GINKGOMAG

bastione naturale in prospettiva ariosa
bastione naturale in prospettiva ariosa
La tua occasione per usare quella stampante a casa che pensavi fosse un soprammobile
Ginkgomag
Riposo
1. Il riposo no_Federico di Pietro
2. E se il tuo meglio non fosse abbastanza?_Giulia Giovannini
3. Riposo come atto politico_Ludo Amato
4. Il sogno di fare “altro”_Lavinia Ferrari
5. L’arte dell’onironautica_Lucrezia Zucconi
6. Adolescenza in limine: conversazione con Lorenzo Tardella _Virginia Maciel Da Rocha
7. Dormire_Giulio Masi
Summer on a solitary beach_ foto di Giulio Masi
Le fasi del sonno: neuropsicologia del sonno_Marco Morelli
Una mattina al mercato_Anna Frosini
Consigli
L’aspettativa di vita di un essere umano è di 75 anni, quella di un ginkgo supera i 1000 anni. La longevità di questa specie trova spiegazione nel sistema di autodifesa da stress causati da agenti patogeni o siccità e nella mancanza di un programma di senescenza predeterminato.
Sebbene il ginkgo abbia vissuto il 99% della sua storia sul pianeta Terra senza la presenza dell’essere umano è (anche) alla comparsa di quest’ultimo che deve la sua sopravvivenza. A causa dei cambiamenti climatici, infatti, il suo areale era drasticamente ridotto, indirizzando la specie all’estinzione. Quando l’essere umano, poi, si trovò al cospetto del ginkgo riconobbe immediatamente la sacralità di quella pianta, fu capace di servirsene e di avviare un percorso di vita simbiotica fatto di corrisposta riconoscenza.
Uscendo dall’ordine temporale dei millenni, passando all’ordine dei minuti, delle ore, dei giorni, arriviamo al presente, tempo in cui le scelte dell’essere umano hanno ricadute negative sul ginkgo, che però nel frattempo ha sviluppato un quasi magico e sicuramente ostinato attaccamento alla vita. Ne è testimonianza ciò che il 6 agosto 1945 succede a Hiroshima: gli esseri umani utilizzano una bomba atomica come arma contro altri esseri umani per la prima volta nella storia. A 1500 metri dall’epicentro dell’esplosione sei ginkgo sopravvivono.
Il nostro progetto parte da quei sei ginkgo. Vogliamo abbandonare il programma di senescenza predeterminato, accettando e affrontando il presente, socializzando senza rinunciare alla scoperta interiore, cercando l’uno al di sopra del bene e del male, essendo bastioni naturali in prospettiva ariosa, buon rifugio per chi ne ha bisogno.
Da diverse posizioni osserveremo contemporaneamente il presente, ottenendo necessariamente una visione soggettiva della realtà. Non rinunceremo, poi, a metterla in discussione, la contamineremo con le altre visioni ottenute, analizzeremo il perché di certi paradossi, cercando di decostruirli, discuteremo, sempre empatizzando, mai sentenziando. Certo le circostanze non sono favorevoli, e quando mai?
Vive a Bologna, laureanda in Lettere Moderne presso l’Alma Mater Studiorum. Si occupa di divulgazione femminista sui social network ed è attivista in ambienti queer e transfemministi, cofondatrice del Collettivo Corpi dal Margine, primo collettivo transfemminista e antispecista a Pistoia. Organizza e promuove eventi sociali e culturali incentrati sulle tematiche inerenti alla gender equality.
Federico di Pietro
Vive a Roma, laureando in International Relations presso l’Università LUISS e dove, dopo aver svolto il tirocinio presso la NATO NRDC, svolge il servizio civile presso l’Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo. Laureato in Scienze Politiche presso l’Università degli Studi di Firenze e attivo per anni come militante all’interno dei movimenti giovanili del territorio pistoiese, ha organizzato eventi di divulgazione e sensibilizzazione incentrati su ambiente, cultura, diritti, immigrazione e sviluppo urbano.
Vive a Pistoia, ma frequenta il secondo anno di Scienze Politiche e Studi Internazionali presso l’Università degli Studi di Firenze. Attivista climatica, è co-fondatrice del gruppo di Fridays For Future Pistoia e scrive per Scomodo ed Ecologica Online. Per due mesi ha lavorato a Gaziantep, sul confine turco-siriano in un progetto dei “Corpi Europei di Solidarietà” incentrato sull’accoglienza e facilitazione delle comunità siriane in Turchia. In futuro vorrebbe occuparsi di cooperazione internazionale, ponendo particolare attenzione al rapporto tra crisi climatica e migrazioni, di cui ha intenzione di parlare e raccontare il più possibile.
Vive a Parigi, dove frequenta un master in History and Philosophy of Art and Film alla University of Kent. Laureata in Beni Culturali presso l’Università degli Studi di Firenze con tesi sulle arti visive, si impegnata nel mondo dell’editoria indipendente, avendo cofondato il magazine di cinema Uncle Yanco e essendo coinvolta come art director e art and film editor all’interno del magazine parigino The Menteur. A Parigi collabora all’organizzazione del festival Refractions.
Giulio
MasiVive a Firenze, laureato in Economia Aziendale percorso Management, Internazionalizzazione e Qualità presso l’Università degli Studi di Firenze con tesi sulle comunità locali e la solidarietà nelle aree distrettuali. Da quattro anni si occupa di rigenerazione urbana a Pistoia con Spichisi e Montuliveto, lavorando a processi di rigenerazione dal basso attraverso l’arte, la cultura, la formazione e lo sport. Lavora anche come insegnante di coding e comunicazione all’interno di Scienza Ludica, associazione di promozione sociale di cui è cofondatore e vicepresidente.
Vive a Pistoia, laureata in Lettere moderne presso l’Università degli Studi di Firenze con una tesi in Storia del cinema, sull’opera di Pedro Almodóvar e le influenze di Federico García Lorca su quest’ultimo, in attesa di proseguire gli studi magistrali nell’ambito dell’audiovisivo. Già attiva nel mondo dell’editoria in quanto redattrice per testate online di cinema e co-fondatrice del magazine indipendente Uncle Yanco, partecipa come inviata stampa ai principali festival di cinema europei.
Lucrezia Zucconi
Vive e lavora a Bologna, dove sta terminando lo studio magistrale in Scienze Filosofiche. Dopo un primo lavoro di ricerca basato sull’analisi della struttura dell’empatia come attitudine pro-sociale, di formazione puramente teoretica, si occupa oggi di filosofia estetica, Natura, percezione. In parallelo porta avanti il suo interesse per le subculture e T.A.Z. urbane. Nell’ultimo anno ha avviato il progetto di handpoke tattooing sotto lo pseudonimo di Soffice Ponyo.
Andrea Carloni
Vive a Pistoia, laureato in Architettura presso l’Unità degli Studi di Firenze. Lavora come architetto, studia la società ed è fondatore di The Tree Mag, magazine online focalizzato sui diversi settori della creatività, nato con l’intento di dare una visione a tutto tondo sul mondo della progettazione.
Vive a Milano, dove segue il percorso magistrale in Design della Comunicazione al Politecnico. Laureata in graphic e product design presso l’ISIA di Firenze, la sua tesi esaminava l’intervento di rigenerazione urbana Il Giardino di Cino come caso studio per la progettazione di un Community Hub nella città di Pistoia. In teoria, per i nonni rimarrà sempre “quella che lavora al computer, ma non si sa bene cosa faccia”; in pratica, analizza un’esigenza e la risolve tramite artefatti visivi. Ha esperienza lavorativa, sia autonoma che in agenzia, come graphic designer.
La cadenza bimestrale di Ginkgomag ci porta, in questa uscita, ad affrontare quello che forse è il bimestre più disomogeneo all'interno dell'anno, almeno per quelli che sono gli usi e i costumi all'interno della nostra Penisola. Con i moti degli astri ormai relegati alla mera funzione previsionale della quotidianità delle persone in rubriche di dubbio gusto, lo scandire del tempo sulla Terra è affidato ai ritmi di lavoro degli esseri umani, con agosto che diventa la fine di un anno e settembre diventa l'inizio di quello dopo. In questa uscita, con un pizzico di presunzione, tentiamo di estendere il riposo anche a settembre e, magari, di ripensare a nuove unità di misura per la vita capaci di esulare dal tempo e/o dal ruolo sociale.
Agosto è la riconciliazione con i ritmi naturali, il confronto con la libertà del mare e con la lezione che ne deriva secondo Dagerman, ovvero che nessuno ha il diritto di pretendere che il mare sorregga tutte le imbarcazioni, così come nessuno dovrebbe avere il diritto di imprigionare la nostra vita al servizio di certe funzioni. Agosto, però, diventa anche il confronto con l'eternità e la presa di coscienza del fatto che la vita umana non è una prestazione e quindi non
è quantificabile con nessuna unità di misura, che la vita umana racchiude in sé il proprio fine e di conseguenza non ha senso valorizzarla in base a calcoli quantitativi basati su diversi parametri egualmente insignificanti.
Ancora Dagerman sostiene di sentire la schiavitù come un qualcosa di necessario al fine di provare la consolazione di essere una persona libera.
