi di mattoni su giardini di cemento, case di cemento su cortili di fango e sassi. E poi strade senza salvezza, che nessun albero santifica, che nessuna pioggia potrà mai lavare. Moderne città di Romania, schiacciate dal rullo compressore di uno stato padrone, col capo chino coperto di polvere e cenere. Anche Tirgoviste, nella sua parte nuova, è così, con gli occhi bassi sotto la luce bianca di questo agosto senza cuore. La moderna piazza centrale è come l’interno di una scatola di latta, liscia, vuota e pulita. Come attratte da una calamita, spuntano persone da ogni lato e vengono ad accalcarsi attorno alla nostra moto. Ci sentiamo accerchiati, non si respira. Mentre scattiamo foto nella piazza, siamo controllati a vista da tre poliziotti. Uno di loro ci vieta di fotografare nella direzione del municipio. Infastiditi e stressati da tutto ciò, andiamo a rifugiarci nella parte antica della città, tra le rovine della corte voivodale. Nonostante turchi e terremoti ce l’abbiano messa tutta per cancellare questo luogo dalla faccia della terra, qui si sente battere potente il cuore della storia. Si percepisce la memoria di un’epoca di splendori artistici dalle risonanze greco-bizantine, un fiorente principato che prosperava nei commerci, nella cultura e nella vita religiosa. Antiche pietre che parlano di potere e di lotte sanguinarie. L’onnipresente Vlad Tepes, lo sterminatore, ci attende in cima alla torre circolare, ci guarda, ambiguo e perfido dai cartelloni che ne illustrano la storia. La Romania e, in fondo, l’Europa stessa, gli rendono omaggio come a un cupo e feroce eroe che spese tutte le sue energie per difendere i confini dall’invasione turca, anche se al prezzo di un terrificante bagno di sangue. Dall’alto della torre lo sguardo si stende su distese di rovine e di palazzi nuovi. Il vento ci investe a folate, portandoci i bisbigli del conte, i suoi sghignazzi da corvo. Al monastero Dealu dimentichiamo eccidi e impalamenti nella pace di una chiesa bianco-oro protetta da un cerchio di mura. Suorine rapide e silenziose come folletti si muovono nel giardino, curando i fiori delle aiuole. Di corsa fino a Ploiesti, immersa nei sogni di ricchezza del suo petrolio. Poi l’autostrada per Bucarest, che in realtà è una semplice strada a doppia corsia, dove continuano impunemente a circolare trattori, cavalli e persino biciclette contro mano (tanto c’è così tanto spazio!)


Ma la paletta rossa di stop del poliziotto è proprio per noi. Mare motore, mare viteza – dice - grande motore, grande velocità, quindi, se tutti i mezzi con un grande motore sono velocissimi, noi siamo in contravvenzione. Sillogismo aristotelico in versione rumena, di fronte al quale si può solo pagare l’ingiusta ammenda, senza discutere. Le discussioni cominciano dopo, quando il tutore dell’ordine decide di timbrare la patente con la segnalazione dell’infrazione. E solo dopo un lungo tira e molla riusciamo a riavere indietro il documento immacolato. Bucarest è per noi solo un punto di passaggio. Grigia sotto un cielo grigio. Invischiata come un insetto in una ragnatela di rotaie di tram. Che disegno stanno componendo questi viali ampi, questi palazzi tutti uguali, queste strade tutte uguali percorse da auto tutte uguali nella mappa della vecchia Europa? Un’ interminabile periferia ci tende tranelli ad ogni semaforo e incrocio, per risucchiarci verso qualche desolato sobborgo di block in stile sovietico senza vie d’uscita. Brividi freddi tra questi immensi condomini, ciechi giganti di cemento, trappole per uomini, forse tombe. Via da Bucarest, via da questa disperazione. Benedetto il temporale che sta oscurando il cielo davanti a noi. Benedetta la monotona strada delle grandi pianure che ci porta via tra campi di granturco, distese di girasoli appassiti e scuri deserti di zolle di terra. Benedetta la piana deserta e benedette ancora una volta le due file di pioppi che si srotolano verso lontananze infinite. La pioggia resta sospesa come una minaccia rinviata, una tregua accordata. Un invisibile tramonto si dilata nel grigio senza fine del cielo e quest’ora che non è né giorno né sera, né luce né ombra, sembra che possa durare in eterno. I tronchi imbiancati a calce dei pioppi rilucono debolmente. Destra uguale a sinistra, davanti uguale a dietro. Solo un interminabile corteo di alberi lungo una strada deserta che spacca in due la pianura.


11/08/1989 da Calarasi a Babadag Trenta metri quadri di Romania

Me lo sentivo fin da ieri sera che Calarasi doveva essere una di quelle città ostiche e dure, dove niente funziona come dovrebbe e ogni cosa genera sconforto e scoramento. Sconforto davanti all’ottusa indifferenza dell’addetta alla reception dell’albergo che rifiuta i nostri cuponi. Non ne vuol sapere, non ne ha mai visti, e ci fa aspettare un sacco di tempo in quella hall deprimente, su quelle poltroncine rosa e arancio, tra due ficus appassiti e un vecchio televisore che trasmette immagini di repertorio di Ceausescu. Scoramento per le ruspe che stanno abbattendo interi vecchi quartieri per far posto a nuovi agghiaccianti blok, in nome della modernità e del progresso. Sconforto e scoramento per il lungo giro che dobbiamo fare per superare una grande raffineria che sbarra la via d’uscita dalla città e ci costringe ad attraversare una landa tristissima e desolata. La strada si interrompe in faccia al Danubio, dove un vecchio traghetto sgangherato assicura il collegamento con l’altra sponda. Aspettiamo tra famiglie rumene in vacanza con auto stracariche e bambini vivaci, impazienti di salire a bordo; qualche soldato in licenza; polacchi giganteschi dentro minuscole 126 con carrellino al traino. Senza neanche farci pagare il pedaggio, veniamo sbarcati sulla riva opposta, dove una strada solitaria e serpeggiante è lì pronta per accompagnarci lungo il corso del grande fiume.


Morbide ondulazioni e vegetazione fitta che cova ombre fonde in cui risuonano i richiami degli uccelli e l’aria odora d’acqua , di fango e di terra. Il Danubio è largo e profondo, ha dentro tutta l’Europa attraversata e il carico di una massa di acque che non riesce più a contenere. Acque che sfuggono, incanalandosi in rami secondari, che si allargano nella pianura. Come un animale, sente l’odore del mare vicino ed è già pronto a dilagare, a rompere le righe per terminare la sua corsa, ma, come una bestia saggia, sa che dovrà ripiegare verso nord e aggirare i placidi rilievi della Dobrugia prima di trovare pace. Il cielo senza nuvole è un vetro mai lavato, è ambra opaca. L’aria è quasi liquida per l’umidità, carica di una vibrazione elettrica in cui tutte le cose sembrano come sospese. La strada ha un carattere indeciso: a tratti è asfaltata, poi si frantuma in buche e rappezzi, segue un tratto in cemento, poi il cemento si spacca e cede il posto a un micidiale pavè da strada romana che a volte si perde in un semplice sterrato polveroso. Pallida Dobrugia, monotona e disabitata, coi campi di girasoli storditi da troppa luce e i mulinelli di polvere che si alzano dalla terra asciutta tra le stoppie luccicanti. Un boschetto folto e fresco spezza la distesa dei campi tutti uguali. Convinti che non ci sia anima viva nel raggio di chissà quanti chilometri, ci fermiamo per scattare qualche foto, ma dal verde si materializza all’improvviso un uomo vestito di verde, forse una guardia forestale, che ci domanda perché mai stiamo qui a fotografare questo posto dove ci sono solo alberi. Ce ne andiamo via in fretta, ormai rassegnati al nostro destino, senza neanche cercare di dare una spiegazione. Adamclisi è un sonnolento villaggio di campagna dove tanti secoli fa abitò la storia. Quello che un tempo era un vitalissimo centro economico e militare, prosperosa colonia romana, fondata dai veterani di Traiano, ora è un grande campo archeologico perso in mezzo a una campagna dimenticata, dove razzolano le galline e i ronzini arrancano sotto il peso dei carretti di legno. La clessidra dei secoli ha ammucchiato qui tutta la sua sabbia. Nel museo, metope e fregi ripescati da stalle e pollai dei villaggi della zona, danno solo una pallida idea della maestosità del Tropaeum Traiani, il quale ora biancheggia severo e solitario, quasi improbabile, ricostruito sulla sua collinetta pelata. L’ora della siesta d’agosto ipnotizza gli uomini, gli animali e la terra. Un torpore da incantesimo grava nell’aria immobile.. I contadini interrompono il lavoro e si riposano nelle isole d’ombra degli alberi. Cavalli e asinelli guardano fissi nel vuoto, come incantati. Sono già le tre del pomeriggio quando, convinti ormai di saltare il pranzo, a Besarabi incontriamo un ristorantino nuovo e pulito, dove veniamo accolti come ospiti d’onore. Tirano fuori il vino migliore, fanno persino un tentativo di procurarsi del gelato da fuori e non battono ciglio alla nostra richiesta di quattro caffè.


