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L’ANATRA ZOPPA L’EUROPA SENZA STATO MONETA E MERCATI SENZA GOVERNO DELL’ECONOMIA di

Gianni Pittella

Articoli pubblicati su «Milano Finanza» 2010 - 2009 -2008

PRESENTAZIONE DI

Andrea Geremicca PREFAZIONE DI

Roberto Sommella CONSIDERAZIONI

DI

Daniele Cardella COORDINAMENTO DI

Luisa Pezone

Nuova Cultura


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Copyright © 2010 Edizioni Nuova Cultura ‐ Roma ISBN: 9788861344655 Copertina: a cura dell’Autore Composizione grafica: a cura dell’Autore È vietata la riproduzione non autorizzata, anche parziale, realizzata con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico Questo volume è stato Stampato con tecnologia “print on demand” presso centro stampa Nuova Cultura P.le Aldo Moro, 5 ‐ 00185 Roma www.nuovacultura.it per ordini: ordini@nuovacultura.it


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Sommario

Presentazione

Andrea Geremicca

IX

Prefazione Roberto Sommella

XIII

Considerazioni

Daniele Cardella

XV

Bene le manovre rigorose, ma per ripartire il mercato ha bisogno di regole

1

L’Europa arranca. Se si ferma torna indietro

5

Per le Pa morose occorrono sanzioni automatiche

9

Non ha molto senso un fondo senza EuroBond

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Caro Cavaliere, posso chiederle che fine ha fatto il Piano casa?

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La nuova Commissione andrebbe un po’ rivista

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Il fallimento di Copenhagen non diventi un alibi

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Tocca di nuovo a Monti rilanciare l’Europa

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Il programma di Bersani? Riconquistare l’Europa partendo dal Sud

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VI

SOMMARIO

Si chiama “Confidi” la vera Banca del Mezzogiorno

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Lo scudo fiscale non resti isolato, altrimenti sarà solo un “cadeau”

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La Vigilanza Ue nascerà, ma quanti ostacoli

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Bruxelles troppo tenera con gli Hedge Funds

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I miei dubbi sulla bontà di quei miliardi per il Sud

37

Il G‐20 di Londra decida sui paradisi fiscali

40

Kroes ascolti Fiat, niente favoritismi

42

L’Europa cerca un nuovo supervisore. Emergenza credito 44 La competitività passa anche per il bond comunitario

46

Verso un modello di Hedge Funds senza più superdebito

49

L’Europa ora riparta dal vecchio ma buono Piano Delors

51

Alla Ue manca ancora l’autonomia finanziaria

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Dove vanno a segno gli interventi pubblici

57

Niente Bretton Woods, ma la crisi incombe

59

Ci vogliono regole forti per l’agenzia di rating

61

La riforma della moneta elettronica al vaglio del Parlamento

63

Ma niente paletti anti‐OPA

65

Così riformeremo le agenzie di rating

67

Perché serve un nuovo Piano Delors

70

Di fronte alla crisi un’Europa senza ricette

73

Integrazione finanziaria, urgenza europea

76

La scelta energetica sia libera. Ma coerente

78

Le regole del gioco per i fondi sovrani

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Fin dove si può armonizzare il mutuo

83

I passi da fare per regolare i mercati

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SOMMARIO

VII

Sui servizi bancari una questione di mobilità

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Basta con Hedge e private equity senza rete

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C’è il niente nelle risposte Ue al caro‐barile

95

Più coraggio nei finanziamenti Ue alle Pmi

98

Microcredito senza frontiere

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Se non c’è concorrenza è inutile tassare i petrolieri

104

Fiscalità delle imprese ancora in ordine sparso

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L’euro è più forte dell’Europa

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Un Erasmus per i giovani imprenditori

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Così riparte il Mediterraneo

114

La doppia delusione del Doha Round

117

Il pagamento elettronico cerca spazio

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Nell’Ue la microfinanza si affida a Jasmine

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Caro Barroso, perché non ti batti per il supervisore?

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Presentazione Andrea Geremicca Presidente Fondazione Mezzogiorno Europa

Abbiamo deciso di raccogliere e pubblicare gli interventi di Gianni Pittella su Milano Finanza dal 2008 a oggi non solo perché rappresentano una esemplare testimonianza di im‐ pegno culturale, politico e civile ma perché costituiscono un importante strumento di conoscenza e lavoro. Negli scritti di Pittella colpiscono infatti l’attualità, l’immediatezza e al tempo stesso il valore permanente e generale delle questioni trattate. Questo perché Pittella non parla per sentito dire. Parla perché sa. E sa perché è protagonista in prima persona delle principali vicende di politica economica e finanziaria di que‐ sti ultimi anni a livello meridionale, nazionale ed europeo. Perciò non racconta soltanto, non commenta soltanto, ma ri‐ flette, propone, prende posizione, si confronta dall’interno di una battaglia che spesso lascia il segno. Penso, tra le tante, alla sua antica e tenace iniziativa per l’uso degli EuroBond come strumenti di sostegno agli inve‐ stimenti nei settori strategici. Sembrava una pregevole e ap‐ prezzata petizione di principio. Un argomento da trattare, appunto, in articoli e appelli. Niente di più. Invece no. Scava‐


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Andrea Geremicca

va, incideva, creava consensi. E recentemente con lo ‘Scudo’ deciso dall’Unione per difendere i paesi europei dal ciclone greco siamo assai lontani, certo, dalle proposte di Pittella per il finanziamento della strategia di Lisbona. Anziché rilanciare la crescita si è preferita una impostazione difensiva ed emer‐ genziale. Tuttavia una piccola finestra si è aperta sullo stru‐ mento EuroBond. Ora si tratta di andare avanti con intelli‐ genza e tenacia, senza facili e irresponsabili trionfalismi. Un altro terreno di riflessione e iniziativa che emerge con chiarezza dalla raccolta degli articoli di Gianni Pittella è il rapporto Mezzogiorno‐Europa‐Mediterraneo. Qui fanno la dif‐ ferenza il suo profondo radicamento sul territorio, la sua cul‐ tura meridionalista e al tempo stesso il suo respiro alto, a li‐ vello europeo. E la volontà di promuovere la partecipazione organizzata dei cittadini alla battaglia per un’Europa più par‐ tecipata e più aperta alle potenzialità del continente africano e dei paesi delle coste Sud del Mediterraneo. Non a caso Pit‐ tella è esponente di primo piano di Fondazioni e Centri di ini‐ ziativa come Italiani Europei e Mezzogiorno Europa, e pro‐ motore di Centri prestigiosi come Zefiro e Meseuro. L’accre‐ scere delle disparità sociali ed economiche tra le due sponde del Mediterraneo, scrive Pittella, richiede oggi più che mai uno spazio comune integrato nell’economia mondiale. Per raggiungere tale traguardo bisogna passare attraverso politi‐ che che contribuiscano non solo alla crescita, ma tengano an‐ che di conto gli aspetti etici e politici relativi alla democratiz‐ zazione, alla libertà di espressione e ai diritti dell’uomo in ogni paese, al di qua e al di là del Mediterraneo. Siamo certi che gli spunti, le riflessioni, le proposte frutto della lunga col‐ laborazione di Gianni Pittella con Milano Finanza incontre‐


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ranno l’interesse, le speranze, la passione, la voglia di vivere e cambiare l’Europa e il mondo di tanti cittadini, di tante ragaz‐ ze e giovani in modo particolare, a cui Pittella guarda e pensa, insieme a noi, nella sua quotidiana, importante fatica.


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Prefazione Roberto Sommella Vicedirettore vicario Milano Finanza

La violenta febbre ateniese sta insegnando a tutti gli europei quanto la moneta unica sia il primo e, purtroppo, forse unico valore condiviso da difendere a ogni costo. L’Unione europea negli ultimi due anni, pesanti come un secolo per tutte le istitu‐ zioni che, in un modo o nell’altro, cercano di far valere i principi del Trattato, ha mostrato di saper navigare meglio nella tempe‐ sta finanziaria che nel deserto della crisi economica. Se a caval‐ lo del 2008 e del 2009 Bruxelles e Strasburgo hanno fatto fron‐ te comune per reggere all’onda d’urto di una pandemia finan‐ ziaria che proveniva da Oltreoceano, gettando anche le basi per una più severa regolamentazione su intermediari finanziari e prodotti speculativi, la fase che stiamo vivendo oggi, quella della recessione e della ricerca di una “exit strategy”, dimostra quanta Europa debba ancora costruirsi. Se è stato possibile, forse per‐ ché anche drammaticamente necessario, arginare il disgrega‐ mento del mercato finanziario e il fallimento dei colossi banca‐ ri, è evidente invece che l’Unione riesce a far poco per recupe‐ rare quei milioni di posti di lavoro persi negli ultimi 24 mesi. In un clima di confusione e incertezza si susseguono riu‐ nioni, vertici, senza una vera svolta. Eppure mai come adesso


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Roberto Sommella

la Commissione e il Parlamento avrebbero bisogno di affidar‐ si a un mister Economy che sapesse guidare, con autevorevo‐ lezza e con l’appoggio convinto degli Stati membri, le fasi de‐ cisive della ricostruzione post‐crisi. Il rischio è che decine di milioni di europei abbiano la sensazione che le istituzioni comunitarie abbiano agito bene e in fretta quando si è tratta‐ to di salvare istituti di credito e banchieri milionari, fallendo miseramente nel momento in cui in agenda sono arrivati i no‐ di dell’economia reale. Il senso di scollamento dal comune sentire europeo è ormai evidente anche nei paesi fondatori dell’Unione e la crescente allergia tedesca alle regole di salva‐ taggio dei paesi membri in difficoltà non è certo un messag‐ gio incoraggiante né, probabilmente, l’ultimo. Proprio per questo, oggi più che mai quello che conta è far emergere l’Europa che c’è, l’Europa che ha ancora voglia di affrontare i temi della fratellanza, della crescita sostenibile, dell’integrazione, dei mercati finanziari al servizio della cre‐ scita. L’abbandono dell’agenda di Lisbona per il nuovo obiet‐ tivo 2020 non deve quindi essere un alibi per prendere tem‐ po: i mercati finanziari si muovono anticipando le decisioni che la politica non ha ancora affrontato. E in taluni casi emet‐ tono un giudizio senza appello. Ora più che mai l’azione del Parlamento europeo, che e‐ merge dal lavoro del suo primo vicepresidente Gianni Pittel‐ la, va incoraggiata, come forte deve tornare quella spinta in‐ novatrice ormai quasi dimenticata che puntava a rendere più fluido e veloce il percorso normativo dell’Unione. Conoscere per deliberare, farsi sentire per tutelare tutti i cittadini euro‐ pei. Perché l’Europa è un punto di partenza e non d’arrivo.