Allora settembre altro non è che il ritorno alla soggezione e ai costrutti sociali autoimposti, momento in cui la libertà diventa contemporaneamente, un ricordo e un ideale, consolazione per opporsi al potere del mondo.
Il secondo numero di Ginkgomag si sviluppa principalmente intorno a questi due passaggi, soffermandosi anche sulla concezione contemporanea di riposo e i tentativi neoliberali di appropriazione. Chiudiamo augurando di riuscire a riposarsi a chi ha la fortuna di poter vivere un fanciullesco e pavesiano agosto, a chi vive per lavorare, a chi è in pensione e a chi vorrebbe riposare in eterno ma qualcuno e qualcosa glielo impediscono.
In questo numero digitale abbiamo incluso le attività della ginkgoenigmistica; vogliamo farvi giocare, ma non ci piacciono gli sprechi, perciò abbiamo ottimizzato il consumo di inchiostro riducendo colori/foto/pagine vuote di questo file, in modo che possiate stamparlo a casa e fare tutti i nostri
* le soluzioni le trovi nel prossimo numero
Datemi tutto: noia, rimpianti, maledizioni e sciagure, ma non il riposo. È dall’inizio dell’università, della magistrale precisamente, che sento le persone chiedere di riposarsi, esigere il riposo. Il riposo è una prerogativa borghese ed elitista che odio. Ma chi può riposarsi? Ma perché? Precisamente, gli universitari, da cosa devono riposarsi? Dallo studio? Dalle lezioni che iniziano alle 8 del mattino? Dal fatto che si sono scelti una facoltà e che adesso debbano portarla al termine? Il riposo, caratteristica delle classi agiate che possono mettere in stand by la vita educativa e professionale, è odioso nel senso etimologico del termine, ovvero [atto del riposare “cessazione temporanea di attività”].
La domanda persiste: da cosa dobbiamo riposarci? Il lassismo ha attanagliato le nostre esistenze. Netflix, Disney+ e Amazon Prime le hanno avvelenate. Passiamo pomeriggi a guardare serie e leggere righe di libri inutili (come ad esempio quelli della narrativa italiana degli ultimi 20 anni, e forse anche di quella internazionale, escluso qualche volume di Williams, tutto Izzo, Cognetti, Ammaniti, Chaon, Franzen, Roth, Kristòf, McCarthy, Barbery, Murakami e DeLillo). Chiedo perdono ai cognomi omessi, ma la tendenza è ormai quella di leggere letteratura fluida, insignificante, il cui unico pregio è la pessima qualità come caratteristica per essere letta e apprezzata.
Nonostante tutto, continuo a odiare il riposo, perché è diventato un’esigenza della classe benestante. Siamo una generazione che non ha vissuto la Grande Depressione, né la Grande Guerra. Una generazione che non ha identità se non quella di riconoscersi in una generaliz-
zata banalità, in una omogeneizzazione di gusti e in uno sciagurato desiderio di non fare un cazzo perché “ne ho il diritto”. E io rido. Rido perché, in tutta onestà, adoro e sono totalmente assuefatto da questo sistema etero-anti-sub-stra-proto-turbo-super-arci-mega-uni-anarco-tropo-antro-archeo-neocapitalista. Ma non nella sua essenza. Sono uno Winston Smith che si è arreso al Grande Brother. Non vi è scelta, e la decisione di pretendere il riposo, di viverlo, e di goderne prolunga la longa manus del BB.
Partiamo dalle domande, chi si può riposare oggi? Chi può decidere autonomamente di mettere in pausa la propria vita professionale e accademica, e nel mentre vivere in una città come fuori sede diversa da quella di nascita? Chi ha le possibilità economiche e spirituali per astenersi dai propri doveri? Il riposo è una forma di rendita e la rendita non crea nulla se non un mantenimento costante di uno status quo che, ad oggi, non definirei così egualitario. Spesso mi interrogo sui motivi che inducono un giovane a riposarsi. E la tendenza è che siano sempre più gli universitari, e non i lavoratori, ad esigere il riposo. C’è però una differenza sostanziale. Chi studia e può permettersi di passare anni a studiare, esige un diritto, che gli appartiene, ma in una misura minore rispetto a quella che comunemente è pensata. È un po’ la barzelletta che Marchionne raccontava in uno dei suoi meeting: “In ferie da cosa?”. E io aggiungo, da non-fan di Sergio, “In riposo da cosa?”. Da un esame universitario? Lo studio dovrebbe essere piacere, sudore certamente, ma anche relax. Le università italiane, nonostante la re-
torica che viene passata, sono università in cui non viene minimamente sviluppata la competizione. Fatevi un giro in Francia, Regno Unito o Stati Uniti, poi mi saprete ridire. All’estero non esiste la possibilità di dare tre o quattro volte un esame. Non esistono neanche quattro o cinque appelli a sessione per una materia. Partigiani moderni che vedono nel riposo un diritto, che è stato donato loro, da chi il riposo non ha
mai saputo conoscerlo dal vivo. Le università sono la patria del riposo, della procrastinazione, dei ripensamenti. Perché possiamo fare tutto. E proprio perché abbiamo la possibilità di mangiarci tutto, vogliamo riposare.
Per questo motivo, dato che scrivere per me è riposare, chiudo qui l’articolo, e me ne torno a lavorare.
Il riposo, tanto ambito e desiderato da tutti senza distinzioni, è un momento che non riguarda il fare, ma semplicemente l’essere, dare al tuo corpo e alla tua mente ciò di cui ha bisogno (nella forma e nelle modalità che più ti si addicono), quando ne ha bisogno. Concedersi tempo, fare ciò che si vuole, avere la possibilità di dedicarsi a sé stessi dovrebbe essere un diritto e non solo un’ ambizione. Ma ecco una domanda che recentemente mi è capitato di pormi spesso: il riposo è oggi un privilegio? Dato che la mia mente funziona al suo meglio solamente quando trova argomentazioni attraverso il cinema, cercherò ancora una volta di spiegarmi parlando di film che mi stanno a cuore.
Conosciuto per la sua politica provocatoria e per l'attenzione nei confronti della classe operaia, usata come immagine per antonoma-
sia dei più deboli, Ken Loach e il suo cinema sono l’esempio perfetto per capire cosa si può intendere con il concetto di “privilegio del riposo”. Il realismo sociale è un movimento artistico internazionale poliedrico, che si concentra sulla vita quotidiana delle comunità più povere e della classe operaia. Critica spesso le strutture sociali che esacerbano le condizioni di desolazione, ma si sofferma anche sulla famiglia e celebra l'unità della comunità. Loach usa la sua macchina da presa donandogli l’umanità di una persona che osserva il mondo, facendo emergere i reali aspetti della società in cui inevitabilmente (anche) lo spettatore vive. Forse è grazie a questa tecnica che il regista è stato in grado di evocare un tale puro rapporto con il suo pubblico, indipendentemente dal fatto che fossero d'accordo o meno con le sue politiche. Questo
non vuol dire che i suoi film siano soltanto cupi o didattici. Hanno calore, umorismo e compassione, ma sempre guidati dall'atteggiamento risoluto del regista. Loach utilizza il cinema come mezzo per progettare cambiamenti e, cosa altrettanto importante, i suoi film permettono agli spettatori di vedersi sullo schermo; di riconoscere la propria vita, di mettere in discussione il quotidiano e l'apparentemente banale.
Andando un attimo più nel dettaglio, prendo come esempio un suo film del 2019, Sorry We Missed You. Come nella sua opera precedente a questa, I, Daniel Blake, Loach descrive i costi umani causati da uno sviluppo economico logorante che siamo continuamente incoraggiati ad accettare passivamente come un dato di fatto. Si racconta la storia di Ricky (interpretato da Kris Hitchen), un ex operaio edile di Newcastle - che ha perso sia il suo lavoro che la possibilità di contrarre un mutuo dopo il crollo economico del 2008 - e di sua moglie Abbie (Debbie Honeywood), un'infermiera a contratto a zero ore, che deve visitare ogni giorno decine di persone disabili, anziane e vulnerabili. Un amico convince Ricky a interessarsi a un lavoro che da fuori sembra una facile fonte di guadagno. Il compito è semplice: basta guidare un furgone per una grande compagnia di consegne. Inevitabilmente, Ricky si mette presto nei guai quando i bisogni umani e ordinari della vita lo costringono a prendersi piccole pause dal lavoro. Purtroppo, un lusso che non può permettersi. Ogni mossa di Ricky è sorvegliata da un dispositivo portatile meccanico estremamente accurato, che non lascia spazio a errori. Nessun pagamento per pause, giorni di malattia, tempo di viaggio o ferie.
“Maybe your best isn’t good enough, is it?”
Il film ha molto da dire sui fallimenti della società moderna, racconta la storia di brave persone che vengono distrutte da una burocrazia inizialmente ben intenzionata, ma che poi si rivela opprimente e indifferente. Mette in mostra una rete di sicurezza sociale progettata per aiutare i poveri e i malati, ma che alla
fine non riesce a riconoscere i bisogni umani semplici e fondamentali. Viene messo in risalto come anche i piccoli momenti di riposo del quotidiano - come il semplice tornare a casa a fine serata e lo stare con i propri cari - vengano meno per colpa dei ritmi frenetici che portano al logorio e alla stanchezza.