Diablo6 ha radunato attorno a sé una vera assemblea di persone che guardano, indicano, toccano. Qualcuno si affaccia alla porta per vedere come siamo fatti e, alla fine del pranzo, camerieri e cuochi escono fuori per assistere alla nostra partenza. Al contrario, la città di Costanza è abituata ai turisti e agli stranieri. Ci si presenta col volto ben curato di una signora di mondo, che conosce la ricchezza moderna, ma ha dimenticato gli eccezionali tesori provenienti dal suo passato turbolento e fatale. Greci, bizantini, romani, geti, gepidi, avari e turchi scrissero le pagine della sua storia, eppure ora ci appare così “normale” con i suoi giardini, gli alberghi, il passeggio, il casinò. Restiamo a guardare il Mar Nero dall’alto, un po’ delusi dalla sua aria tranquilla, dal suo blu quasi mediterraneo, quasi familiare e dalle sue spiagge sabbiose affollate di bagnanti. Oltrepassata la barriera compatta e chiassosa degli alberghi costieri di Mamaia, ritroviamo il silenzio e il piatto scorrere dei campi tutti uguali. Poi una tetra raffineria raggomitolata in un groviglio di tubi e ciminiere sembra voler raccogliere su di sé tutto l’orrore dell’inferno. Come un drago sputa fuoco e fumo nero, stravolge la terra e il cielo, arpiona il cuore di chi passa e veste il sole a lutto. Intanto la ricerca di un albergo per la notte inizia a farsi lunga e vana. Anche a Babadag non c’è posto, ma mentre incassiamo l’ultimo rifiuto, un ragazzo e una ragazza seduti al bar dell’inospitale hotel, ci invitano al loro tavolo. Ci hanno sentito discutere per ottenere la stanza e vogliono aiutarci. Daciana, che è infermiera e fa il turno di notte all’ospedale, vuole offrirci la sua casa per questa notte. Dice che è un gesto di amicizia per il nostro bel paese che i rumeni amano tanto, forse per quelle radici romane da cui è nata la loro etnia, forse per questa loro lingua così latina che ci accomuna. In cambio però non vuole soldi: “italiana romana frati” italiani e rumeni fratelli La stanchezza incombente e l’idea di rimetterci in sella e peregrinare nel buio di paese in paese, in cerca di altri alberghi, ci fa accettare la proposta. Daciana e il suo fidanzato Gheorge ci sembrano due bravi ragazzi, gentili e dignitosi e non c’è motivo per rifiutare. Come quattro cospiratori raggiungiamo l’appartamento, al primo piano di un palazzo decadente. Due piccole stanze bianche senza mobilia, ad eccezione di un letto, un divano fatto con cuscini e trapunte, un tavolino da pic nic e due sedioline a sdraio. Per cucina solo una piastra elettrica e due mensole, per lampadari due lampadine appese al filo. Qui vive Daciana, infermiera di Babadag, con le sue povere piccole cose, i suoi due orsacchiotti di pezza, i fiori finti, le scatole di sigarette vuote, i poster con i gatti e i cagnolini e tutti i suoi vestiti appesi a un unico attaccapanni. Tutto è pulito, ordinato, tenuto con cura e quindi prezioso. Raccomandandoci di non aprire a nessuno, Daciana se ne va nel buio col suo ragazzo, che la lascerà con un bacio sotto chissà quale fatiscente ospedale e noi ci ritroviamo soli e stupiti in questi pochi metri quadri di Romania, così veri, così pieni di vita, così opposti alle anonime stanze d’albergo per le quali finora abbiamo seminato i nostri sonni e i nostri sogni.


12/08/1989 da Babadag a Tulcea Dunarea Hotel

Notte in bianco. Non siamo riusciti a chiudere occhio, un po’ per la stranezza della situazione, un po’ per la presenza di zanzare fameliche, un po’ per la paura che qualcuno potesse arrecare qualche danno alla moto parcheggiata sotto la finestra. Un turno di guardia pressoché ininterrotto, dietro i vetri, nel buio della stanza, aguzzando gli occhi nel buio della strada dai lampioni spenti. Sono stati registrati movimenti sospetti attorno alla nostra moto per quasi tutta la notte. Sono arrivati uomini, bambini, ragazzi. Alcuni, i più attrezzati, sono tornati con una torcia, uno addirittura con una candela. Altri hanno consumato intere scatole di fiammiferi, accesi uno per uno, per esaminare da capo a piedi Diablo6. Tutti hanno guardato, ammirato, sfiorato, sognato, ma nessuno si è permesso di salire in sella per sognare un po’ più forte, neanche i ragazzini. Dal nostro osservatorio segreto guardiamo la notte deserta di Babadag. Nessuna auto che passa, nessun bar aperto in questa strada di umili palazzi trasandati dalle finestre buie, dove vive la gente vera e gli stranieri non passano mai e, se passano, scatenano una muta processione di nottambuli attorno a una moto impolverata.


Quando l’abbaiare forsennato dei cani ha lasciato il campo al canto dei galli, abbiamo iniziato a rilassarci e un sonno denso e agitato ci ha fatto finalmente chiudere gli occhi per qualche ora. Anche le zanzare, come veri vampiri, si sono ritirate alle prime luci dell’alba, sciamando verso la Transilvania , a un fischio di richiamo del conte Vlad. Al suono della sveglia ci ritroviamo, estraniati e stanchissimi, in questo letto sconosciuto. I gatti ci guardano dai poster sulla parete, interrogativi. “Chi siete voi? Cosa ci fate qui?” La luce grigio latte del giorno entra dalla finestra che, con le sue tendine di pizzo bianco, a mala pena tiene a bada lo squallore della strada. Quando, alle 7.30 Daciana torna dal lavoro, con occhi molto meno pesti dei nostri, siamo già pronti da un pezzo, abbiamo avuto tutto il tempo di prepararci il nostro caffè solubile, scaldando un po’ d’acqua sulla piastra elettrica e di tradire il patto fatto ieri sera, infilando alcune banconote sotto il barattolo dello zucchero, insieme a un biglietto con scritto multumesc – grazie. Babadag ha l’aria di un inerte paesone tra placide colline coperte di vigneti, che sbuffa e cigola per rimettere in moto i suoi ingranaggi dopo una notte di immobilità. Ma basta raggiungere l’antica moschea, chiusa e abbandonata nel suo recinto dove fiorisce la malva e il fiore azzurro pallido della cicoria, e ripetere intanto, come un mantra, il nome Babadag, Babadag…per sentire all’improvviso il sapore di un mondo orientale popolato di sultani, dervisci e pellegrini scalzi. Strano lembo d’Europa questo, dove attecchirono i semi di civiltà diverse, dove persino gli Argonauti con il loro prezioso vello d’oro misero radici. Il mistero di miti arcaici e remoti è l’essenza stessa del cuore profondo di questa terra addormentata. Per raggiungere Istria dobbiamo attraversare una terra piatta e paludosa tra due laghi, una lunga striscia di sabbia intrisa d’acqua, dove l’orizzonte si spalanca nella luce, dove le canne e i giunchi nascondono l’esile collo dell’airone cinerino, o svelano all’improvviso il candore danzante delle egrette. Le cicogne si alzano in volo dagli acquitrini e intorno alla nostra meraviglia è tutto un frullare di ali, un riecheggiare di versi e di richiami. In questo microcosmo così ricco di vita, Istria giace morta sul suo tappeto di splendide rovine di antichissima città greco romana. Il suo porto e la sua fama si spensero sotto le sabbie depositate dal Danubio dopo secoli di splendore e di ricchezza. Ancora una volta la sabbia della clessidra del tempo! Sotto il sole, nell’aria immota, davanti a questo campo enorme, dove il tempo ha coltivato, con pazienza di contadino, soltanto pietre e ancora pietre, siamo solo noi e una struggente famiglia di somarelli dagli occhi come specchi liquidi incantati nel vuoto. Continuiamo a viaggiare, nonostante il caldo e il sonno che ci appanna la vista. Attraversiamo, come in un sogno, pianure abbaglianti, oppresse dall’afa e dalla luce bianca del sole.


Il silenzio è ora come un ronzio primordiale di sottofondo, una vibrazione di luce e aria rarefatta Ci sentiamo dentro un paesaggio dell’anima, essenziale, composto solo di una linea orizzontale e di due elementi: cielo e terra. Non c’è mescolanza, tutto è netto, sopra o sotto. Soltanto la polvere si mischia con la luce in un velo dorato. A Tulcea, però, la musica cambia. Non più solitudine e magia, solo folle di turisti chiassosi, parcheggi pieni di autobus, alberghi al completo, il gran business del Delta spezzettato, confezionato e venduto sottoforma di minicrociere a turisti impacchettati in tour organizzati nella fiera del Tutto Compreso. A mala pena riusciamo a trovare alloggio in un hotel Si chiama Dunarea, che sarebbe Danubio in rumeno e questa sarà l’unica cosa che avremo del fiume dalla città di Tulcea. Decidiamo infatti di rinunciare a un’interminabile coda per un giro su un battello sovraffollato. Siamo sicuri che non è così che potremo cogliere lo spirito di questo posto. Meglio vagabondare da soli lungo le piste sterrate che si perdono verso gli acquitrini e i canali, meglio ascoltare il vento sui canneti che le musichette sdolcinate diffuse dagli altoparlanti dei battelli. Scaricati i bagagli in albergo, andiamo a curiosare nei dintorni di Tulcea, fino a Bestepe. Giro di boa a un albero di piccole prugne selvatiche che ci offre la sua modesta dolcezza mielata nel lento sopraggiungere della sera.


13/08/1989 da Tulcea a Galati Nel Grande Delta

Il mattino è pieno di promesse, in questo confine d’Europa, affacciato su un mondo leggendario. Cielo sereno e fosco, appannato da un pulviscolo dorato che sfoca la pianura e le pallide alture lontane. Silenzio verde azzurro lontano da Tulcea. Ci ritroviamo all’albero di prugne di ieri sera, solitaria colonna d’Ercole, oltre la quale per noi si apre una terra sconosciuta e favolosa. Seguiamo il canale Sfintu Gheorge verso i villaggi di Mahmudia, Murighiol e Dunavat de Jos, nel cuore del Delta. Terra mobile in continuo mutamento, sabbia depositata nel tempo, pianura che emerge e che affonda nelle alluvioni. Niente di sicuro, nulla di uguale nel tempo. Il canale appare e scompare dietro barriere di canne ed erbe palustri, pigro e immobile, come un serpente sazio. Ogni tanto incontriamo minuscoli paesi con le case dai tetti di canna, i pollai fatti di argilla e fango e le cicogne a benedire gli uomini dall’alto dei loro grandi nidi di rami, in cima ai pali di legno della luce. Paesi di foce di fiume, dove la vita ha lo stesso flusso della corrente, dove tutto è ampio, dilatato e mobile, dove tutto sembra fermo eppure scorre. Ci si sente addosso, come l’umidità sulla pelle, la sensazione di essere sospesi in una zona di confine dove qualcosa finisce dentro qualcosa di più grande e definitivo.