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Considerazioni Daniele Cardella

Il 9 maggio 2010 l’Europa ha festeggiato l’anniversario della Dichiarazione Schuman. Sessanta anni dall'avvio di un ambi‐ zioso progetto politico, nato con lo scopo di definire un ordi‐ ne internazionale più stabile ed equo. Eppure nel libro dei ricordi non rimarrà traccia delle tra‐ dizionali immagini legate alle celebrazioni. I rappresentanti delle principali istituzioni europee, così come i capi dei 27 go‐ verni nazionali, non hanno avuto il tempo di celebrare un traguardo tanto importante. Sono rimasti rinchiusi per 48 ore nel palazzo del Consiglio cercando insieme, e il più rapida‐ mente possibile, una soluzione alla crisi economica che mi‐ naccia di affondare l’Euro. È così che a Bruxelles quest’anno si è festeggiata la festa dell'Europa. Questa immagine riesce probabilmente a definire meglio di tante altre parole la drammaticità della fase che vive l’Unione. C’è poco da festeggiare con un paese, la Grecia, sull'orlo della bancarotta e con le borse che ormai da due anni continuano a tirare giù le economie di molti paesi europei che, tutto a un tratto, si sono manifestate per quello che si temeva fossero: “gonfiate” da una finanza senza regole e indebitate fino al collo.


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XVI

Daniele Cardella

Eppure, solamente nel 2000, con la Strategia di Lisbona, ci si riprometteva di rendere, nell’arco di un decennio, la nostra economia la più competitiva al mondo. Non bisogna essere pignoli per affermare che qualcosa non é andato per il verso giusto e che l’obiettivo é stato clamorosamente mancato. Questo qualcosa che è andato storto è probabilmente il ri‐ sultato di una “svogliatezza” della classe dirigente europea nel puntare traguardi ambiziosi, quanto legittimi, senza però assumersi la responsabilità di creare le condizioni adatte af‐ finché ciò potesse avvenire. Si è avanzato lentamente nel completamento del mercato interno, abbandonando colpe‐ volmente la dimensione sociale. Sono state trascinate troppo a lungo riforme necessarie come quella del bilancio comuni‐ tario che non è più al passo con i tempi né tantomeno ade‐ guato alle promesse fatte. Si è creduto di poter ottenere risul‐ tati straordinari senza spendere energie e risorse, insomma, senza metterci la faccia. A rallentare processi di evoluzione e crescita, e talvolta a ostacolarli irrimediabilmente, sono stati spesso egoismi na‐ zionali e forme di protezionismo economico che non sono compatibili con lo sviluppo dell’integrazione europea e con la crescita del benessere dei cittadini. E i risultati lo stanno dimostrando. Le resistenze nazionali che impediscono all’Europa di dotarsi di una reale capacità di governance comune dell’economia, l’opposizione di governi alla creazione di un’autorità unica europea per la vigilanza dei mercati, i malumori presenti ogni qualvolta si tenti di rinforza‐ re il ruolo europeo sulla scena di politica estera, continuano a rappresentare scelte che non pagano, che non appaiono più difendibili e che pesano sul benessere dei cittadini europei.


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Considerazioni

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Un cambio di rotta è allora urgente per permettere all’Eu‐ ropa, che a seguito della ratifica del Trattato di Lisbona ha dimostrato di avere ancora energie e ambizioni, di puntare a un concreto rilancio. Se la crisi economica rappresenterà o meno l’occasione per convincersi una volta per tutte della necessità di un rafforzamento delle strutture di governance comunitarie e sovranazionali, dipenderà dalla capacità e dalla lungimiranza degli attuali governi. In questo percorso un ruolo fondamentale sarà giocato dal Parlamento europeo, che con maggiori margini di manovra, grazie al Trattato di Lisbona, potrà far sentire il suo peso ri‐ spetto alle importanti riforme in agenda: politica di coesione, regolazione dei mercati, governance economica, prospettive finanziarie. Ma le potenzialità e gli strumenti offerti dal Trat‐ tato di Lisbona, perché siano efficaci e producano risultati, vanno utilizzati. Quest’ultimo può sembrare un concetto ba‐ nale ma la decisione degli Stati di nominare personalità di basso profilo alla carica di presidente del Consiglio europeo e di Alto Rappresentante per gli affari esteri in una fase tanto delicata dimostra che forse non lo è. In questa raccolta di articoli, Gianni Pittella evidenzia bene come problematiche quali il cambiamento climatico, il governo dell’economia, la gestione delle migrazioni, le risorse energe‐ tiche sempre più a rischio, le rigidità del mercato del lavoro, richiamano a scelte concrete che non possono essere assunte dai singoli governi ma che necessitano di condivisione. Negli articoli viene sottolineato efficacemente come, a 60 anni dalla Dichiarazione Schuman, è forse la mancanza di per‐ sonalità politiche convintamente europeiste, e dotate di una


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Daniele Cardella

visione lungimirante e paziente verso il processo di integra‐ zione, a complicare il cammino dell’Europa. È la mancanza di scelte coraggiose a far ammalare l'Europa. Pittella nei suoi commenti mette l’accento sul bisogno di maggiore determi‐ nazione per “sbloccare” decisioni importanti come il lancio degli EuroBond per finanziare investimenti strategici e quin‐ di la ripresa, l’europeizzazione delle strutture responsabili alla guida economica e un’armonizzazione delle differenti po‐ litiche nazionali a tutela dei consumatori degna di questo nome. Spunti che fanno ben sperare sulla possibilità che l’Eu‐ ropa, in occasione del prossimo anniversario, abbia anche il tempo e la voglia di festeggiare.


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Bene le manovre rigorose, ma per ripartire il mercato ha bisogno di regole La discussione sulla governance economica non può essere ridotta al solo dibattito su come rafforzare il patto di stabilità e crescita. Sarebbe grave per le sorti europee non affrontare il vero nodo che abbiamo davanti: la perdita di competitività delle nostre economie e un mercato del lavoro disastrato. Eppure il G20 di Toronto sembra aver confermato la te‐ stardaggine dei governi europei nel voler proseguire, a diffe‐ renza delle scelte fatte dall’amministrazione americana, uni‐ camente sulla strada del rigore. È invece necessario un confronto serio sui contenuti e le politiche da mettere in campo, contrapponendo alla destra, che sta portando l’Europa verso la stagnazione e la perdita di milioni di posti di lavoro, una sinistra e un centrosinistra che propongono limpidamente un’altra strada, un’agenda diffe‐ rente che riporti al centro del dibattito i veri problemi che soffocano l’economia.

Numero 130, p. 2 del 2/7/2010.


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Bene puntare al risanamento dei conti e a sincronizzare la fase di elaborazione delle politiche di bilancio nazionali, ma questo non basta se non si lavora parallelamente a strategie di crescita e rilancio economico. Riportare i conti in ordine è un passaggio necessario quanto quello di ripristinare una si‐ tuazione dignitosa sul mercato del lavoro. E per far bene bi‐ sogna prevedere, oltre alle sanzioni per chi sfora i conti, un processo di convergenza delle politiche fiscali e l’introdu‐ zione di uno strumento, gli EuroBond, capace di raccogliere le risorse necessarie per avviare un solido piano di investi‐ menti in progetti a lungo termine in nuove tecnologie, infra‐ strutture ed energie alternative, per favorire occupazione e crescita. In una situazione che vede i governi di tutto il mondo sta‐ bilizzare le proprie economie utilizzando il denaro dei con‐ tribuenti, è arrivato il momento di introdurre una tassa sulle transazioni finanziarie perché è ora che anche gli speculatori paghino il conto. L’uscita dalla crisi, insomma, non può produrre un ulterio‐ re approfondimento delle diseguaglianze sociali. Meno ai ricchi, di più ai poveri, non è uno slogan precoce‐ mente mandato in soffitta per vellicare la pancia di una glo‐ balizzazione senza regole e senza controllo. In Europa non potremo rilanciare i consumi finché non proporremo misure adatte a riportare i soldi nelle tasche dei cittadini e non po‐ tremo programmare un piano d’investimenti degno di questo nome e funzionale alla crescita economica, se rimaniamo in attesa di interventi dei singoli governi che hanno i conti in rosso.


