Territori 22

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Quadrimestrale dell’Ordine degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Frosinone Reg. Tribunale di Viterbo n. 408 del 31/05/1994

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gennaio-aprile 2010 - anno XVII - n. 22

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EDITORIALE Una divagazione sull’arte africana

Giovanni Fontana

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Giuseppina D’Errico

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L’ARCHITETTURA E LA STORIA Isola di Sora: il piano industriale per la rinascita della città attraverso i disegni di Giuseppe Giordano

TESI DI LAUREA I prospetti architettonici su corso Umberto I a Boville Ernica Restauro e indicazioni di orientamento cromatico

Cinzia De Paulis

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Il lago di Paola, dimora di Circe

Gaetano De Persiis

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Musei e didattica per “comunicare il territorio”: l’esempio di Casamari

Cinzia Mastroianni

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IL TERRITORIO E LA STORIA

In copertina: Abbazia di Casamari, foto di Giovanni D’Amico (particolare) Direttore responsabile Giovanni Fontana Comitato Scientifico Redazionale Daniele Baldassarre Luigi Bevacqua Francesco Maria De Angelis Alessandra Digoni Giovanni Fontana Wilma Laurella Stefano Manlio Mancini Giorgios Papaevangeliu Maurizio Pofi Alessandro M. Tarquini Massimo Terzini Responsabile Dipartimento Informazione e Comunicazione Francesco Maria De Angelis Segreteria di redazione Antonietta Droghei Sandro Lombardi Impaginazione e grafica Giovanni D’Amico Coordinamento pubblicità D’Amico Graphic Studio 03100 Frosinone - via Marittima, 225 tel. e fax 0775.202221 e-mail: damicogs@gmail.com Stampa Tipografia Editrice Frusinate 03100 Frosinone - via Tiburtina, 123 ORDINE DEGLI ARCHITETTI, PIANIFICATORI, PAESAGGISTI E CONSERVATORI DELLA PROVINCIA DI FROSINONE

SPAZIO E PROGETTO Discontinuità urbana, continuità architettonica

Vincenzo D’Alba

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La chiesa di Santa Elisabetta a Boville Ernica

Alberto Paglia

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Luigi Bevacqua

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ALTRI LINGUAGGI

Presidente: Vice Presidente: Vice Presidente: Segretario: Tesoriere: Consiglieri:

Bruno Marzilli Alessandro Tarquini Giulio Mastronardi Francesco Maria De Angelis Dario Giovini Lucilla Casinelli Laura Coppi Maurizio Ciotoli Felice D'Amico Roberto De Donatis

Consigliere Junior: Adamo Farletti

Africa? Una nuova storia

Segreteria dell’Ordine 03100 Frosinone - piazzale De Matthaeis, 41 Grattacielo L’Edera 14o piano tel. 0775.270995 - 0775.873517 fax 0775.873517 sito Internet: www.fr.archiworld.it e-mail: architettifrosinone@archiworld.it



EDITORIALE

sull’arte africana

Una divagazione

1. Giovanni Fontana con George Lilanga a Dar es Salaam, Tanzania, 2000. 2. Case decorate da Esther Mahlangu.

di Giovanni Fontana

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n questo numero lo spazio destinato agli “altri linguaggi” è impegnato da un articolo che Luigi Bevacqua ha dedicato alla mostra “Africa? Una nuova storia”, allestita a Roma, al Vittoriano, con opere della collezione Pigozzi ed una selezione di lavori scelti dalle ambasciate dei Paesi africani. Mi si perdonerà, allora, se, trascinato dalla circostanza, ho convertito il consueto spazio dell’editoriale in una nota informativa che riprende l’argomento, illustrando recenti eventi che, in parte, mi vedono coinvolto. Mi riferisco alla III Biennale Internazionale d’Arte di Malindi, curata da Achille Bonito Oliva e organizzata da Sarenco, in collaborazione con Giulio Bargellini (impegnato nell’arte, presso il suo museo Magi ’900 di Pieve di Cento, affidato alla direzione di Vittoria Coen, e dedito in Kenya a numerose attività filantropiche) e alle iniziative italiane riguardanti l’attività di Esther Mahlangu, l’artista sudafricana scelta dalla FIFA quale testimonial ufficiale per i Campionati del Mondo. Della Biennale, in programma nella città keniana dal 29 dicembre 2010 al 28 febbraio 2011, è stata presentata, il 2 ottobre, un’anteprima al Magi ’900. Achille Bonito Oliva ne ha illustrato i caratteri, soffermandosi sugli aspetti multiculturali, transnazionali e multimediali. Per l’occasione sono state proposte performance di Julien Blaine, Sarenco e del sottoscritto. Circa le iniziative che riguardano la Mahlangu, invece, ricordo che l’artista è arrivata in Italia per realizzare, a Firenze, un grande murale in onore di Nelson Mandela, per inaugurarne un altro, già realizzato in collaborazione con gli studenti dell’Accademia di Belle Arti, a Calenzano, e per aprire due retrospettive, al Magi ’900 e alla Galleria “Franco Riccardo” di Napoli. Anche qui un importante ruolo nell’organizzazione è svolto da Sarenco, artista tra i massimi esperti di arte africana, scopritore di talenti, promotore e curatore di importanti eventi nel settore. Attualmente sta realizzando per le edizioni di Adriano Parise i cataloghi generali delle opere di Kivuthi Mbuno, Maurus Malikita, Joseph Lyombo, Mohamed Charinda, Mikidadi Bush e George Lilanga. Di quest’ultimo, scomparso nel 2005, è già uscito il quarto volume delle opere. Di Esther Mahlangu, nata nel 1935, ricordiamo l’appartenenza alla tribù Ndebele, che raccoglie vari gruppi etnici diffusi nello Zimbabwe occidentale e nella regione del Transvaal a nord-est del Sud Africa. La sua consacrazione come artista di livello internazionale è avvenuta nel 1989 con la mostra Magiciens de la terre tenutasi al Centre Pompidou di Parigi. Da quel momento non si contano le sue mostre nei più importanti musei del mondo. Tra i lavori più significativi ricordiamo la facciata del palazzo della BMW a Washington, le decorazioni

sulle code degli aerei della British Airways e l’affresco alla Biennale di Lione in collaborazione con Sol Lewitt. La Mahlangu inizia a dipingere a dieci anni, seguendo lo stile pittorico della tradizione locale, la cui tecnica è trasmessa in linea femminile. Secondo il rituale, le donne ridipingono le case in occasione della cerimonia di passaggio dei figli maschi dalla pubertà all’età adulta. Sulle pareti è creato un fondo liscio utilizzando sterco di vacca e gesso, sul quale sono poi tracciate caratteristiche forme geometriche colorate, contornate da un rigo nero per far risaltare i colori sul fondo bianco. Particolare poco noto, ma fondamentale nella tecnica pittorica di Esther Mahlangu, è che l’artista, nel rispetto della tradizione Ndebele, non utilizza normali pennelli, ma usa solo penne di gallina, tenute assieme da uno spago come a formare una piccola fascina. Le sue figure geometriche, pur riferite alla tradizione, sono di una straordinaria contemporaneità. Divenuta un’artista di fama mondiale, la Mahlangu vive ancora nel suo villaggio a stretto contatto con la propria cultura; lì ha costruito una scuola per tramandare la propria arte alle nuove generazioni. Gli artisti invitati alla Biennale di Malindi Tra gli artisti africani sono presenti i kenyani Hellen Anyango, Lonaa, Kivuthi Mbuno, Cheff Mwai, David Ochieng, Richard Onyango, N.V. Parekh, Abdallah Salim, Peter M. Wanjau, i tanzaniani Mikidadi Bush, George Lilanga, M. Maurus Malikita, i sudafricani Rodney Barnett, Esther Mahlangu, Guy Tillim e Graeme Williams, l’angolano Antonio Ole, dallo Zambia Stephen Kappata e dal Mozambico Ricardo Rangel. Tra i non africani, i francesi Bernard Aubertin, Julien Blaine, JeanFrançois Bory, Pierre Garnier, il canadese Monty Cantsin, l’olandese Hans Clavin, il belga Luc Fierens, il giapponese Shozo Shimamoto, il cinese Zhao Bandie e gli italiani Francesco Baronti, Eros Bonamini, Luigi Colajanni, Giuseppe Desiato, Giovanni Fontana, Fabrizio Garghetti, Riccardo Guarneri, Patrizia Guerresi, Innocente, Arrigo Lora-Totino, Ignazio Moncada, Umberto Polazzo, Sarenco, Giovanni Sesia, Luigi Tola.

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L’ A R C H I T E T T U R A

di Giuseppina D’Errico*

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e vicissitudini legate all’installazione di una trafila di fili di ferro nell’Isola di Sora, odierna Isola Liri, alla fine del XVIII secolo, sono state ampiamente trattate in più riprese da autorevoli studiosi1, ma nuovi dati acquisiti nel corso delle mie ricerche hanno permesso di fare chiarezza sull’intero progetto di industrializzazione. La prima informazione interes-

Isola Liri era già stato appurato in passato, il ritrovamento di un cospicuo incartamento inedito conservato presso l’Archivio di Stato di Napoli, dal titolo Atti formati di Sovrano Real Comando su dei progetti del Can. D. Giacinto Pistilli dell’Isola di Sora circa le macchine Idrauliche da potersi formare col beneficio delle acque che sgorgano in detta Terra3, ha consentito di

ISOLA DI SORA: il piano industriale per la rinascita della città attraverso i disegni di Giuseppe Giordano sante è quella desunta dall’originale curriculum vitae stilato dall’architetto napoletano Giuseppe Giordano nel 1821, in cui riferisce dell’affidamento del suo primo incarico importante nel 1792, quando «volendo Sua Maestà stabilire nell’isola di Sora una fabbrica di fili di ferro estero da supplire ai bisogni del Regno» fu incaricato del progetto e nominato Direttore2. Se il coinvolgimento di Giordano nella vicenda dell’impianto di alcune fabbriche nei territori di

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chiarire definitivamente, oltre l’esatta cronologia, l’apporto e la posizione dei diversi protagonisti, nonché di pervenire a una dettagliata descrizione dei pro*Architetto, nel 2009 consegue il titolo di Dottore di ricerca in Storia e critica dell’architettura, presso la Seconda Università degli studi di Napoli, con una tesi dal Titolo “Dall’architettura all’ingegneria: l’opera di Giuseppe Giordano nel Regno di Napoli (1764-1852)”.


getti rappresentati nei grafici firmati da Giuseppe Giordano. Il vasto programma restò, di fatto, incompiuto a causa delle vicende politiche della Repubblica Partenopea e dell’invasione francese nel Regno; ma la sua analisi è comunque molto interessante perché offre una istantanea a quella data dei territori in esame e dei più importanti edifici produttivi esistenti che avrebbero dovuto servire da modello per le nuove fabbriche borboniche. Gli insigni studiosi che si sono occupati del caso sono concordi nell’attribuire l’iniziativa del processo di industrializzazione dell’Isola a un imprenditore dello Stato Pontificio, Giovanni Antonio Sampieri, già titolare di una fabbrica di ferro filato a Roma, che nel febbraio del 1795 strinse accordi con lo Stato Borbonico per avviare un complesso per la trafilatura del ferro, che sfruttasse la forza motrice delle acque del fiume Liri4. L’analisi dell’originale documento da me ritrovato ha permesso di retrodatare l’intera vicenda al 1790, quando il Canonico della collegiata di Castelluccio Giacinto Pistilli, originario dell’Isola di Sora, presentò al Re Ferdinando il progetto di «costruirsi per conto dell’Erario col beneficio delle acque che sgorgano in detta Terra non poche macchine idrauliche da fonder cannoni,

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da filar ferro, rame ed ottone, da far carta su gusto di quella di Olanda, da valcar panni, da secar tavole, e da trarre la seta»5. Lo scopo era quello di strutturare in maniera diversa e più funzionale il territorio che, pur essendo dotato di fabbriche per la lavorazione dei panni di lana, di proprietà ducale, versava in condizioni estremamente arretrate, tanto da costringere numerosi lavoratori ad emigrare nel vicino Stato Pontificio. Il cosiddetto «piano Pistilli» per disposizione del Supremo Consiglio di Finanze fu comunicato all’avvocato Giovanni Minieri, in qualità di ministro generale del duca di Sora possessore del feudo. La proposta non fu accolta di buon occhio da Antonio II Boncompagni, duca di Sora, che temeva soprattutto per la sorte delle fabbriche di panni, la risorsa economica più rilevante del suo ducato. La questione con la Real Carta del 29 dicembre 1792 passa al vaglio del Tribunale di Campagna6, «col comando di dover questo Tribunale esaminare quanto l’una e l’altra parte si espone e ponderando quel che sopra praticarsi in veduta delle circostanze locali ne riferisse le risulte con quel che l’occorre»7. Il Regio Tribunale, nella persona del Commissario di Campagna Tommaso Oliva, nomina come periti Giuseppe Giordano e Vincenzo Ferraresi «ad finem reco-

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gnoscendi et referendi occurrentia». Tale conferimento d’incarico rappresenta una nota del tutto originale, che per la prima volta chiarisce la posizione di Giordano e Ferraresi chiamati a intervenire, quali delegati del Tribunale di Campagna, col compito di valutare la proposta di Pistilli, tenendo costantemente conto delle asserzioni di Minieri, con la conseguente formulazione di un progetto definitivo e di una stima delle eventuali opere da realizzarsi. Con una lettera del 29 aprile 1793 il procuratore di Pistilli richiese «per maggiori delucidazioni di esso sig. Commissario e della M. S. intorno all’esecuzione dei progetti dal suo Principale presentati», la pianta del fiume dell’Isola «per quell’estenzione soltanto che i periti eletti ritengono necessaria» e di tutti i siti e i territori e di «fare tutte le livellazioni necessarie», e ciò «per la facilitazione dei progetti medesimi». Giuseppe Giordano e Vincenzo Ferraresi, in qualità di Architetti Idraulici, iniziarono il 17 aprile 1793 un itinerario lungo e faticoso, durato 56 giorni, che li vide spingersi, con estenuanti viaggi, oltre che nei territori contermini all’Isola, fino ai confini dello Stato Pontificio, con trasferte che richiesero un particolare permesso accordato dal Re8. Il risultato dell’analisi approfondita dei luoghi effettuata dai

due tecnici fu una dettagliatissima relazione suddivisa in tre articoli, ciascuno dei quali strutturato in tre sezioni. Il viaggio consistette in un’attenta campagna di rilievo, volta a conoscere prima di tutto il territorio, al fine di dare con cognizione di causa un parere circa l’effettiva possibilità e utilità di impiantare le macchine proposte da Pistilli; ma soprattutto gran parte dei sopralluoghi fu

spesa nel rilevamento delle fabbriche da prendere a modello per la realizzazione dei progetti. Tutti gli spostamenti e le ricognizioni dei due architetti prima, e poi del solo Giordano in una fase successiva, sono ampiamente documentati in un circostanziato diario di viaggio, tenuto dallo stesso architetto, posto a corredo della inedita relazione. La prima parte delle ispezioni fu tutta finalizzata alla stesura di


una grande pianta di Sora e dei territori circostanti che avrebbe accompagnato la relazione9. I sopralluoghi non si esaurirono con la visita dei luoghi, ma continuarono con controlli alle vicine miniere di ferro di Morino e di Canneto, al fine di valutare l’effettiva possibilità di rifornimento del minerale da lavorare nelle manifatture da costruirsi nell’Isola, dunque per la prima volta, grazie all’originale rela-