Triangolo di fango e acqua, zona estrema e dimenticata alla deriva dell’Europa, terra di nessuno che fu a lungo terra di chiunque. Chiunque non avesse né legge né patria. Qui si fermarono quelli che fuggivano, quelli che si nascondevano, quelli che fecero un patto col fiume e pagarono un rifugio con una vita da dannati e reietti. Fu così che per secoli il Delta fu la piccola patria di disperati e criminali di ogni tipo. Zingari, russi, slavi, africani, turchi, circassi, caucasici, gente di mare e di terra che non aveva più nulla da perdere. A tutti il grande fiume diede qualcosa e prese tutto, e tutti furono amalgamati in un’unica gente, perché questo posto sa fare molto bene una cosa: fondere insieme l’acqua e la terra, l’acqua dolce e l’acqua salata, fabbricare vita dal fango. Poi dalla Russia arrivarono i Llipoveni, i Vecchi Credenti, in fuga per motivi religiosi da stragi e persecuzioni. Qui essi trovarono asilo e qui sono ancora oggi a difendere la loro fede esiliata. Miti uomini del fiume dalle lunghe barbe bibliche. Gente d’acqua e di barche, con lo sguardo temprato dalla durezza degli inverni, con la mappa del Delta impressa nel ventaglio delle rughe ai lati degli occhi. Uomini che tuttavia conservano il sorriso gentile di chi conosce la primavera degli acquitrini. Dopo Murighiol la strada non è più strada. Diablo6 è nel suo elemento: sterrati, piste di sabbia battuta, tratturi. A Dunavat de Jos tutto termina e si disperde nella sabbia tra i canneti e gli stagni. Il villaggio è mimetico, tetti di canne e colore di sabbia bagnata. Oltre le case, la fine del mondo terrestre. Si spalanca l’universo alluvionato, la marea verde dei canneti infiniti, il gioco di specchi delle acque dilaganti, la luce senza riparo. E’ un mondo intermedio dove ogni cosa si mescola e si feconda in un brodo primordiale dentro caldi nidi di vita. E’ il fondo di una provetta dove uno scienziato pazzo sta agitando aria, acqua, sabbia, erba, luce, silenzio, vento, nuvole, Europa, Asia, mare, vita e morte. E’ un microcosmo sospeso sotto un cielo scoperchiato senza confini. E’ un labirinto di vie d’acqua, un universo liquido con suoni liquidi. La terra e il cielo sono due metà dell’infinito appiccicate insieme sulla linea dell’orizzonte. Qui tutto è Danubio. Siamo nel Danubio. C’è quest’unica realtà eppure ci si sente persi. Si respira lontananza. Danubio, Donau, Duna, Dunaj, Dunav, Dunarea, tutti nomi da una stessa radice, tutti suoni musicali come un’onda per definire questa lenta ballata lunga circa 2900 km, che inizia nel profumo di resina della Foresta Nera, avanza nel Mitteleuropa con un ritmo di valzer viennese e di czarda e finisce qui, al confine con l’Ucraina, dentro la pozza profonda del Mar Nero, al suono anarchico e folle di una travolgente musica balcanica.


In Romania molti uomini si chiamano Dan. Finora mi sembrava un nome preso in prestito dall’America, forse una moda, ma ora capisco da dove viene e mi vergogno della mia ignoranza: è Danubius, il dio fluviale latino che ha battezzato questo fiume e questa gente. Ora corriamo, inseguiti dalla nostra ombra, lungo una stretta pista di terra battuta, saltando sugli avvallamenti ed evitando i banchi di sabbia. Sensazioni frizzanti di gioia e libertà si riversano dal cielo, dai nidi delle cicogne, dai grandi salici sussurranti, salgono su dalle acque salmastre e dalle paludi, traboccando nel cuore, proprio come un fiume che sfocia nel mare. Riguadagnato l’asfalto, puntiamo di nuovo verso l’affollata Tulcea. Nell’ora ferma del mezzogiorno le campagne sembrano fremere sotto il sole come il dorso di un cavallo che scaccia le mosche. I contadini riposano sull’erba e le pecore si riuniscono in cerchi immobili con i musi bassi dentro la propria ombra. Pali della luce come croci sbilenche di un Golgota che si ripete all’infinito. Lontananze azzurrine di stagni e la nuvola dorata e fumosa di un gregge in cammino tra le stoppie, guidato dalle grida rauche e i fischi di un pastore. Suoni remoti che parlano la lingua della distanza. Il Danubio resta con noi anche all’ora di pranzo. Non lo perdiamo d’occhio dalla terrazza del ristorante piena di voci e di rumori, lo vediamo fluire maestoso e indifferente, quasi seccato da tutta questa confusione da formicaio, pronto a sbarazzarsi di tutto e di tutti con la piroetta di un mulinello di corrente. Viaggiamo verso Braila, fermandoci spesso per contemplare gli acquitrini scintillanti o per attendere, pazienti, che maiali, mucche e oche ci lascino passare, che il puledrino spaventato calmi la sua corsa e la sua paura, che il pastore con il suo gregge si accosti sul ciglio della strada. Il cielo trascolora e nel languore del tardo pomeriggio diventa uno sbiadito manto di Madonna, lasciato a impolverarsi in una sacrestia di campagna. Attraversiamo il Danubio su un piccolo, vecchio, affollatissimo traghetto, in cui diventiamo immediatamente il centro dell’attenzione. Tutti gli occhi puntati addosso, tutti che ci chiedono della moto, quanto costa, quanto è veloce, da dove veniamo e dove andiamo noi. Bambini in canottiere stinte piluccano semi da grandi pezzi di girasole, che, a prima vista, sembrano cappelle di grossi funghi. Forse i funghi di Alice nel paese delle meraviglie che fanno vedere ogni cosa più alta e più grande della realtà. Sarà per questo che ci guardano attoniti, con occhi sgranati, quasi fossimo giganti su uno strano cavallo di metallo. Arriviamo a Galati dentro una nuvola di polvere bianca, sulla strada sterrata che attraversa un grande cantiere edile. Le vecchie case vengono abbattute e nuovi block di casermoni tutti uguali stanno nascendo. Mentre le ruspe, con le loro bocche da drago, sbranano il passato, gru laboriose e inesorabili, stanno ridisegnando, come matite sottili e precise, il profilo di una città senz’anima e senza storia che, alla prima pioggia, quando si specchierà sulle pozzanghere dell’asfalto non riconoscerà più il suo volto e morirà di nostalgia. Scopriamo con sorpresa che in questa città bar e ristoranti chiudono irremovibilmente alle ore venti e noi siamo già ben oltre questo strano coprifuoco.


Assolutamente impossibile trovare da mangiare. Nel ristorante dell’albergo niente cena, niente caffè, niente bibite e nemmeno una bottiglia di acqua minerale. Ci consigliano di bere l’acqua del rubinetto. “Foarte bine!” molto buona – ci dicono. Così, dopo aver invano tentato di mandar giù varichina pura, ci consoliamo con un nostrano caffè solubile al cloro e, rifugiati nella nostra stanza, già ridiamo e sogniamo di ciò che accadrà domani, inseguendo col dito i filini rossi delle strade sulla carta, ogni giorno più spiegazzata e consumata.


16/08/1989 da Suceava a Suceava – giro dei monasteri della Bucovina Il senso del dono e le valli mistiche

Oggi sto meglio. Molto meglio. Una febbre alta e tenace, unita a una specie di maledizione di Montezuma declinata in draculesco ci ha tenuti bloccati in una triste stanza d’albergo, senza poter fare altro che aspettare, rimuginando su dove e quando qualcosa di contaminato si è infilato in ciò che ho mangiato o bevuto. Quando ho raggiunto una certa autonomia tra una corsa e l’altra in bagno, ci siamo messi in cerca di una farmacia e qui già il viaggio ha ripreso il suo corso di scoperte e sorprese, perché ci siamo visti proiettati in un tempo lontano, quando ancora non esistevano pillole, capsule, blister e tubetti e fare il farmacista era arte non da poco. Alla farmacia “Lebede albe” – Cigno bianco, la mia medicina è stata preparata sotto i nostri occhi. Sono state preparate delle polverine, pesate con un antico bilancino, mescolate con cura e poi avvolte in cartoccetti di carta. Prendere o lasciare. Fidarsi del medioevo o arrendersi e mollare tutto. Naturalmente mi fido e butto giù. Il sapore non è cattivo, male non farà. E intanto è chiaro che abbiamo assimilato parecchie lezioni dalla Romania, dagli zingari, dagli asinelli, dal Danubio e da tutti i fatti accaduti. Qualcosa è cambiato. Siamo già molto meno razionali e rigidi di quando siamo partiti.


