Interrogando i visi

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interrogando i visi

Esposizione di pittura Giovanni BUZI

03 > 15 giugno 2011

Centro di Documentazione della Ricerca Artistica Contemporeana "Luigi Di Sarro" Roma



Testa: frammento di un corpo Nell’essenza della sua sfericità, la testa è un tema che accompagna tutto il percorso artistico di Giovanni Buzi. Fantasma privato del corpo, cerca uno spazio per vivere, una domanda a cui rispondere. Gli anni romani hanno portato questa ricerca alla composizione di grandi teste in cui il rosso di un romantico ma cupo barocco si congiunge all’espressione sensibile e pura della linea etrusca. Le due profonde radici del pittore: Roma e l’Etruria. Nei successivi anni trascorsi a Bruxelles, le immagini dell’universo buziano, portate ad un’estrema compiutezza formale, conquistano il colore. Sono anni di riflessioni e di analisi sul proprio cammino. Grandi tele appieno compiute, eseguite con miscellanea di tecniche e colori, vengono impietosamente tagliate, sminuzzate e ridotte in piccoli pezzi, di cui ognuno nasconde dentro di sé la memoria del tutto ma, impotente nel suo tentativo di ritorno all’unità dell’origine, lamenta la sua solitudine restando unico superstite o si compone con altri in un insieme nuovo e diverso. La pura bellezza dell’immagine non riesce più a soddisfare le profondità dello spirito: è necessario che venga distrutta, perché possa rinascere, da una miriade del caos, lo spessore più intenso di una nuova realtà. Ancora teste, ma ora piccole e colorate. Sono gli ultimi anni, gli ultimi mesi perfino: questo tema a lui sempre caro torna in modo costante, rilucendo adesso con tocchi di colore e con l’intensa luminosità del bianco. Volti che parlano dell’amore per l’arte, della verità di una ricerca, dell’intensità della vita. Di tutto questo permane il ricordo nella memoria… l’opera continua a raccontare se stessa ed altro ancora. Paolo Raffaeli Marzo 2011

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Come ho scoperto la pittura L’incontro vivo che ho avuto la prima volta con la pittura è avvenuto per caso, alla luce di un sole caldo e in presenza d’una polvere fina e biancastra. Avrò avuto una decina d’anni e scorrazzavo per i campi vicini al villaggio con una banda di miei coetanei. Eravamo soliti allontanarci dalle ultime case ed esplorare l’inizio di quel vasto mondo che s’estendeva tra colline e campi coltivati fin chissà dove. Oltre il fontanile ormai abbandonato saliva una strada asfaltata che portava a Roma. Il fontanile era il limite fissato dai genitori alle nostre scorribande. Giunti là qualcuno si sedeva sulla pietra grigia levigata come l’acciaio e dondolando le gambe diceva: - Io resto qui, non ho più voglia di camminare. - Fa come ti pare... - rispondevamo e ci lanciavamo correndo verso un mondo d’alberi e vigne, farfalle, fiori selvaggi, profumi... A casa mia e dei miei amici non c’erano quadri, pitture vere. Le poche immagini, a parte foto stantie di nonni, matrimoni e cresime, erano quelle raffiguranti Madonne, Cristi e Santi. Immancabile una riproduzione della Madonna con Bambino sull’enorme letto nuziale dei genitori. Sempre la stessa; una donna in carne, rosa e florida a giudicare dal viso e le mani, uniche parti visibili del corpo. Una preziosa stoffa azzurra le copriva il capo, scendeva sulle spalle e serpeggiava poi morbida in numerose pieghe sul seno. Alle braccia aveva un pupo roseo e paffuto come lei. Entrambi erano aureolati da una corona di stelle sospese in aria per incanto. Dalle loro teste emanava una luminosità astratta. I due avevano le labbra rosa increspate da un perpetuo, dolcissimo sorriso. Ogni volta che lo guardavo mi faceva venire in mente il sapore delle caramelle ‘Rossana’. Deliziose, avvolte in carta trasparente rossa, al sapore di vaniglia, il guscio croccante e il cuore morbido morbido; ne mangiavo due e non avevo più fame per mezza giornata.