Arch. Giuseppe Giordano, disegni della cartiera realizzata da Pio VI nella città di Subiaco e della fabbrica di fil di ferro per "100 tenaglie". A pag. 4-5: Arch. Giuseppe Giordano, Pianta topografica dell'Isola di Sora, 1793.

zione, si può documentare il tentativo di voler sfruttare le risorse locali e valorizzare le potenzialità del Regno, senza dover ricorrere alle importazioni dall’estero10. Le perlustrazioni si spinsero fino alla miniera di Campo di Grano11, ritenuta da tutti la migliore; tanto da essere preferita dall’amministratore stesso della miniera di Morino, il quale sosteneva che «nella istessa

ferriera di Morino» si fondesse «il minerale che si trasporta da Campo di Grano, quantunque le strade si ritrovino in pessimo stato»12. Non ancora soddisfatti, i tecnici si diressero, con i campioni di minerale estratti dai tre giacimenti esaminati, ad effettuare dei saggi alle ferriere di Subiaco e di Tivoli13. Dalle analisi effettuate sui campioni forniti dai due architetti, il

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Arch. Giuseppe Giordano, disegni del forno di fusione di Bracciano.

migliore materiale trafilato risultò essere quello estratto dalla miniera di Campo di Grano; ma da un’ulteriore verifica effettuata presso la ferriera di San Pietro in Montorio14 a Roma, neanche questo minerale si rivelò essere di buona qualità. Dunque i tecnici arrivarono alla conclusione che si sarebbe potuto utilizzare il materiale proveniente da Piombino, così come avevano visto fare durante i sopralluoghi nelle ferriere di Tivoli15, Conca e Fermentino16; senza però escludere una futura possibilità di sfruttamento di altri giacimenti, magari su sug-

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gerimento di esperti di mineralogia spediti in quel periodo in Germania ad approfondire le loro conoscenze. Dopo la perlustrazione delle miniere, il viaggio dei due architetti entrò nel vivo del progetto di industrializzazione, con la visita alle fabbriche da prendere a modello per la successiva progettazione. Gli architetti però non produssero grafici di tutte le fabbriche che visitarono, con motivazioni diverse da caso a caso. Per alcune, come a esempio per il Real Convitto del Carminiello a Napoli, che scelsero come prototi-

po per la progettazione di un filatoio da seta «all’uso del Piemonte», la spiegazione addotta fu della non necessaria iterazione di un modello ben conosciuto dal re17. Oltre che per il setificio del Carminiello i due architetti non produssero disegni di dettaglio nemmeno per la fabbrica di pannine, dal momento che la lavorazione della lana aveva nel distretto di Sora una tradizione secolare, e quindi sarebbe bastato realizzare un opificio simile a quelli esistenti visitati, e che sfruttasse al meglio le potenzialità del luogo.


Non esistono rilievi neanche per lo stabilimento per fondere i cannoni, poiché i tecnici si confessarono poco esperti, riconducendo la loro scarsa preparazione alla esigua presenza di macchine di tal genere nel Regno. Rivolsero invece la loro attenzione, con notevole impegno e dedizione, allo studio di impianti di ferriere e di cartiere, riproducendoli in dettagliati disegni. Si diressero nella cartiera già esistente a Sora, in località Carnello, distante un miglio dall’Isola, che produceva carta di scarsa qualità e che con la sua produzione non soddisfava più i

bisogni della popolazione. Infatti la maggior parte degli abitanti si riforniva di carta «forestiera» e specialmente di quella proveniente da Subiaco nello Stato Pontificio. Per questo motivo il 14 maggio 1793 Giordano e Ferraresi si recarono presso l’opificio per visionarne la tecnologia utilizzata. La scelta ricadde sul modello subiacense dal momento che questo rappresentava l’emblema dell’innovazione; infatti durante i restauri avvenuti nella seconda metà del XVIII secolo ad opera di Pio VI, venne dotata di una nuova tecnologia definita all’”olande-

N O T E 1. Cfr. G. E. Rubino, Archeologia industriale e Mezzogiorno, Roma, 1978, pp. 126144; P. Balbo, S. Castellet y Ballara, T. Paris, La Valle del Liri: gli insediamenti storici della media Valle del Liri e del Sacco, Roma, 1983, passim; G. E. Rubino, L’industria siderurgica nel distretto di Sora in età Borbonica, in AA. VV., Trasformazioni industriali nella media Valle del Liri in età moderna e contemporanea: atti del ciclo di conferenze tenute in Sora, novembre 1984-aprile 1985, pp. 140-141; S. de Majo, Manifatture, industria e protezionismo statale nel Decennio, in AA. VV. (a cura di A. Lepre), Studi sul Regno di Napoli nel Decennio Francese (1806-1815), Napoli, 1985, pp. 17-18; S. M. Mancini, Un’occasione perduta: il progetto della trafila dell’Isola di Sora nei disegni dell’architetto Giuseppe Giordano (fine sec. XVIII), in «La provincia di Frosinone», supplemento al n. 1, aprile 1990, a. VII, n.s. Terra dei Volsci. Contributi 1989, pp. 83-94; G. E. Rubino, Le fabbriche del sud, Napoli, 2004, pp. 192-194. 2. ASN, Scrutini di Polizia, f. 10. 3. ASN, Ministero delle Finanze, 2885 bis. 4. G. E. Rubino, Archeologia industriale e Mezzogiorno, op. cit., p. 129. 5. ASN, Ministero delle Finanze, cit., p. 1. 6. Il Tribunale di Campagna era un’istituzione esistente in Terra di Lavoro dal 1630, in cui il Commissario riprendeva i compiti che in passato spettavano a un Giudice di Vicaria che periodicamente era inviato in Terra di Lavoro quale commissario «contra delinquentes». Menzionati per la prima volta nella prammatica del 21 gennaio 1586, i commissari di campagna in tempi successivi sarebbero diventati giudici delegati permanenti, competenti per i delitti gravi contro le persone o il patrimonio di Terra di Lavoro. Per ulteriori informazioni sul Tribunale di Campagna cfr. Corpi armati e ordine pubblico in Italia (16.-19. sec.), a cura di L. Antonielli e C. Donati, Rubbettino, 2003, pp. 58-59. 7. ASN, Ministero delle Finanze, cit., p. 13. 8. «Si deve di necessità entrare in alcuni luoghi del finit.imo Stato Pontificio distanti poche miglia dalla suddetta Isola di Sora per osservare ed essere informato di varie circostanze confacenti al cennato progetto quindi è che lo rassegno a la sovrana intelligenza di S. M. e pel suo real permesso circa il passaggio nella Pontificia Giurisdizione». ASN, Ministero delle Finanze, cit., p. 13. 9. Il disegno a colori, pubblicato per la prima volta in G. E. Rubino, Le fabbriche del Sud, op. cit., p. 190, porta l’intestazione «Pianta Topografica dell’Isola di Sora - Fatta nell’anno 1793». Sul margine sinistro cartiglio con le due didascalie: «Spiegazione della Pianta: Tutta la tinta color rosa dinota la pianta delle Fabb.e antiche - La tinta color giallo dinota la risoluzione de nuovi progetti. A - Palazzo del Duca di Sora, B - Cascata verticale del Fiume Liri alta pal: 94, larga pal: 45, C - Cascata a pian inclinato di lung.a palmi 700, larga pal: 60, D - Mulino, Trappeto, e Lanificio, E - Ramiera dismessa, F Cappella nello spiazzo del Palazzo, G - Gran Scuderia, H - Chiesa Parrocchiale di S. Lorenzo, I - Chiesa, e Convento di S. Francesco, K - Ponte di Regno, L - Ponte di Campagna di Roma, M - Granajo del Duca, N - Cappella di S. Giuseppe, O - Giardini del Duca, P - Casino del Duca sopra la Collina di S. Sebastiano, Q - Avanzi di un’antico ponte Consolare volgarm.e d.to Marmone, R - Altro avanzo di un ponte antico d.to di S. Paolo, S - Cascatelle del Fiume Liri, T - Cappella di S. Restituta, ove fu decollata, V - Antica torre quasi diruta, X - Valchiera dell’I.ttre Duca, Z - Cartiera, Y - Mulino, & - Osteria, W - Casa del Can. Pistilli»; «Spiegazione del Progetto: I numeri 1,2,3,4, …fino al n. 16 - Dinotano l’andam. del p.mo Canale d’irrigazione da derivarsi dal Fiume Fivreno, nel luogo detto Carnello, i num: 17, 18, 19 …fino al n.o 26 - Dinotano l’andam. del 2.do Canale, Il n. I - E’ il Sito della Fonderia de Cann.i, Il n. Il - Sarebbe la posizione della Fabrica del Fil di Ferro con li Canali, che calano ad animare le rota, III - Sarebbe la situazione detta nuova Fabrica della Cartiera, IV - E’ la situazione della Fabrica del Filatoio, e Fornelli per trarre la Seta, V E’ la situazione della Sega ad acqua, VI - Situazione de i Forni di Fusione, e Ferriera. Tutto il rimanente nella Relazione si dimostra». In basso la dedica a Ferdinando IV P.F.A. Regnorum Suorum Emendatori e la firma dell’autore Ioseph Giordano Arch.» fecit. 10. Secondo quanto appuntato nel diario di viaggio tenuto da Giordano, il 2 maggio 1793 avvenne l’incontro col direttore della ferriera di Morino, Vitantonio Battiloro, e il giorno successivo con Luigi Sebastiano, amministratore della ferriera di Canneto. In Itinerario Giornale degli accessi fatti dagli ing. Ferraresi e Giordano col Sig. Commissario di Campagna D. Tommaso Oliva, all’isola di Sora, in ASN, Ministero delle Finanze, 2885 bis, cit., pp. 98 sgg. 11. Mentre l’esistenza del giacimento e del relativo stabilimento di Canneto, oggi distrutto, e di Morino, attualmente allo stato di rudere, è stata registrata dalla letteratura specifica, non si ritrovano informazioni circa la miniera di Campo di Grano sufficienti per tentarne una precisa localizzazione.


Arch. Giuseppe Giordano, progetto per la fabbrica di fil di ferro con centocinquanta trafile.

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se” che permise di aumentare in maniera esponenziale la produzione, riuscendo ad impegnare in alcuni periodi circa duecentocinquanta operai. I due tecnici, dopo aver visitato anche la cartiera di Roma sopra S. Pietro in Montorio18, furono sempre più convinti di progettare la cartiera di Isola sulla falsariga di quella di Subiaco e ne fornirono un dettagliato rilievo sotto la supervisione di Giuseppe Catani, Direttore dello stabilimento.

L’opificio si presenta come una naturale evoluzione delle cartiere tradizionali, rispetto alle quali presenta una pianta rettangolare allungata, che consentisse l’installazione delle complesse apparecchiature, capaci di compiere le differenti operazioni secondo un ciclo di lavorazione a catena. La cortina muraria viene a acquisire numerose aperture per una maggiore illuminazione dell’ambiente di lavoro, oltre che per l’inglobamento nel medesimo edificio,

della zona di essiccamento della carta19. La pianta della cartiera era inoltre caratterizzata da una serie di serbatoi che avevano la funzione di purificare l’acqua proveniente dall’Aniene, altrimenti torbida. Gli architetti sottolinearono nel loro rapporto, che volendo costruire una fabbrica simile a Isola, si sarebbe risparmiata la realizzazione di tali espedienti, considerando la limpidezza delle acque del Liri e la forza della loro caduta.


Oltre alla cartiera, i tecnici ritennero necessaria la valutazione della costruzione di un forno di fusione per ridurre il «ferraccio» a ferro e di un maglio mosso dall’acqua con la sua incudine per batterlo. Quindi proseguirono alla volta di Bracciano, dove si soffermarono sullo studio del forno di fusione posto a completamento del complesso della ferriera, che rilevarono minuziosamente, e che avrebbe dovuto servire da modello per la fonderia dell’Isola20. Per l’industria

siderurgica pontificia il forno fusorio di Bracciano aveva una grande importanza strategica, infatti insieme all’impianto di Canino e di Conca21, era l’unico a produrre la ghisa che alimentava le diverse ferriere dello Stato. Un’altra fase fondamentale della campagna di rilievo fu quella riservata alle ferriere realizzate per volere dei Pontefici romani, sul modello tedesco, a Ronciglione, Bracciano e a Roma stessa, sopra San Pietro in Montorio22.