Tutte queste problematiche del lavoro, legate a un sistema scorretto, vengono così sfogate con quegli affetti vicini, che di fatto colpe non ne hanno, ma che diventano ennesime vittime delle ingiustizie accumulate. Questa è solo una delle tante storie di vita comune che mi hanno portata a riflettere sull’idea che abbiamo oggi di riposo. È vero che questa, in particolare, è di fatto una narrazione fittizia, ma che prende pur sempre ispirazione e si basa solidamente su storie che sono più vere di quello che noi vorremmo credere. Non bisogna fare troppe ricerche per scoprire storie come quella di Don Lane, un corriere per DPD morto per una malattia nel gennaio 2018, dopo aver lavorato duramente durante la frenetica corsa alle consegne natalizie, nonostante la sua precaria salute. Aveva saltato diversi appuntamenti in ospedale per curare il suo diabete di tipo 1, perché gli erano state addebitate 150 sterline da DPD quando aveva perso le consegne per partecipare ad un appuntamento e temeva ulteriori addebiti. Non esattamente uno specchio di ciò che accade nel film, ma i parallelismi sono certamente presenti su ciò che accade a Ricky.
Questo è un film che probabilmente aumenterà tanto di rilevanza dato che, quanto più il nostro mondo continuerà a essere risucchiato dalle incessanti e sempre crescenti richieste del consumismo, tanto più i nostri servizi sanitari verranno privati dei fondi e delle risorse essenziali di cui hanno disperatamente bisogno. Né Ricky né Abby hanno alcun tipo di sicurezza sul lavoro (il primo soprattutto a causa della sua mancanza di formazione o qualifiche professionali), e dati i rigori punitivi e la mancanza di margine di manovra offerti dalle loro occupazioni scelte, è solo una questione di tempo
prima che le crepe inizino ad apparire. Loach dimostra quanto facilmente una famiglia così laboriosa possa cadere vittima di questo sistema, finendo in un ciclo impossibile da interrompere di stanchezza, stress e debiti crescenti. Non puoi che chiederti quante altre famiglie debbano trovarsi in circostanze simili. Questi non sono individui sconsiderati, negligenti e pigri: sono puri innesti, vittime delle circostanze, spinte fino all'esaurimento senza ricevere né il sostegno né le pause che meritano.
Dobbiamo quindi accettare questa narrativa in cui il riposo, in questa società, è un privilegio? Un concetto non “per tutti” ma sempre più “per pochi”? Come possiamo reagire di fronte a una struttura impostata non per fornire libertà alle
persone, ma per sottrarre desideri al fine di alimentare un sistema ineludibile che non dipende dall’essere umano, ma da cui l’essere umano sembra essere dipendente? Non sono qui per affermare che un film come questo, anche se pieno di osservazioni acute, risolverà il problema. Quello che però è in grado di fare è porre luce su queste domande e inoltre chiedere agli spettatori: cosa possiamo fare?
Guardare Sorry We Missed You significa rendersi conto che, nonostante la sua dedizione a mostrare come le persone vivono, amano e lavorano, se non c’è riposo, pausa, tutto il resto delle attività perde di valore. Di fatto, se non dormiamo mai, non abbiamo nemmeno tempo per sognare.
Viviamo in un’epoca comandata dal turbo capitalismo performativo, in cui siamo abituat a pensare che l’unica cosa importante sia produrre, a scapito di tutto il resto (a partire dalla nostra salute mentale, fino alla non presa di coscienza della distruzione verso la quale stiamo portando il pianeta terra). L’idea della continua ed incessante produzione porta con sé una serie di retoriche tossiche, esempio tra tutte quella del “se vuoi, puoi”, che non prende assolutamente in considerazione i privilegi di partenza di ogni singolo individuo. Se provieni da una famiglia bianca borghese, il tuo percorso non potrà mai essere paragonabile a quello di chi è nato in un contesto povero; è un dato di fatto, e
se non lo capisci è solo perché stai sguazzando felice nella tua bolla di privilegio che che oscura la tua capacità di renderti conto che il sistema di cui tu fai parte ha assolutamente bisogno di creare queste gerarchie per sopravvivere. Questo modus pensandi della società e della nostra stessa esistenza vede i suoi principali nemici nel fallimento, nelle “devianze” dalla norma cis etero patriarcale e nel riposo, definito dal dizionario Treccani come “tregua, cessazione temporanea di un lavoro o di un’attività qualsiasi, che ha lo scopo di dare sollievo e ristoro al corpo e allo spirito”, che parafrasato nel linguaggio dei giorni nostri significa: se non lavori e decidi di non performare la tua produt-
tività, stai miseramente fallendo nel tuo ruolo di cittadin del mondo.
Mi rendo conto che, ora come ora, parlare di riposo in una prospettiva anticapitalista può avere le sue problematicità, in quanto la possibilità di poter staccare ed allontanarsi dal sistema per autotutelarsi è, anche in questo caso, una questione di privilegio. Il permesso di poter decidere come e quando prendersi una pausa non è dato a chiunque; la macchina del capitalismo tiene, infatti, incatenate a sé, le persone che essa definisce e relega ai margini in uno stato di subalternità tale da rendere impensabile una modalità diversa di vivere. Tutto ciò perché è proprio su questa nuova forma di schiavitù moderna che si fonda la realtà in cui siamo abituat a vivere. Diventa sempre più impegnativo riflettere su questo argomento man mano aumentano i livelli di complessità e di decostruzione, principalmente per il fatto che non è possibile parlare di un argomento eliminando tutta la cornice che gli sta intorno. È, quindi, impossibile parlare di lotta di classe senza prendere in considerazione il razzismo, il sessismo, l’omofobia, l’abilismo e tutte le altre infinite discriminazioni che questa società è riuscita a creare. Viviamo di intrecci e relazioni, per forza di cose anche il nostro vissuto non può che svilupparsi in queste direzioni.
Proprio per tutto ciò su cui ho riflettuto in questo preambolo, e a causa della mia sindrome dell’impostore, adesso vorrei incentrare la mia attenzione su una dimensione altamente capitalista che conosco bene e di cui ho fatto e continuo tutt’ora a fare esperienza: l’università. Per come è ad oggi strutturato l’ambito universitario, non è possibile definirlo come uno dei più felici e sereni da attraversare. Le cause sono molteplici, dal latente classismo e sessismo che vengono mascherati dalla famosa meritocrazia, agli abusi di potere legittimati dalla forte gerarchizzazione che troviamo al suo interno. L’università richiede continuamente una prestazione perfetta, competizione tra student e meravigliose performance da prima pagina di giornale (quando tocca parlare di suicidi causati dal sistema universitario però, nessuna parola,
testa sotto la sabbia; ma ci torneremo più in là). Insomma, è un po’ il riassunto del sistema capitalistico mondiale, in chiave molto ristretta. Ritornando ora al nostro tema principale, il riposo, capiamo subito quanto questo sia in netta contraddizione con le caratteristiche appena enunciate tipiche del mondo universitario: fermarsi, in un sistema sempre acceso, è sinonimo di fallimento. Molto spesso poi è impossibile scappare da queste dinamiche, un esempio: borse di studio rigidissime che si basano solo sulla performance. Tutto ciò accade perché è l’accademia stessa ad essere modellata su fondamenta estremamente problematiche e tossiche, specchio di un mondo avvelenato dalla produttività incessante.
Il frutto di queste retoriche sono lei numerose notizie di suicidi avvenuti negli ultimi mesi, di student che, massacrati dalla vita universitaria, hanno deciso di togliersi la vita pur di non deludere le aspettative di un sistema intero che non permetteva loro di uscire dai suoi schemi prefissati in cui conta solamente chi riesce ad eccellere. Richiediamo un’università che metta al primo posto il benessere degli student, la loro salute mentale e che legittimi il bisogno di una pausa; l’educazione non può essere sostenuta dalla paura di sbagliare e dal continuo terrorismo psicologico a cui il capitalismo ci ha abituat; la cultura è un processo di ascolto collettivo ed individuale, in cui ogni singola persona esplica sé stess nel modo che meglio crede e con i suoi tempi e spazi. Se l’università non è così, è solo una dittatura del sapere. In fondo, fallire e riposare sono le prime modalità di contrasto a questa società che ci vuole sempre efficienti e pront a produrre; non sentiamoci in colpa quando decidiamo di fermarci, stiamo facendo una rivoluzione.
I miei amici sognano il riposo da quando ricordo. Distinguo chiaramente il periodo delle scuole medie, quando l’idea del lavoro per noi era ancora così lontana da essere stata solo ascoltata. Meglio: so che i miei amici sognano il riposo dalla prima volta in cui ricordo di aver sentito dire “voi in pensione non ci andrete mai”. La pensione. Un sogno tutto occidentale, proibito.