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Quel ritratto per me non era una pittura, era la Madonna col Bambin Gesù e mai mi sarebbe venuto in mente d’immaginarli in un altro modo. Il fatto che fossero dipinti e non veri non mi poneva nessun problema. D’altra parte che ne sapevo io della differenza tra pittura e realtà? (differenza, a dire il vero, che ancora mi sfugge). Avevo già visto in chiesa quadri di Martiri e Santi, bei vegliardi e gentili signore abbigliate con stoffe splendide e perle. Colombe e croci, fasci di luce divina e fronde d’alberi, campagne e vasti cieli anneriti da una fitta nebbia. Ma quelli erano San Biagio, Santa Lucia, Santa Giacinta, non era la pittura. Della pittura non avevo nessuna nozione, nessuna parola per definirla, per me non esisteva. Il ritratto della Madonna col Bambino sull’altar maggiore era un rettangolo annerito che non superava il metro quadrato. Si trovava molto in alto ed era il fulcro d’un turbine esteso sull’intera parete di putti, nuvole, schegge d’architettura e drappi il tutto attraversato da un’esplosione di raggi di luce divina. Raggi spessi, solidi, coperti come il resto da una lucentissima pelle d’oro. Il ritratto era sormontato da una corona gigante che si staccava di prepotenza dalla parete e poggiava su capitelli sostenuti da quattro colonne scanalate. Un potente colpo d’ali e due angioloni sostenevano il tutto a mezz’aria. Io, già tendente al miope, abbagliato da tutto quell’oro, sistemato spesso negli ultimi banchi accanto all’entrata principale (per andarmene subito come la messa finiva), della Madonna col Bambino non vedevo granché. Pensavo che fosse la stessa identica di casa nostra. Si trovava allo stesso tempo sul letto dei miei genitori, su quello dei genitori dei miei amici e in chiesa. Tale mistero non mi inquietava. In quell’edificio dai soffitti altissimi in cui ogni parola s’amplificava e riecheggiava, tende di seta e broccato, candelabri d’argento, ostensori, reliquari tempestati di pietre preziose, statue sante, fasci di fiori, musiche d’organo, stucchi e incendi d’oro tutto era possibile, il Mistero era sempre presente, quotidiano e non c’erano domande da porsi. Ogni domanda, anche la più semplice: ‘Scusi, che ore sono?’, avrebbe risuonato rimbalzando da una colonna di marmo all’altra, da una doratura all’altra fino a perdersi tra i sorrisi beati degli angeli in volo eterno verso i cieli. 5


Così, ignaro della pittura, mi ritrovavo felice a correre e saltare con i miei amici tra le erbe alte, i mari di campi di grano, gli alberi da frutto rincorrendo a turno cavallette e ranocchi, i semi aerei dei fiori o semplicemente il vento. Un giorno il nostro volo fu interrotto da una grande costruzione semi diroccata, porte e finestre sprangate. Ci fermammo a guardarla stupiti. - E quella catapecchia di chi è? Sapere l’appartenenza d’ogni filo d’erba è vitale per figli di contadini. -

Bah, di sicuro di nessuno...

Chi avrebbe infatti lasciato un casale così malridotto, il terreno incolto, senza nemmeno una pianta di nocciole o un ulivo?... I nostri padri erano capaci di spremere il succo dalle pietre, come dicevano i pochi che non vivevano d’agricoltura nel villaggio, ed era vero. - Ma è la Commenda! Non avvicinatevi! - urlò uno di noi. La Commenda! Fummo presi dal panico; era quella la Commenda... In paese se ne parlava il meno possibile, quello che sapevamo l’avevamo rubato a frasi bisbigliate, soffocate. La Commenda era un’antica chiesa sconsacrata fondata non si sa da chi né quando da evitare più della peste bubbonica. I contadini proprietari dei terreni accanto erano scansati come appestati. Chi poteva vendeva la terra anche per un boccone di pane, ma in paese nessuno la voleva e bisognava che abboccasse all’amo qualche Romano. - Entriamo? - gridò uno di noi sorprendendosi della sua stessa audacia. Un brivido ci percorse le membra. Forzata una finestra entrammo.

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Niente, a prima vista non c’era niente. Una vasta aula vuota rischiarata dal sole che entrava a fasci dal tetto in parte crollato. Una polvere biancastra, finissima circolava lieve lieve nell’aria come neve microscopica. Facemmo qualche passo sul pavimento duro come il marmo coperto di foglie morte macerate dal tempo. Che delusione!... non c’era niente. Alle pareti, piano piano, iniziarono a prender corpo strane forme. Striature e macchie pallide di colori. Si contorcevano, s’amalgamavano, s’univano in braccia, mantelli, figure. Le pareti erano affrescate. Ci avvicinammo. Allungai una mano, al primo sfiorare, un lembo d’intonaco colorato si staccò; l’attimo d’indovinare una mano che sbriciolava nella mia. Era quella la pittura. Ce ne andammo senza fretta per ritornare a casa. Negli occhi ancora l’immagine di quegli affreschi crivellati dagli spari delle mitragliatrici. Non era poi una grande scoperta, sapevamo già che durante la guerra molte persone del villaggio erano state fucilate là dentro. (Estratto del romanzo di Giovanni Buzi, Il Giardino dei Principi, Roberto Massari Editore, 2000)

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Volti che parlano dell’amore per l’arte, della verità di una ricerca, dell’intensità della vita. Di tutto questo permane il ricordo nella memoria… l’opera continua a raccontare se stessa ed altro ancora.