12. Ivi, p. 88. 13. Notizie sulla ferriera di Subiaco sono contenute in S. Appodia (a cura di), L’area industriale degli opifici di Subiaco, Roma, 1996, passim; per un approfondimento sulla ferriera di Tivoli si veda R. De Felice, L’industria del ferro nei Dipartimenti romani dell’Impero francese, in «Studi Romani», Anno IX, n. 1, Roma, Gennaio-Febbraio 1961, p. 34. 14. Alcune informazioni sulla ferriera di S. Pietro in Montorio sono contenute in A. Cassio, Corso dell’ acque antiche portate da lontane contrade fuori e dentro Roma sopra Roma, Roma, 1756, p. 415. 15. Sopralluogo del 16 maggio 1793. Dall’Itinerario Giornale, cit. 16. Sopralluogo del 23 maggio 1793. Dall’Itinerario Giornale, cit. 17. «Non abbiamo stimato per ora farne i disegni, per essere troppo cognita alla M. del Sovrano», ASN, Ministero delle Finanze, 2885 bis, cit, p. 96. 18. Notizie su questa fabbrica, e sull’attigua ferriera sono contenute in A. Cassio, Corso dell’acque antiche portate da lontane contrade fuori e dentro Roma sopra Roma, MDCCLVI, p. 415: «Sopra alle III Mole Innocenziane sono stati accresciuti gli edifizi della Cartiera e della Ferriera in distanza di pochi passi. Quella fin ad ora supera tutte le qualità delle carte forestiere, sembrando al tatto morbido lustrino: questa e per la grandiosità di vari dispendiosi stromenti per filare, e tondeggiare a forza d’acqua in più figure il ferro, produce ammirazione, ed utile alla città tutta, e allo Stato, che per l’addietro ne facea provisione da lontani Paesi. Dell’introduzione di questi Artifici ne ha la Gloria il provido Pontificato di N. S. Benedetto XIV, che vi ha data la mano, leggendosene la perenne memoria scolpita in questa lapida per la cartiera; lasciandoci il Sig. Co. Sampieri Erettore in desiderio dell’altra. Sub Auspiciis Benedicti XIV P. O. M. Aedificium Cum Officina Cartaria Aere Proprio A Fundamentis Extruxit Joannes Baptista De Sancto Petro Ann. Jub. MDCCL». 19. Manifatture in Campania, op. cit., p. 45. 20. «Ritornati dall’accesso il solo Giuseppe Giordano dai corti fatti in sopralluogo fece un altro disegno consistente anche nella pianta profilo ed elevazione di un forno di fusione delineato simile a quello di Bracciano per fondere 2.000 cantaia di minerale». Cfr. Itinerario Giornale, cit., p. 110. Il grafico, oggi conservato presso BNN, Sez. Manoscritti e rari, Ba 28/15, era corredato da una minuziosa didascalia esplicativa: «Spiegazione della Pianta: 1 – Officina inferiore a piedi del forno, 2 – Pianta del forno, 3 – Pianta dell’Arcella o Mantice, 4 – Piastra di ferro acre per poggiarvi la loppa, 5 – Argano per tirare il ferro nel Piscinale, 6 – Piscinale per raffreddare il ferro, 7 – Porta d’ingresso, 8 – Intercapedine per evitare l’umido, 9 – Officina superiore del getto, 10 – Asse per buttare nel forno, 11 – Magazzini del ferro, 12 – Cortile scoperto, 13 – Fornaci per brustolire il minerale, 14 – Piastre di ferro acre per pistare il minerale, 15 – Magazzini del carbone, 16 – Canale dell’acqua di cinque venti, 17 – Camerino per contare le some; Spiegazione del Profilo: 1 – Officina inferiore ai piedi del forno, 2 – Profilo del forno, 3 – Elevazione del Mantice, 4 – Regolatore del vento, 5 – Arco di fabbrica che rafforza il forno, 6 – Argano per tirare il ferro del piscinale, 7 – Bocca del getto, ed esito della fiamma, 8 – Intercapedine per scostare il terrapieno, 9 – Officina del getto, 10 – Profilo de’ magazzini del carbone, 11 – Profilo del Canale, 12 – Camerino del conta some, 13 – Elevazione del canale del vento». 21. «Tre forni fusorii di ferro si trovano nello Stato Pontificio, benché non v’abbia miniera alcuna di questo metallo in attività. Uno è a Conca, l’altro a Bracciano ed il terzo in Canino, località comodissime e pel combustibile e pel trasporto». L. Serristori, Notizie d’interessi materiali negli Stati Pontifici, in «Annali universali di statistica, economia pubblica, storia, viaggi e commercio», Milano, presso gli editori degli Annali universali di medicina e di statistica, giugno 1841, p. 344; altre informazioni sul forno di Bracciano sono contenute in G. Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, op. cit., p. 236; Zuccagni, Orlandini, Attilio, Corografia fisica, storica e statistica dell’Italia e delle sue isole, Firenze, 1843, p. 581. 22. Proprio per questo motivo il Commissario di Campagna Oliva ordinò ai tecnici di recarsi a Roma per rilevare la macchina di fil di ferro e per «pigliare tutte le notizie che l’accompagnano». In ASN, Ministero delle Finanze, 2885 bis, cit., p. 91. 23. Sono scarse le notizie sulla fabbrica di Roma, oggi non più esistente, mentre invece studi approfonditi sono stati condotti sulla antica ferriera di Ronciglione. Cfr. R.Castori-S.Ragonesi, Le ferriere di Ronciglione, Viterbo, 1991; E.Guidoni, La Ferriera, op. cit., passim. 24. ASN, Ministero delle Finanze, 2885 bis, cit., p. 92. 25. BNN, Sez. Manoscritti e Rari, Ba 28/11. 26. ASN, Ministero delle Finanze, 2885 bis, cit., p. 92.


Arch. Giuseppe Giordano, pianta dell'Isola di Sora.

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TERRITORI

La trafila di Roma era composta da 10 tenaglioni, congegno che permetteva di trafilare una quantità di fil di ferro del tutto esigua in confronto ai reali bisogni della città; infatti si suppliva a questa carenza utilizzando il ferro proveniente dall’altra fabbrica di Ronciglione23. Se si fosse progettata una trafila che avesse sfruttato la stessa tecnica usata in quelle dello Stato Pontificio, per arrivare a una produzione tale da soddisfare il fabbisogno del Regno di Napoli, di cui i due architetti si erano preventivamente informati presso la Regia Dogana, ci sarebbe stato bisogno di almeno 100 tenaglioni, che, se disposti alla maniera romana, avrebbero richiesto un’area troppo estesa e una spesa troppo alta per azionarli. I tecnici ovviarono a tale inconveniente abbracciando l’idea innovativa e vantaggiosa di disporre i tenaglioni su più livelli; così che mentre «i cilindri con

le loro palmette fanno giocare i tenaglioni situati sul palco, con altrettante palmette applicate nei medesimi cilindri tra gli spazi delle prime, far giocare altrettanti tenaglioni da situarsi a pian terreno»24. Sulla base delle ricognizioni effettuate nelle varie ferriere dello Stato Pontificio, gli architetti provvidero a stilare il disegno di una fabbrica di 50 tenaglioni situati su due livelli25; dunque uno studio che faceva tesoro dei modelli visionati e in più si arricchiva dell’ingegnosa idea progettuale. Analizzando l’edificio attraverso il grafico si evince un impianto rettangolare, disposto parallelamente al canale da cui si sarebbe attinta l’acqua per l’alimentazione, articolato in nove campate regolari, di cui le cinque centrali erano occupate dai tenaglioni e le quattro laterali, disposte due per lato in maniera simmetrica, adibite molto probabilmente a magazzini, e separate dalle restanti campate mediante due avancorpi contenenti i servizi. La facciata, scandita da bucature rettangolari disposte su tre livelli, prevedeva un unico ingresso centrale con vano arcato, concluso con una copertura lignea a doppio spiovente. Una volta ultimato il disegno della trafila, che sarebbe dovuto servire per il calcolo preciso della spesa occorrente per la costruzione di un simile manufatto, i tecnici ne stabilirono la collocazione in prossimità di quello che avevano chiamato secondo canale, che si trovava a un’altezza pari a circa 30 palmi dal piano di calpestio della costruenda fabbrica. La vicenda del complesso per la lavorazione del ferro non si

esaurì con la stesura dei citati grafici di rilievo. Infatti nel diario di viaggio di Giordano è contenuta l’annotazione che al ritorno a Napoli l’architetto «fece un disegno consistente nella pianta, elevazione e profilo dell’edificio della Trafila per 140 tenaglioni dettagliato in tutte le sue parti»26. Lo stabilimento si presentava come una riproposizione dello studio effettuato in precedenza sulla fabbrica di Sampieri, con l’aggiunta delle innovazioni progettate, il tutto però accresciuto nelle dimensioni. Il disegno oltre a riportare in basso a sinistra la firma di Giordano, reca sul lato inferiore destro le firme e le approvazioni di Sampieri e del suo Ingegnere Tommaso Zappati. Dunque il grafico è collegato a quella fase progettuale successiva alle prime ipotesi del 1793, e che vede l’introduzione della figura dell’imprenditore Sampieri. La presenza di un imprenditore privato, pronto a sponsorizzare l’opera, è leggibile anche attraverso l’analisi della fabbrica, che assume forme più imponenti e di maggior prestigio, prendendole in prestito dalla tradizione dell’architettura aulica e in particolar modo dallo stile vigente a quell’epoca in quell’ambiente, con la finalità di propagandare l’attività dell’impresa. Le varie tappe del viaggio dei due architetti denotano una profonda conoscenza a priori della storia delle diverse produzioni, della loro evoluzione, delle innovazioni, e soprattutto dei luoghi dove sono avvenute, che ha permesso loro di andare a attingere alla fonte, e di documentarsi sul campo attraverso minuziose operazioni di rilevamento.


TESI

di Cinzia De Paulis

E

, improvvisamente, appare la collina di Boville; avvicinandosi sempre più, si scorge imponente la cerchia delle mura antiche, con le sue diciotto torri, dietro cui spunta il profilo dei tetti e dei campanili; …quasi si riesce a sentire il suono delle campane. [...] Questa è la visione che ho sempre ammirato e che colpisce chi si avvicina a Boville Ernica, città della Ciociaria a circa 500 metri

Università degli Studi di Roma “La Sapienza” Facoltà di Architettura “Valle Giulia” Tesi di laurea Corso di Restauro architettonico Relatore: prof. A. Curuni Laureanda: Cinzia De Paulis

tà e di sicurezza; ma la ragione che indusse alla scelta di tale luogo fu anche un’altra: la presenza dell’eremo dove era vis-

DI

LAUREA

suto S. Pietro Ispano. Intorno alla grotta che raccoglieva le spoglie fu eretta una chiesa in suo onore e, successivamente, il monumentale Palazzo Filonardi. Le notizie più remote e certe sull’esistenza della chiesa risalgono all’VIII e IX secolo, come il Liberati conferma nel suo “San Pietro Ispano e il comune di Bauco” (Siena 1888). Boville Ernica, già durante le incursioni saracene e ungare del IX

I PROSPETTI ARCHITETTONICI SU CORSO UMBERTO I A BOVILLE ERNICA restauro e indicazioni di orientamento cromatico slm. La vita in questo piccolo insediamento urbano ha avuto inizio intorno all’anno 1000, quando, per scelte politico-strategiche, in conseguenza di continue invasioni di popoli ostili, l’iniziale insediamento pre-romano, ubicato nel territorio compreso tra la collina di Monte di Fico e l’attuale contrada Sasso, fu abbandonato. La posizione del sito, la quota elevata e quasi inaccessibile del monte erano fonte di tranquilli-

e, improvvisamente, appare la collina di Boville; avvicinandosi sempre più, si scorge imponente la cerchia delle mura antiche, con le sue diciotto torri, dietro cui spunta il profilo dei tetti e dei campanili; …quasi si riesce a sentire il suono delle campane


MONUMENTALI SU CORSO UMBERTO I

EMERGENZE STORICO

Palazzo Simoncelli (oggi Residenza Municipale) Il palazzo, costruito nel XVII sec. per volontà del prelato G.B. Simoncelli, fu da costui donato, tramite testamento testato da Urbano VIII. Dalle disposizioni ivi apposte si conobbe che il Simoncelli aveva vincolato i suoi eredi e gli esecutori testamentari affinché si trasformasse il palazzo in un monastero e vi si costruisse una Chiesa fornita del decoro ed onore del servizio divino. In ossequio poi del suo precursore, di cui portava il nome, volle che fosse dedicata a S. Giovanni Battista. Il palazzo fu affidato all’Ordine delle Suore Benedettine, che vi dimorarono fino al 1895, quando a causa di un incendio che ne determinò l’inagibilità, furono costrette ad abbandonarlo. In seguito (1908-1912) fu venduto al Comune ed adibito a sede municipale. Il palazzo, uno degli episodi più significativi dal punto di vista formale, tipologico ed urbanistico, s’inserisce organicamente nel tessuto urbano storico. È situato in uno dei punti più alti della città (l’ingresso principale è a quota 488 metri slm). Il fabbricato si estende su un’area molto vasta e ingloba al suo interno un cortile porticato su due lati. La facciata principale, che insiste su Corso Umberto I, si eleva su tre livelli evidenziati con marcapiani in pietra ed è scandita da tre ordini di finestre con cornici in pietra; quelle al piano terra presentano delle mensole “inginocchiate”, quelle del secondo piano poggiano direttamente sul marcapiano, le ultime hanno una semplice cornice in pietra. A causa della pendenza della strada, il piano terra risulta in parte a livello stradale e in parte rialzato rispetto a questo. Nel 1923, per adibire uno dei vani del piano terra ad autorimessa dei mezzi di proprietà del Comune, l’Amministrazione dell’epoca decise di demolire l’ultima finestra a destra del portone principale e di sostituirla con un apertura più ampia. Affinché non venisse turbata l’ “armonia” del palazzo si pensò di ripetere la modifica, simmetricamente, dall’altra parte; ma il progetto non fu portato a termine. Al centro della facciata si erge un ampio portale con arco, racchiuso tra semipilastri, realizzato completamente in pietra, che costituisce l’entrata principale del palazzo. Il portale è sovrastato da una finestra e questa, a sua volta, da una composizione baroccheggiante con, al centro, lo stemma di Paolo V Borghese (pontefice dal 1605 al 1621), sul quale sono raffigurati un’aquila e un drago simboli della famiglia Borghese. Lateralmente altri due stemmi: quello a


Frutaz, “Il Lazio” 1693. In basso: Corso Umberto I, rilievo dello stato di fatto e proposta di restauro. A sinistra, assonometrie di Palazzo Simoncelli e del Palazzo Filonardi.

e X secolo, era identificabile come comunità, aveva una sua struttura e una sua conformazione urbanistico-architettonica. Ne è prova l’esistenza di documenti e di carte topografiche riferite all’anno 1058, su cui è riportata la presenza del “Castello di Babuci”, nel territorio della “Verulana Civitas”. L’espansione territoriale della cittadina ernica è stata la conseguenza di successi politico-economici, che nel tempo hanno favorito misure di difesa, come testimoniano il continuo ampliamento delle mura di fortificazione e l’aumento delle torri di avvistamento. L’agglomerato cittadino, racchiuso dalla cinta muraria, è la sintesi di interventi succedutisi nei vari periodi storici, senza un progetto prestabilito, ma seguendo metodologie d’impianto “aleato-

rie” e adottando quei caratteri architettonici che sono stati utilizzati nei secoli in corrispondenza di politiche di espansione territoriale, ad oggi ancora riscontrabili in molte città delle provincie italiane. Tale situazione ha portato inevitabilmente ad una disordinata sovrapposizione di stili e, soprattutto, a manomissioni e superfe-

tazioni, non sempre peggiorative dello “status quo ante”, ma che hanno, comunque, occultato i caratteri originari dell’edificato. Corso Umberto I La scelta di Corso Umberto I, per questo intervento di restauro, è stata determinata dal fatto che esso costituisce l’asse principale del Centro Storico. La strada ha origine nella parte

più alta della città, in corrispondenza dell’ampio fornice d’ingresso del Palazzo Filonardi (nucleo primitivo dell’insediamento), che ne assume il ruolo di testata prospettica, e attraversa, l’intero centro, seguendo la linea di crinale della collina, in direzione nord-sud. Quasi a metà del suo percorso sbocca su uno degli spigoli della piazza principale, Sant’Angelo, proseguendo sullo spigolo opposto verso sud,

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MONUMENTALI SU CORSO UMBERTO I