Dopo poche decine di chilometri ci fermiamo in un prato, all’ombra di un albero per riposarci e riprendere forze. Sdraiati sull’erba profumata guardiamo le nuvole torreggianti dell’estate navigare nel cielo come grandi velieri candidi. Le foglie si dondolano nell’aria con un fruscio delicato e ogni cosa appare assorta in un silenzio e in una pace profonda. Qualcuno si avvicina fischiettando. Qualcuno ci saluta chiamandoci “prietenii” – amici. Qualcuno che ha un sorriso d’argento come il luccichio del fiume e la pelle cotta dal sole, come la terra. Si chiama Yon, ed è contadino moldavo da quando è nato, anzi, da quando i suoi antenati vivevano tra i boschi di questa terra verde, in casette di legno cigolanti come barche in un mare d’erba. Il contenuto di un piccolo cesto viene svuotato accanto a noi. “Pere foarte bun” - Pere buonissime, dice, e se ne va, continuando a fischiettare, soddisfatto come se oggi si fosse alzato solo per compiere questo unico gesto. Ci lascia il profumo dei frutti appena colti e la sensazione di non aver mai saputo fino adesso cosa significhi un dono. Si riparte. Possiamo di nuovo perderci tra campagne e villaggi. L’asfalto qui è proprietà privata di gruppi di oche testarde, che ci soffiano dietro arrabbiate e di un grande gregge di pecore dal fitto manto lanoso che non ha nessuna intenzione di sgombrare il campo. Il pastore agita una lunga frusta con schiocchi secchi come spari nell’aria tersa del mattino, scatenando un pandemonio di groppe galoppanti, belati, polvere, urla e abbaiare di cani. A ricordarci che oltre le rose ci sono anche le spine e per uno Yon che incontriamo c’è sempre lo scontro con l’altra faccia della medaglia, provvede un tipaccio ostile e minaccioso che sta sorvegliando alcune contadine intente a raccogliere patate in un campo. Sbraitando ci fa capire che non possiamo fotografare e che è molto meglio allontanarci subito, se non vogliamo avere noie con la polizia. Per farci intendere che fa sul serio, annota il numero di targa e ci fa segno di consegnargli i rullini con le foto scattate. Fuggiamo accelerando sulla strada deserta come Bonnie e Clyde dopo una rapina. Il Monastero Dragomirna è la nostra consolazione, rifugio luminoso nel verde dei prati, perla bizantina custodita da un giro di mura spesse. Il villaggio presso il monastero sfoggia il suo ventaglio di colori rubati alla primavera sui campi. Ha un abito di farfalla e un cuore di spaventapasseri. Il fango dell’autunno e i denti di ghiaccio affilato dell’inverno non gli fanno paura. Le piccole case sotto i tetti spioventi attendono quiete e intanto splendono di colori nell’estate luminosa. Al ritorno passiamo di nuovo davanti ai raccoglitori di patate. Nessuna pattuglia della polizia ci aspetta per arrestarci, solo l’uomo minaccioso ci fulmina con occhi truci e, agitando un bastone, ci grida dietro qualcosa che si perde nel vento della nostra corsa, in un vortice di aria d’agosto e fumo di marmitta.


A 5 km dal confine russo, a Siret, scoviamo l’oscuro e dimenticato gioiellino della più antica chiesa in pietra costruita in Moldavia. Incontriamo anche uno strampalato motociclista tedesco, con un gran senso dell’ottimismo, convinto di poter attraversare la frontiera sovietica senza visto. Gli auguriamo buona fortuna e ci avviamo verso il piccolo tempio, accompagnati da uno stuolo di ragazzini e bimbetti curiosi. Ci scortano dapprima timidamente, tra bisbigli e risatine, e poi quasi in solenne processione. Al termine della visita. dopo esserci congedati con molta serietà, se ne tornano ai loro giochi tra i fienili e i pollai, i lavori già troppo pesanti e le corse coi loro cagnolini spelacchiati giù per i pendii. Piccoli ambasciatori discreti di questo minuscolo mondo di frontiera aggrappato sull’orlo del mantello dell’immensa Russia, come una lappola di campo. Stiamo appena ripartendo, quando rivediamo il motociclista tedesco mestamente di ritorno dal confine. Ci saluta scuotendo il capo, mentre già i bambini si radunano attorno a lui. Giornata impegnativa oggi per gli ambasciatori. Nei pressi di Putna andiamo inaspettatamente in riserva. Avendo fatto il pieno proprio ieri sera, non ci vuole molto a capire che questa notte qualcuno ci ha rubato dieci litri buoni di benzina. Così ci ritroviamo troppo lontani da un qualsiasi distributore e anche privi della tanica di riserva, rimasta coi bagagli in albergo, non prevedendo una simile emergenza. Ma il Monastero di Putna è grande e chiaro e non ammette menti distratte. Ansie e preoccupazioni devono essere lasciate fuori dalle mura di cinta. Stefan cel Mare, Stefano il Grande, il mitico voivoda riposa in pace qui, sotto la pietra bianca di una semplice tomba, sotto il tetto protettivo di questa chiesa, sotto il cielo pallido della Bucovina. Finora lo abbiamo sempre visto raffigurato su un cavallo, possente e fiero, il brando in pugno e la corona in testa, come un re delle fiabe o un re di spade. Nel giro di pochi anni fece nascere chiese e monasteri come fiori sontuosi che si schiusero tra queste valli incantate, sull’orlo del precipizio in cui ricacciò invasori e nemici. Arte e cultura forgiarono templi meravigliosi, dando origine a uno stile nuovo, anello d’unione tra il mondo gotico-bizantino e il mondo serbo, moravo e valacco. Peso di pietra e peso di secoli gravano su questa tomba, eppure fiori vivi e lievi vengono continuamente gettati su di essa, con amore e rispetto, dalla gente rumena, come se questo mitico paladino fosse vissuto solo ieri. Rose, garofani e semplici fiori di campo spandono profumo e bellezza nel cuore di questo scrigno di pietra perfetto. Quando torniamo al parcheggio e ai nostri ordinari problemi, la buona sorte, o qualche angelo bizantino, provvedono ancora una volta a risolvere la situazione, nelle sembianze di un distinto signore di Suceava il quale ci regala, sorridendo come un mago buono, due preziosissimi litri di super che ci consentiranno di tornare in città, rifare il pieno e ripartire per il nostro solitario tour dei monasteri bucovini. Spersi tra vallette verdissime e morbide, i monasteri di Voronet e Humor, sono pure essenze trascendentali. Valicano i confini della materia, appartengono alla dimensione dello spirito e del sogno.


Affrescati dentro e fuori, splendono di colori puri e violenti. Pare non abbiano limiti di forma e di volume. Esondano nel cielo, il cui colore è poca cosa confronto agli azzurri e ai blu intensi e profondi su cui danzano santi e cherubini. Sono libri per chiunque abbia occhi per vedere. Storie sacre srotolate a cielo aperto. Bibbie rivelate agli ultimi. Preghiere cristallizzate. Inni sacri levati in eterno, in cui le ingenue voci di un mondo contadino, rappresentato nei suoi costumi e nel suo quotidiano, si mescolano con le voci mistiche e remote di monaci e santi. Chiese così celestiali e irreali che sembrano sul punto di prendere il volo da un momento all’altro e dissolversi nell’aria come bolle di sapone iridescenti, se non fosse per l’enorme tetto sporgente che le tiene giù, impedendo che fuggano via. Se non fosse per i nostri incantati sguardi terreni, che, come fili invisibili, le tengono ancorate a terra fino a quando le guarderemo. Sucevita, il gioiello verde, ce lo lasciamo per ultimo. Quadrilatero perfetto, incastonato nel cuore di dolcissime colline color smeraldo, tra la gloria di luce dei prati e il mistero d’ombra dei boschi. Il sole al tramonto accarezza appena i fiori del giardino, estraendone profumi che quasi stordiscono. Sfiora le ali degli angeli, le barbe e le pergamene dei profeti. Si spegne nel nero senza fondo delle lunghe vesti delle monache, uniche figure in bianco e nero in questo piccolo cosmo di colori. Lavorano con zelo attorno a mucchi di mele verdi, perse in un mondo di silenzio, pallido come il loro viso. Dobbiamo ripartire. La strada sale su per un passo di montagna. Prati di velluto, boschi folti come eserciti di angeli in un paradiso verde. Il sole che cala a picco dietro il profilo dei monti. Suceava è lontana. La luna, in fondo alla strada è una vecchia moneta di rame impolverata. Non appena si fa scuro, il traffico di carri e calessi si fa più intenso. Tutti senza luci e senza catadiottri, tutti in mezzo alla carreggiata coi loro mucchi di fieno e i loro carichi di tronchi sporgenti. Unici riferimenti di questo nostro notturno navigare, la stella bianca sul muso dei cavalli e i pioppi ai lati della strada, con la base del tronco imbiancata a calce. La luna semicoperta da piccole nuvole sfilacciate è ora uno spicchio d’arancia di traverso sulla gobba della collina. Le chiese affrescate, senza i nostri sguardi che le fissavano a terra, avranno scoperchiato i tetti e saranno volate via, come in un quadro di Chagall, leggere e silenziose, nel cielo notturno, alla deriva, in balia di maree divine. Domani mattina altri sguardi le riagganceranno e le riporteranno a terra, per regalare ancora stupore e meraviglia agli uomini. La luna è la ruota di un vecchio carro che rotola giù per la china. Ci fermiamo a un piccolo albergo per fare cena, ma il ristorante è già chiuso. Riusciamo a farci vendere del pane, ma è ammuffito e dobbiamo gettarlo via. I fari della nostra moto bucano la notte. La luna ora è una sfera di cristallo sul manto stellato di un mago. Potremmo leggervi il nostro futuro.


Ma ecco che spuntano i tetti e le fioche luci di Suceava. Il rumore degli zoccoli dei cavalli si perde giĂ dietro le nostre ruote. Domani, domani ci penseremo‌adesso è tardi.


17/08/1989 da Suceava a Tirgu Neamt Collezioni di indirizzi

Dopo la poesia di ieri pomeriggio e del nostro ritorno dalle valli dei monasteri al chiaro di luna, questa mattina si presenta con un’aria molto pratica e prosaica. C’è da fare la fila alla banca e poi la coda al distributore, in una confusione che ci fa sentire già stanchi e fiacchi nel caldo del mattino. Dietro di noi c’è un motociclista solitario di Treviri. Suda dentro la sua tuta di pelle nera e fa gesti sconsolati in direzione del benzinaio, indifferente alla nostra fretta. Gli regaliamo alcuni litri di benzina che avanzano dal buono che dobbiamo spendere e una lubrificata di catena. Lui ci ringrazia, lasciandoci il suo indirizzo tedesco per una futura tranquilla vacanza tedesca. Ormai la nostra guida ha le pagine zeppe di foglietti volanti, indirizzi appuntati qua e là, nomi che già si confondono nella memoria, calligrafie di persone incontrate per caso, che hanno scritto con penne riottose su tovagliolini di carta, o su pezzi di scatole di fiammiferi, in posizioni acrobatiche, appoggiandosi a un albero, o a un ginocchio, nomi, vie, paesi e città che non riusciamo più a decifrare. Tracce di incontri sulla mappa del nostro viaggio. Sfocature che sbiadiscono di fianco al segno netto del nostro itinerario. Riprendiamo la strada dei monasteri.