Quindi il riposo segna per me l’età del diventare grandi, quando abbiamo iniziato a pensare che ci saremmo potuti davvero fermare solo a lavoro finito. Con la presa di coscienza, peraltro, che quel lavoro non sarebbe finito mai e la conseguenza naturale di aver imparato ad agognare il riposo per l’idea di privazione del riposo che l’accompagna. A me piace essere stanca, sfinita da quello che ho fatto, perché le cose che faccio le voglio fare fino in fondo, tutte, bene. Voglio che non rimanga niente da dare, e poi voglio riposare.Però forse questo significa riposo: non proprio “finire”, ma scegliere e avere il tempo di fare altro. Eppure questo lo posso fare io, nella mia condizione oggi di studentessa, in una famiglia che pur con qualche sforzo riesce a mantenermi. In una condizione, un domani, di laureata, e poi magari di professionista con uno o due master: situazione in cui l’anglicismo vi darà senza sforzo idea delle innumerevoli e - più o meno - remunerative possibilità future. Insomma, lo posso fare io che, seppur donna, sono occidentale: e quindi, anche solo per questo, privilegiata. Lo potete fare voi, che probabilmente siete privilegiati almeno quanto me (senza togliere valore al nostro sforzo), ma anche un ragazzo o una ragazza della Sierra Le-
one, con un Pil pro capite di 539$, può scegliere e avere il tempo di fare quel generico “altro”? Credo che la domanda in questo caso si dica retorica.
Cosa significa quindi, per una società di privilegiati, il riposo? Perché lo vogliamo così fortemente, anche se spesso non siamo noi quelli che si stancano e lavorano di più? Viviamo talmente immersi in una società stracolma di benessere che non ce ne rendiamo nemmeno più conto. A chi sembra che sia diverso, è semplicemente perché non siamo capaci di confronti globali.
Se è vero che il riposo è un diritto, appartiene a quella categoria di diritti prettamente “occidentali”, che riteniamo di tutti per estensione di una nostra allucinazione. Proiettata su ciò che ci circonda, nasconde quel mondo di lavoro segreto che continuiamo egualmente a non vedere e a non capire, complice di una distanza che è molto più che semplicemente fisica. È infatti noto che da sempre ci muoviamo in un fitto sistema di classi economiche e sociali, separate con la stessa forza con cui difendiamo il nostro diritto a riposarci. Ma allora, perché chiediamo noi europei di oziare, mentre in Turchia le scuole vengono tenute aperte di sera per permettere ai bambini di lavorare di giorno? Come mai siamo stanchi noi, se la produzione di massa viene fatta in Cina, Medio Oriente, India? Chiediamo il riposo dal lavoro produttivo, e, insieme, di mantenere i nostri consumi. Il problema consiste proprio in questo, e non è la questione di aumentare i salari a parità di ore lavorate, che come il riposo, non è solo giusto, ma anche necessario. Il problema è che se ci
riposiamo senza diminuire i consumi, qualcuno produrrà per noi, al posto nostro, e aggiungeremo sfruttamento allo sfruttamento. Prima di concederci il privilegio del riposo, dovremmo ripensare la catena di produzione dei nostri consumi, che sono sempre globali.
Questo non significa che non vada cercato il tempo per noi stessi, per la nostra salute, per i nostri obiettivi, per gli affetti; ma se il riposo sarà fatto sulle spalle di qualcun altro sarà ozio, non tregua. Le prime spalle probabilmente saranno in posti lontani, che forse non sapremo nemmeno collocare geograficamente. Le successive spalle su cui organizzeremo il nostro riposo saranno da cercarsi nei nostri paesi europei, americani, tramite rotte migratorie che si sono fatte centenarie nell’attesa di rimodellare i consumi occidentali. E poi saranno le spalle di chi marginalizziamo, di chi vive nelle periferie sovraffollate, di chi non ha pari opportunità e quelle di chi non le cerca nemmeno le pari opportunità, perché è abituato a non aspettarsele: quella massa informe di persone che sono vive, vegete, e probabilmente il riposo non lo chiedo-
no neanche, perché semplicemente prima hanno bisogno di più soldi. Il riposo è qualcosa che dobbiamo ottenere: ma lo dobbiamo ottenere tutti insieme, o nessuno. Purtroppo, credo non ci sia modo di ottenerlo tutti insieme senza prima rispondere a domande e bisogni strutturali, cambiando profondamente la nostra e tutte le altre società. Ma è una cosa complessa da processare, capire: mettere i nostri bisogni sullo stesso piano di quelli collettivi e fare un passo di lato di fronte a chi ha meno, dando la precedenza. Dire: il riposo sì, ma prima voglio pagare ciò che mangio, ciò che vesto, perché pagando quello voglio pagare te, dall’altra parte del mondo, che non mi conosci e per me produci. Dire: il riposo sì, ma lo voglio anche per te, che il riposo non sai cos’è e non ci pensi nemmeno, perché vorresti che tuo figlio vivesse una vita dignitosa. Dire: il riposo no, se non sono disposto a rinunciare a qualcosa di mio per darlo a te.
Altrimenti sarà l’ennesimo privilegio da ricchi, di qualunque parte del mondo.
E di quello, non abbiamo bisogno.
L’onironautica, termine che deriva dal greco antico oneiros (sogno) e nautis (navigatore), rappresenta l’arte di esplorare e controllare consapevolmente i propri sogni. I sogni sono sempre stati un terreno fertile per l’esplorazione e la scoperta; fin dai tempi antichi, gli esseri umani si sono interrogati sul loro significato, cercando di interpretare i simboli e le immagini
che emergono durante il sonno. Gli onironauti camminano oltre, sforzandosi di diventare partecipanti attivi all’interno del loro stesso mondo onirico. L’arte dell’onironautica richiede pratica e disciplina: chi la esperisce utilizza, infatti, una serie di tecniche per sviluppare la capacità di riconoscere di trovarsi in uno stato di sogno durante il sonno, e questa consapevolezza per-
mette loro di esplorare, influenzare e modellare l’esperienza onirica secondo la propria volontà.
Mediante la lucidità nei sogni, gli onironauti possono volare attraverso paesaggi surreali, incontrare personaggi fantastici e vivere esperienze impossibili nella realtà: alcuni si dedicano a sfide personali, come risolvere enigmi complessi o superare paure profonde; altri cercano di utilizzare i loro sogni come fonte di ispirazione per l’arte, la scrittura o la ricerca interiore. L’onironautica può essere considerata come una forma di auto-esplorazione e sviluppo personale: i sogni diventano un laboratorio per l’anima, in cui l’immaginazione e l’intuizione si fondono in modo unico.
Nonostante non esistano, ad oggi, racconti specifici o favole incentrate esclusivamente sull’onironautica, possiamo trovare tracce e riferimenti all’esplorazione onirica in varie tradizioni letterarie, mitologiche e culturali. Ad esempio, nella fiaba di Alice nel Paese delle Meraviglie di Lewis Carroll, la protagonista vive un’avventura fantastica in un mondo che sembra guidato dalla logica del sogno. Alice, in diverse occasioni, prende attivamente parte alle dinamiche del sogno, interagendo con i personaggi e influenzando gli eventi: ad esempio, quando beve la pozione o mangia il fungo, Alice sperimenta un cambiamento di dimensioni e può controllare la sua statura. In altre situazioni, come con il Cappellaio Matto o la Regina di Cuori, Alice si trova in conflitto con i personaggi e cerca di influenzare l’esito degli eventi. Il Paese delle Meraviglie è caratterizzato da una serie di elementi simbolici, surreali e illogici, tipici dei sogni. La natura capricciosa del luogo richiama l’esperienza onirica, in cui le situazioni possono mutare rapidamente, gli oggetti possono trasformarsi e i luoghi possono fondersi in uno scenario incoerente. Infine, durante l’intero corso del suo viaggio, Alice ricorda chiaramente gli eventi precedenti e discute delle sue esperienze con i personaggi che incontra. La capacità di ricordare e riflettere sui dettagli dei sogni è un aspetto comune dei sogni lucidi.
Anche nei miti e nelle leggende di varie culture vi sono racconti di eroi e viaggiatori che
entrano in reami onirici, incontrando divinità, spiriti o saggi che offrono conoscenza: ad esempio, nella mitologia norrena, un episodio che potrebbe collegare il personaggio di Odino ai sogni è la sua ricerca delle rune. Secondo la leggenda, Odino si sottomise a una pratica chiamata “apprendimento appeso”, in cui si impiccò a un albero, Yggdrasil, per nove giorni e nove notti. Durante questo periodo, fu trafitto da una lancia e si immerse in uno stato di trance e visione. In questo stato, si dice che abbia ricevuto la conoscenza delle rune, il sistema di scrittura e magia nordica. Questa esperienza potrebbe essere interpretata come un’esperienza onirica estesa o un viaggio visionario, in cui Odino esplorò i regni dell’inconscio e ricevette rivelazioni profonde. Inoltre, Odino è noto per il suo rapporto con le Valchirie, figure mitiche che spesso comunicano con gli esseri umani attraverso i sogni.