Paolo Raffaeli

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Testa rossa (1990)

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Statua (1991)

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Ritratto (1994)

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Ritratto di signora (1997)

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Sogno (2002)

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Grido (2004)

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Ricordi (2006)

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Viso (2009) 16


Testa bianca (2009)

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Piccola testa bianca (2009)

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Testa blu (2009)

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Testa rossa (2009) 20


Giovanni Buzi: libri pubblicati nel 2011

Le dieci morti di Tran-Silvana (Il Foglio) Questi gustosissimi racconti, molti dei quali narrati in prima persona, sono storie dissacranti, visionarie, ironiche, sanguinarie, surreali, prive di buonismi ipocriti e moralismi, in cui l’orrore viene condito con un erotismo talvolta tendente alla perversione, ma sempre sincero, vero, libero. La bravura dell’autore, oltre che nella fervida inventiva e nella notevole capacità narrativa, sta anche nel creare immagini: come quella di Tran-Silvana infilzata alle due estremità come uno spiedo o, più poeticamente, nell’atto di prepararsi davanti alla consolle dello specchio, o ancora la memorabile descrizione di un cuore infilzato da tre forchette e posto su un vassoio d’argento, metafora splatter della fragilità di Silvana. Molti i momenti e i personaggi divertenti. Su tutti, la moglie di Frankenstein, profondamente umanizzata nei suoi tic e nelle sue fissazioni, come quando si dà «una grattatina proprio là, in quel punticino di sutura della pelle posticcia che le ricopriva il cranio e che, ogni anno agli inizi dell’inverno, le prudeva». L’atmosfera evocata nei racconti è pregevole: deliri tossici, distese ghiacciate perse in vortici di silenzio, suggestioni lovecraftiane, tra creature tentacolate e squarci di profondità ipogee romane. E Roma diventa più che semplice sfondo, elemento narrativo essa stessa: una città fatta di pietre, puzza, fiori, stemmi, oleandri, gioielli e merda, che raramente è stata così vera sulla pagina scritta, tra penombre spazzate dai raggi laser delle discoteche, musica da perforare i timpani, fumo, tassi alcolici fuori legge. La vera protagonista, però, è lei, la “pluriaccessoriata” Silvana: donna-uomo fatta di carne e sangue, è la regina di questo regno di cellulosa e inchiostro, creatura realmente viva, in quanto

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portatrice sana di emozioni, sentimenti, desideri. Le sue controparti, con miserabili motivazioni, sono poco più che larve schiacciate dalla falsità, dalla cupidigia, dal conformismo, dalla cattiveria gratuita. Ma non per questo Silvana nega loro la «Suprema Illusione» di essere forti, necessari, potenti come Dio. Perché lei ama «la falsità. Non la Luce diretta, ma i suoi riflessi. Non la Bellezza, ma il belletto»: Silvana è unica nel suo (trans)genere. Il Blog del Catafalco, Aprile 2011

Sangue garofano e cannella, Ed. Arduino Sacco, 2011 (romanzo scritto assieme a Cinzia Pierangelini) La ricetta? – dicevo – Farina, zucchero, cioccolato, latte e uova, ho aggiunto un po’ di margarina, impastato il tutto, cara amica. Semplice, no? Ma gli ingredienti speciali non posso dirli! Oh, la Virginia, per dire: un ottimo ingrediente speciale! Finì nel pentolone come le altre due, ma a differenza delle altre la sua carne era grassa e bianca, i pasticcini furono davvero i migliori. Amalgamando sapientemente verità e fantasia, proprio come in un’ottima ricetta, gli autori di ‘Sangue garofano e cannella’ tornano a gettare una luce, sinistra luce, su una delle vicende criminose che più hanno scosso l’Italia degli anni ’40: gli efferati delitti di Leonarda Cianciulli, detta La saponificatrice di Correggio. Mescolando gli articoli, la biografia e le testimonianze reali a un diario immaginario dell’assassina, scritto in prima persona, questo libro intende continuare a scavare nel Male in cerca delle sue, spesso incomprensibili, origini.