EMERGENZE STORICO

destra dedicato alla famiglia Borghese ripropone le armi della famiglia sovrastate dal cappello cardinalizio in onore del cardinal nipote; l’altro, a sinistra, rappresenta lo stesso Simoncelli ed è diviso in quattro quarti in ognuno dei quali e raffigurato un simbolo. Nella parte inferiore della composizione è inserita una targa marmorea con l’iscrizione SVB VMBRA ALARVM TVARVM (sotto l’ombra delle tue ali), che il Simoncelli volle in riconoscenza al Pontefice Paolo V. I marcapiani si estendono sulla facciata ad Est, che si affaccia su via del Buco (strada stretta e in notevole pendenza). Sul lato opposto, ad Ovest, il palazzo affianca per circa 64 mt. via del Monastero. Il lato Sud e in parte quello ad est, si ergono su muri di sostegno a scarpa che servono anche a contenere il terrapieno del cortile interno. Dallo studio della struttura portante del palazzo si deduce che esso non può essere stato realizzato ex novo nel XVII sec., probabilmente su preesistenze medievali; tale ipotesi è avvalorata dalla presenza, nel cortile interno, di un muro convergente rispetto al lato opposto e di fattura più antica (come testimonia la mancanza di materiali laterizi nella costruzione dei pilastri, realizzati, invece, con conci di pietra giustapposti); tali muri, in corrispondenza del campanile e negli scantinati, sono di notevole spessore. Anche la parte a Sud della costruzione può essere datata ad un periodo precedente, si può osservare, che da quella parte la muratura non presenta tracce d’intonaco e che la conformazione a scarpa dei muri avvalora l’idea di una preesistenza realizzata forse a scopo difensivo. Chiesa di San Giovanni Battista Annessa al Palazzo Simoncelli, la chiesa ne costituisce il prolungamento della facciata a Nord sul Corso Umberto I. Costruita anch’essa per volontà del Simoncelli nel 1633 e consacrata sotto il Vescovo di Veroli, Mariano Venturi nel 1853. Dopo il 1870 divenne proprietà del Comune insieme al Palazzo. L’impianto planimetrico è a navata unica coperta da volta a botte lunettata con nicchie laterali dove si ergono simmetrici due altari; l’uno (a destra ), dedicato a San Benedetto e l’altro all’Addolorata o alla Deposizione di Gesù. Lateralmente ai due altari si elevano due colonne su basi, coronate da capitelli con foglie e volute, che sostengono un timpano dentro cui è lo Spirito Santo sotto forma di colomba; il tutto è sormontato da una cornice dorata e abbellita con putti facenti ala ad una Gloria. L’altare maggiore (oggi scomparso) era posto in fondo alla navata centrale, rivestito di marmi policromi. La facciata, in pietra della Serola, (cava tufacea


Antica pianta del centro storico di Boville. In basso: rilievo e proposta di restauro di Corso Unberto I. A sinistra, la chiesa di San Giovanni Battista.

fino ad intersecare, quasi ad angolo retto, via Capo Croce. Il progetto di restauro ha interessato solo il primo tratto della strada, da Palazzo Filonardi a piazza Sant’Angelo. Le due quinte stradali, variamente articolate, sono interrotte dalle vie secondarie che si dispongono a pettine lungo l’asse viario. Il Corso si pone come asse portante intorno al quale ruota la vita della città; lungo questa dorsale si organizzano, infatti, le funzioni della struttura sociale (il Palazzo, la Chiesa, la Piazza del Commercio) e si affacciano alcuni degli edifici più significativi dal punto di vista storico e architettonico, alternati da manufatti di dimensioni più piccole, con caratteristiche di edilizia popolare medioevale. La necessità di un Piano L’intenzione di dotare il Centro Storico di uno o più strumenti di piano nasce dalla necessità di porre rimedio alle manomissioni

del passato, e, soprattutto, dall’esigenza di regolamentare, di offrire un riferimento unitario all’interno del quale stimolare, con un attento controllo e un corretto indirizzo, gli interventi futuri, in relazione alla storia, allo stile e all’uso dei materiali in epoche passate, in stretta relazione con le modalità e le tecniche del restauro, per porre fine, così, al perpetuarsi di processi spontanei sul patrimonio edilizio. La mancanza di strumenti normativi ed operativi adeguati ha comportato, nel tempo, il prolife-

rare di interventi pubblici e privati, incongrui e disomogenei. Questo lavoro vuole porsi come esempio virtuoso, a carattere embrionale, con funzione di sollecitazione per un’auspicabile imminente proposta di piano di recupero dell’intero Centro Storico. Rilievo e restauro dei prospetti architettonici La metodologia d’intervento per

il restauro delle facciate di Corso Umberto I è stata articolata in fasi successive e distinte: 1. Reperimento dei dati, attraverso la ricerca di qualsiasi tipo di documentazione storica e iconografica, negli archivi pubblici e privati, per il recupero di informazioni necessarie al riconoscimento e all’identificazione di ogni singolo edificio. In qualche caso ci si è affidati anche ad indagini tra la popolazione più anziana, con raccolta di testimonianze verbali. 2. Rilievo dei profili stradali, di fondamentale importanza, attraverso il rilevamento dell’esisten-

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MONUMENTALI SU CORSO UMBERTO I

EMERGENZE STORICO

esistita in prossimità di Bauco) è leggermente protesa in avanti rispetto al filo del Palazzo Simoncelli. È suddivisa orizzontalmente da una doppia cornice (quella superiore più aggettante) in due ordini sovrapposti. La ripartizione verticale, nella parte inferiore, è costituita da quattro lesene tuscaniche: le centrali con interasse maggiore e contemporaneamente più avanzate di quelle laterali. Il portale d’ingresso si apre nello scomparto centrale ed è coronato da un frontone curvo. Negli scomparti laterali sono scavate due nicchie con frontoni triangolari. Sopra la trabeazione del primo ordine, il prolungamento della parte centrale inferiore è ottenuto mediante due paraste, tra cui è inserita un’ampia finestra quadrata con cornice. Ai lati, due volute di raccordo si chiudono verso l’interno e all’esterno poggiano su pilastri appena accennati. Un frontone triangolare, di notevole aggetto, chiude la composizione, al centro di questo è inserito lo stemma del Vescovo; al di sopra di quest’ultimo si nota la prosecuzione della facciata dell’edificio adiacente su cui si aprono, simmetricamente, due aperture ovali. La Chiesa restaurata di recente nella facciata e all’interno, per conto della Sovrintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Lazio, è stata destinata dopo la sconsacrazione, prima, a biblioteca comunale e, poi, a sala consiliare. Palazzo De Angelis (oggi Galluzzi) Il palazzo in origine di proprietà della famiglia De Angelis, passò successivamente alla famiglia Galluzzi a cui appartiene tuttora. La facciata principale che dà su Corso Umberto I presenta un’architettura semplice, ma caratteristica della prima metà del secolo XVIII, anche se la costruzione dell’edificio risale al 500. Fu il poeta Desiderio De Angelis che lo ristrutturò dandole l’aspetto attuale. L’imponente facciata è situata in parte di fronte a quella di Palazzo Simoncelli. I due edifici costituiscono, forse, gli esempi più ricchi del Corso Umberto I. Ai lati sono presenti costruzioni molto più basse la cui origine, testimoniata anche dalla presenza di finestre con bifore, risale al medioevo. Costruito in pietra di tufo locale, il prospetto principale è suddiviso, orizzontalmente da semplici cornici sulle quali poggiano le finestre dei tre livelli. Al centro si apre un ampio portale con arco a tutto sesto coronato da bugne leggermente sporgenti rispetto alla superficie ad intonaco, che si estende ai lati e fin sotto il balcone del primo piano, corrispondente alla finestra centrale, l’unica lunga. Questa composizione centrale, leggermente sporgente rompe l’uniformità della vasta facciata. A sinistra, si nota un’apertura ad arco con cancello in ferro che dà l’accesso ad un piccolo cortile. In passato questa apertura era stata accecata e solo più tardi fu ripristinata per volere del Galluzzi. In alto la cornice orizzontale culmina sugli spigoli con un motivo a “conchiglia”. La Foresteria Adibito a foresteria del monastero delle suore Benedettine, l’edificio passò alla proprietà comunale insieme a Palazzo Simoncelli. Probabilmente fu una delle prime costruzioni sorte intorno al nucleo del Palazzo Filonardi; esso, infatti, anche se ha subito delle sovrapposizioni di stili, conserva le caratteristiche finestre a bifora di epoca medioevale. L’edificio, planimetricamente, non ha una forma regolare, ma segue il filo delle strade che lo delimitano. Il prospetto su Corso Umberto I subisce, infatti, una leggera deviazione. Il piano terra non si trova tutto allo stesso livello, ma segue la pendenza della strada che in questo punto ha una quota maggiore.


Il centro storico di Boville e due immagini della cinta muraria della città. A sinistra, corso Umberto I e piazza Sant'Angelo in una foto aerea.

te, preciso e fedele, quasi ossessivo, per giungere al riconoscimento e all’identificazione del Centro Storico, di ogni suo singolo edificio, fino al più piccolo particolare costruttivo e decorativo. Rilievo, quindi, grafico, ma anche fotografico, di utile supporto durante la fase di elaborazione del disegno architettonico, ma, soprattutto, durante l’esecuzione delle tavole per lo studio del colore. 3. Analisi delle tipologie edilizie desunta dalle ricerche storiche e dal rilievo per giungere il più possibile alla comprensione della storia di ogni singolo edificio. 4. Rilievo del degrado dei materiali, diagnosi sullo stato di conservazione degli stessi, analizzando il tipo, la causa e lo stato di avanzamento del degrado. 5. Analisi delle manomissioni e delle modificazioni, lavorazioni ed opere manutentive che hanno portato all’inserimento di materiali e di elementi d’uso contemporanei, che, in alcuni casi, si sono spinte fino a vere e proprie demolizioni e ricostruzioni improprie che hanno occultato per sempre l’originalità dell’opera. 6. Progetto di restauro finalizzato ad una proposta di intervento, quasi sempre di tipo conservativo, teso a riqualificare le valenze architettoniche degli edifici, cercando di tener fede ai valori tipologici e alle mutazioni architettoniche subite dagli stessi, pur considerando l’impossibilità di restituzioni riferite ad un epoca ben

precisa. Nel progetto è stata sottolineata la continuità degli interventi, evidenziando nel restauro degli elementi degradati la rispettiva successione temporale. Laddove si è dovuto necessariamente intervenire, si è tentato di rispettare i principi fondamentali, tra cui quello del minimo intervento e la compatibilità dei materiali e degli elementi strutturali con quelli antichi. Il colore Per la restituzione del rilievo cromatico, come strumento di memoria e di conoscenza, è stata utilizzata in progetto la tecnica dell’acquarello, l’unica in grado di garantire la piena comprensione di questi profili, di questi “volti” segnati dal tempo. I colori di Corso Umberto I sono quelli della sua vita: colori che caratte-

rizzano l’ambiente e riflettono la storia del luogo. Il Centro Storico di Boville Ernica è la sintesi di più epoche, dal Medioevo ad oggi. I suoi colori sono quelli della pietra naturale di cava, quello artificiale del laterizio, quello sovrapposto più volte sugli intonaci, quello del legno invecchiato dal tempo e quello delle tinteggiature appena fatte. Attraverso il rilievo e le indagini stratigrafiche del colore si svelano preesistenze di altre

cromie e di materiali celati nascosti per anni. Il Piano del colore è lo strumento che fornisce una linea guida tendente a organizzare e a controllare nel tempo il decoro e il colore della città. Per quanto riguarda il colore sugli intonaci, la scelta delle cromie è stata basata, soprattutto, sullo studio delle tracce di colore ancora presenti sulle facciate, cercando di conservare in progetto le parti originali e uniformando il nuovo colore al vecchio. Anche le cromie delle superfici intonacate ex novo sono state scelte adeguando le tonalità a quelle dei materiali e tinte presenti.

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IL TERRITORIO E LA STORIA

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testo e foto di Gaetano De Persiis

avanti alla pagina bianca sulla quale voglio iniziare a raccontarvi il lago di Paola (lo chiamo così perché con questo nome me lo ha presentato mio padre), la mia memoria sta facendo un prepotente salto all’indietro di una sessantina d’anni. Era la prima volta che vedevo Torre Paola e quella sua spiaggia così piena di conchiglie! Ci arrivai, tenendo per mano i miei genitori, per una stretta strada bianca fiancheggiata a destra da un limpido canale. Camminando verso la torre massiccia, che poneva termine al profilo del promontorio del Circeo, dinanzi a me si apriva man mano l’azzurra superficie del mare preceduta da una grande spiaggia lucente con tante, tante conchiglie: in maggior numero erano grandi e rosate, altre ocra e giallastre, alcune striate, in gran parte lisce, lunghe alcune, moltissime tondeggianti; una meraviglia autentica per me ancora piccino, ma già affascinato dalle cose della natura. E poi, salendo sulla grande du-

IL LAGO DI PAOLA

DIMORA DI CIRCE

na, intrisa dei profumi dei pancrazi, dei ginepri e dei mirti, si apriva la vista di un lago lun-

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ghissimo, di cui non vedevo la fine ed il cui nome aveva una storia altrettanto lunga: sinus

Circejus nell’antica Roma, lago della Sorresca dal medioevo al ‘700, per la presenza sulla sua


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riva orientale del suggestivo santuario di Santa Maria della Sorresca (XII sec.), lago di Paola poi, e ora lago di Sabaudia, dopo la fondazione della nuova città. Sono, questi, luoghi ricchissimi di storia umana e naturale; non solo di storia, ma anche di preistoria, visto che a poche migliaia di metri dalle rive del nostro

lago, sul versante opposto dell’incombente promontorio del Circeo, si apre quella Grotta Guattari dove, nel 1939, furono riconosciuti dall’illustre paleontologo Alberto Carlo Blanc i resti di un individuo umano neanderthaliano risalenti a circa cinquantamila anni addietro; altri reperti riconducibili a questo tipo umano, insieme

con resti di fauna antica costituita da stambecchi e cervi, vecchi di 27/37 mila anni, furono trovati più tardi (nel 1986) nella Grotta Breuil che si apre in corrispondenza del “Precipizio”. Di pochi luoghi al mondo si può davvero dire che siano pervasi da un’aura di magìa: ma le acque di questo lago, e le rocce

del Circeo che le sovrastano, possono ben dire di esserne permeati in ogni dove. Della Maga Circe e dei suoi incantesimi abbiamo sentito, attraverso le strofe di Omero, fin dall’adolescenza sui banchi di scuola. Rileggere quei versi, magari al cospetto di quel monte, di quelle selve, di quel lago e di quel mare, fa venire i brividi in una

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sorta di vertigine che ci porta, oggi, a rivivere l’antico mito omerico: si ritrova il “cavo porto” in cui entrò la nave di Ulisse, la “scoscesa cima” su cui salì l’eroe di Itaca per esplorare i luoghi, la “selva di querce annose ... che ... sorgeano in un vasto piano, intorno alla