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Su questo terreno il Pd, il PSE, le forze riformiste liberal‐ democratiche, cattoliche e ambientaliste, i gruppi parlamen‐ tari europei e nazionali delle forze progressiste, insieme a quei settori della famiglia popolare europea avveduti e sensi‐ bili ai temi sociali, potranno recuperare un consenso maggio‐ ritario che oggi invece paradossalmente premia la destra più conservatrice che mescola paura a ricette “lacrime e sangue”, xenofobia a protezionismo economico. Questo, per il centrosinistra italiano, è il tema vero, la sfida cruciale, altro che decidere se entrare o meno nel PSE rein‐ ventando una discriminante politica superata dalla storia, giacché proprio sul superamento della crisi e sulla riscoperta del principio di equità e di redistribuzione va creato un ponte con l’altro cardine riformista, la libertà individuale e l’effi‐ cienza, dando vita alla nuova forza progressista del ventune‐ simo secolo. L’unica traccia del summit che ha visto riuniti i 20 grandi della terra a Toronto è l’ennesima lista di buone intenzioni e promesse che rischiano di rimanere immancabilmente sen‐ za alcun seguito. Per fare solo un esempio basta guardare alla riforma della vigilanza dei mercati finanziari. Da una parte i governi promettono da tempo una severa regolamenta‐ zione del settore che possa scongiurare nuove crisi e dall’al‐ tra impediscono, in sede di Consiglio, che le ambiziose pro‐ poste del Parlamento europeo in materia siano approvate. Il risultato è che tutto rimane come prima. Il perché è chiaro: la destra crede ancora che la stessa finanza che ha affossato l’economia reale, sia capace di riportare serenità e soldi in circolo. Da qui il timore che troppi lacci e controlli abbiano l’effetto di “inibire” le potenzialità dei mercati. Niente di più


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sbagliato. Bisogna essere consapevoli che la ripresa sarà len‐ ta e complicata e che solamente attraverso politiche espansi‐ ve della domanda accompagnate da misure stabilizzatrici dei mercati finanziari si potrà pian piano riportare equilibrio nell’economia europea.


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L’Europa arranca. Se si ferma torna indietro

La crisi ha colpito il cuore dell’Europa. Ma attenzione a non scambiare causa ed effetti e a non perdersi nei dettagli. La crisi dell’euro infatti non è che il secondo atto di una crisi più ampia, iniziata nel 2008; e sarà seguita da altri episodi e svi‐ luppi. I problemi quindi della Grecia, dei Pigs, dell’euro, del debito pubblico, della governance economica dell’Unione, sono problemi reali e urgenti, ma sono anche manifestazioni secon‐ darie di una malattia più profonda, globale e sistemica, che ri‐ chiede soluzioni di ugual portata. Gli squilibri fondamentali dell’economia mondiale alla base dell’instabilità e della tur‐ bolenza sono stati scalfiti di poco – bisogna ammetterlo – dal‐ la risposta alla prima ondata della crisi. Permangono infatti l’eccesso di risparmio nelle economie emergenti e l’eccesso di debito in quelle mature, e gli squilibri nelle bilance commer‐ ciali e dei pagamenti, a cominciare da quella degli Usa. L’inde‐ bolimento dell’euro, da cui trarranno beneficio le esportazio‐ ni europee, non va in direzione del riequilibrio, ma anzi ac‐ Numero 101, p. 3 del 26/5/2010. Scritto con Paolo Garonna, docente presso la Luiss Guido Carli di Roma.


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centuerà gli squilibri. Le politiche monetarie espansive e i bassi tassi d’interesse rischiano di alimentare bolle e tensioni inflazionistiche, mentre le prospettive di crescita nell’Ocse restano incerte. L’Europa è solo parte di un problema più vasto, anzi rap‐ presenta rispetto alla crisi un’opportunità, lo stimolo a cerca‐ re vie di uscita innovative, la ricerca di una direzione di mar‐ cia sostenibile. Il caso Grecia ha mostrato quanto sia perico‐ loso interrompere o rallentare l’integrazione: fermarsi in sel‐ la alla bicicletta, anche solo per alleviare qualche stanchezza, può farci cadere o far marcia indietro. Meglio continuare a pedalare. E nella concitazione e nei compromessi che hanno segnato decisioni e indecisioni dell’Unione, si possono legge‐ re significativi cambi di marcia che lasciano ben sperare per il futuro. Anzitutto, il fondo europeo di stabilizzazione deciso a Bruxelles il 10 maggio scorso consente di emettere Euro‐ bond garantiti dagli Stati membri. Supera quindi i tradizio‐ nali meccanismi bilaterali e intergovernativi, e impone un primo timido trasferimento di sovranità fiscale alle istanze comunitarie. In secondo luogo, si prevede il rafforzamento dei meccanismi di sorveglianza e sanzione previsti dal Trat‐ tato di Maastricht. Infine, la disponibilità della Bce a inter‐ venire sui mercati acquistando titoli di Stato marca un nuo‐ vo orientamento della politica monetaria, sensibile al soste‐ gno dello sviluppo in caso di emergenza, ma senza compro‐ mettere in linea di principio l’indipendenza dell’Istituto di emissione. Insomma, ritardi compromessi e lentezze non devono farci perdere di vista il salto qualitativo realizzato dall’Eu‐


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ropa nell’affrontare la crisi. D’altro canto, non possiamo permetterci di indulgere all’autocompiacimento. Perché le misure proposte funzionino, bisogna procedere con corag‐ gio e determinazione sulla via intrapresa, intensificando tempi e misure del risanamento finanziario e delle riforme strutturali. Occorrerà soprattutto consolidare la capacità di manovra fiscale dell’Unione, finalizzandola non solo al salvataggio e al‐ la stabilizzazione, ma anche al sostegno della crescita e delle ristrutturazioni produttive. Per compensare gli effetti deflati‐ vi del consolidamento fiscale, l’Unione dovrebbe riprendere e aggiornare l’ipotesi Delors sugli investimenti pubblici euro‐ pei in infrastrutture, ricerca e formazione. Restano certo le preoccupazioni comprensibili dei tede‐ schi, ma vi sono ragioni fondate per superarle. In sintesi, il trasferimento di competenze fiscali all’Unione europea può, e deve, rappresentare un trampolino di lancio verso un nuovo modello di sviluppo e crescita a livello nazionale, fondato sul‐ la collaborazione tra pubblico e privato, la sussidiarietà, la snellezza amministrativa, il decentramento. La riuscita della “exit strategy” nel medio termine dipenderà molto da questo modello di sviluppo e in particolare dal rilancio della partner‐ ship pubblico‐privato, tanto a livello europeo che nazionale. C’è una ricchezza importante sui mercati che può essere il fi‐ nanziamento di progetti strategici europei. Se l’Europa riuscirà nell’intento, e deve farlo per fronteg‐ giare la crisi, essa darà un contributo rilevante, sul piano in‐ ternazionale, alla riforma del FMI, alla stabilizzazione della finanza globale, e alla liberalizzazione del commercio mon‐


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diale Doha Round . La lezione del Mercato Unico e dell’Unio‐ ne economica e monetaria vale dunque non solo in Europa e per l’Europa, ma nel mondo e per la leadership europea nella governance globale.


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Per le Pa morose occorrono sanzioni automatiche

Che il ritardo nei pagamenti negli scambi commerciali tra Pubbliche amministrazioni e privati avesse gravi conseguen‐ ze sugli equilibri economici generali era risaputo. Ma l’am‐ piezza che ha assunto il problema in Europa richiama la ne‐ cessità di un intervento per arginare tali comportamenti. L’occasione è offerta dalla proposta di direttiva della Com‐ missione europea, attualmente in discussione al Parlamento di Strasburgo, che mira a sanzionare con maggiore fermezza i comportamenti scorretti. Ad apparire particolarmente ingiustificabili sono i ritardi di pagamento delle pubbliche amministrazioni Pa proprio in considerazione della portata dei lavori commissionati, in Europa circa duemila miliardi di euro all’anno. L’Italia si pre‐ senta purtroppo come maglia nera nell’ideale classifica della correttezza nei tempi di pagamento. La nostra Pa, infatti, si fa attendere mediamente 128 giorni contro i 65 della media eu‐ ropea. Per non parlare dei ritardi che si registrano nelle re‐ gioni meridionali, che possono arrivare anche a 600 giorni. Il Numero 063, p. 8 del 1/4/2010.


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problema è che i mezzi di ricorso previsti dall’attuale legisla‐ zione europea non si dimostrano efficaci a garantire le impre‐ se e, per le amministrazioni pubbliche come per i privati, la decisione di pagare in ritardo è spesso un modo semplice, ma ingiustificato, di superare le limitazioni di bilancio. Semplice‐ mente si rinviano i pagamenti all’esercizio successivo. Si ri‐ schia così di mettere in ginocchio i tessuti produttivi. Com‐ portamenti del genere portano spesso al fallimento di azien‐ de altrimenti sane, alla compromissione della competitività delle nostre Pmi, e a un potenziale effetto a catena che porta talvolta alla bancarotta un’intera filiera di fornitori. In con‐ creto, le imprese vedono pregiudicati i propri flussi di cassa e ridotta la possibilità di investire, oltre a dover spesso affron‐ tare costi finanziari aggiuntivi. Questo scenario assume un valore ancora più preoccupante considerata la già complicata situazione economica generale con la quale si trovano a do‐ ver fare i conti le aziende. Confido nel fatto che il Parlamento riesca a finalizzare una direttiva che garantisca tempi certi nei pagamenti, fissando la scadenza massima del ritardo a 30 giorni, sanzioni sicure per i ritardatari e l’obbligo a versare gli interessi di mora. Bisogna prevedere misure che scoraggi‐ no efficacemente il debitore dal pagare in ritardo, ma soprat‐ tutto strumenti che consentano ai creditori di esercitare pie‐ namente i propri diritti in caso di ritardo. Penso per esempio alla necessità di introdurre la cogenza della norma, in base alla quale la sanzione contro chi non paga scatta automatica‐ mente e cioè senza che sia necessaria un’iniziativa giudiziaria da parte del creditore. E sarebbe altrettanto interessante pre‐ vedere l’automatismo nella richiesta degli interessi troppo spesso non reclamati dalle piccole aziende, intimidite dalla


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ridotta capacità contrattuale rispetto alle pubbliche ammini‐ strazioni o ai grandi gruppi privati. L’iniziativa europea in ta‐ le settore è necessaria per affrontare un problema che regio‐ ni e governi non riescono a risolvere come dovuto.


