La storia di rina

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sa che è tardi. Non il pianto, neppure la voce basta, arrochita ripetendo il suo nome: Franco, per la prima volta, è uscito dalla valle e l’ha lasciata sola. La sua è una voce di bambina, mentre racconta ai figli ciò che è accaduto e quando mette giù il ricevitore del telefono Rina è come rimpicciolita; piegata su se stessa si trascina dietro casa, si accuccia accanto al trattore, guaisce piano insieme a Tito, il bastardino che da qualche anno ha preso il posto di Spino. Confusamente coglie l’assurda, crudele somiglianza di quelle morti: Franco ucciso dal suo trattore e il suo vecchio cane travolto da un camion frettoloso, venuto fin lassù a caricare balle di fieno per una grande stalla di pianura. Il governo della vita è passato alle macchine, anche quassù. Tito le lecca il viso, mugolando infelice, spingendo con il muso a farsi largo tra le dita delle mani, mentre Rina sta in ginocchio e versa se stessa sulla mano aperta di Franco, stesa sull’erba e miracolosamente estranea allo scempio. Poi non ricorda più nulla: l’arrivo dei figli, lo strazio della pietosa ricomposizione, le mani affettuose e le lacrime, le parole, i volti, nulla. Per due giorni e due notti gli unici abitanti della casa di sasso sono lei, il suo uomo e il loro cane: tutti 79

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