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1. Lago di Paola e cormorani sul "braccio" degli Arciglioni. 2. Santuario di S. Maria della Sorresca, sulla punta del "braccio" dell'Annunziata. 3. Torre Paola e l'imboccatura del Canale Romano, ingresso al lago di Paola. 3

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magion di Circe”, da cui egli vide salire del fumo. Dopo la preistoria e la leggenda, le certezze della storia e dei suoi segni ci parlano attraverso il Canale Romano realizzato, o forse ripristinato, in epoca neroniana dal “Magistratus Circeii” Lucius Faberius Murena ricorda-

to in una lapide lì ritrovata a metà dell’800 ed ora conservata nel Museo Civico di Terracina. Ancora oggi, a distanza di due millenni, se ne vedono i solidi muri di contenimento delle sponde realizzati in opus reticulatum! Nei pressi del “braccio” della

Molella si può ammirare quella che fu un tempo creduta l’antica Circei e che è stata poi riconosciuta come la villa dell’Imperatore Domiziano (seconda metà del I sec. d.C.), caratterizzata dall’imponenza delle cisterne di raccolta delle acque e dalle relative opere idrauliche al


Il lago di Paola Il lago di Paola ( 41°16’44” N - 13°01’41,5” E ) si estende in direzione NNO-SSE per una lunghezza massima di circa 6800 metri e una massima larghezza di 2360 metri circa in corrispondenza del “braccio” di Molella, dove raggiunge anche la sua massima profondità di 10 metri; la profondità media è, invece di 4-4,5 metri. La sua superficie è poco meno di 400 ettari ed ha un perimetro di circa 20 km. È un lago salmastro costiero originatosi, nel periodo Quaternario, con la formazione della duna sabbiosa (alta mediamente 27 metri) conseguente all’abbassamento del livello del mare ed all’azione dei venti. La sua attuale salinità oscilla tra 25 e 35 gr/litro. Lo scambio idrico con il mare avviene: - a meridione, attraverso il cosiddetto Canale Romano, realizzato in epoca neroniana (sembrerebbe dovuto a Lucio Faberio Murena, magistratus Circeii, come attestato nell’iscrizione 6428 (libro X) del “Corpus Inscriptionum Latinarum” di Theodor Mommsen) e ripristinato nel 1721; - a nord, attraverso il Canale Caterattino scavato durante la bonifica delle paludi pontine. La sponda occidentale, a mare, è pressoché rettilinea, al contrario di quella orientale, che dà sull’entroterra, frastagliata da sei “bracci” denominati (da nord) dell’Annunziata, della Caprara, degli Arciglioni, della Carnarola, della Molella e della Bagnara (nel bosco, in corrispondenza di quest’ultimo braccio, è presente una fonte di acqua oligominerale chiamata Fonte di Lucullo, già nota nella Roma antica). Il lago è tutelato dalla Convenzione di Ramsar, sottoscritta appunto a Ramsar - IRAN - il 02.02.1971 e attivata con il DPR n. 448 del 13.03.1976; è stato designato nel 1988, con il Parco Nazionale del

4. Particolare - Quarta tavola della carta del Lazio dell'Ameti. 5. Progetto di raccolta di tutte le acque dell'Agro Pontino eseguito sotto il pontificato di Pio VI. Particolare. 6. Particolare - Pianta corografica dell'Agro Pontino con l'indicazione delle proprietà delle "Bonifiche pontine" e delle zone in affitto alle "Bonifiche pontine".

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Odissea - libro X (177-196) (nella traduzione di Ippolito Pindemonte) ... E su l’isola Eèa sorgemmo, dove Circe, diva terribile, dal crespo crine e dal dolce canto, avea soggiorno. Suora germana del prudente Eeta, dal Sole aggiornator nacque, e da Persa, dell’antico Oceàn figliuola illustre.? Taciti a terra ci accostammo, entrammo, non senza un dio che ci guidasse, il cavo porto, e sul lido uscimmo; e qui due giorni giacevamo, e due notti, il cor del pari la stanchezza rodendoci e la doglia. Come recato ebbe il dì terzo l’alba, io, presa l’asta ed il pungente brando, rapidamente andai sovra un’altezza,? se d’uomo io vedessi opra, o voce udissi. Fermato il piè su la scoscesa cima, scôrsi un fumo salir d’infra una selva? di querce annose, che in un vasto piano di Circe alla magion sorgeano intorno.

Circeo che lo comprende, quale ZPS (Zona di Protezione Speciale) con il codice IT 6040015; dal 2006 è stato incluso, con il codice IT 6040013, nell’elenco dei SIC (Siti d’Importanza Comunitaria). Il lago di Paola, fino al 1870, apparteneva allo Stato Pontificio, che lo utilizzò come “valle da pesca”; dopodiché pervenne allo Stato Italiano, che lo ven6 dette nel 1881 al Cav. Ottavio Giachetti e questi, a sua volta, nel 1883, lo cedette al Sig. Clementino Battista, antenato della famiglia Scalfati, attuale proprietaria. G.D.P.


servizio di tutti i monumentali edifici del complesso residenziale, che si estende su una superficie di circa 46 ettari e di cui si ammirano con particolare stupore le vestigia delle terme e delle esedre, dei corridoi e dei quadriportici oltreché dei policromi pavimenti marmorei: altra parte degli edifici, maggiore rispetto alla zona termale e balneare oggi visitabile, è ancora oggetto di scavo e quindi preclusa al godimento dei più. Il medioevo, poi, ci ha lasciato la già ricordata, sobria ma suggestiva chiesa di S. Maria della Sorresca, che sorge su una piccola punta del “braccio” dell’Annunziata, sulla sponda nordorientale del nostro lago cui un tempo ha dato il nome. Che dire, infine, degli aspetti naturalistici di questo specchio d’acqua? Albe e tramonti, preludio ed epilogo di giornate memorabili 7

7. Cigni reali nel lago di Paola. 8. Vecchio edificio sulla riva orientale del Lago di Paola (punta meridionale del "braccio" della Bagnara). Si tratta di un piccolo convento di epoca medioevale, che insiste sulle fondamenta di una villa romana del II sec. d.C.

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Complesso della Villa di Domiziano. 9. Particolare dell'interno di una delle cisterne di raccolta delle acque. 10. Grande sala ad esedra con nicchie che ospitavano statue. 11. Sala ad esedra dell'ediďŹ cio balneare. 12. Ricostruzione della zona termale 13. Particolare dell'interno di una delle cisterne di raccolta delle acque.

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punteggiate dal volo di uccelli che partono e arrivano nel loro migrare fra Africa ed Europa, dal balenìo di farfalle candide, sulfuree o marezzate, dal guizzare delle forme opalescenti dei pesci, dai toni cangianti delle più varie fioriture che adornano le sabbie roventi. Albe e tramonti la cui visione lascia per sempre un segno nel cuore di chi abbia la ventura di vederli anche una volta soltanto. Pleniluni che trasformano la superficie dell’acqua in un letto di perle mirabili, che invita a sognare ad occhi aperti. Avrete capito che il lago di Paola è uno dei miei luoghi d’elezione. In questi dodici lustri e più, ogni anno, ho sempre trovato almeno qualche giorno per venire qui in cerca di conchiglie, di farfalle, di fiori, di uccelli o semplicemente di sensazioni che potessero vivificare quel ricordo dell’infanzia ancora così presente nella mia memoria. In sessant’anni non ho mai mancato

14. Spatole all'alba. 15. Piccolo gruppo di fenicotteri. Quello inanellato è nato nelle Valli di Comacchio. 16. Lago di Paola: alba sul "braccio" degli Arciglioni. 17. Pancratium maritimum sul litorale di Sabaudia. 18. Carpobrotus acinaciformis (fico degli Ottentotti). 19. Alba sul Lago di Paola. 20. Iris pseudacorus.

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questo appuntamento, ma vi confesso che questo entusiasmo, anno dopo anno, è andato gradualmente scemando. Anno dopo anno, ho visto qui sparire, più d’ogni altra cosa, bellezza e armonia: entità impalpabili e difficilmente definibili, il cui valore si percepisce, per paradosso, quando iniziano a mancare o si perdono del tutto. Mi sono accorto che molte altre persone hanno amato questo luogo. Ma sono state troppe e,

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soprattutto, troppe sono state capaci soltanto di “possedere” più che di “amare”: il loro amore perverso ha reso i luoghi irriconoscibili. Una casa, dieci case, cento case; una strada, due strade, dieci strade; una barca, cento barche; un’auto, mille auto ...poche persone, decine di migliaia di persone! Il luogo incantato che aveva colpito i miei occhi ed il mio cuore di bambino e che ho tanto amato per una vita inte-

ra ...non esiste più. Non so se sono più caparbio o illuso, ma so che non riesco proprio a tradire questo grande amore: in silenzio, magari da solo o, al massimo, in eletta compagnia, continuo a visitare questo lago, le sue sponde, la sua duna, il suo mare, la sua montagna con la determinazione di trovare ogni volta un piccolo angolo, uno scorcio che mi facciano ancora sentire il privilegio di essere lì e di godere delle

purissime sensazioni che mi hanno fin qui arricchito. E poi ho sempre la speranza che Circe, sopravvissuta al mito, possa ancora vigilare sulla sua dimora e possa decidere un giorno, in modo incruento ma efficace, di tramutare in porci i suoi profanatori e di ripristinarne il fascino, la bellezza, l’armonia… magari a beneficio di qualche bambino che passi di qui fra qualche millennio. Dicembre 2009.

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IL TERRITORIO E LA STORIA

di Cinzia Mastroianni

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r e m e s s a L’abbazia cistercense di Casamari, nel comune di Veroli, è sicuramente uno di quei monumenti che, scavalcando di gran lunga il circoscritto interesse locale, riveste una tale importanza storica e monumentale da non richiedere prolisse presentazioni, quanto meno per gli addetti ai lavori o gli appassionati del settore. Mi limiterò pertanto a ricordare che all’inizio dell’XI secolo, sulla scia di un fermento europeo votato alla riforma spirituale della Chiesa, sulle rovine dell’insediamento romano di Cereatae Marianae sorse il monastero benedettino dei Santi Giovanni e Paolo. Cresciuto in breve tempo, tanto nel prestigio quanto nei mezzi, alla metà del XII secolo il cenobio aveva già esaurito la propria spinta riformatrice, cadendo nell’involuzione mondana che indusse papa Eugenio III, intorno al 1143, a sostituire i “monaci neri” benedettini con i “monaci bianchi” cistercensi: nel segno dell’Ordine fondato a Cîteaux nel 1098, allo scopo di

MUSEI E DIDATTICA PER “COMUNICARE IL TERRITORIO”:

L’ESEMPIO DI CASAMARI ritornare alle radici della spiritualità monastica, nacque così l’abbazia di Casamari, uno dei più famosi monumenti cistercensi d’Italia. A dispetto del “contenitore” è invece ancora poco noto il museo, attualmente a carattere prevalentemente archeologico, ospitato all’interno del complesso abbaziale: inaugurato nel 2003 in alcuni locali adiacenti al chiostro con un allestimento – opera del direttore scientifico Maria Romana Picuti e dell’architetto Marco Mastroianni – tanto accattivante quanto chiaro e comunicativo, esso sarà in futuro implementato con la creazione di una pinacoteca, in cui confluiranno numerosi manufatti pittorici che vanno dal Medioevo all’età moderna. A novembre 2008 l’Associazione Latium Adiectum (www.latiumadiectum.it), composta da figure professionali eterogenee (archeologi, storici dell’arte, epigrafisti ecc.) variamente impegnate nel settore dei beni culturali e da me presieduta, ha avviato un progetto finalizzato a promuovere e valorizzare la conoscenza del Monumento Nazionale dell’Abbazia di Casamari, estendendo il raggio d’interesse a tutto il sito di riferimento e a tutte le sue fasi di vita, dalla preistoria all’età moderna e contemporanea, documentate non solo dal monumento abbaziale, ad oggi perfettamente conservato grazie ad una quasi ininterrotta continuità di vita, ma anche dai numerosi reperti archeologici e dalle opere artistiche custoditi nei vari ambienti del complesso e soprattutto nel pregevole museo. Proprio quest’ultimo è stato l’input ispiratore e la cabina di regia di un programma di iniziative che mi piace definire “piano di comunicazione” del territorio. Nella forte convinzione dell’intima vocazione didattica dell’istituzione “museo”, nonché della necessità di una comunicazione culturale diffusa e indirizzata a pubblici diversi, Latium Adiectum ha avviato un programma di attività, intitolato “Da Cereatae a Casamari”, che muovendo da un presupposto fondamentale, cioè la ricerca scientifica (storica, archeologica, storico-artistica ecc.) che ha fornito i contenuti, si è fin

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dall’inizio prefissato come macro-obiettivo finale quello di “comunicare” tali contenuti, adottando formule e metodi diversificati, a seconda dei pubblici verso cui di volta in volta ci si è indirizzati e degli obiettivi specifici che si è inteso perseguire nella peculiarità delle singole iniziative. Ecco quindi che, fermo restando la scientificità dei contenuti, la comunicazione è stata declinata in varie accezioni (tecnico-specialistica, didattica, divulgativa ecc.), contemplando iniziative eterogenee che hanno spaziato dalla mini-conferenza al laboratorio didattico a tema, fino alla “performance culturale”, un modo

Il termine “museo” Secoli di storia hanno prodotto l’attuale concetto – e le relative funzioni – del museo: luogo

Come si congiungono storicamente i due estremi di un simile percorso evolutivo? Con il termine “museo”, l’antica Grecia identificava il tempio dedicato alle Muse, in cui i donativi – soprattutto in età ellenistica – assunsero le fattezze di libri ed opere d’arte. Nel 387 a.C., ad Atene, Platone fondò la celebre Accademia, una scuola filosofica che, sul piano giuridico, risultava essere un’associazione religiosa, dedita al culto di Apollo e delle Muse. Il complesso, infatti, era dotato di un tempio a loro dedicato, detto appunto mouseion. Analogamente, il musaeum di Alessandria, creato sotto Tolo-

piacevole e leggero per avvicinare al museo, fisicamente prima ancora che intellettualmente, il pubblico più refrattario. L’attuazione di un simile programma è stata possibile grazie all’accoglienza della comunità dei monaci cistercensi di Casamari – in particolare P. Alberto Coratti, direttore della splendida biblioteca annessa al monumento, al quale va un sentito ringraziamento per la

di conservazione, valorizzazione e fruizione pubblica di beni culturali. Ma l’etimologia svela il senso vero e profondo di questa istituzione che è, prima di ogni altra cosa, uno spazio intellettuale: luogo sacro alle Muse, figlie di Zeus e Mnemosine, protettrici delle arti e delle scienze, patrocinate da Apollo. Dunque luogo della mente e della memoria, della sapienza e della bellezza.