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Non ha molto senso un fondo senza EuroBond

Il dibattito che si sta sviluppando in relazione alla proposta di istituire un Fondo Monetario Europeo va seguito con atten‐ zione e non deve essere letto solamente in chiave «salva Gre‐ cia». È vero che l’evolversi della crisi greca ha obbligato a una necessaria quanto urgente riflessione sulle misure da mette‐ re in campo, ma la proposta del Fondo monetario è di più am‐ pio respiro e va interpretata guardando alla più generale que‐ stione della governance economica europea, che deve poter garantire tre “volet”: una politica per la crescita, gli strumenti finanziari adeguati per sostenerla per esempio gli EuroBond e la gestione delle emergenze. L’eventuale nascita di un Fon‐ do Monetario Europeo risponderebbe a questa terza necessi‐ tà. Se affidiamo, come si sta facendo tuttora, ai singoli governi l’onere di affrontare situazioni di squilibrio delle finanze pub‐ bliche tanto importanti, non bisogna meravigliarsi se le misu‐ re messe in campo rispondono a interessi nazionali e non sempre si dimostrano adeguate a disinnescare un eventuale rischio domino sulle altre economie in difficoltà. Numero 049, p. 6 del 12/3/2010.


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La creazione di un Fondo monetario, la cui istituzione non richiederebbe alcuna modifica dei Trattati, costituirebbe una soluzione sensata per proteggere in primis gli interessi dei Paesi con finanze pubbliche sane. Il Fondo europeo offrirebbe una risposta, Grecia a parte, al più generale problema del de‐ terioramento delle finanze pubbliche di numerosi Paesi euro‐ pei e costituirebbe l’occasione per creare un meccanismo di emergenza e di sorveglianza importante a rafforzamento del debole e deludente Patto di Stabilità. Perché ciò avvenga sarà però fondamentale garantire alcune condizioni: il Fondo deve costituirsi come un organismo dotato di una capacità di valu‐ tazione autonoma, capace non solo di offrire e coordinare le risposte in caso di emergenza, ma anche di disciplinare la ge‐ stione delle risorse pubbliche dei governi europei. Rispettan‐ do queste condizioni, la nascita del Fondo rappresenterebbe una chiara opportunità per rafforzare la governance econo‐ mica dell’Unione, soprattutto se contemporaneamente si pro‐ cede a potenziare i canali di finanziamento delle politiche di crescita europee, introducendo gli EuroBond, capaci di recu‐ perare sul mercato la liquidità necessaria a sostenere un au‐ mento importante della spesa pubblica per rilanciare gli in‐ vestimenti strategici europei. La questione della sostenibilità delle finanze pubbliche degli Stati membri diviene sempre più centrale, considerata la delicata fase in cui ci troviamo. Attrezziamoci per affrontare il problema nella sua globalità, intervenire solo sulla Grecia significherebbe voler risolvere i problemi nascondendo la polvere sotto il tappeto.


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Caro Cavaliere, posso chiederle che fine ha fatto il Piano casa?

Il disegno di legge anti‐corruzione sembra essere l’ultimo provvedimento, in ordine di tempo annunciato da questo go‐ verno, a rischiare di essere prontamente spedito nel limbo delle promesse mancate. Il primo della serie fu l’atteso “Piano casa” che, nel pro‐ gramma elettorale del Pdl avrebbe dovuto finalmente assicu‐ rare un alloggio per giovani e famiglie attraverso lo scambio tra proprietà dei terreni e concessioni di edificabilità. Un mec‐ canismo mai varato, così come non hanno visto la luce la ridu‐ zione dei costi dei mutui, la costituzione di un fondo pubblico di garanzia e il bonus locazioni per giovani e meno abbienti. Sono rimaste nel cassetto le programmate politiche a soste‐ gno della famiglia, che prevedevano un mix tra misure fiscali, come il varo del quoziente familiare e di potenziamento dei servizi sociali, fra cui la reintroduzione del bonus bebé, la glo‐ bale e progressiva riduzione dell’Iva su latte, sugli alimenti e prodotti per l’infanzia, fino ai libri di scuola gratuiti per le fa‐

Numero 042, p. 9 del 3/3/2010.


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miglie meno agiate e al rilancio dei consultori pubblici. Inattua‐ ta finora la promessa di aumentare le pensioni più basse. Le misure di incentivazione del rinnovamento tecnologico delle strutture ospedaliere e della realizzazione di nuove strut‐ ture, in particolare al Sud, in accordo con le regioni, e la pro‐ messa dell’abolizione delle liste di attesa si sono tradotte in un giro di vite sui bilanci regionali e in livelli di prestazione sem‐ pre più bassi, al punto che aumentano i casi di malasanità e il fenomeno dell’emigrazione sanitaria dagli ospedali del Meri‐ dione a quelli ubicati nel Centronord. Proprio il Mezzogiorno continua a essere il bersaglio più frequentato dalla politica dei tagli e degli annunci del governo Berlusconi. Nel corso del 2009 sono stati bloccati 35 miliardi di fondi destinati al Sud dalla programmazione concertata con l’Unione europea ed è stata smantellata la fiscalità di vantaggio per le imprese. Per riequilibrare l’ondata di proteste dell’opi‐ nione pubblica meridionale che si sente sempre più presa di mira, i ministri Scajola e Tremonti hanno promesso a più ri‐ prese negli ultimi sei mesi, ogni volta che il tema si fa caldo, un Piano per il Sud nel quale spicca come piatto forte la Banca del Sud, che a oggi risulta non aver aperto alcuno sportello. Ma il campione degli interventi mancati è il programma di riforma fiscale. Dopo il drastico calo di risorse pubbliche a di‐ sposizione, secondo la motivazione, non del tutto condivisibile vista l’ampia zona di evasione fiscale ancora inesplorata, della incombente crisi economica, pare che sia stata messa una pie‐ tra sopra alla promessa elettorale di ridurre le tasse sulle fa‐ miglie, sul lavoro e sulle imprese. Nel frattempo, il presidente del Consiglio a sorpresa pensa bene di rilanciare l’idea tremon‐ tiana della riduzione degli scaglioni Irpef a due aliquote. Una


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sortita prontamente rintuzzata dallo stesso ministro dell’Eco‐ nomia, perché detta così, senza adeguati meccanismi compen‐ sativi di esenzione e deduzione, comporterebbe un clamoroso spostamento di tassazione dai redditi più alti a quelli medio‐ bassi, a parità di gettito. E intanto la pressione fiscale aumenta.


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La nuova Commissione andrebbe un po’ rivista

Ripresa economica, fiscalità, sfide ambientali, politica estera, mercati finanziari, concorrenza, politica agricola e di coesio‐ ne, sono solamente alcuni dei temi trattati durante le audizio‐ ni di questa settimana al Parlamento europeo. I commissari designati dai governi sono, infatti, chiamati a superare l’esa‐ me del Parlamento, per ottenere il via libera a far parte della nuova Commissione europea. Le audizioni si susseguono e non tutti i candidati paiono es‐ sere all’altezza del ruolo che dovranno ricoprire e soprattutto delle sfide che ci apprestiamo ad affrontare. È stato proprio Manuel Barroso a lanciare tra mille proclami il piano «Europa 2020» che prende il posto della deludente Strategia di Lisbona e disegna il percorso da seguire per centrare i tre obiettivi con‐ siderati prioritari: una crescita basata sulla conoscenza come fattore di ricchezza; il maggiore coinvolgimento dei cittadini in una società partecipativa, un’economia competitiva, intercon‐ nessa e più verde.

Numero 009, p. 8 del 15/1/2010.


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Saranno queste le priorità che guideranno i processi deci‐ sionali dell’Unione europea tanto sul piano interno che su quel‐ lo esterno. La promozione della cooperazione internazionale, della governance multilaterale e di sistemi finanziari e com‐ merciali, efficienti, equi e regolamentati, saranno peraltro parte integrante della strategia UE 2020. Ci troveremo dunque impe‐ gnati nei prossimi mesi ad affrontare la riforma del bilancio eu‐ ropeo, a cercare nuovi strumenti di finanziamento dei pro‐ grammi per la crescita e la coesione, e soprattutto a individuare nuove modalità per vincolare gli Stati membri al rispetto degli obiettivi della nuova strategia, cosa che non fu fatta nel caso della Strategia di Lisbona, il che ne causò la sconfitta. Si tratta di sfide che hanno bisogno di uomini e donne co‐ raggiosi e ambiziosi. Qualità queste che non paiono caratteriz‐ zare alcuni dei candidati alla poltrona di commissario. Male il responsabile alla fiscalità, Algirdas Sameta, così come forti dubbi ci sono per la bulgara Rumiana Jeleva designata in seno alla Commissione europea alla cooperazione internazionale. Qualche insicurezza è stata dimostrata anche dalla baronessa Catherine Margaret Ashton, Alto Rappresentante per la politi‐ ca estera, su questioni centrali come la strategia da tenere sul‐ l’Afghanistan o il seggio unico dell’Unione presso le Nazioni Unite. Dal finlandese Olli Rehn, proposto per gli affari econo‐ mici e monetari, non è venuto praticamente alcun impegno se si esclude la positiva apertura a riflettere sull’introduzione de‐ gli EuroBond. Bene invece la prova del futuro responsabile alla concorrenza, il navigato Joaquin Almunia, ben consapevole della portata del suo portafoglio, decisivo per la buona riuscita della nuova strategia Europa 2020.


