Christian Balzano - Luci del Destino

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Tagliare la testa dell’artista? di Massimo Scaringella

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L’artista, da sempre, ha il diritto a vivere, costruire o creare in sintonia con la sua personale storia o fantasia o con la sua spesso accertata dualità. La sua legittimità è data dall’essere sempre uno spirito libero in cui la base della sopravvivenza estetica è la “ricerca” e non un risultato pratico. Per questo all’artista che concepisce, rischia e assume questa realtà (a volte fisica) non importa nulla del passare del tempo e del conseguente passare fisico dell’opera. Ma in generale egli esige, per il suo lavoro, un impatto di successo, di emozione e intimità che ponga chi entra in contatto con la sua opera, sia personalmente che attraverso altri mezzi di divulgazione, in una simbiosi metaforica e analogica di dialogo. Nel caso di Christian Balzano con questo ciclo di lavori, anche la cultura popolare frutto di scaramanzia, superstizioni e di credenze ancestrali diventa il contatto con la realtà esterna in cui l’artista non rinuncia alla sua sapienza, ma la separa dalla vita di ognuno, in particolare da se stesso. E questo impegno speciale deve essere interpretato sempre come un sostentamento dell’esperienza e del suo sviluppo fino al raggiungimento dell’obiettivo ricercato, concentrandosi sull’impegno ad aprire diverse strade, dimostrando l’intenzione di trasformare l’accanita lotta quotidiana di ciascuno contro la “malasorte” in una evoluzione di pensiero che non disconosce o respinge ciò che nella nostra cultura nasce dal “consacrato”. E dunque, se l’artista con il suo lavoro, affronterà con procedimenti dissacranti o artificiali il superamento del doppio gioco della realtà o della fantasia, tutto questo si rifletterà meglio sull’interesse crescente e contemplativo o addirittura partecipativo dell’osservatore, con un significato e un contenuto che sono una sfida alla sua spontaneità creativa. Ed egli è dunque cosciente che “la meraviglia del pensiero umano è uno dei principi della conoscenza e che se smettiamo di meravigliaci corriamo il rischio di non conoscere…”. In questo caso è il toro che fornisce il valore simbolico unitario, che si pone come vittima predestinata, ma anche come oggetto da idolatrare o da mistificare a seconda della visione personale, ma pur sempre “oggetto”. E gli oggetti aspirano a perdurare nel futuro come spazio proprio. Non si esauriscono nella transitorietà, rimangono nella memoria per il loro significato, seppur teorico, perché essi stessi possono essere a loro volta riconquistati attraverso la visibilità costante della forma (l’opera). L’esperienza oggettuale è quindi sempre pura attualità perché non esiste fuori della sorpresa, ma attraverso la ripercussione. L’esperienza può ratificare la validità di una teoria o può aprirne la strada, in modo che ci sia sempre una mediazione tra l’idea concreta e la sintesi, oppure ci induce comunque a conquistarla o a scoprirla. E nell’oggetto la sintesi ostenta maggior certezza, che l’analisi, però non è tutto, giacché la sintesi suppone tutto un cammino di ricerca antecedente. In


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