meo I Filadelfo nel 280 a.C. all’interno della famosa biblioteca della città, formalmente era un luogo di culto ma, di fatto, ospitava una comunità scientifica e letteraria mantenuta dal sovrano. Il termine musaeum, derivato da mouseion, venne utilizzato da Strabone nel III secolo d.C. proprio per indicare gli ambienti della Biblioteca di Alessandria in cui studiosi e filosofi si riunivano

disponibilità e la collaborazione – sempre pronti a sposare progetti culturali interessanti, e al supporto dell’Assessorato alla Cultura della Provincia di Frosinone. Prima di scendere nel dettaglio del programma culturale, dei suoi metodi e obiettivi, ritengo sia fondamentale, per comprendere realmente lo spirito del progetto, fare qualche riflessione sull’etimologia e sul significato di due termini-chiave: museo e didattica.

per esercitare un’attività di tipo intellettuale: studiare, dibattere, etc. Nel XVII libro della Geografia egli riferisce che il Musaeum era dotato di “portici, la sala per i simposi e un vasto cenacolo dove vengono serviti i pasti che i dotti membri del Museo consumano insieme. […] Questo collegio di dotti dispone di risorse comuni, amministrate da un sacerdote un tempo designato dai re e ora da Cesare”. Originariamente, dunque, il termine “museo” indicava un luogo sacro, votato al culto delle Muse e successivamente – associato all’accademia e alla biblioteca – anche per derivazione semantica e ontologica, un luo- Un'immagine del museo di Casamari, realizzato go per lo studio e dall'Arch. Marco l’esercizio dell’atti- Mastroianni e dalla Dott.a Maria Romana vità intellettuale. Picuti. L’uso dell’appellativo “museo” nell’accezione di luogo di collezione e conservazione di oggetti si preparò nel Quattrocento, quando la cultura laica riscoprì le divinità pagane preposte alle attività creative e dell’intelletto. Fu forse Petrarca, nel De vita solitaria (1346-1356), il primo a parlare del luogo in cui lo studioso poteva utilmente ritirarsi per esercitare un’attività intellettuale radicata nella solitudine, con la frequentazione di pochi compagni: un luogo separato e appartato, scelto per la vita dello spirito, sovrinteso dalle Muse poiché lì si esercitavano le attività della mente. Nel 1448-52, la decorazione dello Studiolo di Belfiore a Ferrara, voluta da Leonello e proseguita da Borso d’Este, saldò il nesso tra luogo di studio e programma iconografico (un ciclo di tavole raffiguranti

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le Muse), benché la stanza non fosse ancora chiamata “museo” ma Musarum studium. Lo stesso vale per il di poco successivo Studiolo di Federico da Montefeltro nel Palazzo ducale di Urbino, definito sacellum, decorato da ritratti di uomini illustri e tarsie lignee raffiguranti in trompe l’oeil una collezione di oggetti eterogenei – strumenti musicali e matematicoastronomici, libri, etc. – rappresentativi di varie attività intellettuali, magistero delle Muse. Lo studiolo, ambiente molto ri-

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servato in cui si custodivano libri ma anche piccole collezioni di oggetti e opere d’arte, atti a stimolare la vita contemplativa

(ritratti di uomini illustri, reperti archeologici evocanti l’Antichità come modello di perfezione culturale, etc.), può dunque esse-

re considerato l’antenato di fatto – benché diversamente appellato – del museo moderno, nell’accezione di luogo di collezione. Di certo esso era “museo” nel senso umanistico del termine, cioè luogo in cui si esercita un magistero intellettuale che non è solo di studio, meditazione e solitudine, poiché ci si avvale fin dall’inizio dell’attività contemplativa ispirata e sollecitata dalle immagini e dagli oggetti di una piccola collezione. All’inizio del Cinquecento, benché ancora in convivenza con “studio”, “studiolo”, “antiquario” e poi “galleria”, iniziò a ricorrere il termine “museo”, usato ad esempio da Mario Equicola, letterato di corte Gonzaga, per definire la sala in cui propose di sistemare un ritratto richiesto a Paolo Giovio nel 1523, o da Alessandro Maggi da Bassano che, parlando dello studiolo di Pietro Bembo – prima a Roma, poi a Padova dal 1532 e sette anni dopo di nuovo a Roma – dotato di una collezione di antichità, in un commento lo chiamò musaeum. Ma la codificazione del termine si deve a Paolo Giovio, che nel 1543 portò a compimento la costruzione della propria villa sul lago di Como, con ambienti deputati alla conservazione delle sue collezioni d’arte, in particolare la nota raccolta di ritratti di uomini illustri. Per la prima volta il termine “museo” venne specificatamente usato nell’accezione di luogo fisico deputato ad ospitare ed esporre opere d’arte, conservando il collegamento iconografico con la radice etimologia attraverso la decorazione di una delle sale, dedicata ad Apollo e alle Muse,


In queste pagine, pianta del museo, schizzi di progetto e immagini degli interni. Il museo è stato realizzato dall'arch. Marco Mastroianni e dal direttore scientifico dott.a Maria Romana Picuti.

ivi effigiati ad affresco. Credo che tale percorso etimologico-semantico, benché sintetico ed estremamente sommario, abbia sufficientemente evidenziato le ragioni per cui il museo debba prioritariamente essere inteso e vissuto come uno spazio in cui si sviluppa un processo di conoscenza, vocazione in rapporto alla quale la conservazione, esposizione e fruizione delle collezioni costituiscono funzioni consequenziali e necessarie.

La didattica Essenziale quanto quella sul museo è una breve riflessione sul termine “didattica”, oggidì oltremodo abusato e frequentemente utilizzato – aggettivato – in modo improprio come sinonimo di “scolastico”. Il significato è chiarito dalla Scienza dell’Educazione che definisce

tecnicamente la didattica come un insegnamento formale strutturato sotto forma di un campo di conoscenze esplicitamente fi-

nalizzato, da cui scaturiscono interventi atti a produrre, negli utenti finali, non la semplice acquisizione di nozioni ma una modifica stabile del comportamento. La didattica, dunque, identifica un sistema di tecniche e metodi in funzione di determinati obiettivi e non presuppone, come unico destinatario, il pubblico scolare. Anzi. La situazione sociale e culturale attualmente in essere nei paesi europei, infatti, impone una sempre maggiore attenzione verso il lifelong learning (educazione permanente, apprendimento durante tutto il corso della vita dell’individuo), che dunque presuppone sostanzialmente un pubblico adulto. Un’azione che si caratterizzi legittimamente come “didattica” deve perciò necessariamente prevedere tre fasi fondamentali: una chiara individuazione degli obiettivi, generali e specifici; lo studio del pubblico destinatario e dei metodi operativi conseguentemente più adatti; la verifica dei risultati, nelle fasi intermedie e alla fine del percorso formativo. L’esperimento di Casamari Alla luce di quanto sopra, Latium Adiectum ha ideato e realizzato il progetto culturale “Da Cereatae a Casamari”, che nell’anno 2008-2009 si è focalizzato su due rami di attività, differenziati per tipologia di pubblico destinatario: il laboratorio didattico, per studenti di scuola secondaria di secondo grado, e gli incontri a tema, per adulti, simpaticamente chiamati “Un tè al museo”. Il laboratorio didattico, esemplificativo del tema e del titolo di questo contributo, fa parte di un progetto strutturato su base


biennale, accolto con grande entusiasmo dal Liceo “G. Sulpicio” di Veroli, che vanta un dirigente scolastico – il prof. Armando Frusone – particolarmente dinamico e intraprendente riguardo all’ampliamento dell’offerta formativa scolastica, coadiuvato da un corpo docente molto attivo e partecipe. Per esigenze di contiguità con i programmi curricolari di storia e storia dell’arte, l’attività è stata organizzata in due laboratori, autonomi e separati. Il primo, attinente l’area archeologica, ha coinvolto studenti delle classi seconde che, sotto la guida della dott.ssa Maria Giudici, epigrafista, hanno sviluppato un percorso teso all’analisi del sito romano di Cereatae Marianae (topografia, evidenze archeologiche, aspetti storici ecc.), con particolare attenzione ai materiali custoditi nel museo abbaziale. Tali materiali, nella seconda parte del

terze, impegnate in un percorso di area storico-artistica, che ha analizzato l’insediamento monastico cistercense nel Medioevo. Il tema monografico, sviluppato sotto la mia direzione e intitolato “De claustro animae”, ha impegnato gli allievi in uno studio teorico Bibliografia essenziale Cataldi C., Coratti A. 2004, Una spiritualità operosa. Testimonianze dell’opus cistercense a Casamari e nelle sue filiazioni, catalogo mostra (Abbazia di Casamari, 15 aprile - 2 giugno 2004), Casamari, con bibliografia. Kinder T.N. 1997, I Cistercensi: vita quotidiana, cultura, arte, Milano. Lekai L.J. 1989, I Cistercensi. Ideali e realtà, Certosa di Pavia. Mastroianni C. 2004, Il braccio meridionale del chiostro di Fossanova: ipotesi sulla cronologia e sulle maestranze che parteciparono al progetto di ristrutturazione, in «Rivista cistercense», XXI, 3 (settembre-dicembre 2004), 315-357. Idem c.s., Volti etnici: bauplastik antropomorfa nel braccio meridionale del chiostro di Fossanova. Nardi E. 1999, Un laboratorio per la didattica museale, Roma. Idem 2001 (a cura di), Leggere il museo. Proposte didattiche, Roma.

La chiesa dell’Abbazia di Casamari.

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programma, sono stati oggetto di uno studio monografico sul tema “Religione e culti a Cereatae Marianae”, conclusosi con l’elaborazione di schede mobili di approfondimento su alcuni dei reperti esposti. Il secondo laboratorio, invece, ha visto protagoniste le classi

Idem 2004 (a cura di), Musei e pubblico. Un rapporto educativo, Milano. Picuti M.R. 2008, Museo dell’abbazia di Casamari. La raccolta archeologica, Casamari.

Veroli. Thesaurus Ecclesie est hic, Casamari 2000.

(ricerca storico-artistica con esame di alcune fonti letterarie) e pratico (rilievo grafico e fotografico) sul chiostro abbaziale di Casamari, in virtù del particolare significato – architettonico, plastico e simbolico – che tale spazio assume in un complesso monastico cistercense medievale. Questo secondo percorso si è concluso con l’elaborazione di pannelli grafico-fotografici sul tema assegnato. Ma qual è stato l’obiettivo comune ai due laboratori? Studiare storia attraverso il patrimonio archeologico e storico-artistico presente sul territorio in cui gli studenti vivono e si muovono quotidianamente, ignorandone spesso entità e valore. In accordo con i programmi curricolari scolastici, guidati da archeologi e storici dell’arte, i ragazzi hanno così potuto calare nello specifico e particolare territoriale, le nozioni generali di storia e storia dell’arte apprese in classe. Al di là dell’acquisizione di nozioni più o meno specialistiche sul sito e sul monumento casamariense, la speranza di Latium Adiectum, nonché dell’istituzione scolastica che ne ha condiviso lo spirito e gli obiettivi, è che questo modo di “fare scuola fuori da scuola”, abbia contribuito a sollecitare nei ragazzi maggiore attenzione, curiosità e rispetto verso il patrimonio culturale del territorio in cui vivono, offrendo nello stesso tempo un supporto, un completamento e un approfondimento alla didattica scolastica, mettendo a disposizione dei docenti il patrimonio archeologico e storico-artistico locale, nonché gli studiosi che di esso si occupano.


SPAZIO E PROGETTO

di Vincenzo D’Alba

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o stretto e delicato rapporto esistente tra architettura e urbanistica nella provincia salentina è uno dei caratteri principali del territorio. Ne conseguono dualismo e ambivalenza in cui riconoscere una paradossale forma urbis carica di un potenziale figurativo. La dimensione insediativa costituitasi nel tempo e nello spazio attraverso una stratificazione a tratti bre-

Concorso di progettazione di n. 20 alloggi di edilizia residenziale per cooperative di abitanti e servizi (Lecce) - 2009 Progettisti: Arch. Giorgio Papaevangeliu (capogruppo) Arch. Laura Fabriani Arch. Anita Mancini

ve, a tratti preistorica, obbliga ad una lettura in grado di individuare il valore complessivo

della configurazione urbana a scala territoriale. Proprio l’atto del disporsi di questa miriade di città contiene in sé una qualità talmente assoluta e per certi versi formale, da essere costantemente in una condizione di pericolo e di degrado. Si instaura in questa configurazione geografica una dialettica, al tempo stesso classica e contemporanea, tra città e campa-

DISCONTINUITÀ URBANA, CONTINUITÀ ARCHITETTONICA

1. Vista a volo d’uccello. Lo spazio pubblico si pone come elemento fondamentale della vita sociale, direttamente fruibile dalla residenza. 1

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gna. Proprio nel limite tra i due elementi, artificio e natura, è conservato il destino dell’urbanistica di questo territorio. Infatti, è nella inesorabile espansione urbana che si fa più acuto il senso di sgretolamento dell’intero corpus edilizio a scala provinciale. Mai come in questo caso una ricercata qualità architettonica rappresenta la strada per una salvaguardia della forma urbis da ritrovare in una programmatica simbiosi con l’urbanistica. Il tentativo di accorciare le distanze tra i centri abitati attraverso un’espansione spesso arbitraria è il motivo principale della perdita di ordine e d’identità che l’intero complesso del “costruito” per anni ha acquisito. La dimensione paratattica del territorio è oggi il pretesto per nascondere un disordine provocato da una frettolosa pianificazione. Un reale cambiamento può essere incarnato soltanto da una controtendenza: procedere verso una riconfigurazione delle città attraverso una strategia di completamento del tessuto urbano; quindi riproporre l’antica chiarezza e semplicità del paesaggio conservandone il prezioso limite naturale e antropometrico. Il progetto di concorso del gruppo composto da Giorgio Papaevangeliu, Laura Fabriani e Anita Mancini redatto per il P.I.R.P. (Piano integrato di riqualifica-

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2. Planimetria ubicativa dell’intervento. 3. Planovolumetrico dell’intervento. Il progetto tende a recuperare alcuni assi e allineamenti esistenti e stabilire una chiara regola insiediativa.

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4. Attacco a terra. La serialità delle residenze a schiera è intervallata dal portico lungo la strada, che separa le due piazze, ed è contenuta dai servizi di quartiere nelle testate. 5-6. Prospettiva di scorcio delle schiere dalla piazza e dalla strada. Sullo sfondo il portico. 7. Schemi di progetto.

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8. Aggregazione delle schiere. Piano terra e primo piano. 9. Vista complessiva dell’aggregazione residenziale. Corti, logge, scale esterne, coperture piane e contrastanti chiaroscuri fanno sì che l’intervento abbia una forte identità legata al carattere pugliese.