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Il prossimo 26 gennaio il Parlamento, dopo aver ascoltato tutti i candidati a commissario, si esprimerà accettando o re‐ spingendo in blocco la nuova Commissione europea. Non bi‐ sogna quindi meravigliarsi se da qui al 26 Barroso rifletterà su eventuali cambi di alcuni portafogli per evitare clamorose bocciature.


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Il fallimento di Copenhagen non diventi un alibi

Aveva visto giusto il presidente brasiliano Lula nell’affermare, poco prima della conclusione del vertice di Copenaghen, che il traguardo di un accordo vincolante poteva essere raggiunto solo se i Paesi si fossero assunti la responsabilità di rispettare i propri obiettivi e le nazioni ricche avessero realmente l’inten‐ zione di aiutare quelle povere a dotarsi di fonti energetiche pu‐ lite. Così non è stato e il vertice si è concluso con un nulla di fatto o quasi. Pagheremo certamente delle conseguenze per aver deciso di spostare nel tempo il rispetto di impegni vinco‐ lanti facendo finta di dimenticare che intanto la situazione del clima peggiora e ci ritroveremo al prossimo vertice con uno scenario ancora più critico. Copenhagen avrebbe dovuto rappresentare l’appuntamen‐ to per la ricerca di un accordo globale, a dieci anni dalla firma del Protocollo di Kyoto, capace anche di ridisegnare le relazio‐ ni tra i Paesi condizionandole a concetti come quello di giusti‐ zia sociale. Non dimentichiamoci, infatti, che i Paesi poveri sof‐ frono più di tutti gli altri delle conseguenze del cambiamento Numero 252, p. 8 del 23/12/2009.


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climatico. Alla fine dei conti il summit mondiale da una parte ha dimostrato, se ancora ce ne fosse bisogno, che l’interdipen‐ denza di tutti i Paesi richiede una governance globale, e dall’altro ha chiarito che se Stati Uniti e Cina non decidono di metterci la faccia allora non si va da nessuna parte. L’Ue adesso non può che continuare il percorso per rag‐ giungere gli obiettivi prefissati, cioè ridurre del 20% le emis‐ sioni inquinanti entro il 2020, e aumentare al 20% il contribu‐ to delle energie rinnovabili nell’atmosfera. Rispetto a tali o‐ biettivi si apre adesso una fase delicata perché si aggiunge una nuova variabile cui fare attenzione. Non dobbiamo lasciare spazio a coloro i quali, visto il flop di Copenaghen, sosterranno che senza l’impegno dei grandi Paesi, quello dell’Europa risul‐ terebbe inutile e oneroso in termini di competitività economi‐ ca. Una tesi pericolosa che va smentita con una politica propo‐ sitiva che sappia mettere l’accento sulle opportunità legate alla green economy. La svolta ambientale tanto attesa va legata in‐ fatti anche e soprattutto al mercato. Bisogna rafforzare l’idea che solo a una politica consapevole dei pericoli che corre l’ambiente e la società sono legati lo sviluppo dell’economia, la possibilità di creare nuovo lavoro, nuove imprese, insomma il miglioramento della capacità competitiva dei sistemi economi‐ ci. La green economy appunto, come principale misura antici‐ clica cui guardare rispetto alla crisi in atto. Efficienza energetica degli edifici, sostituzione delle auto‐ mobili e degli elettrodomestici più inquinanti; l’aumento del‐ l’energia da fonti rinnovabili, politiche efficienti nel settore del riciclo dei rifiuti sono solamente alcuni aspetti e idee che i go‐ verni europei dovrebbero inserire all’ordine del giorno della propria agenda politica. A vertice chiuso, bisogna ripartire con


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una motivazione ancora maggiore anche perché l’aspetto forse più brillante del summit danese sta nell’enorme mobilitazione della società civile a dimostrazione delle grandi attese riposte dall’opinione pubblica mondiale.


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Tocca di nuovo a Monti rilanciare l’Europa

Il vero obiettivo dell’Europa per i prossimi anni sta nel rilancio del Mercato Unico. Se davvero l’Unione europea vuole superare al meglio le conseguenze della crisi finanziaria ed economica, è necessario adottare un patto strategico fondato sulla conver‐ genza delle economie dell’area e sul completamento dell’inte‐ grazione dei mercati così da proseguire nel percorso di costru‐ zione europea senza perdere pezzi lungo il cammino. La con‐ giuntura economica negativa ha favorito il riemergere dei mai sopiti sentimenti protezionistici e nazionalistici di alcuni go‐ verni. Atteggiamenti da stigmatizzare perché rappresentano di fatto l’antitesi del Mercato Unico, del quale proprio la crisi eco‐ nomica ha invece evidenziato ancora di più la centralità e la ne‐ cessità del suo completamento garantendo al meglio e non come si è fatto finora lo sviluppo della dimensione sociale al pari della dimensione economica. Significa avanzare svilup‐ pando gli aspetti legati ai cittadini. Passi avanti importanti negli ultimi anni se ne sono fatti e sono tangibili. Mi riferisco al costo delle telefonate in Europa che si è ridotto rispetto a dieci anni Numero 248, p. 6 del 17/12/2009.


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fa, mentre le tariffe aeree sono diminuite in modo significativo. Famiglie e imprese sono oggi in grado di scegliere il più conve‐ niente fornitore di energia elettrica e gas. Ma altrettante lacune sono evidenti, come la lentezza con la quale si apre il mercato dei servizi rispetto a quello delle merci e i ritardi nella completa armonizzazione del settore dei servizi finanziari. Non è un caso che il presidente Barroso abbia deciso di affi‐ dare a un’illustre personalità come Mario Monti il difficile compito di sviluppare un piano di rilancio del Mercato Unico. E Monti, che questa settimana è stato ospite del Parlamento eu‐ ropeo a Strasburgo proprio per illustrare il suo prossimo lavo‐ ro, si troverà di fronte un complicato nodo da sciogliere: la frammentazione dei sistemi fiscali che rappresenta il vero fre‐ no al processo di integrazione. Non si tratta di discutere di un’armonizzazione fiscale a livello europeo, che non è certo all’ordine del giorno e che richiederà un ben più lungo percor‐ so di integrazione politica, ma di affrontare il problema di al‐ cune limitazioni alla concorrenza fiscale e di proporre forme di coordinamento in settori chiave. Questo perché la crisi econo‐ mica non deve portare l’Europa a mettere da parte, neppure provvisoriamente, i principi della concorrenza, cosa che nem‐ meno gli Stati Uniti hanno ritenuto di dover fare. Si rischiereb‐ be altrimenti di falsare la parità di trattamento per le imprese che operano sul mercato e di conseguenza di limitare i poten‐ ziali benefici per i cittadini. Lo stesso Monti, in Parlamento, ha parlato dell’obiettivo di proporre uno «scambio» fra limiti alla concorrenza fiscale da una parte e difesa della dimensione so‐ ciale e completamento del Mercato Unico dall’altra. Un obietti‐ vo ambizioso e per questo a Monti vanno i migliori auguri.


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Il programma di Bersani? Riconquistare l’Europa partendo dal Sud L’elezione a segretario del Pd di Pier Luigi Bersani nasce dalla richiesta crescente, tra l’elettorato del Pd e del centrosinistra, di un cambiamento di rotta. Tra le priorità nell’agenda del neo segretario vi è certamente l’elaborazione di un program‐ ma capace di indicare una strategia per uscire dalla crisi eco‐ nomica. Un programma che proponga a tutte le categorie e sogget‐ ti, dai lavoratori ai precari, dagli insegnanti agli studenti, dal‐ le famiglie alle piccole e medie imprese, soluzioni praticabili rispetto a una congiuntura economica che sta piegando so‐ prattutto le regioni del Sud. Sono convinto che con l’elezione di Bersani il legame tra il partito e l’Europa sarà ancora più forte, e proprio al versante europeo bisogna guardare per concordare con gli altri governi un vero e proprio piano di ri‐ lancio per l’occupazione. È necessario rimettere in moto cre‐ scita economica e sviluppo sostenibile in Italia e per farlo sappiamo bene che bisognerà passare attraverso uno stretto dialogo con i nostri colleghi europei, le forze produttive e i Numero 213, p. 7 del 29/10/2009.


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rappresentanti dei sindacati. Crescita economica deve voler dire maggiore spesa pubblica europea per progetti infrastrut‐ turali strategici, facendo ricorso anche all’introduzione degli EuroBond per aumentare le risorse a disposizione. E poi rimane il nodo del Mezzogiorno. La posizione del no‐ stro segretario rispetto a tale punto è pienamente condivi‐ sibile: sono necessarie azioni concrete quali l’introduzione di meccanismi premiali sia per le imprese che per la pubblica amministrazione, come per esempio il credito di imposta per i nuovi investimenti e l’occupazione. Non si può presentare, come fa il governo Berlusconi, la Banca del Sud come la pana‐ cea di tutti i mali fingendo di poter risolvere così una serie di problematiche molto più articolate e complesse. Il Mezzogior‐ no va inserito in un quadro di riflessione e azione molto più ampio. L’Italia può diventare un Paese all’avanguardia nell’utiliz‐ zo delle fonti rinnovabili e per il risparmio energetico e su queste basi si può assegnare al Mezzogiorno una missione di crescita tecnologica e di sviluppo economico. Tutto ciò impli‐ ca il ritorno di efficienti politiche pubbliche per l’innovazione e lo sviluppo sostenibile. Infine, Bersani dovrà affrontare una questione altrettanto importante quanto la negativa congiuntura economica: vanno difese le istituzioni dal più grande tentativo di stravolgimento populista mai visto dal dopoguerra a oggi. Per far questo ser‐ vono competenza e credibilità, una politica di apertura a nuove intese e alleanze, una nuova legge elettorale che ridia il diritto di scegliere ai cittadini i propri rappresentanti e un grande partito radicato nel territorio, democraticamente par‐ tecipato a ogni livello, un partito di protagonisti.