Anche il lavoro di Eduardo Kohn sulla tribù Runa dell’Ecuador potrebbe essere un esempio antropologico di una popolazione indigena che attribuisce importanza all’interpretazione dei sogni: nel suo libro Come pensano le foreste, Kohn esplora le prospettive dei Runa riguardo alla comunicazione e all’interazione tra esseri umani, esseri animali e l’ambiente naturale circostante. I sogni sono considerati un mezzo attraverso il quale gli esseri umani possono entrare in relazione con altre entità non umane, e possono ricevere messaggi o indicazioni per la vita quotidiana. In questo caso è forte il legame tra sogni e sostanze psichedeliche: quest’ultime, come l’LSD, la psilocibina e l’ayahuasca, sono note per alterare profondamente la coscienza e indurre esperienze straordinarie. Una connessione importante tra sogni e sostanze psichedeliche riguarda la modificazione della percezione del tempo: durante ambedue le esperienze, il senso del tempo può risultare distorto, accelerato o rallentato, portando a una sensazione di temporalità alterata e di immersione in un presente ampliato.
Tuttavia, è importante notare che l’onironautica come pratica moderna è emersa principalmente nel contesto scientifico e psicologico del
XX secolo, con l’introduzione del concetto di “sogno lucido” e la ricerca sul sonno e i sogni: fu infatti il famoso psichiatra e psicoanalista olandese Frederik van Eeden a coniare il termine nel 1913, definendolo come un “sognare mentre si è consapevoli di star sognando”.
Van Eeden fu uno dei primi a riconoscere che alcuni individui avevano la capacità di consapevolezza nei loro sogni e di interagire attivamente con essi. In seguito, l’avanzamento delle tecniche di neuroimaging ha permesso una maggiore comprensione dei meccanismi
dei sogni lucidi e ha contribuito allo sviluppo di metodi pratici per indurre e sperimentare tali esperienze.
Ad oggi, il sogno lucido viene studiato non solo per comprendere la mente umana e la coscienza, ma anche per applicazioni terapeutiche, creative e spirituali. Metodi di induzione dei sogni lucidi, come la realtà virtuale, l’incorporazione di segnali sonori o l’uso di diari dei sogni, sono stati sviluppati per aiutare le persone a esplorare i loro mondi onirici e ad approfondire la comprensione di sé.
Lorenzo Tardella è un regista italiano. Classe 1992, dopo aver frequentato il Centro Sperimentale di Cinematografia, riceve importanti riconoscimenti per il suo corto di diploma, Le
variabili dipendenti, tra cui il David di Donatello 2023 per il miglior cortometraggio. Ecco il resoconto delle due chiacchiere che abbiamo scambiato.
Fino a ora hai girato solo cortometraggi, stai preparando un lungometraggio?
Non so se “preparando” sia il termine giusto! “Preparazione” è un termine che si usa quando le cose iniziano a essere pronte, diciamo che il film esiste e ci stiamo lavorando: è stato scritto e lo stiamo mettendo in piedi produttivamente. Le speranze sono di girarlo in un arco di temporale che non sia sovrumano… Purtroppo il cinema italiano con le opere prime impiega sempre molto tempo, nella realizzazione. Però, ecco, siamo sulla buona strada e ci crediamo tutti, quindi teniamo le dita incrociate.
Recentemente sei stato a Parigi, per la Notte d’oro promossa dall’accademia dei César.
Sì, in questa rassegna, chiamata “Le notti d’oro”, vengono messi insieme i corti delle principali accademie di cinema, è l’equivalente dei David di tutta Europa e del resto del mondo, c’era anche il corto candidato agli Oscar, per farti capire.
Hai notato differenze nella ricezione dei cortometraggi da parte del pubblico? A Berlino hai ricevuto un’accoglienza più che positiva, lo stesso è accaduto in Italia. Pensi che il pubblico di questi diversi Paesi recepisca in modo diverso la forma narrativa del corto?
Ho conosciuto molti registi che escono durante le proiezioni dei propri lavori, io, invece, ho la tendenza a rimanere perché temo che ci sia qualche inghippo (non si veda o non si senta il lavoro).
Mi fa piacere, anche, vedere la reazione del pubblico e la risposta è sì, le reazioni sono state molto diverse. La proiezione che si è svolta a Londra, al BFI [British Film Institute] è stata quella in cui ho registrato il maggior numero di risate: qualsiasi cosa vagamente ironica presente nel corto - e ce n’erano alcunediventava divertentissima. I parigini e i berlinesi, invece, sono meno divertiti (e forse meno divertenti?) ma il pubblico cambia sempre. A Berlino ho trovato il pubblico più stimolante, per le domande che sono state poste dopo la proiezione, i londinesi erano i più divertiti e per i francesi non saprei, c’è stato uno scambio molto breve dopo la proiezione ma la percezione del pubblico cambia sempre. Ho frequentato - paradossalmente - molto meno il corto in Italia: ha girato molto di più all’estero che non in questo Paese. All’inizio ero molto spaventato da questo, ci ha messo un po’ a entrare nel circuito dei festival italiani e pensavo che non sarebbe piaciuto ma così, alla fine, non è stato. Il pubblico cambia sempre e cambia sempre in relazione ai corti che vedono, ogni festival cerca sempre di collegare più corti, all’interno di uno slot, che abbiano un filo rosso che li collega. La cosa più bella di tutte, in realtà, è proprio questo scambio di punti di
vista: quando ti rendi conto di cose a cui non avevi neanche pensato durante la realizzazione del progetto e arrivano dal pubblico. Quello che sempre - al di là dei complimenti - mi fa molto piacere è sentire le persone che ricollegano la propria esperienza a quanto hanno visto, quando vengono a dirmi “mi ha ricordato di quando io…”: quella che nasce come una storia estremamente personale, quando scopro essere comune a molti, questa è la cosa che più mi fa piacere sentire. Anche se in alcuni casi sono più evidenti - penso alla scena iniziale di Le Variabili Dipendenti e a quella finale di Ritratto di una giovane in fiamme (2019) di Céline Sciamma - e in altri meno, quali sono o sono state le tue principali ispirazioni a livello cinematografico?
Truffaut e Doinel sono sempre state grandi influenze, sicuramente. Per quanto riguarda Ritratto di una giovane in fiamme, invece, ti sorprenderò: non è stato per niente voluto quel riferimento! Amo quel film, anche se non è il mio preferito di Céline Sciamma, amo la regista ma quello specifico film un po’ meno. Abbiamo cercato di evitare fino alla fine di inserire Vivaldi, non volevamo un pezzo così noto e così usato. Ne abbiamo, però, provati moltissimi e questo era quello che ci stava meglio; in più, trattandosi di una scena di una matinée a cui prende parte la classe di una scuola media, non avrebbe avuto senso andare a scegliere qualcosa di estremamente sofisticato e conosciuto. Ci siamo chiesti che cosa sarebbe potuta andare a sentire a teatro una scolaresca delle medie e abbiamo convenuto che Le quattro stagioni era la migliore opzione. Il paragone non era assolutamente voluto, anche se sono molto contento! Il teatro faceva parte dell’esperienza personale da cui ho attinto e la musica è emersa per tutti questi motivi. Céline Sciamma, però, è sempre una reference, ma più con Tomboy (2011) e Petite Maman (2021), grande ispirazione per la musica originale del film, quella che si sente mentre scorrono i titoli di coda.
Ma allora c’è anche un’altra reference involontaria - per una questione cronologica - tra Edo [cortometraggio uscito nel 2019] e The Fabelmans (2022) di Steven Spielberg.
Assolutamente sì, ovviamente ci ho ripensato e le battute dei miei amici si sono sprecate su questo! Qui una reference, in realtà, è molto più “commerciale” rispetto a quella che hai menzionato: si tratta di It (2017) di Andy Muschietti, la versione nuova. C’è una bellissima sequenza dei personaggi che guardano le diapositive e scoprono piano piano Pennywise:
si è trattato di un riferimento importante soprattutto in fase di montaggio, anche se l’idea delle diapositive ha dettato, in qualche modo, l’origine della storia. La mia intenzione era di raccontare una scoperta che avvenisse per mezzo delle fotografie, delle diapositive, di una proiezione. Ho un po’ vissuto questa dimensione di proiezione, avendo per casa sparse ancora delle diapositive; l’ultimo eco analogico prima di passare al digitale, è un rito che mi appartiene.
Tutti i tuoi corti sono, bene o male, racconti di formazione; in particolare, in due di questi (Edo e Quello che resta) troviamo due protagonisti che portano lo stesso nome. C’è un progetto, un disegno dietro, per ricollegare tutte queste storie, un po’ alla maniera di Truffaut con il personaggio di Antoine Doinel?
Sono entrato al Centro Sperimentale con Edo e già al tempo avevo l’idea di portare avanti un racconto di formazione a tappe, quindi l’idea di andare avanti in un percorso e di veder crescere questo personaggio c’è sempre stata, anche se non in una maniera così razionale come potrebbe sembrare. La mia intenzione era di esplorare, attraverso narrazioni brevi, emozioni e stati d’animo, riguardandoli a posteriori mi rendo conto di aver raccontato la stessa storia, anche se osservandola da punti di vista diversi e angolazioni diverse. Nei film sono finiti diversi spunti ma, alla fine, non si è mai trattato della somma delle parti; del resto i corti sono occasioni per sperimentare e per allenarsi. Il percorso che ho scelto di fare è stato quello di approfondire situazioni e tematiche che conoscevo già, piuttosto che variare. Credo che questa sia stata la conseguenza di aver iniziato il mio percorso al Centro con una certa consapevolezza su ciò che mi sarebbe riuscito fare e cosa no, ho cercato di migliorare quello che già mi interessava. Guardandoli adesso, vedo molte cose in comune nei corti che ho realizzato e alla fine sono un po’ tutti racconti di formazione.