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zione delle periferie) di Tricase è sintomatico di una tensione verso le tematiche soprattutto morfologiche che interessano le zone periferiche. In esso si riconoscono i caratteri essenziali del mediterraneo, filtrati da una cultura architettonica in grado di evitare la retorica di una mediterraneità formalistica. Il progetto ricompone gli obiettivi funzionali e strategici di un tessuto edilizio esaltandone razionalità e rigore. La formulazione di una piazza appare il momento più rappresentativo e critico dell’intero progetto, teso tra valenze luminose, ossessioni ritmiche e calcolate

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CONCORSO DI PROGETTAZIONE: N. 20 ALLOGGI DI EDILIZIA RESIDENZIALE PER COOPERATIVE DI ABITANTI E SERVIZI

Il concorso per la progettazione, di venti alloggi a Tricase (LE) di edilizia residenziale per cooperative di abitanti con tipologia a schiera, ha avuto come obiettivo centrale quello di coniugare i temi della sostenibilità ambientale e del risparmio energetico con quelli della qualità architettonica e urbana. L’area oggetto del concorso è ubicata nella periferia meridionale di Tricase, all’interno del P.I.R.P. (Piano integrato di riqualificazione delle periferie) e di un più vasto comparto, che prevedeva anche la realizzazione di edilizia direzionale, servizi e verde pubblico, con l’obiettivo di riconnettere funzionalmente e urbanisticamente questa parte di città. Oggetto del progetto di concorso è stata, oltre che la progettazione delle residenze, la riorganizzazione complessiva del comparto, prevedendo, una diversa collocazione dei nuovi fabbricati, il ripristino della connessione con la viabilità tangenziale, la sistemazione e fruizione del verde pubblico e dei servizi. I promotori Ancab Legacoop e Legambiente, hanno richiesto per il concorso la progettazione architettonica di massima degli edifici e degli impianti. Il progetto degli edifici doveva raggiungere attraverso le soluzioni proposte, caratteristiche sufficienti per garantire il raffrescamento passivo nella stagione estiva, la certificazione energetica di classe “A“, utilizzare fonti rinnovabili per la produzione di acqua calda e per la produzione di energia elettrica. Il bando di concorso richiedeva inoltre di porre particolare attenzione alla qualità urbanistica ed architettonica; di raggiungere l’integrazione urbana e paesaggistica dell’intervento nel contesto preesistente, la definizione di soluzioni innovative nella composizione spaziale degli edifici e degli spazi aperti; la caratterizzazione tipologica degli alloggi; la valorizzazione degli spazi verdi e di uso comune; l’utilizzo di materiali ecosostenibili.

10. Sezione prospettica dell’alloggio. In evidenza la corte, la doppia altezza sul soggiorno, la loggia e il portico. 11. Sezione prospettica. In evidenza la scala esterna, la loggia il soggiorno con l’ingresso e il camino, la doppia altezza, la corte e il volume sulla copertura contenente comignolo, lucernaio e alloggiamento collettori solari. 12. Possibilità di fruibilità dell’alloggio da parte dei diversamente abili. Pianta del primo piano con l’ampliamento a 95 mq. 13. Prospettiva del portico sulla corte con funzione di autorimessa. 14. La doppia identità della soglia d’ingresso: cavità luminosa nello spazio residenziale e scura fessura nello spazio pubblico. Differenze spaziali dovute alla doppia altezza e differenze luminose per la soglia di luce proveniente dal lucernaio generano una forte complessità spaziale in uno spazio contenuto.

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prospettive. Se da un lato appare evidente la frammentazione dei tre corpi residenziali, dall’altro risulta rassicurante l’apodittica presenza del portico che in un dialogo spaziale e volumetrico risolve la distanza compositiva degli elementi. La coerenza di tessitura tra planimetria e prospetti non può che riportare nella periferia quel-

l’ordine semplice, ma indispensabile, spesso trascurato in nome di una semplicistica variazione. Un tale grado di espressività racchiuso in un “silenzio comunicativo” dichiara la dimensione insediativa nella sua forma più pura evitando le edulcorate volute degli stili orecchiabili, onnipresenti sul territorio.


SPAZIO E PROGETTO

di Alberto Paglia

C

enni storici Le prime notizie sulla chiesa di S. Elisabetta, denominata anticamente S. Maria della Valle, risalgono al 1080, in una donazione che Oderisio fece al monastero di Montecassino, di cui, nel 1087, divenne abate. Nel 1663 Mons. Angelucci, vescovo di Veroli, ottenne dal Pon-

riparo delle truppe piemontesi, che assediarono per diversi giorni il paese, allora denominato Bauco. La chiesa in muratura calcarea, ad aula semplice e copertura con tetto di legno a capanna, aveva la facciata principale orientata ad ovest lungo l’asse di collegamento stradale con il centro storico.

dato nel dicembre del 2001. La nuova costruzione è stata collocata su un appezzamento di terreno diverso e poco distante da quello d’origine. Il luogo scelto è sulla linea ideale di convergenza della collina che ospita la contrada Cologni con la collina del centro storico di Boville Ernica.

LA CHIESA DI SANTA ELISABETTA

A BOVILLE ERNICA tefice Alessandro VII “che il beneficio della chiesa fosse aggregato al territorio verolano”, con l’obbligo di far cantare i “Vesperi” e la Messa il giorno 2 luglio. La chiesa fu restaurata nel 1737

Chiesa di Santa Elisabetta, schizzo di progetto.

dal vescovo di Veroli Mons. Lorenzo Tartagli, il cui nome fu inciso nell’architrave della porta d’ingresso. Nel 1861 fu luogo di

Fu demolita, perché ridotta in rovina, agli inizi degli anni ’60 del secolo scorso. Introduzione Il proposito di ricostruire la chiesa è maturato grazie alla formazione di un Comitato e alla magna-

nimità di un parrocchiano che ha donato il terreno per l’edificazione della nuova “fabbrica”. L’incarico per la redazione del progetto preliminare è stato affi-

La scelta dell’ubicazione e dell’orientamento rivestono un’importanza fondamentale, un’importanza che definiremmo sensoriale ed emozionale per un’ispirata progettazione architettonica. La scelta del luogo L’innalzamento di un edificio sacro che manifesti anche un chiaro significato urbanistico fa sì che il luogo scelto rappresenti,

per la contrada Cologni, un punto di confluenza di valenze espressive e funzionali. Con questa realizzazione, infatti, tutto il tessuto connettivo dell’area prospiciente, riceverebbe un notevole impulso

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Localizzazione della vecchia chiesa di Santa Elisabetta nel territorio di Boville Ernica. In basso, studi di progetto.

dilà, rappresentato, per la circostanza, dal camposanto, ad ovest rispetto al sito della chiesa, incorniciato, com’è, fra i monti Lepini e Simbruini, dove il sole al tramonto si nasconde. La scelta progettuale La matrice tipologica d’origine è

anche di natura socio-economica, che riqualificherebbe, dal punto di vista urbanistico, l’intero abitato, procurando nuovo sviluppo ad un’area marginale e povera di emergenze architettoniche rappresentative e qualificanti. Dare, in pratica, identità e dignità ai luoghi dell’abitare, riannodare il filo lungo della storia, della tradizione cattolica e dell’etica filosofica di una Comunità, attraverso la creazione di spazi sociali collettivi organizzati e definiti, che fungano da volano, che siano aggregativi per un nuovo messaggio di pace, d’amore e fratellanza delle genti: questi sono i valori fondanti, i cardini, gli intenti su cui si basa la missione della Chiesa del futuro. Il “non luogo” asettico e impersonale deve lasciare spazio al “Luogo” per eccellenza; un luogo della “Memoria”, che possa fungere da collante tra la città costruita e la storia, la contrada, che rappresenta il vero presente, l’anima pulsante e l’al-

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servita per l’elaborazione dell’idea progettuale adottata. Idea che nasce dallo studio sistematico degli archetipi, degli idiomi, degli stilemi e del linguaggio storicizzato e sedimentato dell’architettura, ma che attraverso una successiva fase di decantazione, si trasforma articolando la composizione spaziale dell’organismo architettonico. Da uno schema primordiale, via via l’idea si è arricchita, perfezionata ed ha preso forma compiuta con riferimenti, citazioni e annotazioni, perseguendo in ogni caso la ricerca del “bello” che secondo Goethe “è manife-

stazione di arcane leggi della natura che senza l’apparizione di esso ci sarebbero rimaste eternamente celate”. Inoltre è stato fondamentale ed illuminante leggere ciò che il Cardinal Martini ha scritto sull’architettura ed in particolare quella sacra, quando, chiamato in causa, scrive un articolo sulla rivista “Casabella” (1996) dal titolo: Mistero indicibile, in cui tra l’altro si legge: “l’architettura è il riflesso della cultura ed in particolare quella religiosa che traduce la teologia e l’ecclesiologia di un’epoca”. Né risulta meno incisivo e profondo quando dice: “tanto più gli architetti e gli ideatori sono permeati di una fede profonda e da una forte spiritualità, tanto più potranno esprimere nelle loro opere le caratteristiche non postulate o fittizie, ma autentiche e durature di un’epoca”. È sottolineata, quindi, l’importanza di una forte tensione spirituale. Ma l’articolo termina esprimendo un altro concetto basilare quando evidenzia l’importanza della ventilazione, in quanto lo Spirito Santo è “Soffio” e le chiese dovrebbero dare l’idea di questo respiro Cosmico, perché parla ai sensi del corpo. Le chiese del futuro, conclude il Cardinale Martini dovrebbero “lasciarsi penetrare dal mistero indicibile per tradurre poi, nelle forme, nei colori e nelle immagini quel soffio che nessun conteni-

tore umano può esaurire […]”. Ciò che dà significato e “respiro cosmico” ad un progetto è però soprattutto l’Idea. Tanto più l’idea è forte, ricca di simboli, dotta, con matrici, connotati e riferimenti culturali precisi, tanto più essa assume spessore. “Io sono una forza del Passato. / Solo nella tradizione è il mio amore. / Vengo dai ruderi, dalle Chiese, / dalle pale d’altare, dai borghi / dimenticati sugli Appennini […] / O guardo i crepuscoli, le mattine / su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo […]”. Così scriveva Pier Paolo Pasolini in “Io sono una forza del passato”.1 Una forza del passato con riferimenti storici ed artistici rilevanti che rappresentano la ragione, tradotta poi nella funzione e contemporaneamente nella forma in architettura. La dicotomia di funzione e forma è, quindi, appendice della tradizione e della storia, non ci sono funzione e forma senza il legame con la tradizione e con le radici culturali e l’identità filosofica di un luogo. La chiesa proposta è fondata simbolicamente sulla trasformazione di figure geometriche perfette come il triangolo, il cerchio e il quadrato. Il triangolo mette in relazione gli elementi principali della composizione, il cerchio è rappresentato dallo spazio esterno della piazza e il quadrato dalla torre campanaria, che, in quanto corpo esterno alla chiesa,


permette una fruizione completa. La torre campanaria di borrominiana memoria esprime tutta la carica della tensione emotiva attraverso i segni della storia, della tradizione e della modernità, espressi in modo immaginifico facendo ricorso all’uso dell’acciaio, quasi una struttura ossea in un corpo umano, che meglio d’altri materiali si adatta alle deformazioni plastiche nello spazio. Deformazioni di torsione e d’inviluppo che portano lo spettatore e il fruitore, in una prospettiva da sotto in su, a portare lo sguardo verso il cielo, verso l’infinito e quindi verso Dio. C’è nella composizione anche un altro elemento che interviene in modo rilevante: il camposanto. La sua presenza articola e completa la visione con l’introduzione della quarta dimensione dello spazio: la scansione del tempo che passa. Un vero“campo dei miracoli”. La quinta dimensione, quella poetica, risulta invece dalla fusione di ciò che è finito con ciò che è infinito: la libertà dell’uomo. Giacomo Leopardi nello Zibaldone del 30/11/1828 scrive: “all’uomo sensibile immaginoso che viva, come io sono vissuto gran tempo, sentendo di continuo e immaginando, il mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi. Egli vedrà cogli occhi una torre, una campagna; udrà cogli orecchi un suono di campana; e nel tempo stesso con l’immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campagna, udrà un altro suono. In questo secondo genere di obiettivi sta tutto il bello e il piacevole delle cose”. La chiesa inoltre si pone con molta circospezione nei confronti del suo inserimento ambientale, assecondando ed integrandosi con la morfologia del profilo della

Progetto della chiesa di Santa Elisabetta a Boville Ernica.

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Chiesa di S. Elisabetta schizzo prospettico dello spazio interno.

collina, anche attraverso l’utilizzazione di piantumazioni tipiche del luogo. Gli elementi che compongono l’architettura sono anch’essi legati al luogo e alla vicina presenza dell’architettura medioevale come la torre absidale e al suo rivestimento in pietra calcarea autoctona, il tetto a capanna con struttura lignea, il campanile separato ecc. Il ricorso all’uso di materiali comunemente utilizzati accentua ancora di più il carattere familiare dell’edificio. Materiali come il

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legno, per le capriate del tetto, delle pietre, dei laterizi, per i coppi antichi del manto di copertura o delle pavimentazioni, contribuiscono sistematicamente a dare una chiara connotazione linguistica basata sui riferimenti iconografici del passato, senza però correre il rischio di cadere nel ver-

nacolare, essendo uniti a segnali importanti di modernità, con l’introduzione di maglie reticolari in acciaio, lucernari e vetrate da cui spaziare con la vista, con l’immaginazione e fantasia. L’architettura, inoltre, risente dell’influenza e della tensione emotiva “del dentro e del fuori”, con continui giochi di curve concave e convesse, annullando sia all’interno che all’esterno gli angoli arrotondati utilizzati come condensatori di raggi solari, che accentuano l’articolazione spaziale dosando e riverberando la

luce propria e quella portata e creando un’atmosfera illusoria, giocosa, ma soprattutto evocatrice del “divino”. Anche l’interno risente dell’emotività dinamica con l’ambiente pulsante dell’aula liturgica, plasmato, com’è, dalla luce dosata da feritoie inusuali che offrono alla vista infinite illusioni spaziali. E non è da meno l’effetto inclinato delle pareti laterali che accentuano il senso di intimità, di compressione a cui si è costretti, ma, al tempo stesso, di riconciliazione tra fedeli e tra loro e il mondo: invitano ad indirizzare lo sguardo alla riflessione ed al pensiero supremo del cielo. Ciò che Monsignor Paglia auspica nelle realizzazioni di culto è che il dialogo fra artisti e committenti sia vero ed importante e che l’espressione artistica sia elemento fondamentale per il messaggio evangelico, che ha bisogno di linguaggi evocativi, suggestivi e simbolici. Monsignor Paglia sostiene che l’arte si rivolge alla sensibilità, alla ragione e al cuore ed è per-

tanto fondamentale per scuotere le coscienze. Contribuiscono fortemente a tale scopo: lo studio della luce con le finestre a nastro sottili, filiformi, ad altezza minima da terra, orientate ad est, in modo da captare la luce diafana dell’aurora, luce magica che produN O T E 1. Testo recitato da Orson Welles nel film “La ricotta” (1963), incluso poi in “Poesia in forma di rosa” (Garzanti, Milano, 1964).