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Bibliografia dei libri di Giovanni Buzi Romanzi (in italiano) Faemines, Ed. Croce, 1999 Il giardino dei principi, Ed. Massari, 2000 Agnese, Ed. Tabula Fati, 2005 Agnese, ancora , Ed. Akkuaria, 2008 Uragano, Ed. Delos Books, 2008 La Signora dalla Maschera d'Oro, Ed. Il Foglio, 2009 Sangue garofano e cannella, Ed. Arduino Sacco, 2011 (romanzo scritto assieme a Cinzia Pierangelini) Raccolte di racconti (in italiano) Fluorescenze, Ed. Il Filo, 2004 Sesso, orrore e fantasia, Ed. Massari, 2005 (edizione in tre lingue : italiano, francese, inglese, con 65 tavole a colori) Alchimie d'amore e di morte, Ed. Tabula Fati, 2006 Le dieci morti di Tran-Silvana, Il Foglio, 2011 Plaquette in francese e italiano Noir et Blanc, Bruxelles, 1995 Eaux Turquoise, Bruxelles, 1996 Lumières géométriques, Bruxelles, 1996 Promenades romaines, Bruxelles, 2001 Saggi sull’arte Le mystère des logogrammes de Christian Dotremont, Atelier 11, 2002 (in francese) William Turner in Etruria, Ed. Massari, 2004 (in italiano) Visi, Ed. CNAD Gierut, 2009 (in italiano)

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Principali esposizioni Giovanni Buzi

personali

di

Marzo 1986 : «La Memoria», Centro Culturale «Saint–Louis de France», Roma. Dicembre 1987: «Pietre nel verde sacro», con Luigi Caflisch, Libreria «EL», Roma. Maggio 1995: «Fragments», Waterlandkerkje, Olanda. Giugno 1997 : «Fragments», Bruxelles. Giugno 1999 : Galleria «Pro Vision Europe», Bruxelles. Giugno 2000 : «Bruxelles, 10 années de peinture », Atelier 11, Bruxelles. Ottobre 2000 : «Pitture, 1980–2000», Centro Luigi di Sarro, Roma. Marzo 2001 : «Passeggiate romane», Atelier 11, Bruxelles. Dicembre 2002 : «De la figuration aux Fragments», Galleria «L’Arté», Bruxelles. Marzo 2004 : «Hommage à Turner», Galleria «L’Arté», Bruxelles. Dicembre 2009 : "Visages 1979-2009", CES, Bruxelles. Giugno 2010 : Retrospettiva "Schegge di vita", UPJB, Bruxelles. Novembre 2010 : "Frammenti", Cabinet artistique "Libre Choix", Bruxelles.

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Canto IV (all’amico Giovanni Buzi)

Io sono il colore la dolce rima che volge l’occhio al cuore al dolore il vortice che dipinge l’orrore la punta di dito che lo rimesta e lento spinge a ritornare amore io me ne vado - vi dico - confuso ma non per questo il mio vernicio muore e nello strazio s’intende un angelo che superispirato musicante sale in stato interessante, vi lascio solo nel corpo – ve lo dico ora –

me ne vado alla faccia del potere quello ve lo lascio: vipera sfinge bifallico cornuto dragodonna. Sorge, ora che mi faccio cenere, l’aroma dei visi e “il nulla freme” ritorno al vortice col cuore a palme mentre all’ombra di Giuditta subisco ingrata pena, fontana di Dafne io me ne vado nel mio regno nero col mio sereno viso a sgranare le mie collane, una dopo l’altra, ne spargo i colori come colombe di pace allestite al rogo d’amore

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e il vento: PÚm! Batte il volto di sfinge una canzonetta allegra glissarsi dove ora me ne vado a passeggio nella mia città eterna, nei fondali della carne tatuata d’alghe volo e dico a voi che state ancora al mondo abbiate la processione negli occhi di coloro che fanno resistenza e dico a voi che state in parlamento di ogni palazzo, da questo luogo seguito il poema indecifrabile.

Andrea Garbin

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Maggiori informazioni sulle mostre e attivitĂ relative al lavoro di Giovanni Buzi :

http://www.giovannibuzi.net


Stampato in 250 copie per la mostra ÂŤ Interrogando i Visi Âť Roma, giugno 2011 Fotografie dei quadri : Christophe LOUERGLI


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