Lavorare su altri generi cinematografici, quindi, non ti interesserebbe?
In tre anni di Centro Sperimentale mi è stato sempre detto da tutti che sarei molto portato per la commedia, ma penso che sia il genere in assoluto più difficile da realizzare e non mi cimenterei in quello! Da spettatore sono molto “onnivoro” e, in realtà, non mi dispiacerebbe frequentare altri generi. Al momento sto scrivendo qualcosa dai toni e dall’atmosfera molto più cupi, se dovessi incasellarlo in un genere predefinito potrei dire che si tratta di un film thriller, ma alla fine uno
scrive quello che viene, anche in base alle fasi della vita. Per il mio primo film, anche per quanto ho detto, ho pensato fosse la cosa migliore “mettere a sistema” tutto quello che avevo esplorato prima e non avrebbe avuto senso realizzare un film che non c’entrasse niente con quanto fatto fino a ora.
Una costante dei tuoi lavori si può riscontrare nell’assenza dei genitori dalle vite dei giovani protagonisti e nel fatto che, bene o male, tutte le vicende prendano vita in luoghi chiusi, quindi, in senso più ampio, lontane dal mondo esterno e da potenziali elementi di disturbo, come se la scoperta di sé stessi dovesse avvenire necessariamente in solitaria.
Ogni corto ha una sua ragione per aver escluso le figure genitoriali; in Edo, ad esempio, originariamente ci sarebbero dovute essere. Proseguendo nella scrittura ho portato avanti un lavoro di scarnificazione e quello che prima era presente in scena, alla fine mi sono reso conto che non mi sarebbe interessato vederlo ma mi bastava percepirlo. Mi piace che la scoperta del protagonista avvenga con le immagini e non con una persona in carne e ossa. Inizialmente ci eravamo immaginati di portare avanti la storia un pochino oltre rispetto a dove finisce adesso: vedere Edo scendere al piano di sotto e “affrontare” gli adulti, confrontarsi dopo aver scoperto un segreto. I cortometraggi portano inevitabilmente lo spettatore a percepire un’unità spazio temporale, mi piaceva l’idea di girare tutta una storia all’interno di una stanza. Sicuramente nei momenti di crescita ci ritroviamo soli; il sentimento che credo di aver affrontato più di ogni altro nei miei lavori è quello della paura, è qualcosa che li lega tutti. Abbiamo paura quando usciamo dalla zona di comfort e ci ritroviamo senza protezioni e senza reti, nel momento in cui racconto la paura mi piace vedere i personaggi da soli. È stata una grande sfida, nel caso delle variabili, avere in scena solo ragazzi molto giovani e di non avere anche sul piano recitativo adulti che mi dessero una mano. In A fior di pelle entrambi gli attori adulti mi hanno aiutato moltissimo a dialogare con il giovane protagonista ma lo stesso non è successo per Le variabili dipendenti, dove c’erano in ballo anche situazioni molto più intime. Probabilmente questa è la ragione per cui non ci sono adulti, perchè, alla fine, proteggono.
tic tac tic tac
zzzzzzzzz
ZZZZZZZZZ
clap
zzzzzz…
tic tac tic
zzzzzzzzz
ZZZ...ZZZ
CLAP
zzzzzz …
tic
zzzzzzzzz
puff puff puff
tic tac (x1800 volte circa)
frum puff
drin drin drin
click
tic tac (x150 volte)
drin drin drin
splac sdum puff sdang dong toc dong blot
tic tac (x27000 volte circa)
blam blot toc dong
clack rrr rrr puff
O anche:
storia di una persona che vuole riposarsi attraverso il sonno ma che viene disturbata dal ronzio di una zanzara e prova a ucciderla ma la zanzara schiva lo schiaffo e torna nel giro di tre secondi quasi a provocare la persona che ancor più infastidita ritenta di ammazzare l'insetto con uno schiaffo più forte e questo nuovamente sfugge e nuovamente torna nel giro di un secondo quindi la persona afferra il cuscino con entrambe le mani e lo mette sopra la testa a coprire le orecchie e rimane così per circa un'ora fino a quando si sveglia e mette la testa sopra il cuscino e fissa la parete non riuscendo a dormire poi a un tratto durante il dormiveglia suona la sveglia la persona la pospone di cinque minuti poi la sveglia risuona e la persona si alza e si prepara per andare a lavoro e la stanza rimane vuota per circa quindici ore finché la persona non torna da lavoro attacca l'antizanzare alla presa e va di nuovo a dormire.
Avrete sicuramente già letto o sentito dire da medici curanti e/o nonni che dormire riveste un’importanza fondamentale nelle nostre vite. Sebbene gli amici gabber o i fuffaguru sui social lo sottovalutino perché non permette di partecipare a tutte le serate techno o di compiere la ScalataTM, il riposo notturno ci aiuta a consolidare i ricordi, a rinforzare le nostre capacità cognitive e a ripulire il cervello dalle tossine prodotte dai neuroni durante il giorno. Il Centers for Disease Control and Prevention americano (CDC) ha dedicato un intero programma riguardante il sonno sul proprio sito, con statistiche, avvertenze e linee guida sulle ore di sonno notturno raccomandate per fascia di età2.
Il sonno, a differenza di quanto si potrebbe pensare, è un fenomeno attivo che si caratterizza per un’alternanza ciclica di cinque fasi. Nel 1953 è stata scoperta la presenza di movimenti oculari rapidi durante il sonno: questo ha permesso di differenziare il sonno in una fase con movimenti oculari (N-REM, Non-Rapid Eye Movements) e in una fase caratterizzata dalla loro assenza (REM, Rapid Eye Movements)3. Negli anni ha sempre ottenuto più consensi la polisonnografia per studiare il sonno, specialmente accoppiata all’utilizzo dell’elettroencefalogramma (EEG). Nello specifico, queste sono le cinque fasi del sonno:
Stadio 1: addormentamento. Permette all’organismo di passare gradualmente dallo stato di veglia al sonno e si caratterizza per l’abbassamento della temperatura corporea, il rilassamento parziale della muscolatura e il rallentamento del battito cardiaco. In questo primo stadio, che va dalla veglia all’addormentamento, le onde cerebrali Beta, che caratterizzano lo stato di veglia, vengono sostituite dalle onde Alpha, tipiche dello stato di rilassamento profondo ma non ancora ascrivibile al sonno vero e proprio. La loro frequenza va dagli 8 ai 13 hertz, caratteristica della veglia ad occhi chiusi e dei momenti che precedono l’addormentamento.
Stadio 2: sonno leggero. In questa seconda fase la frequenza cardiaca continua a rallentare, preparando così l’organismo ad entrare nello stadio di sonno vero e proprio in cui i movimenti degli occhi sono quasi del tutto assenti: la muscolatura è completamente distesa e il respiro è molto profondo. Questo stato si caratterizza per le onde cerebrali Theta, strettamente legate alle nostre capacità riflessive e immaginative nonché al sonno: queste onde possano alleviare lo stress, diminuire l’ansia e facilitare un profondo relax sia fisico che mentale. Inoltre, si attesta la presenza dei complessi K e dei fusi del sonno.
Stadio 3: sonno profondo. Con la terza fase si entra nel sonno profondo. Alle onde Theta, si affiancano le onde Delta, più lente, regolari e dall’ampiezza maggiore, la cui frequenza è di 0,1-3 hertz. Questo tipo di onda è tipico del sonno profondo senza sogni e risulta strettamente legato ad attività involontarie dell’organismo come il battito cardiaco o la digestione.
Stadio 4: sonno profondo effettivo. Nel corso dell’ultima fase N-REM, le onde Theta vengono completamente sostituite da quelle Delta, responsabili del rilassamento più profondo e dell’attività della mente inconscia. Il movimento oculare è molto lento e la temperatura del corpo scende ulteriormente. È la fase N-REM del sonno in cui l’organismo si rigenera e si ripristinano le riserve metaboliche, e viene solitamente accorpato allo stadio 3 sotto la denominazione di sonno sincrono, o sonno ad onde lente (Slow Wave Sleep, SWS)
Stadio 5: sonno REM. Lo stadio REM compare in genere dopo circa 90 minuti di sonno non-REM (N-REM). Nonostante ci si trovi in una fase di sonno profondo, l’attività cerebrale si risveglia con un’alternanza di onde Theta, Alpha e Beta, mentre gli occhi cominciano a muoversi rapidamente. In questo stadio di sonno attivo si presentano i sogni, accompagnati da un aumento graduale ma sensibile del flusso sanguigno e della respirazione. L’elettroencefalogramma ha messo in luce come durante la fase REM il cervello sia attivo come in stato di veglia, tanto che si consumano ossigeno e glucosio come se si fosse svegli. La muscolatura di gambe e braccia è come paralizzata, probabilmente come risposta protettiva dell’organismo nei confronti dei sogni per impedire movimenti avventati e imprevedibili4.