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Si chiama “Confidi” la vera Banca del Mezzogiorno

È stata presentata come la panacea di tutti i mali del Mezzogior‐ no ma non è così. Rispetto alla Banca del Sud sarà importante vigilare fin d’ora senza pregiudiziali perché il progetto risponda all’esigenza di un credito che rispetti le necessità del territorio. Non abbiamo bisogno dell’ennesimo carrozzone burocratico e se guardiamo al passato non possiamo essere ottimisti, conside‐ rato che troppo spesso interventi simili si sono trasformati in colossali farse, con l’erogazione del credito stabilita sulla base di criteri di selezione politica. Il problema dell’accesso al credito per le imprese meridionali è una questione complessa, che si collega anche ad altre problematiche da affrontare con serietà. Perché abbia un senso, lo strumento Banca del Mezzogior‐ no va inserito in un ampio contesto di riforme, che devono ri‐ guardare anche altri settori strategici dell’economia. Ci sono diversi punti della proposta del governo che an‐ drebbero chiariti, a partire dal reale profilo della banca. Se l’istituto presentato dal ministro dell’Economia, Giulio Tre‐ monti, opererà come una normale azienda di credito, come ci Numero 260, p. 8 del 20/10/2009.


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tiene a precisare quando ricorda che lo Stato avrà il semplice ruolo di socio promotore, allora vuol dire che seguirà le rego‐ le del mercato e che proporrà condizioni non troppo dissimili dagli altri istituti. Se opererà come una normale banca vuol dire che valuterà il merito di accesso al credito nella stessa maniera di un qualsiasi altro istituto. Ragione per la quale un’impresa che non offre le garanzie adeguate per ricevere cre‐ dito, anche con la Banca del Mezzogiorno incontrerebbe pro‐ babilmente le stesse difficoltà nell’ottenerlo. Mi domando se il governo italiano si sia posto davvero il problema del perché le banche offrono meno credito nel Mez‐ zogiorno. O ancora del perché il credito al Sud è più costoso. Alcune delle motivazioni le conosciamo bene: mancanza di un livello di concorrenza adeguato nel settore bancario meridio‐ nale, la presenza della criminalità organizzata, politiche com‐ merciali che portano spesso gli istituti a raccogliere il rispar‐ mio al Sud e a reinvestirlo al Nord. Perché non si vuole in‐ tervenire su questi problemi? Oppure il governo crede dav‐ vero che la Banca del Mezzogiorno, così com’é stata pensata, possa risolvere tali problematiche? Molto più utile sarebbe stato creare un fondo di garanzia che rispondesse alle difficoltà di pagamento delle imprese che han‐ no ricevuto credito e non riescono più a restituirlo alle banche. Un rafforzamento dei Confidi, poco presenti al Sud, avrebbe of‐ ferto importanti chance di migliorare l’accesso al credito per le Pmi. Inoltre, quello che serve al Sud è una banca d’affari protesa a incoraggiare il rischio imprenditoriale anche entrando nel ca‐ pitale delle imprese per un periodo transitorio. Ulteriore nodo da sciogliere riguarda la questione delle ob‐ bligazioni. La Banca del Mezzogiorno, a quanto pare, raccoglie‐


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rà risparmio attraverso l’emissione di speciali titoli per i quali i sottoscrittori pagheranno un’imposta agevolata del 5%, rispet‐ to al 12,5% previsto per tutte le altre obbligazioni. Proprio sui bond si punta molto. A quanto si legge, infatti, nel ddl «Misure per il credito nel Mezzogiorno», le ricadute positive della Ban‐ ca sull’economia meridionale sarebbero legate ai maggiori in‐ vestimenti previsti e stimolati proprio dall’emissione delle ob‐ bligazioni a tassi agevolati. Per essere più precisi, la Banca ten‐ terebbe di incentivare, attraverso l’agevolazione fiscale, il ri‐ sparmiatore a investire in titoli o strumenti finanziari cosid‐ detti «di scopo» dove le risorse raccolte devono necessaria‐ mente essere indirizzate a investimenti di medio‐lungo perio‐ do nel Mezzogiorno. Ma siamo sicuri che una simile misura sia compatibile con le normative europee in materia di concor‐ renza e non si configuri invece come un aiuto di Stato di natura fiscale? Il fatto che l’art.1 del disegno di legge ricordi che «poi‐ ché la materia presenta complessi profili comunitari, si de‐ manda alle necessarie autorizzazioni della Commissione euro‐ pea», non è certo rassicurante.


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Lo scudo fiscale non resti isolato, altrimenti sarà solo un “cadeau”

Che la lotta ai paradisi fiscali sia diventata una priorità dopo le disastrose conseguenze della crisi finanziaria è un dato di fatto, se ne discute attivamente in Europa e se ne è parlato durante gli ultimi vertici del G‐20. Appare altresì incontesta‐ bile l’utilità, considerato il danno apportato ai bilanci nazio‐ nali dalla fuga di capitali, di lavorare a soluzioni che agevoli‐ no il rientro dei patrimoni depositati nei tanti Paesi cosiddet‐ ti «Stati rifugio» caratterizzati da giurisdizioni non cooperati‐ ve in materia fiscale. Nel caso italiano ammontano a 500‐600 miliardi i patrimoni di nostri concittadini detenuti all’estero. È in tale scenario che si cala una misura come lo scudo fiscale, che rappresenta indubbiamente uno strumento interessante per recuperare risorse da reimmettere nelle attività economi‐ che, soprattutto in un periodo di crisi come quello che vive l’economia internazionale. Il problema è che lo scudo fiscale, così come pensato e proposto dal governo italiano, non appa‐ re in linea con gli obiettivi europei e con le finalità condivise con gli altri paesi occidentali e rischia di ricevere un stop dal‐ Numero 196, p. 23 del 6/10/2009.


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la Commissione europea che, a quanto pare, ha ufficialmente chiesto dettagli in merito alle modifiche apportate all’ultimo minuto al provvedimento. Due gli aspetti che lasciano perplessi: la compatibilità dello scudo proposto da Giulio Tremonti con gli accordi internazio‐ nali in materia di antiriciclaggio e antiterrorismo e l’efficacia pratica del provvedimento stesso. È difficile immaginare il se‐ maforo verde di Bruxelles per una norma che esclude la puni‐ bilità per tutti i reati fiscali e societari commessi al fine di eva‐ dere le tasse e trasferire denaro all’estero, che prevede il man‐ tenimento dell’anonimato per i soggetti interessati e che e‐ sclude gli obblighi in materia di antiriciclaggio. Lo scudo fiscale italiano, infatti, nella sua originalità prevede che gli interme‐ diari finanziari, qualora sospettino che dietro il rientro di de‐ terminati capitali vi sia l’ombra di attività illecite, non siano più obbligati ad alcuna segnalazione alle autorità competenti. Una scelta grave e discutibile quella di alzare bandiera bianca ri‐ spetto alla lotta al riciclaggio. Decisione che rischia di andare a vantaggio delle grandi organizzazioni malavitose. Rispetto al secondo punto, lo scudo fiscale appare un’arma caricata a salve se non è concordato con altri Paesi. E la sua efficacia rischia di essere vanificata da semplici azioni di tri‐ angolazione finanziaria, facilitate delle palesi differenze tra la nostra norma e quella applicata in altri Paesi come la Francia. Pur riconoscendo le oggettive difficoltà nel ricercare un’ar‐ monizzazione tra gli Stati europei su un provvedimento del genere, bisogna altresì riconoscere che una misura isolata si trasformerebbe in una semplice sanatoria, per di più destina‐ ta ai soli ricchi, che non apporterebbe benefici all’economia reale vanificando così un obiettivo prezioso. A tale proposito


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va ricordato che lo scudo fiscale italiano non comporta, come appunto in Francia, il recupero di tutte le tasse evase ma solo di una piccola percentuale.


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La Vigilanza Ue nascerà, ma quanti ostacoli

Riusciranno le ambiziose proposte dalla Commissione euro‐ pea, in materia di sorveglianza dei mercati finanziari, a rap‐ presentare il trampolino di lancio per la creazione di un’auto‐ rità di vigilanza unica europea? Il cammino nasconde ancora molti ostacoli e il risultato non appare così scontato. Ci sono però alcuni dati politici già acquisiti. La Commissione europea, proponendo l’istituzione di un «comitato europeo per il rischio sistemico» e di tre autorità di sorveglianza dotate di poteri costrittivi competenti per il settore dei valori mobiliari, bancario e assicurativo, ha ripre‐ so e fatto proprie le conclusioni e le indicazioni del gruppo Larosière, lanciando un messaggio importante: sono necessa‐ rie regole vere. Non c’é più spazio per le politiche di autore‐ golamentazione dei mercati finanziari che hanno dimostrato tutta la loro inefficacia. Non è un caso che la proposta di una nuova architettura fi‐ nanziaria sia stata lanciata in concomitanza con il G20 di Pit‐ tsburgh. L’Europa cerca, e giustamente, di fare da pioniere a Numero 189, p. 6 del 25/9/2009.