A Moldavita riviviamo l’incanto della chiesa immateriale, il libro di immagini, la danza dei colori, la bolla di arcobaleno senza peso. Se a Voronet predominava l’astrazione più pura e l’azzurro più vibrante e paradisiaco, qui prevale un concreto realismo dei personaggi, raffigurati in umanissime scene di vita quotidiana e una tendenza ai toni caldi e terreni del giallo e dell’ocra. L’ultimo pittore, il tempo, ha steso poi la mano finale. La strada è come un torrente di montagna. Guizza ardita e sinuosa tra foreste fittissime, penetra nell’ombra profumata di alberi alti e cupi, poi scivola leggera sui pendii morbidi, dove il sole smalta l’erba e perde oro sulla curva del prato. L’aria asciutta e odorosa di resina irrompe nei polmoni, come una folata di vento che spalanca le finestre all’improvviso. Fuori tutto il nerofumo delle città, fuori gli odori degli hotel, gli scarichi dei camion, la polvere delle strade. Si prova gusto a respirare quest’aria fresca come a bere acqua di sorgente. A Cimpulung, l’unico hotel è affollato di gruppi di turisti. Tavoli tutti pieni, vocio animato, fumo e risate. Un signore ci fa cenno di sedere al suo tavolo. E’ un professore di lettere di Iasi e d’estate fa anche la guida di montagna per arrotondare il suo povero stipendio. Si guarda spesso intorno con un filo di ansia trattenuta, perché, ci spiega, la Securitate è ovunque e ai rumeni non è permesso avere contatti con gli stranieri. Non vorremmo creargli difficoltà, ma lui insiste a farci restare. Vuole sapere come può essere la vita in un paese libero, cosa significa andare in libreria e acquistare qualsiasi libro che si vuole, potere esprimere la propria opinione liberamente, avere la possibilità di viaggiare senza limitazioni. Ci sentiamo dei privilegiati, ci rendiamo conto di quante cose facciamo nella nostra vita quotidiana dandole per ovvie e scontate. In questo paese così pieno di difficoltà, di catene, di barriere, di divieti, di desideri e di speranze, iniziamo ad avere gli strumenti per prendere le misure esatte e l’esatto peso della nostra libertà. Lo sguardo del professore è triste. Vorrebbe poter insegnare ai suoi ragazzi il valore delle idee, l’amore per la bellezza, il pensiero libero, ma deve limitarsi a un copione di regime che non ammette scappatoie e controlla ogni sua parola. Solo la montagna consola la sua malinconia. Spesso va a camminare da solo. Tra gli abeti, le rocce e i torrenti si sente bene, si sente semplicemente un uomo di questa terra. Lo sguardo del professore è stanco. Dice che ha parlato troppo e se ne scusa. Prende il suo vecchio zaino militare se ne va ad aggiungere altri passi ai suoi scarponi di cuoio già consumati da milioni di passi. Sul tavolo resta un foglietto spiegazzato con il suo indirizzo da aggiungere alla nostra collezione. Per non dimenticare, ci scriviamo sopra “professore triste”, così non sfocherà. La strada che va a Ciril è stretta e malandata, una vera, vecchia mulattiera di montagna. Si snoda tra boschi solenni come cattedrali. La luce penetra con raggi sottili e obliqui di pulviscolo dorato. Una foresta gotica, con alberi come colonne, rami come nervature stellate, finestre ogivali


di luce tra le cime degli abeti, tappeti di muschio e aghi di pino, incenso di resina, altari d’ombra, silenzio. I tornanti salgono, spaventosamente ripidi, svelando paesaggi emozionanti. In cima, presso la capanna Raran, una visione di rocce bianche e aguzze, come scogli su un mare di crinali verdi che si inseguono ovunque, fino alla linea dell’orizzonte, lontanissima e azzurrina. I Monasteri della Moldavia sono isole sparse, che ci riportano ad atmosfere mistiche e idilliache. Un arcipelago dello spirito perso in un oceano verde di valli e alture. Secu è una perla bianca nel cuore di boschi profondi. Il pozzo è come un tempio sacro a cui attingere acqua di vita. Neamt, austero e solenne,è addolcito dal miele del tramonto. I monaci, vagano indaffarati; le vesti svolazzanti e le lunghe barbe incendiate dal sole. Ad Agapia monache nere e donne dai fazzoletti colorati con le mani ancora sporche di terra , si affrettano per la funzione religiosa. Suono di campane e candeline d’incenso che si agitano ad ogni filo d’aria. La Transilvania con i suoi campanili e le sue torri barocche, così profondamente sassone e mitteleuropea sembra lontana come un sogno, in questo regno di croci ortodosse, di echi bizantini e icone dorate. Non si trova una stanza libera a Tirgu Neamt. Soliti gruppi turistici in orbita, solite questioni. Vittorio di Bergamo, incontrato poco prima, al monastero di Neamt, pare abbia ottenuto l’ultima stanza libera. E’ un professore che sta cercando di aiutare due ragazzi rumeni che suonano in un gruppo rock ad organizzare una tournée in Italia. E’ così gentile da offrirci di dividere con lui la sua camera che ha due letti, ma alla fine, dopo molte insistenze con i camerieri, riusciamo comunque a sistemarci in modo indipendente. Facciamo cena con Vittorio e i suoi ragazzi. Hanno fatto macellare un maialetto in una fattoria di montagna e se lo portano dietro in un frigorifero portatile, per farselo poi, fiduciosamente, cucinare nei ristoranti degli alberghi. La serata passa in fretta tra frasi italiane, rumene e inglesi. Veniamo a scoprire che i due amici di Vittorio, l’anno scorso, tentarono di fuggire dalla Romania, ma vennero fermati, picchiati e arrestati per sei mesi. Ora sorridono. Sognano l’Italia. Due nuovi pezzetti di carta con un indirizzo entrano a far parte della nostra collezione.


18/08/1989 da Tirgu Neamt a Vatra Dornei La bellezza dei Carpazi e la propaganda di regime

La mattina è chiara e promette meraviglie, ma, come sempre, i camerieri hanno il barometro sul temporalesco e a noi non resta che sopportare, rassegnati, le loro sgarberie e le bugie sul caffè che manca sempre. Ci si conferma il sospetto che quello che abbiamo mangiato ieri sera non fosse esattamente il maialetto di Vittorio, o almeno non al cento per cento, dopo il passaggio nelle cucine. Ma non abbiamo prove. Nell’afa di agosto Tirgu Neamt è una trappola mortale. Un ingranaggio freddo che sta per mettersi in moto e stritolarti. Una pressa che si abbassa lentamente. Un ragno che aspetta al centro della sua ragnatela. I caseggiati del centro, massicci e squadrati, visti da lontano, hanno quasi un’aria di efficiente modernità, ma basta osservare con più attenzione balconi e finestre, per scoprire che ormai il danno è stato fatto. Il passato è stato sommariamente macellato, le radici sradicate e i ricordi dichiarati fuorilegge. La ferita non si cicatrizzerà. Un presente senza passato è un futuro senza salvezza. Buona fortuna Tirgu Neamt, noi corriamo via. Corriamo verso i Carpazi, in cerca di balsami per gli occhi e per il cuore. Ma ancora dobbiamo sopportare l’invadente presenza di enormi cementifici che sconvolgono il paesaggio. Il loro respiro malato ha soffiato tutt’intorno la cenere dell’abbandono. L’erba, le case, le piante soffocano,


asfissiate da una polvere sottile e compatta. La terra è stata glassata da una bava grigia disseccata. Finalmente i boschi hanno il sopravvento e i rilievi si fanno più aspri. La strada, affratellata al fiume Bicaz, penetra nelle gole, si insinua tra rupi calcaree altissime e vertiginosamente verticali. Sembra una biscia che si infila in una fessura tra le rocce. Al Lacu Rosu c’è una locanda animata da molte famiglie rumene in gita. Tutti mangiano con gusto ciorbe, cetrioloni sott’aceto e salsicce, i bambini si infilano sotto i tavoli, giocano sulla moquette polverosa e appena possono scappano a rincorrersi sul prato. Fuori il sole arroventa le rocce e trae bagliori profondi dalle acque del lago. Boschi perfetti coprono i pendii dei monti e un silenzio remoto grava sospeso a mezz’aria, sopra lo specchio immobile in cui il cielo si guarda incantato. Torniamo indietro. I tornanti ci riportano alle gole. L’aria è calda e rarefatta. La strada è deserta e quasi sinistra in questa specie di fondo di bottiglia. Nonostante l’ombra di questa stretta fenditura, possiamo sentire il calore che esce dalle rocce e sale verso l’alto. Il cielo è uno stretto nastro azzurro lassù in cima, quasi l’immagine riflessa del fiume che scorre qui sotto, al nostro fianco. Ritroviamo tranquilli paesaggi orizzontali al lago di Bicaz. Qui lo sguardo si perde in lontananze diafane e celesti. Veli di foschia confondono i colori e mescolano le tinte in un unico indefinito grigio azzurro universale. Le acque piatte e opache sfumano direttamente nel cielo, cancellando la linea dell’orizzonte. Ora il nostro compagno di viaggio non è più il fiume Bicaz, ma il fiume Bistrita, di cui risaliamo il corso impetuoso e scintillante. Nell’aria dilaga un prepotente profumo di acqua di fiume, un po’ dolciastro, un po’ intriso di fiori di sponda. La corrente è intessuta di trame di argento puro. Sagome nere di bambini in contro luce sguazzano nell’acqua con grosse camere d’aria di camion come salvagente. Scintillio di schizzi, echi di voci e di risa, rumori d’acqua. Larga Bistrita, sorella di strada che ci accompagna tra questi monti boscosi. Il verde delle sue rive brilla di luce propria, i villaggi che attraversiamo sono puliti e freschi come le sue acque. Nei recinti delle case i meli espandono dolci fragranze, con i rami piegati fino a terra dal peso dei frutti. A Vatra Dornei troviamo una stanza e cameriere arteriosclerotiche che ci servono un‘ala di pollo bruciata e patate semicrude. Ma nella nostra stanza allestiamo un vero e proprio banchetto a base di pane, salame, acqua minerale, cioccolato e caffè. Per la prima volta abbiamo un televisore in camera. A digiuno di notizie da troppo tempo, cerchiamo invano un telegiornale, ma troviamo soltanto un unico programma in cui i bambini di una scuola di Bucarest, faccine smunte e divise ordinate, recitano e cantano inni alla patria. Sullo sfondo, dietro ai fiori sistemati per l’occasione, enormi complessi di palazzi tutti uguali spezzettano la città in lotti e settori di tristezza e solitudine. Anche il cielo di Bucarest sembra diviso in blocchi e, sotto, i bambini sorridono tra i fiori, come piccoli prigionieri inconsapevoli.