Le fasi N-REM e REM si alternano circa quattro o cinque volte nel corso della notte per una durata complessiva di un’ora e mezza, determinando i cosiddetti cicli del sonno. Oltre ad una durata adeguata, affinché il sonno sia rigenerante e riposante, è necessario che sia rispettata questa struttura ciclica caratterizzata dall’alternanza di fasi. Adesso che avete (ri)scoperto come funziona l’attività cerebrale durante il sonno, potete appuntarvi meglio il sogno che avete fatto nella sezione 8 del cartaceo di GingkoEnigmistica!
1 Vyazovskiy VV. Sleep, recovery, and metaregulation: explaining the benefits of sleep. Nat Sci Sleep (2015).
2 https://www.cdc.gov/sleep/about_sleep/how_much_sleep.html.
3 Aserinsky, E. & Kleitman, N. Regularly occurring periods of eye motility, and concomitant phenomena, during sleep. Science 118, 273–274 (1953).
4 Velicu, O.R.; Madrid, N.M.; Seepold, R.; IEEE. Experimental sleep phases monitoring in «Proceedings of the 2016 3rd IEEE Embs International Conference on Biomedical and Health Informatics», Las Vegas, NV, USA, 24–27 February 2016; pp. 625–628.
Pistoia è la mia casa. Ha tante stanze quanti sono i parchi e le piazze, tanti corridoi quante sono le vie e le ripe del centro storico. Il soffitto non esiste, il tetto nemmeno. E’ un’enorme casa a cielo aperto, che io abito perdendomi tra le sue tortuosità, i suoi toni caldi — anche d’inverno — e gli edifici storici. A volte quando cammino, soprattutto ora che è estate, volgo lo sguardo in alto e mi perdo nell’azzurro, nel bianco spumoso delle nuvole. Il mio cielo preferito è quello a pecorelle: con un po’ di sforzo è riconducibile ad una sorta di scacchiera, e le geometrie nella realtà sono la mia cosa preferita.
E’ mattina e in città c’è il mercato. Come tutti i mercoledì d’altronde. Nelle cuffie ho Sunny di Boney M., nei passi la calma tipica delle vacanze e in mano la mia macchina fotografica. Sulla pelle lucida mi scivolano pensieri di un anno scolastico concluso e di un’estate tutta da scoprire, mentre a passo ritmato girovago per i vicoli del centro storico. Ah, la spensieratezza estiva.
Scattare foto, per me, è necessità. Così accendo la mia Pentax, digitale seppur datata, ed inizio a scattare.
Click, al porticato dell’Ospedale Vecchio.
Click, alle scarpe gialle di una signora incastrate in uno specchio poggiato per terra.
Click, ad una radio degli anni Novanta in un negozietto di antiquariato.
Click. Click. Click.
Al mercato c’è sempre confusione. E’ un mercato, d’altronde. C’è confusione tra le scarpe ed i vestiti ammassati nei banchi, tra le varie voci che occupano l’aria e si uniscono in un unico, singolo rumore. C’è confusione nei modi di vestire delle persone: lo stile antiquato delle signore anziane e quello sportivo dei ragazzi d’oggi. Tutto unito da un collante naturale: l’afa, il caldo. Una cappa inesorabile che attacca tutto a terra, lo appiccica alla pelle, alle mura degli edifici.
Al mercato di Pistoia, tutti incontrano qualcuno che conoscono. Osservo le signore baciarsi sulle guance rugose, i bambini giocare a palla, i signori anziani ritrovarsi ai bar. Io cammino e fotografo, avanzo e penso. Adesso nelle cuffie passa Sultans Of Swing dei Dire Straits. Socchiudo gli occhi per qualche istante cosicché la mente insegua quella melodia così piena, raffinata. Poi li riapro. Mi trovo davanti mia nonna, carica di frutta e verdura, sparpagliata nel suo carrellino a strisce bianche e blu e nella sua borsa rigida, gialla. Sorrido, l’abbraccio e la nostra pelle si attacca, come a decretare concretamente il legame naturale e indissolubile che ci lega.
‘Nonna!’
‘Ciao tesoro’.
Mi dice che sta per andare via, che é al mercato già da prima che tutti i banchi si stanziassero e che dopo, se voglio, posso andare da lei a pranzo. Ed io, che sono appena arrivata, sorrido ancora, pensando alle sue intrinseche abitudini mattiniere, alla sua incessabile voglia di fare, alla giovinezza che le appartiene tutta.
‘Certo nonna, volentieri’.
Ci salutiamo ed io vado avanti, con la mia macchina fotografica ed i Baustelle nelle orecchie.
Camminare ha in sé una funzione catartica. Il bello di camminare sta nell’altalenante susseguirsi di momenti statici ad altri in movimento. Ogni momento ferma è una preparazione, un’attesa pacatamente impaziente ad un’altra camminata. Perché camminare è appagante, dà sollievo. Quando cammino vado al ritmo dei miei pensieri. E, essendo questo frenetico, procedo abbastanza velocemente. Non troppo, perché, tra i miei pensieri, c’è anche quello di non sembrare una maratoneta fuori luogo.
Per ogni passo un pensiero, un’idea, un ricordo. E’ così che imprimo me stessa nel mondo: coi passi. Un passo sull’asfalto cocente di metà estate, una piccola parte di me lì incisa.
↘ Edo, Lorenzo Tardella, 2019
↘ Bergman Island, Mia Hansen-Løve, 2021
↘ A bigger splash, Luca Guadagnino, 2015
↘ La piscine, Jacques Deray, 1969
↘ Call me by your name, Luca Guadagnino, 2017
↘ Conte d’été, Eric Rohmer, 1996
↘ Triangle of sadness, Ruben Ostlund, 2022
↘ Aftersun, Charlotte Wells, 2022
↘ Les amours de Anaïs, Charline Bourgeois-Tacquet, 2021
↘ The lost Daughter, Maggie Gyllenhaal, 2021
↘ Il Buco, Michelangelo Frammartino, 2021
↘ Il sorpasso, Dino Risi, 1962
↘ Lazzaro Felice, Alice Rohrwacher, 2018
↘ Sorry we missed you, Ken Loach, 2019
↘ Luca, Enrico Casarosa, 2021
↘ The Metamorphosis of the Birds, Catarina Vasconcelos, 2020
↘ Tout s'est bien passé, François Ozon, 2021
↘ Summer on a solitary beach, Franco Battiato
↘ Sparire, I Cani
↘ Take Care, Beach House
↘ Slowness, Ana Roxanne
↘ Your favourite building, Khotin
↘ A sea of love, Huerco S.
↘ Rifluisce il fiume, Angelo Branduardi
↘ Luna piena, Fabri Fibra
↘ Fake pain, James Ferraro
↘ Plantasia, Mort Garson
↘ Dormi bene, Mana
↘ Io sto bene, CCCP - Fedeli alla linea
↘ Driftin’, T. Buckley
↘ Orbetello, Flavio Giurato
↘ Splash, Colapesce e Dimartino
↘ Manifesto, Bandabardò
↘ Il y a, Vanessa Paradis
↘ La javanaise, Serge Gainsbourg
↘ Verses, Tamino
↘ I saw you, Fred again, Brian Eno
↘ Le chant des sirènes, Fréro Delavega
↘ Seabird, Alessi Brothers
↘ Dandelion, Jealous Of The Birds
↘ Leader Of The Landslide, The Lumineers
↘ Beach Baby, Bon Iver
↘ Landfill, Daughter
↘ Unmade, Thom Yorke
↘ Flesh and Bone, Keaton Henson
↘ Caldo, Diaframma
LIBRI
↘ Il diavolo e lo zar. Racconti russi, A. S. Puškin, S. G. Schönfeldt, 2003
↘ La noia, A. Moravia, 1960
↘ Psicomagia, A. Jodorowsky, 1995
↘ Le notti bianche, F. Dostoevskij, 1848
↘ Haiku, E. Del Pra, 1997
↘ Inventare il futuro. Per un mondo senza lavoro, N. Srnicek, A. Williams, 2015
↘ Canti di Castelvecchio, G. Pascoli, 1903
↘ Waiting for Godot, S. Beckett, 1953
↘ La società della stanchezza, B. Han, 2010
↘ Momenti di trascurabile felicità, F. Piccolo, 2010
↘ Fine lavoro mai, I. Carozzi, 2022
↘ Il lavoro non ti ama, S. Jaffe, 2022
↘ L’arte queer del fallimento, J. Halberstam, 2021
↘ Cambiamo la scuola, C. Foà, M. Saudino, 2021
↘ Cent'anni di solitudine, G. García Márquez, 1967
Scrivi qua la tua idea di riposo e condividila con noi!
Scrivi sotto a ciascuna foglia la pianta da cui proviene.
Il tempo è poco e il nuovo numero deve andare in stampa. Aiuta Beatrice a trovare gli errori nella copertina di Ginkgomag.
Stai per partire per le vacanze, ma non trovi Ginkgomag #02 Riposo. Sbrigati a trovarlo, altrimenti cosa ti leggi?
L’obiettivo è riempire la scacchiera in modo tale che ogni riga, ogni colonna e ogni riquadro contengano i numeri dall’1 al 9.