ce un effetto vibrante sul pavimento in laterizio fatto a mano; la fonte battesimale, elemento scultoreo e sepolcrale, in pietra marmorea, che sembra uscire dalle viscere della terra, messa in risalto ed inondata di luce zenitale che si staglia sull’acqua e fa riflettere il cielo e l’infinito, che cattura lo sguardo e lo indirizza fuori verso la contemplazione del paesaggio e del vicino camposanto. Il camposanto e il paesaggio circostante entrano prepotentemente nella liturgia, integrandosi perfettamente con la realizzazione architettonica della chiesa. L’architettura La chiesa ha dimensioni proporzionate alle reali necessità della comunità con una superficie adatta a circa centoventi fedeli di cui almeno ottanta seduti nei banchi; l’area del sagrato è leggermente sollevata di quota rispetto alla piazza ed è coperta da un porticato con un andamento sghembo rispetto alla facciata principale d’ingresso. I pilastri del portico, a sezione circolare, saranno realizzati in acciaio e successivamente verniciati, mentre la struttura orizzontale sarà composta da elementi in legno lamellare che verranno collegati alla parete verticale della facciata. La pianta è ad aula semplice con abside e transetto circolare, la fonte battesimale invece è collocata in prossimità di un rigonfiamento laterale ed inondata di luce zenitale. Nell’abside è nascosta una scala d’acceso che conduce sia al piano inferiore, adibito a sala parrocchiale e servizi, accessibili anche dall’esterno, sia al piano superiore soppalcato per il coro. La chiesa internamente rifugge


Progetto della chiesa di Santa Elisabetta a Boville Ernica. Prospetto lato est, prospetto lato ovest e fronte nord.

dalla visione prospettica unica: con le vibrate e dinamiche superfici, disorienta lo sguardo dello spettatore e lo conduce simultaneamente quasi a cercare ed a evocare Dio. La luce, ricercata negli squarci, nei lucernari e nei nastri a filo pavimento, e il trattamento delle superfici interne con colori tenui conferiscono candore a tutto l’ambiente, che crea un contrappunto musicale e pittorico illusionistico con la copertura in legno, con capriate ed il pavimento in cotto fatto a mano. In sezione longitudinale la chiesa si presenta con un andamento inclinato di altezza variabile, a salire in corrispondenza dell’altare e del coro. All’esterno l’uso di materiali come la pietra, il travertino, il cotto, i coppi di copertura in laterizio, il legno della capriata e del portico, unito all’uso di materiali come l’acciaio, il vetro e, soprattutto, un linguaggio dell’architettura meno accademico e più votato al decostruttivismo plastico accentuano il carattere di modernità che l’edificio mostra, evidenziato anche dalla forma e dalla spiccata tridimensionalità del campanile e della chiesa stessa. Insomma, l’architettura sente l’influenza del luogo, della tradizione costruttiva locale con richiami e segni visibili, ma sente soprattutto la contaminazione semiotica di riferimenti dell’architettura internazionale. È chiara la volontà progettuale di rappresentare l’architettura del nostro tempo, cogliendo però gli aspetti che la legano all’ambiente storico-urbanistico del sito su cui insiste, con l’intenzione di diffondere al meglio le peculiarità e i tratti della modernità, varcando così i confini del proprio ambito territoriale.

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frica? Una nuova storia – è l’appropriato titolo con cui si è voluto registrare uno straordinario evento, forse non sufficientemente pubblicizzato: la mostra di ben ottanta opere tra dipinti, sculture, installazioni, video, di trenta artisti dell’Africa Sub-Sahariana, allestita nei locali del Complesso del Vittoriano ‘Ala Brasini’ a Roma dal 19 Novembre 2009 al 17 Gennaio 2010.1 La mostra è stata l’occasione per venire a contatto con un mondo artistico portatore di istanze e di una pluralità di linguaggi in continua evoluzione, non più ristretti all’ambito delle tradizioni locali, ed espressione, nella forma e nei contenuti, della grande complessità delle personalità artistiche. L’arte africana contemporanea,

di Luigi Bevacqua

A Milano, in particolare, è prevista la realizzazione di un Centro delle culture extraeuropee, progettato dal noto architetto inglese David Chipperfield, vincitore di un concorso internazionale. Questa diffusione capillare è avvenuta ed avviene grazie all’interessamento di alcuni pionieri collezionisti e promotori culturali; è a loro che si deve la coraggiosa iniziativa e la motivata curiosità di esplorare un mondo quasi sconosciuto, misterioso sotto molto aspetti, che affascina nonostante i preconcetti e le diffidenze della società occidentale. Certo, di acqua sotto i ponti ne è passata prima di giungere a questi inaspettati e sorprendenti risultati, vale a dire prima che l’arte contemporanea si sviluppasse in

AFRICA?

alla base della concezione artistica cosiddetta “tradizionale”. “Elementi chiave sarebbero quelli della simmetria, della moderazione (ad esempio nel trovare un punto di equilibrio fra realismo ed astrazione), della chiarezza delle linee e dei volumi, della luminosità delle superfici, della compostezza ed integrità delle forme”.2 Non trascurabili anche le componenti legate alle credenze religiose, all’accentuata spiritualità e all’aspetto trascendentale dei riti. “Qui infatti non sono in gioco solo gli uomini, ma anche e soprattutto figure extra-umane: spiriti, divinità, antenati. È a loro, per lo più, che queste opere sono rivolte; e sono loro a doverne essere soddisfatti. Questi oggetti guar-

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UNA NUOVA STORIA ormai, per i salti di qualità universalmente riconosciuti, si sta giustamente diffondendo a ritmi vertiginosi in tutta Europa e soprattutto in Francia, in Inghilterra, molto in Germania, in Spagna e in Italia (Bergamo, Torino, Milano, Trento, Bolzano, Bologna, Brescia, Napoli e Messina).

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quasi tutta l’Africa e si affiancasse all’arte tradizionale; quest’ultima, da non sottovalutare, è ancora fortemente radicata nel territorio. Si è molto indagato sui canoni estetici dell’intero continente e sono state individuate alcune caratteristiche peculiari che sono

dano verso un altro mondo o sono fatti per essere visti da un altro mondo”.3 Per molto tempo gli Europei hanno diffidato, e a torto, delle potenzialità artistiche degli africani ed hanno stentato molto ad attribuire “valore artistico” alla produzione locale, dei villaggi,


basata essenzialmente sulla scultura in bronzo, in pietra ed in terracotta (soprattutto maschere), ma anche su opere realizzate con materiali spesso facilmente deperibili, ma soprattutto facili da reperire, come il legno, il fango, le fibre vegetali, ecc., senza considerare i gioielli in oro e i tamburi scolpiti. “L’arte africana non è mai stata fine a se stessa. Gli artisti erano innanzi tutto artigiani il cui scopo era di fabbricare oggetti utili, ma essi sapevano e sanno trasfondere nelle loro opere […] il loro sentimento del “bello”.4 Il concetto di “bello”, secondo la visione europea corrisponde a canoni molto differenti da quelli africani; in Africa è molto diffuso l’apprezzamento della “bellezza del brutto”. E le stesse nozioni di “arte” e di 2

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1. Seni Awa Camara, Senza titolo; 2. Chikonzero Chazunguza, Virtualità; 3. Abdul Naguib, Karingana wa Karingana (part.); 4. Abdoulaye Konaté, Generazione biometrica n. 1.

“artista” sono da ritenere dissimili dal nostro modo di intendere e di concepire i termini che, tra l’altro, la lingua africana non è in grado di tradurre. “‘La mancanza’ che ci sembra

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5. Pathy Tshindele, Senza titolo, 6. Calixte Dakpogan, La morte in piedi, Resuscitata; 7. Idrissa Diarra, Il cavallo bianco; 8. Bodys Isek Kingelez, Aeromoda; 9. Demba Camara, Senza titolo; 10. Pathy Tshindele, Senza titolo; 11. Shine Tani, Concerto annullato.

disorientamento derivi dalla nostra scarsa coscienza critica circa alcuni concetti fondamentali espressi in particolare dall’estetica crociana che “[…] inquadra l’attività artistica nel suo sistema della filosofia dello spirito che contempla due momenti, due forme di attività:

al conseguimento di obiettivi pratici come la predicazione morale e politica”.6 L’arte è quindi frutto di un momento magico, è intuizione ed espressione di una realtà poetica attraverso il linguaggio proprio dell’artista; da tale momento scaturisce l’opera universale

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di constatare deriva forse in realtà solo dal fatto che vengono disattese quelle che sono le nostre aspettative, modellate su una particolare concezione dell’arte: quella delle ‘Belle Arti’ o dell’art pour l’art, che contrappone la sfera del bello a quella dell’utile, l’arte pura all’arte applicata, le arti nobili a quelle meccaniche e così via […] Ma in realtà anche in occidente con il termine ‘arte’, a seconda dei periodi, si sono pensate cose molte diverse fra loro e che cosa si debba intendere oggi per arte non è affatto chiaro”.5 Ma noi crediamo che il 9

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una teoretica che si rivolge al conoscere, una pratica che si rivolge al fare. L’attività teoretica ha due stadi: uno, intuitivo, mediante il quale si ha conoscenza del particolare ma ancora indistinto e al di qua di ogni giudizio; l’altro concettuale, che comporta quindi il giudizio, la distinzione (vero e falso). L’arte è tipica del primo momento, è intuizione, conoscenza dell’individuale che non può avere le caratteristiche di giudizio, di distinzione di vero o di falso che sono proprie del momento concettuale. E appunto per questo è intuizione pura, cioè aliena da qualsiasi valore intellettuale o vocazione moraleggiante. Da ciò deriva l’autonomia dell’arte che non è quindi né conoscenza teorica, né atto morale, né mira

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che, in quanto tale, è destinata a vivere in eterno. Da tempo sappiamo che ormai le idee, le culture non hanno più confini; in un mondo globalizzato infatti le distanze si sono annullate, per cui oggi la conoscenza dei fenomeni, an-

che artistici, è immediata. L’osmosi che si è verificata e si verifica nei due sensi tra le varie culture ha determinato in parte l’occidentalizzazione del fare artistico nel mondo africano. E ci chiediamo se può avere “[…] senso, a proposito del-


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l’Africa, parlare di ‘bello’ e di ‘arte’; se cioè questi termini corrispondano alle intenzioni e all’esperienza vissuta dagli Africani o non siano solo delle nostre proiezioni, un modo di vedere le cose che parla più di noi che di loro, in sostanza un pericoloso malinteso”.7 Non da meno l’impenetrabile mondo africano ha contribuito in modo notevole nella formazione di molti artisti europei; tra questi ricordiamo Matisse, Braque, Derain, Vlamink e Picasso. In particolare, quest’ultimo è stato attratto dalla scultura africana (maschere), rimanendo profondamente turbato nel visitare una sala espositiva di sculture nel Museo parigino del Trocadèro, nell’estate dell’anno1907; ed è pur vero che

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“Già in uno dei suoi taccuini del Marzo 1907 si trova lo studio di una testa conforme a questo tipo di stilizzazione: Picasso lo utilizzerà per i volti in apparenza di maschere di ‘Les demoiselles’”.8 La mostra “Africa? Una nuova

storia” del Vittoriano, curata da André Magnin, è costituita da due sezioni: “La collezione Pigozzi di Arte Contemporanea Africana” dell’Africa sub-sahariana e una selezione di opere di “Artisti Africani” scelti dalle Ambasciate di diversi Paesi.

Jean Pigozzi è il coraggioso collezionista che con iniziative diverse ha voluto finanziare e sostenere l’arte africana, favorendone la conoscenza e sottolineandone i risvolti etici e culturali. Tra gli artisti presenti, provenien-

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12. Rashid Diab, Donne; 13. George Lilanga, Sono stupiti, da dove è venuta al testa?; 14. Amani Bodo, La riconciliazione è il bacio della morale; 15. Esther Mahlangu, Senza titolo; 16. Richard Onyango, Tsunami.

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ti da oltre venti Paesi, ricordiamo Esther Mahlangu della tribù Ndebele, con le sue pitture murali decorative disegnate a mano libera, trasferite in seguito su tele di grandi dimensioni; George Lilanga con le sue sculture caricaturali policrome; il pensatore e poeta Frédéric Bruly Bouabré, grande talento, pacifista, autore di migliaia di disegni assemblati con un titolo emblematico: “Conoscenza del mondo”; Demba Camara, scultore itinerante che adopera materiali di recupero nella produzione di robot, ormai popolari in tutto il mondo; Chéri Chérin con i suoi ‘dipinti messaggi’ che denunciano la decadenza dei

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valori; Calixte Dakpogan che discende da generazioni di fabbri, autore di sculture antropomorfiche realizzate attraverso l’assemblaggio di materiali usurati, di recupero; Romuald Hazonmé, l’artista “bidone” che realizza sculture (maschere) con materiale di recupero (bidoni di plastica); Chéri Samba, inizialmente cartellonista e disegnatore di fumetti, poi artista figurativo a tutto tondo, impegnato nella denuncia delle problematiche dell’esistenza quotidiana ed infine Bodys Isek Kingelez, l’autore di monumentali plastici architettonici, polifunzionali, nel senso che accentrano gran parte delle funzioni

N O T E 1. Ala Brasini, dal 19 Novembre 2009 al 17 Gennaio 2010 2. L’arte africana. La grande storia dell’arte, vol.IX, Ed. Il Sole 24 ORE, pubblicata su licenza Education.it, Firenze, 2006 3. L’arte africana, cit. 4. Cecilia Lascialfari, “L’arte africana tradizionale”, www.cecilialascialfari.it 5. L’arte africana, cit. 6. Salvatore Guglielmino, Guida al Novecento, Ed. Principato, Milano, 1975 7. L’arte africana, cit. 8. Carsten-Peter Warncke, Pablo Picasso, 1881-1973, vol. I, opere 1890-1936, Taschen, Köln, 2007 9. Andrè Magnin, “Africa? Una nuova storia”, Gangemi, Roma, 2009

di una città ideale, dai colori molto vivaci e dalle forme geometriche astratteggianti, splendidamente ricercate. Gli artisti, in generale, tendono a relazionarsi con il resto del mondo, attraverso tematiche che pur scaturendo dall’esperienza quotidiana (espressione della propria cultura, del proprio sapere) finiscono per coinvolgere, in una visione completa e problematica, l’intera umanità. La mostra “allarga gli orizzonti geografici dell’arte e rappresenta, al tempo stesso, un terreno nel quale Europa e Africa sono chiamate a riscoprire le loro radici comuni, per andare insieme incontro al futuro”.9




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