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livello mondiale in un settore, la sorveglianza dei mercati, do‐ ve realisticamente possiamo proporci come apripista e detta‐ re le nuove regole. Non a caso siamo stati noi in Europa a di‐ sciplinare per primi le agenzie di rating, indicando la strada da seguire agli Usa. Ma tra i segnali da cogliere ce ne sono anche di meno posi‐ tivi, come la presenza nella proposta della Commissione di una clausola di salvaguardia, fortemente voluta dal Regno U‐ nito, che indebolisce la capacità d’intervento delle autorità europee a vantaggio di quelle nazionali. Considerate tali posizioni e l’eventualità che le decisioni prese al G20 di Pittsburgh indeboliscano le ambizioni europee, bisogna tenere gli occhi aperti rispetto a quello che accadrà nei prossimi mesi. Si apre, infatti, una difficile fase che vedrà come protagonisti le istituzioni europee, superata la quale si potrà realmente comprendere se si stanno o meno ponendo le basi per la nascita di un’autorità di sorveglianza unica. Occorrerà vigilare perché durante il dibattito parlamentare e nei negozia‐ ti con il Consiglio, che caratterizzeranno il prossimo anno di lavori, non prevalgano le istanze di coloro che continuano a opporsi al necessario processo di integrazione, tentando di la‐ sciare competenze e poteri di vigilanza alle autorità nazionali. Penso appunto alla posizione del Regno Unito, ma anche di Romania, Slovenia e Slovacchia che guardano con estremo scetticismo al percorso in atto e cercheranno in tutte le manie‐ re di trovare altri governi da alleare in questa loro battaglia conservatrice. Opinioni e posizioni differenti che faranno pro‐ babilmente da freno anche al raggiungimento di altri obiettivi: regole chiare per i fondi speculativi, norme rigide sui superbo‐ nus dei banchieri e lotta ai paradisi fiscali.


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Bruxelles troppo tenera con gli Hedge Funds

Ci risiamo, il Parlamento europeo si prepara a discutere di Hedge Funds e private equity a un anno esatto di distanza dal‐ la prima discussione sul tema in occasione di un rapporto di iniziativa del gruppo socialista nel quale chiedemmo con forza di regolare un settore completamente privo di norme. Un anno fa le nostre richieste si concentrarono su quattro aspetti: im‐ porre delle garanzie patrimoniali ai fondi alternativi di inve‐ stimento, migliorare la trasparenza creando un quadro comu‐ nitario per la registrazione delle società di gestione dei fondi e per i veicoli di investimento, impedire indebitamenti eccessivi, controllare i conflitti di interesse tra i differenti attori. La Commissione Barroso soltanto dopo sei mesi dalla richie‐ sta del Parlamento, e nel pieno di una crisi finanziaria che legit‐ timava le nostre richieste, presentò la proposta di direttiva che è attualmente all’attenzione dell’assemblea parlamentare. Me‐ glio tardi che mai. Il problema è però un altro, il testo presenta‐ to dal commissario Charles McCreevy è totalmente insufficiente e fa acqua da tutte le parti. Innanzitutto la direttiva prevede Numero 184, p. 7 del 18/9/2009.


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una soglia di esenzione 100 milioni di euro al di sotto della quale i fondi non devono rispondere ad alcuna legislazione. In secondo luogo, l’obbligo di registrazione riguarda sola‐ mente chi gestisce i fondi e non i fondi stessi che continuano a rimanere nell’ombra. Resta per l’industria l’interesse a deloca‐ lizzare i fondi in centri “offshore”, approfittando dei vantaggi fiscali e potendo contare sul fatto che tali fondi saranno trattati alla stessa stregua dei fondi europei, con un evidente problema di protezione e garanzia degli investitori. Infine, nella proposta della Commissione non è previsto alcun tetto massimo per l’indebitamento. Sta adesso al Parlamento tentare di riequili‐ brare un testo scialbo che non interviene sui veri aspetti che pregiudicano la stabilità del sistema finanziario e le garanzie degli investitori. E parallelamente un nodo da sciogliere sarà quello della vigilanza. Bisognerà poter contare su autorità in‐ caricate della supervisione, messe in condizione di coordinarsi realmente tra loro e di avere tutte le informazioni necessarie per scorgere con il giusto anticipo eventuali «falle» nel settore prima che, come è accaduto con questa crisi, l’«infezione» si allarghi. Un obiettivo può essere raggiunto puntando il piede sull’acceleratore nella definizione delle regole di vigilanza in maniera che emerga un’autorità europea dotata di una compe‐ tenza sull’insieme del sistema e di poteri sanzionatori. Ne va della stabilità e della generale credibilità dei mercati finanziari fare in modo che l’evoluzione del settore degli Hedge Funds, e in generale di tutti i fondi alternativi, passi per una regolamen‐ tazione e una supervisione adeguata. Il risultato sarebbe una maggiore efficacia del mercato dei capitali nel garantire capacità di investimento e una reale tra‐ sparenza a vantaggio soprattutto degli investitori.


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I miei dubbi sulla bontà di quei miliardi per il Sud

Il teatrino dei pupi messo in scena in relazione alla vicenda della sparizione dei fondi per il Mezzogiorno si è concluso, co‐ me previsto, in quasi farsa, con una riunione del Cipe convoca‐ ta in fretta e furia per alimentare la solita «ammuina» media‐ tica intorno ai conti dello Stato e questa volta anche europei. Sotto la pressione dell’improvvisa reminescenza dei maggio‐ renti siciliani del Pdl, che hanno usato la distrazione dei fondi Fas, destinati per legge al Sud, come una clava contro Silvio Berlusconi evidentemente per ottenere nuove poltrone nelle redivive Cassa del Mezzogiorno e Banca del Sud, Palazzo Chigi e il ministero dell’Economia hanno ritirato fuori dalle stalle le vacche di Amintore Fanfani e dai garage i carri armati di Beni‐ to Mussolini. Il Cipe ha così ripartito per la terza volta gli stes‐ si soldi per la Sicilia rimasti bloccati nelle esauste casse dei Fas, dopo la falcidia operata dal governo dal 2008 a oggi. Pari destino mediatico si annuncia per le altre regioni. La vicenda, anche solo per chi si è collegato al sito del mini‐ stero dell’Economia senza scomodare la Gazzetta Ufficiale, è Numero 151, p. 6 del 4/8/2009.


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nota. Il Qsn, documento di programmazione per i fondi strut‐ turali 2007‐2013, licenziato dall’allora ministro Pierluigi Ber‐ sani, prevede 120 miliardi di euro per progetti da realizzare nelle aree svantaggiate del paese: l’85% al Sud e il 15% al Nord, come buon senso e analisi economica impongono. Di questi, 64 vengono finanziati dallo Stato italiano e il resto dall’Europa. Per la prima volta, questa è stata la logica seguita dal ministro di Prodi, fondi nazionali venivano programmati insieme a quelli europei per lo stesso periodo e intorno agli stessi obiettivi, per creare la massima sinergia, trasparenza e complementarità. Nel corso del 2008 però il governo Berlusconi ha comin‐ ciato a usare i Fas come un bancomat per finanziare le esi‐ genze di spesa corrente, dall’abolizione dell’Ici sulla prima casa di lusso alle multe sulle quote latte pagate al posto de‐ gli allevatori, dall’organizzazione del G8 agli ammortizzatori sociali dall’edilizia carceraria al termovalorizzatore di Acerra, e chi più ne ha più ne metta. L’intera programmazione dei fondi strutturali europei di conseguenza si blocca, per la necessità tecnica di ridetermina‐ re i progetti cofinanziati. Il tutto viene fatto nel completo si‐ lenzio e all’oscuro dell’opinione pubblica, nonostante l’Unione europea preveda per questo la massima pubblicità e traspa‐ renza. Gli unici due mezzi di comunicazione istituzionale finora esistenti e voluti da Bruxelles non sono più disponibili. Il gior‐ nale del dipartimento dei fondi strutturali del Ministero dello Sviluppo economico non esce dall’anno scorso e la pubblica‐ zione sul sito dell’Igrue dello stato di avanzamento dei progetti finanziati, un tempo accessibile liberamente e a cadenza trime‐ strale, è protetto da una password. Evidentemente perché non c’è più nulla da raccontare.


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Arriviamo così alla delibera del Cipe del 6 marzo, pubblica‐ ta sulla Gazzetta Ufficiale solo il 18 giugno scorso, in cui si met‐ te nero su bianco quel che già si è nel frattempo deliberato: nelle casse Fas sarebbero rimasti circa 45 miliardi, ma 18 sono stati già ripartiti tra i vari ministeri per le note spese correnti e ordinarie. Per gli interventi di sviluppo nelle regioni ne riman‐ gono 27 di cui, appunto, 4 per la Sicilia. Guarda caso gli stessi che Berlusconi e Tremonti annunciano in conferenza stampa come se fossero nuovi. In realtà sul piatto della bilancia della finanza aggiuntiva per il Sud mancano all’appello ormai più di 35 miliardi e quanto rimane non ha copertura di cassa prima del 2010, a 4 anni dall’inizio della programmazione. Se questo è il «Piano Marshall» per il Sud vagheggiato da Tremonti c’è da augurar‐ si al più presto un nuovo sbarco alleato.


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Il G-20 di Londra decida sui paradisi fiscali

Affrontare il problema dei paradisi fiscali, dove transita più di metà dei flussi finanziari mondiali, compresi i proventi delle attività illecite della criminalità organizzata, rappresenta la priorità dell’Ue in ambito finanziario. Dopo questa crisi è diffi‐ cile immaginare di poter garantire la stabilità a lungo termine dei mercati mondiali senza la chiusura dei centri finanziari “off‐ shore”. Per questa ragione la richiesta rivolta dal Parlamento europeo, in occasione del voto sul Piano di rilancio economico, ai governi di accordarsi sulle sanzioni da prevedere contro le cosiddette giurisdizioni non cooperative ha un importante va‐ lore politico. Un pronunciamento che invita la Ue a prendere posizione su un tema delicato che sarà al centro del dibattito al vertice del G20 di Londra. È necessario che l’Unione europea dia l’esempio e faccia pressione sugli altri Paesi perché si im‐ pegnino nella medesima direzione per far sì che dal summit di Londra parta una condanna chiara contro i tradizionali rifugi fiscali internazionali che ospitano due terzi degli Hedge Funds corresponsabili di una parte sostanziale dei debiti. Numero 057, p. 30 del 21/3/2009.