“È n’isola co’ ‘na palma sopra, UPDL, 2020”
2 - Brilla da lontano sul Duomo
6 - Canzone dei Diaframma citata in G. #00
7 - Vive dove le capita, ma non è causa di gentrificazione
10 - In origine Mikimix
12 - Istituto Europeo di Design
13 - Pistoia sulle targhe
15 - Una canzone di Dalla
18 - La capitale del Brasile
19 - L’amata di Giovanni Boccaccio
22 - Ne abbiamo cinque
23 - La musica di Colapesce e Dimartino
24 - Si propagano nell’aria
25 - Dittatore cambogiano
29 - Falsa unità di misura della vita secondo
l’editoriale
30 - Vino in cartone
31 - La moglie di Giasone
34 - Appello di vedetta
39 - A questo punto
40 - Sopra quel ramo del lago di
41 - L’ha inventata Thomas Alva Edison, forse
42 - I dialoghi di Pavese
46 - Lo dà Ceccherini alle piante
47 - Cavolo marinato coreano
48 - La nazione di Stig Dagerman
50 - Non tue
53 - Importanti secondo Nanni Moretti
54 - Nel 2001 vi è ambientata un’Odissea
55 - Bevanda alcolica niente male
56 - Sta bene con l’acqua tonica
57 - Quello di gravità è permanente
59 - Insieme al buono e al brutto
61 - Non mio
65 - Gli anni della guerra dei cent’anni
67 - Servono per comprare le cose
69 - Fratellastro di Phineas
70 - Vive in società matriarcali
72 - Risposta psicofisica al neoliberismo
75 - Oshimen ne ha fatti 26 nella Serie A 2022/23
76 - L’ottavo Re di Roma
77 - Immagini
1 - Il materiale di Ginkgomag
3 - Rrose Sélavy ne è lo pseudonimo
4 - Più volte coinvolto in scandali
5 - Al contrario, piuttosto
7 - Prende tutto… sul serio
8 - Reazione anticipatoria
9 - Associazione con cui festeggiare il 25 aprile
11 - Youtuber toscano dell’89
14 - Se ne prendi due diventa mille
15 - Stato del mare tranquillo, bonaccia
16 - Calura estiva
17 - La città di Vicky Cristina
20 - La tuta a Firenze
21 - Ha vinto lo scudetto anche senza Maradona
22 - Con Tananai si fa occasionale
25 - Pubblico Ministero
26 - Il manga di Eiichirō Oda
27 - Tiziano scrittore fiorentino morto nel pistoiese
28 - Van Gogh decise di usarne uno solo
31 - La Crudelia dei meme
32 - Vi è nato Calvino
33 - L’alter-ego di Ettore Schmitz
35 - La tipica ragazza… che a volte può sembrarti strana
36 - Il Ken regista
37 - In mezzo al mare
38 - Cittadina della 40 orizzontale
43 - All’inizio di Empoli
44 - Unione Calcio
45 - L’io al contrario
49 - Il suo cognome è Cosini in un romanzo di Svevo
50 - La Robbie Barbie
51 - La ___ Saint Victoire di Cezanne
52 - Ginkgomag #00
53 - Il contrario di guerra
58 - È pallido per Montale
59 - Sono di campagna
60 - La Q in LGBTQIA+
62 - La squadra di Zico e di Di Natale
63 - Non grasso in Berlinguer ti voglio bene
64 - Il computer di Star Trek
66 - Un osso e un cantore
67 - Il Ministero per la Sicurezza dello
Stato nella DDR
68 - Non è lo scopo di tutte le organizzazioni
71 - Chiamata in causa da Greenpeace
73 - Esame diagnostico
74 - Le iniziali del protagonista di Fight Club
Se ti svegli la notte segnati qua il sogno che stavi facendo
Scrivi le parole che hai letto durante la tua ultima camminata
Attacca una foto che ti piace
Attacca il biglietto da visita del posto in cui ti piace mangiare
Attacca qui un biglietto del treno e scrivi sotto perché lo hai preso
Disegna qui i percorsi delle tue giratine
Inganna l'attesa scrivendo ciò che vedi mentre stai aspettando
Spazio per segnarsi le cose viste nelle nuvole
Senza montepremi, senza Flavio Insinna, però devi trovare la parola che si associa logicamente alle altre cinque.
Stella Casa Civile
Sotto Senza Sportiva
Mezzanotte
Avvenire
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Guerriero
Europa
Operazione
Canzone Forzato Comuni
Aperta
Bella
I rebus sono illustrati da Jeje23, conosciuto per caso a Montuliveto mentre stava insegnando come risolverne uno a dei giovani ragazzi.
N.1
Lunghezza delle parole: 2, 5, 5, 2, 4.
N.1
Lunghezza delle parole: 4, 13, 11, 3, 6.
Un cruciverba formato da sole definizioni di due lettere, il cruciverba che sognavamo da quando eravamo piccoli e piccole.
1 - In mezzo al ginkgo
3 - Codice Fiscale
5 - Sì... a Togliatti
7 - Lui a Canterbury
9 - In foto e in costa
11 - Milligrammo
13 - Il centro della cavia
16 - La città dell'Atalanta
18 - Le iniziali di Zerocalcare
20 - Esclamazione in romanesco
22 - Ne fanno parte l'Italia e la Francia, la Turchia no
24 - La cantante di Meravigliosa creatura
26 - La terza nota
28 - Scrittrice fiorentina
30 - La città di Ovosodo
32 - Il centro di Gela
34 - La città del Comics
37 - Tipo di destinatari nelle mail
39 - Principio di nudità
41 - L'indicativo presente di sapere
43 - Gran Premio
45 - Sessanta in numeri romani
47 - Vladimir scrittore russo
49 - Il regista di Willy Signori e vengo da lontano
51 - L'elettrodomestico necessario per vedere i telegiornali
53 - Il paroliere suicida dei Joy Division
55 - Avanti Cristo
58 - Il 33 giri
60 - Non è qui
62 - L'inizio... della fine
64 - Dittatori del novecento o, se preferisci, azienda di abbigliamento
66 - Nel centro della città eterna
68 - La città degli Ex-Otago
70 - Va bene
72 - Non io
73 - Protagonista di GTA San Andreas
74 - Rigetto senza getto
2 - Motivo di interruzione nel pugilato
4 - Il Motta cantante
6 - Audio Video
8 - ... sports, ZENEGHEIM
10 - L'unità di misura della capacità di alcuni hard disk
12 - Ginkgomag
14 - Scriverà gli articoli al posto nostro
15 - Ei...
17 - Complimento fra gamer
19 - Risonanza Magnetica
21 - La farina più raffinata
23 - Articolo spagnolo
25 - Neon
27 - ..., lo, la, i, gli, le
29 - Dario
31 - Senatrice italiana, sorella di Stefano
33 - In clone e in lana
35 - Unione Sportiva
36 - Brand italiano di alta moda o David dei Pink Floyd, scegli in base ai tuoi riferimenti
38 - Comunione e Liberazione
40 - Raggi necessari per cianotipare e per abbronzarsi
42 - Preposizione inglese
44 - La città in cui è nato Ginkgomag
46 - Il cognome del presidente cinese
48 - La città di Liberato
50 - Rifiuto
52 - L'artista della Pezza
54 - Elemento chimico utilizzato nelle piscine
56 - Cotto e fontina
57 - Astrofisica, divulgatrice e attivista.
59 - La città toscana con il museo Pecci
61 - Instagram
63 - La fine... dell'inizio
65 - Matera sulle targhe
67 - Chi lo è è anche un rapper, non sempre il contrario
69 - Articolo romanesco
71- Crotone sulle targhe
Si gioca con un dado solo. 90% fortuna, 10% arte di arrangiarsi. Se non avete un dado inventatelo o usate un generatore di numeri sul telefono.
3
Tidisserocheperfarla innamoraredovevifarlaridere. Haitempofinoalprossimo turnoperfarridereuna persona.Seciriescila raggiungiallasuacasella.
2
Se ricordi la data di compleanno di almeno 3 persone che stanno giocando puoi andare alla casella di uno dei giorni di nascita a tua scelta.
1
Riempite
propagandaFare ènon fare informazione; tuttavia sloganunorecita pubblicitario seiconico: cosachediindovinanoaltrigli tratta,si unadiavanza casella.
15
le caselle che abbiamo lasciato bianche con ricompense, penitenze e qualunque altra cosa vogliate (a patto che non siano cose oppressive verso le altre persone, lo sapete). Il tabellone diventerà allora un ottimo sostituto di giochi come quello della bottiglia oppure obbligo o verità.
Oh no! Il tuo documenti Resta
22 23 24 25 26
fiore con la dominante. tua sinistra fiore si tratta, casella. (Non sono margherite).
27 Imprevisto! Sei finito a fare bagordi con Jordan Belfort, ma la polizia ha perquisito tuo appartamento. Resta fermo un turno.
Andiamo a Berlino! Elenca la formazione della nazionale italiana che ci ha fatto sognare in quel lontano 2006.
Se ti ricordi come si chiama il personaggio interpretato da Riccardo Scamarcio in “Io e te 3 metri sopra il cielo” avanza di tre caselle.
16
4 5 14
Giro d’Italia: hai venti secondi per nominare tre parole in tre dialetti diversi italiani. Avanza di tante caselle in base a quante ne hai nominate.
nome è comparso tra i
dei Panama Papers. in prigione due