Finalmente un notiziario interrompe i canti. Il 23 agosto è festa nazionale. Si parla solo dei preparativi, dei programmi e dei telegrammi a Ceausescu. Neanche una piccola notizia sui fatti del mondo, neanche uno sguardo oltre questi soffocanti confini. Mentre studiamo l’itinerario di domani, sullo schermo vediamo grafici e tabelle che illustrano le quantità dei raccolti agricoli nazionali di patate, orzo e cipolle. Segue una noiosissima trasmissione sui terreni agricoli degradati dalle piogge acide. Infine musica classica. Questi i programmi. Tutto finisce alle 23.30. Anche noi andiamo a dormire. ….Gli scolaretti-soldatini cantano a gola spiegata canzoni di propaganda, i fiori appassiscono all’improvviso e tutta Bucarest dietro è buia come la notte. Da un campo di cipolle esce fuori l’uomo delle cipolle di Girbova che ci porge una treccia. Dal campo di patate arriva il guardiano minaccioso che ci rincorre con un bastone. Una nuvola nera carica di pioggia acida e corrosiva si sta gonfiando sopra i cortei e le parate militari del ventitré agosto.


19/08/1989 da Vatra Dornei a Sighetu Marmatiei Il sorriso dei Maramures

Dalla finestra spalancata entra la luce chiara del mattino che porta via i sogni nebulosi della notte e ci mette addosso la voglia di muoverci. Sotto, attorno alla nostra moto, si è radunata già una folla curiosa di persone di ogni tipo. Tutti mostrano un grande stupore e una grande ammirazione. Chi allunga timidamente una mano per toccare la sella, chi studia le gomme, chi il motore, chi invece è attratto assolutamente dai pulsanti e dalla strumentazione. Quando, poco prima delle otto, scendiamo per caricare i bagagli, la ressa si fa ancora più fitta, un po’ per curiosità nei nostri confronti, un po’ perché tra poco potranno sentire la voce del “mostro” e lo vedranno mettersi in moto. Non abbiamo quasi lo spazio per muoverci, tutti spingono per vedere meglio e allibiscono di sorpresa e di delusione quando scoprono che borse e bauletto non sono né contenitori per benzina, né frigoriferi, ma semplici valige. Vatra Dornei è una località termale che, come tante altre che abbiamo incontrato nel nostro viaggio, in estate attira un grande afflusso di turismo locale. Ma questa mattina credo che le terme, che sono a un passo dal nostro albergo, andranno completamente deserte. Sono tutti intorno a noi, con i bicchieri e le boccette in mano, completamente dimentichi della loro quotidiana routine di benefiche bevute. Quando finalmente il motore viene acceso, il polo d’interesse diventa all’unanimità la marmitta. Toccano il fumo con le mani, si abbassano per esaminarlo meglio.….lo respirano!


Scambierebbero un’intera stagione termale con questo esotico aerosol extra lusso. Tra calorosi saluti e sinceri auguri di buon viaggio ce ne andiamo con la colpevole sensazione di aver vanificato per queste persone ogni possibile beneficio termale. La solitudine della strada ci accoglie di nuovo. L’erba grassa e rugiadosa, le linee morbide dei rilievi, i boschi scuri e compatti ci invitano a perderci tra queste terre verdi e luminose. A Ciocanesti troviamo casette deliziose, tutte decorate a fasce e motivi geometrici. Gli steccati fatti solo di paletti verticali infissi nel terreno si ripetono all’infinito, recintando prati minuscoli, giardini piccolissimi, pascoli per una sola mucca. Davanti a una casa degli uomini lavorano attorno a degli assi di legno, mentre le donne stanno preparando le sarmale con le foglie di cavolo. Quando ci vedono scattare fotografie, ci portano, in segno di ospitalità, un vassoio con dei pasticcini e un bicchierino di liquore. Poi si mettono in posa davanti alla porta d’ingresso con una solennità antica che trasmette un profondo senso di rispetto per la propria casa, per il lavoro, per le tradizioni di questa valle. Il fiume Bistrita è sempre al nostro fianco. Ci siamo affezionati al suo corso largo e fluente. Il filo delle ondine si increspa sui ciottoli in creste di spuma bianca e l’acqua scivola veloce e trasparente, appena più verde del verde tenero e argentato dei salici delle sue rive. Il ritmo dei prati è dato dai pagliai che sono note musicali disegnate nei pentagrammi degli steccati. Chi saprà mai leggere questa musica segreta? Il cielo basso, gonfio di nuvole grigie e lanose come tosature di pecore, si è impigliato sulle cime aguzze degli abeti lontani, e la strada gli corre incontro, sempre più in alto, di tornante in tornante, portandoci oltre, al di sopra di questo tappeto di lana, fino al sole sfolgorante, fino alle conifere maestose e segrete, fino ai prati pelati verde muschio, fino alla splendente gloria montana della cima del Pasul Prislop. Incantati, ci fermiamo per perdere lo sguardo sulle maree di boschi che si estendono a perdita d’occhio attorno a noi. Siamo entrati ormai nel distretto di Maramures, cuore antico e incontaminato di Romania, dove si vive ancora secondo ritmi, costumi e tradizioni fuori dal tempo. Nei primi paesi che incontriamo, le case in muratura cedono il posto a vecchie case di legno scuro e le donne indossano fantastiche gonne a fantasie di fiorellini, gonfie e ondeggianti come corolle di papaveri nel vento. A Viseu de Sus facciamo pranzo nell’unico hotel della zona. In una saletta minuscola, tra due comari grasse e ciarliere e uomini del posto che mangiano come idrovore, veniamo serviti, presto e bene, con quello che c’è. Le donne si aggiustano il fazzolettone e ci guardano bonarie, sorridendo. Gli uomini divorano carne e patate alla luce fioca della piccola finestra. Quando usciamo, ci seguono. Uno ha un foglietto sgualcito con il nome di una medicina e ci chiede se per caso ce l’abbiamo, l’altro vorrebbe delle sigarette. Non si dispiacciono dei nostri no, anzi, ci sorridono e ci danno il benvenuto nella terra dei Maramures.


La valle dell’Iza è dolce e serena, mossa da colline ventose. I prati, zebrati da strisce di steccati di legno, respingono l’onda incalzante dei boschi. Tengono a bada gli abeti come branchi di cavalli selvaggi. Le strade, spesso in terra battuta, sono percorse unicamente da carretti e animali. Le case sparse nel verde sono templi, piccole navi, nidi di tronco, gusci di noce persi in un mare d’erba spazzolato dal vento. Sono mondi di legno cigolanti, profumati, scricchiolanti come cose vive. I tetti spiovono giù ripidi, calati su tutti e quattro i lati e spesso coprono un’ampia veranda a portico, dove si svolge buona parte della vita degli abitanti. Ma la cosa più sorprendente è il cancello-portale d’ingresso che chiude come un fermaglio prezioso il giro di steccato che circonda la casa. Alto e massiccio, tutto in legno intagliato a figure e motivi simbolici, sembra una sorta di passaggio purificatore, o un baluardo per tenere lontani gli spiriti della foresta. Anche le antiche chiese sono tutte di legno, sacre a partire dagli alberi con cui sono state costruite. Asse su asse sono state tirate su. Scandola su scandola, i tetti, ripidi e altissimi, sono stati ricoperti da questa specie di pelle di pesce a squame. Le croci dei vecchi cimiteri spuntano tra l’erba alta e lussureggiante. Vi si incurvano sopra i rami dei meli, piantati come fiori giganti in un giardino di silenzio. Incontriamo donne che davanti alla casa battono fasci di canapa, altre sedute con la conocchia e il fuso, intente a filare la lana, altre ancora appendono il pentolame della cucina a dei grandi rami levigati, piantati in terra come asciugatoi. Uomini con ampie bluse, larghi pantaloni bianchi e calzature tipo cioce vanno verso i campi con un rastrello in spalla o un’accetta in mano. Bambini spuntano dietro ogni steccato, spiano dalle fessure dei portali, corrono sulla strada, giocosi come cuccioli di volpe fuori dalle tane. E’ un mondo naif ed è vero. Non è una ricostruzione, non è una trappola per turisti, è un rifugio segreto, appartato e quieto, è vita reale. Si sente il respiro di un’anima contadina, un’ingenuità sognante e svagata, lo sguardo trasognato di un ragazzo di campagna sdraiato su un prato con una margherita in bocca. A Sighetu Marmatiei ci fermiamo in un albergo ombreggiato da grandi alberi, un po’ fuori paese. La città è malata di febbre. Febbre di solitudine e di miseria. Un mondo lontanissimo dal sorriso fiorito delle campagne. All’albergo centrale si sta svolgendo il banchetto di un matrimonio. Fuori, sul marciapiede, un’umanità lacera e triste di mendicanti, storpi e paralitici mangia gli avanzi portati in un cartoccio da un cameriere di buon cuore. Bambini zigani, scuri e magri, si uniscono a questa inaspettata cuccagna, come rapidi passerotti famelici in un gruppo di piccioni. Uomini ubriachi vagano barcollando come fantasmi per le strade, o si radunano in grappoli silenziosi davanti alle birrerie maleodoranti. Auto in corteo festeggiano un matrimonio strombazzando con il clacson. La Dacia degli sposi ha il cofano decorato da garofani e nastrini attaccati col nastro adesivo. A fare da apripista un’incredibile rumorosissima banda di vecchie motorette infiocchettate e sfumicanti.


Il sole polveroso della sera infiamma i gladioli delle venditrici di fiori sulla piazza, le prime ombre cancellano le brutture e la cittĂ rinasce nella sera azzurra. Nella sala ristorante del nostro hotel c’è una festosa animazione. Il complessino suona le sue canzoni e le coppie danzano, fanno piroette, battono le mani. E’ sabato sera su tutta la vecchia Europa. A Sighetu Marmatiei uomini e donne parlano, ballano e sorridono con il futuro negli occhi.


20/08/1989 da Sighetu Marmatiei a Cluj Napoca Simboli nel legno

Sapinta è un villaggio di campagna in terra Maramures. Oche, mucche, cavalli e galline sono di casa fra le sue stradine deserte, su cui transitano rarissime automobili. La vita qui segue il ritmo del sole e delle stagioni. Il lavoro degli uomini e delle donne è duro come la terra da zappare, e pesante come la neve sui tetti a febbraio, ma è anche dolce come il latte appena munto, e lieve come il profumo dei meli e dei ciliegi a primavera. Dagli antichi Daci e dai Traci il passato ha trasmesso la sua voce senza interruzioni e un’antica civiltà rurale dalle profonde radici, forse l’ultima d’Europa, si è trasmessa e conservata, intatta e viva, fino ai nostri giorni. Testardi e indipendenti, isolati nelle loro valli protette dai monti tra la Transilvania e l’Ucraina, i Maramures sono contadini per necessità e artigiani e artisti del legno per passione. Al legno hanno affidato il loro cuore, la loro anima e i loro simboli di vita e di morte. Il legno conserva lo spirito dell’albero e non muore mai. Lavorarlo, intagliarlo, significa estrarne l’essenza segreta, rivelare e portare alla luce il legame sacro che ci unisce alla terra e al cielo. Albero come uomo, bosco come collettività, legno scolpito come essere umano evoluto e realizzato, padrone del significato di ogni segno. Anche il cimitero di Sapinta è fatto di legno. Quelli che prima erano alberi ora formano un fitto boschetto di croci. Croci splendide, finemente intagliate e dipinte con colori squillanti e gioiosi. "Da quando ero bambino, lavoravo dal mattino, poi oste mescevo vino, nel bicchiere e bicchierino". "Nella vita ho lavorato, sempre bene ho cucinato".


Su ogni croce una frase ingenua, a volte lapidaria e pungente, descrive con ironia il carattere del defunto, i suoi pregi, ma soprattutto i suoi difetti e le sue particolarità e un dipinto lo raffigura in un attimo tipico della sua vita, o lo ritrae in un’immagine priva di qualunque enfasi. Il legno di ogni croce, santificato dalla mano dell’uomo, non diventerà cenere, ma albero divino che protegge l’anima e il ricordo di chi vi giace sotto. Si capisce subito perché viene definito Cimitirul Vesel, il cimitero gioioso. Lontano da qualsiasi retorica e ipocrisia, abolito ogni funereo linguaggio sepolcrale, messi al bando marmi, pietre, lampade votive e ogni altro orpello mortuario, è diventato un semplice punto d’incontro tra i vivi e i morti, una piazza, una comunità mista, dove ognuno ha conservato il proprio carattere ed è ancora riconoscibile. La morte per i Maramures è allo stesso tempo un fatto naturale e magico. Un cambiamento di stato inevitabile, che però non interrompe il rapporto con chi se ne è andato. E' tradizione che nel giorno dedicato ai morti, la Luminatia, le famiglie si riuniscano presso le tombe per mangiare insieme a chi è scomparso. Si piange e si sorride, si prega e si brinda, mentre il vento di novembre che scende giù dai monti come un brivido gelato, scompiglia i fiori, agita le candele e apparecchia le tombe con tovaglie di nebbia grigia. Ora invece, in questa domenica mattina trasognata e profumata di fieno, il cimitero di Sapinta, piccola Spoon River rumena, è una pergamena miniata srotolata sotto il sole, da leggere in silenzio. Una croce è per Andrei, raffigurato sul suo trattore arancione nel campo e poi con gli amici a giocare a carte. Un’altra per Nastasia, vecchina che filava la lana davanti casa e spettegolava con altre comari. Una croce bella per Dorina, la bimba che finì sotto la corriera e volò in cielo con il suo bel fazzoletto a roselline annodato sotto il mento. Sembra dire: “addio, compagne di scuola, addio vestitino della festa, addio, cagnolino bianco che mi correvi sempre incontro sul cancello”. E Petru che sta per finire sotto un treno, alza la mano e sembra dire: “addio ai balli e alle feste, addio alla mia maschera di legno del primo di dicembre, addio portone scolpito di casa mia. Mancava ancora una figura, era una croce, la mia.” Storie di vite intere rappresentate in un attimo, con tocco ingenuo e poetico, irriverente e struggente, con un sorriso di comprensione in un commiato accorato. Un sorriso che consola e che affratella al di là delle lacrime e del dolore. Il piccolo cimitero e il sagrato della chiesa si vanno riempiendo di persone, mentre il pope sta ultimando i preparativi per il rito domenicale. I vecchi indossano l’elegante costume di tela bianca con giubba blu di lana pesante. Le donne anziane vestono ampie gonne scure, fazzoletti a fiori, spessi gilè e bluse immacolate dalle maniche a sbuffo. Le giovani e le bambine sono tutto un tripudio di roselline sui fazzoletti e sulle gonnelline gonfie dai mille colori. Vivi e morti si mischiano insieme nel cimitero di Sapinta. Fra le croci colorate è tutto un ondeggiare di altri colori, tra i fiori delle tombe è tutto un agitarsi di altri fiori.


Ora il salmodiare del pope si spande nell’aria limpida, come un eco antico, una nenia ipnotica che si allarga in un’onda circolare. La chiesa è gremita e molti partecipano alla celebrazione dal portico. Le mamme ravviano le trecce e i fazzoletti delle loro figliole, aggiustano una trina, una piega delle loro gonne fiorite. I ragazzi, se ne stanno raggruppati tutti insieme, seduti sulle tombe del cimitero, con il cappello da uomo in testa, un po’ troppo grande, e i capelli ben pettinati con la scriminatura tirata col righello. Parlottano tra loro a voce bassa e intanto, con occhio attento, scrutano il passaggio di ogni ragazza, intessono trame di sguardi nascosti, fieri dei baffi lasciati crescere da poco, della camicia candida e dell’anello d’oro che brilla sulla mano di contadino cotta dal sole. Ragazza Maramures alla messa di domenica mattina, la tua gonna è come la collina fiorita a primavera, il tuo fazzoletto sulle trecce è il giardino di casa tua con le rose di giugno. Davanti al portale di legno intagliato da tuo padre, incontrerai il tuo sposo, quello che vedesti dentro lo specchio nella notte di capodanno, e che ora ti osserva mentre passi composta tra le compagne. Così le storie dei morti si intrecciano con quelle dei vivi. Fresche storie d’amore nascono tra le tombe. Quelli che se ne sono andati hanno generato semi di fiori sconosciuti, che ora sbocciano sotto il legno secco delle croci. Al museo di Sighetu Marmatiei, l’intero mondo di legno vivo dei Maramures ci sfila sotto gli occhi. Maschere in legno intagliato, animalesche e terrifiche, ci lanciano vuoti sguardi diabolici dalle pareti. Antichi strumenti di lavoro ci stupiscono perché pressoché uguali a quelli che abbiamo visto in mano a molti contadini, o appoggiati agli steccati delle case. E poi portali scolpiti con motivi complessi e intricati: simboli arcaici e simboli cristiani, il sole pagano, la corda infinita che si intreccia in eterno, la croce. Tutta la cultura Maramures sembra nascere da un unico albero, un solo antichissimo tronco di legno intagliato, che continua a generare rami e foglie. Riprendiamo il nostro giro tra le valli alla ricerca delle chiese di legno. Si innalzano in mezzo al verde, al bordo dei villaggi, scure e misteriose come navi arenate. Ricordano vagamente le stavkirker norvegesi e stupiscono con i loro tetti enormi e con uno slancio verticale così insolito in un mondo di linee morbide e ondulate. I campanili sono frecce puntate verso il cielo, così aguzzi e affilati da sembrare taglienti. All’interno la rigida ieraticità ortodossa è addolcita da un velo di ingenuità di campagna. Tutto è di legno, persino le campane vengono usate raramente, preferendo delle semplici percussioni su di un asse. Negli intagli, ancora una volta, simboli pagani si intrecciano a simboli religiosi. Risaliamo la valle del Buzan, le case di legno sono piene di vita e complessi portoni lavorati le sigillano in un’ isola sacra, protetta dai misteri dei boschi. La campagna, man mano che saliamo, si fa struggente.


A un bivio tra una croce di legno e un melo, un vecchio nel candido abito tradizionale ci appare come un angelo. Angelo bianco del bivio, assorto nei suoi pensieri, con lo sguardo perso nel verde della vallata. La strada sale su per il passo Gutii. I prati si fanno rasi e ondulati, sembrano coperti di muschio vellutato. Barriere di abeti neri formano muraglie impenetrabili di ombra spessa. Una corsa veloce nell’afa del pomeriggio ci porta fuori da queste terre incantate. Passiamo sotto un grande portale di legno scolpito che segna il confine del piccolo magico mondo Maramures. Il resto del viaggio è un piacevole scivolare per campagne e paesini addormentati, dove la domenica, da secoli si santifica standosene seduti sul ciglio erboso davanti casa, guardando la strada e parlando coi vicini. A Cluj Napoca troviamo miracolosamente posto in un hotel sovraffollato da vari gruppi di turisti stranieri in viaggi organizzati. Ceniamo inaspettatamente bene, a lume di candela, notando con stupore lo sfoggio delle piĂš incredibili tenute da gran sera da parte di attempate turiste. Guardo e sorrido. Penso all’occhio arguto del pittore di Sapinta.


21/08/1989 da Cluj Napoca a Timisoara Il tempo del nostro viaggio

Cluj Napoca ha tre anime: una austriaca, una ungherese e una rumena. Cluj Napoca ha tre voci: una tedesca, una magiara e quella nazionale. Mattia Corvino cavalca il suo destriero dall’alto del monumento di fianco alla grande chiesa di Peter Parler che, con eleganza tutta viennese, accosta i suoi acuti gotici alle rotondità baritonali di qualche edificio barocco. In un’altra piazza una spiazzante lupa capitolina ricorda lontane radici latino romane. Per il resto basta guardare le lente, pazienti code che si snodano davanti ai negozi alimentari per rendersi conto di trovarsi nel cuore della Transilvania, in una delle tante città rumene schiacciate dai razionamenti, dalla miseria e dall’oppressione. Camminiamo senza fretta tra la gente. Zingare dalla pelle scura, con larghe gonne svolazzanti, passano come scie di colori violenti in mezzo al grigiore della folla. Anche le loro voci sono alte e forti sopra l’indistinto brusio generale. Uomini dallo sguardo assente siedono sulle panchine assolate della piazza. L’ombra del campanile gira come una lancetta d’orologio. Sfiorerà con l’apice della guglia le silenziose venditrici di fiori, indicherà uno ad uno i pesanti portoni dei palazzi, mostrerà una vetrina di fotografo, da cui sorridono timidi sposi in bianco e nero e ritratti di uomini con folti baffi scuri.


A un passo dal confine ungherese, Oradea si liscia i riccioli barocchi con indolenza, nella luce abbagliante del mezzogiorno. Freschi giardini ed eleganti palazzi jugendstil ritagliano oasi fiorite nella mappa della città. Il tortuoso giro del nostro itinerario si chiude a Timisoara, da dove era iniziato il trenta luglio, in una notte senza luci che ora sembra lontanissima, come il nostro spaesamento di allora. Adesso la città ci appare diversa. Nella sera calda e grigia, umida di pioggia e carica di elettricità. i suoi colori appaiono più morbidi e intensi. Nell’aria galleggia un senso di attesa, come di un temporale in arrivo. Scie di silenzio profondo seguono l’urlo dei tram. Una luce fioca si accende dietro qualche finestra. Persone pazienti, sedute sulle panchine, masticano semi di girasole, in attesa dell’ultima circolare che le riporterà a casa. Nel ristorante dell’albergo c’è un gran fermento. Camerieri frenetici volano dalle cucine alla sala, come api operose, per servire con ogni cura due tavolate di esponenti politici in visita per le prossime celebrazioni del 23 agosto. Bottiglie di vino pregiato, vassoi pieni di ogni ben di dio, frutta di ogni tipo, gelati, caffè, e una gentilezza esagerata sono beni riservati esclusivamente a questi grossi e tronfi membri del partito, che parlano ad alta voce e ridono forte, con aria arrogante da padroni. Hanno abiti grigi, facce grigie, grossi anelli d’oro e gemelli ai polsi. Osserviamo e commentiamo questo incredibile show insieme a una famiglia italiana fresca di confine. Per loro è il primo giorno rumeno, il primo impatto, e nei loro occhi riconosciamo lo stesso stordimento che ci colse all’arrivo. Mentre ai privilegiati vengono portate bottiglie di vodka e acquavite, noi, al nostro trascurato tavolo, cerchiamo di dare una buona partenza ai nostri connazionali e raccontiamo con entusiasmo le scoperte, gli incontri, le peripezie, le meraviglie, la magia della nostra piccola odissea rumena. Le ore passano in fretta e questa sera non c’è neanche il coprifuoco. Peccato che, nell’allegria della nostra serata, i due fantastici orologi russi che ci eravamo regalati, finiscono sbadatamente per essere dimenticati sul tavolo e mai più ritrovati. Strana sorte di questi orologi, comprati a Timisoara, in questo stesso albergo, la prima sera, e qui perduti, l’ultima sera, dopo averli portati in giro in un folle itinerario a zig zag per tutta la Romania. Hanno segnato per noi solo il tempo del nostro viaggio.


22/08/1989 Tornare

E così si torna. Il cerchio del viaggio si è chiuso. Abbiamo sistemato bene il bagaglio, stretto le corde elastiche, dato olio alla catena, abbassato le visiere dei caschi e siamo ripartiti nel mattino incerto e fosco di Timisoara, mentre i primi tram sferragliavano come sempre e gli zingari pulivano le strade. I loro fischi, i loro richiami si sono persi nel rumore della strada e noi, senza più voltarci indietro, ce ne siamo andati, quasi con un groppo alla gola, quasi da clandestini. Alla frontiera poliziotti indifferenti ci lasciano passare dopo un semplice controllo dei passaporti, senza accorgersi del tesoro preziosissimo che stiamo per contrabbandare oltre confine e che giace, ben nascosto tra le maglie da lavare, sigillato dentro quattro buste di plastica. Rullini fotografici da riportare a casa ad ogni costo, immagini ritagliate con lo sguardo e con il cuore, pezzetti di Romania da non dimenticare. Dentro di noi riportiamo anche tutti i regali ricevuti dalle persone incontrate: la treccia di cipolle del contadino sulla strada di Girbova, la tanica dell’uomo che correva dentro il temporale, la tanica di Bogdan, la rosa di Elena, la cena nella casetta bianco-verde di Maria, i 5 litri di benzina della famiglia di Bucarest in gita a Tismana, i due litri dell’uomo di Suceava, le chiavi di casa di Daciana che ci lasciò soli nel suo appartamento mentre lei faceva il turno di notte all’ospedale, le pere di Yon e poi tante storie raccontate, tanti saluti, tanti sorrisi….


La strada del ritorno è la stessa dell’andata, ma fatta al rovescio ci dà emozioni capovolte, visioni rovesciate. Ha un codice inverso. Si torna a casa, tutto scorre secondo il solito ritmo, tutto riprende il suo corso. Asfalto liscio, distributori di benzina ovunque, possibilità di fermarsi a mangiare qualunque cosa e nessuno che ti saluta con la mano, nessun sorriso. Tutto normale. Dopo Belgrado, l’indicazione errata e frettolosa di un casellante indifferente, unita alla nostra pigrizia di tirare fuori la carta stradale sotto la pioggia battente, ci porta a sbagliare direzione e a imboccare dritti dritti l’autostrada per Nis anziché per Zagabria. Carichi di adrenalina divoriamo le distanze e ci accorgiamo dell’errore solo dopo un centinaio di chilometri. A testa bassa, in silenzio, nella pioggia, invertiamo la rotta e torniamo indietro. Emozioni capovolte, visioni rovesciate, codice inverso. Stanchi e ubriachi di chilometri ci ritroviamo finalmente oltre le trafficate autostrade slave, oltre Zagabria, in una regione verde e boscosa, velata nella sera dolce da fitte cortine di nebbie. Come in un magico paesaggio di Avalon, una specie di fumo lattiginoso si annida in ogni cunetta e avvallamento del terreno e vaga strisciante e misterioso sulla terra umida e calda. In questa zona nebulosa, sospesa tra il sogno e la realtà della strada, incontriamo una piccola locanda solitaria, semplice e linda che accoglie, confortevole, la nostra stanchezza. Ci servono bistecche giganti, e patatine, e susine nere appena colte dall’albero del giardino. Ricoverano la moto sotto una tettoia. Ci danno una stanzetta in mansarda, pulita e scricchiolante di legno. Piumini immacolati. Le dieci di sera sono passate da un pezzo e nel sonno che arriva, pesante come un’onda densa, sentiamo qualcuno che canta dalla sala da pranzo sotto di noi. La Romania sembra lontana mille anni luce. E intanto negli alberghi avranno spento le luci già da un pezzo e qualche turista si starà lamentando del servizio in qualche Dacia hotel. E intanto le ciminiere di Hunedoara fumano lente davanti al castello. A Sapinta un pittore sta dipingendo una croce di legno. A Sighisoara nella casa di Vlad Tepes i garofani sfioriscono sui tavoli della locanda. A Tulcea il Danubio, stanco, dopo aver attraversato mezza Europa, fiuta il mare vicino e sospira nella notte. Glii zingari di Tirgu Jiu coi loro cavalli vanno verso un nuovo giorno, con occhi senza paura, affamati di vita. Gli angeli delle chiese ortodosse riposano con le ali ripiegate.


I monasteri dipinti si sono alzati in volo sopra le foreste silenziose e le casette dei villaggi dormono sotto una luna di stagnola. ‌E intanto, in qualche cantina di Timisoara, alcuni uomini a lume di candela stanno preparando una rivoluzione.

FINE

foto e testi Š Giuliana Cavezzi & Antonio Corradetti vietata la riproduzione Tutta la storia per immagini su:

http://kilometriefotoromania.jimdo.com/


Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.