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Una svolta che permetterebbe di riportare alla luce capita‐ li sommersi per circa 4 mila miliardi di euro, oltre che a dare una risposta ai contribuenti onesti e al disagio dei numerosi cittadini storditi e fiaccati da una tempesta economica che non cessa e in attesa di una risposta forte e coraggiosa del‐ l’Europa. Mancare a quest’appuntamento significherebbe dis‐ solvere le prospettive di tanti, alimentando la sfiducia. In tan‐ ti guardano con grandi aspettative a Obama, che ha fatto della lotta ai paradisi fiscali uno dei temi principali della sua cam‐ pagna presidenziale, ma su questo elemento c’è da sottoline‐ are un punto importante. L’Europa per certi aspetti è stata anticipatrice della necessità di avere mercati regolati e quin‐ di, da questo punto di vista, può fare da apripista svolgendo un ruolo di primo piano nella creazione di un nuovo quadro normativo finanziario internazionale, adoperandosi in tal senso non solo in occasione del G20 ma anche in seno al Fo‐ rum per la Stabilità Finanziaria FSF e al Fondo Monetario Internazionale FMI . Un’occasione da non mancare perché la situazione economica è peggiorata negli ultimi mesi, segno che la recessione che attraversiamo è profonda e a quanto pare si faranno ancora attendere gli effetti delle misure di bi‐ lancio volte a rilanciare l’economia. Questo perché le risorse messe in campo dall’Ue andrebbero aumentate drasticamen‐ te, come ha ricordato in questi giorni anche il premio Nobel per l’Economia 2008, l’americano Paul Krugman, che ha giu‐ dicato il Piano di rilancio economico europeo «deludente e insufficiente». Difficile dargli torto.


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Kroes ascolti Fiat, niente favoritismi

In una fase economica recessiva come quella che sta vivendo l’Europa, non sorprende registrare che i consumi rivolti ai co‐ siddetti beni durevoli segnino un trend profondamente nega‐ tivo. Questo spiega, in parte, perché le case automobilistiche europee siano di fronte a una delle più gravi crisi degli ultimi anni. Da una parte ci sono i colossi europei e mondiali dell’auto basti pensare al dramma che vive GM che con licenziamenti, ristrutturazioni e sospensione delle attività affrontano la tem‐ pesta della crisi, dall’altra c’è un’Unione europea impegnata ad accordarsi sulle misure di sostegno al settore. È necessario che tali interventi permettano non solo di dare una risposta nel‐ l’immediato, ma creino le basi per un settore industriale più moderno e competitivo per il futuro. Un grande impegno in questo momento è richiesto alla commissaria europea alla concorrenza, l’olandese Neelie Kroes, perché vigili sui piani di aiuto all’industria automobilistica predisposti dai governi na‐ zionali. Il pericolo è che si favoriscano distorsioni della concor‐ renza minando così il funzionamento del mercato interno. Va Numero 047, p. 19 del 7/3/2009.


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assolutamente condannato ogni riflesso protezionista naziona‐ le. Anche perché l’industria automobilistica è europea e ormai nessuna impresa produce in un singolo Paese ma ha legami strutturali quasi sempre in più Paesi europei. Per questo moti‐ vo è necessaria un’azione coordinata a favore del settore, simi‐ le a quello che sta avvenendo negli Stati Uniti, dove sono stati messi a disposizione dell’industria auto circa 17 miliardi. Se vogliamo che l’intervento europeo sia utile, questo deve pun‐ tare a obiettivi chiari: favorire l’accesso dell’industria automo‐ bilistica ai finanziamenti, incentivare un investimento conti‐ nuo nelle tecnologie innovative e pulite, garantire il manteni‐ mento di una manodopera qualificata, spingere le case produt‐ trici a rinnovare il parco auto, ma soprattutto definire strategie miranti ad agevolare la ristrutturazione del settore in un modo socialmente responsabile. Vanno garantiti i numerosissimi la‐ voratori che stanno rischiando di perdere il proprio posto o già lo hanno perduto. In merito bisognerebbe ricordare al governo italiano che la priorità deve essere la salvaguardia di questi ul‐ timi, assicurando un ampio sistema di ammortizzatori sociali anche grazie l’utilizzo del fondo europeo di aggiustamento alla globalizzazione. Queste crisi industriali sono quasi tutte di‐ pendenti da fattori esterni e quindi rientrano perfettamente nella missione di tale fondo, che tuttavia rimane gravemente sottoutilizzato.


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L’Europa cerca un nuovo supervisore. Emergenza credito

Anche Charlie McCreevy, il commissario europeo per gli affari finanziari, noto per le sue posizioni ultraliberiste, può cam‐ biare idea. La sua sembra anzi essere una vera inversione a U rispetto alla tradizionale linea di marcia. È notizia recente che la Commissione europea ha deciso che i mercati finanziari vanno regolati una volta per tutte. L’attenzione è puntata sul settore degli Hedge Funds e del private equity, oltre che sulla definizione degli accordi politici su dossier delicatissimi: la direttiva Solvibilità II per il settore assicurativo, il regolamen‐ to sulle agenzie di rating e la chiusura della revisione della direttiva Basilea 2 sulle esigenze in materia di capitale. Ri‐ spetto a tale scenario di riforma emergono due brevi consi‐ derazioni. La prima è politica: è una buona notizia che ci sia finalmente un’intesa sul fatto che l’autoregolamentazione del‐ l’industria finanziaria si sia dimostrata una strada fallimenta‐ re e quindi da abbandonare. Questo chiarimento permette di passare allo step successivo, ovvero discutere sul contenuto delle regole da definire e non più se prevedere regole o meno. Numero 037, p. 11 del 21/2/2009.


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La seconda considerazione è sul contenuto. Rispetto ai diffe‐ renti dossier che sono e saranno sotto la lente d’ingran‐ dimento di Commissione europea, Consiglio e Parlamento, c’è un tema trasversale che rappresenta la chiave di volta rispet‐ to alla generale questione della stabilità finanziaria: a quale soggetto affidare la supervisione? Definite le nuove regole per gli attori del mercato, chi controllerà l’operato di tali sog‐ getti? Non va dimenticato un dato sensibile: il «virus» della crisi finanziaria che ha turbato i mercati mondiali si è svilup‐ pato soprattutto in settori dell’industria bancaria regolamen‐ tati. Dunque la fiducia in chi aveva il compito di controllare è scaduta. Jean‐Claude Trichet, presidente della Bce, di recente si è detto interessato alla possibilità di demandare all’istituto di Francoforte il compito di sorvegliare l’applicazione delle norme sui mercati finanziari e su tale opzione si è aperto un ampio dibattito politico che vede impegnate le istituzioni eu‐ ropee. Dovremo adesso vigilare attentamente perché l’eufo‐ ria riformatrice non venga strumentalmente messa da parte una volta superato il Consiglio europeo di primavera, quando il PE e la Commissione dovranno essere rinnovati. Un rischio da non sottovalutare se non si vuol mandare all’aria la possi‐ bilità di una reale revisione delle regole.


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La competitività passa anche per il bond comunitario

L’azione comunitaria di sostegno agli investimenti nei settori strategici per il rilancio dell’economia europea appare debo‐ le. Il Parlamento europeo partecipa attivamente al dibattito su come far ripartire la crescita e sta lavorando a una relazio‐ ne legata appunto alle politiche da mettere in campo per con‐ trastare la recessione. Lo scorso dicembre insieme a tre col‐ leghi europarlamentari, il vicepresidente del Parlamento eu‐ ropeo Mario Mauro, la presidente della commissione econo‐ mica Pervenche Beres e il presidente della delegazione olan‐ dese nel gruppo socialista Ieke Van Den Burg, abbiamo voluto allargare il dibattito a un pubblico più ampio indirizzando una lettera aperta al «Financial Times». Nella lettera eviden‐ ziamo la necessità per l’UE di prendere in considerazione l’i‐ potesi di utilizzare lo strumento degli EuroBond per finanzia‐ re la crescita. Qui di seguito riporto un estratto della lettera firmata insieme ai miei colleghi eurodeputati. «Le drammati‐ che conseguenze della tempesta finanziaria internazionale sull’economia reale sono innegabili. L’Ue ha affrontato la crisi Numero 025, p. 7 del 5/2/2009.


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cercando di adottare una strategia comune, non sempre otte‐ nendo buoni risultati. Adesso l’Europa è confrontata alla re‐ cessione economica. Il rallentamento della crescita, culmina‐ to nella recessione, ha bloccato il finanziamento della Strate‐ gia di Lisbona con gravi conseguenze sullo sviluppo di settori strategici come le reti trans‐europee di trasporto, le energie alternative e le nuove tecnologie. I cittadini attendono che l’Europa superi queste difficoltà, ma le risorse allocate al bi‐ lancio comunitario appaiono troppo limitate per ridare slan‐ cio all’economia. Come rilanciare allora la competitività e l’economia in Europa se mancano le risorse necessarie? Rite‐ niamo fortemente necessario considerare la possibilità di in‐ trodurre gli «EuroBond» come fonte di finanziamento addi‐ zionale al bilancio comunitario al fine di sostenere progetti europei di rilevanza strategica. Uno strumento del genere a‐ vrebbe un incontestabile vantaggio: rispetto alle altre fonti di finanziamento del bilancio comunitario es. Iva, Pnl , non di‐ pende dai trasferimenti nazionali. La Banca Europea degli In‐ vestimenti Bei sarebbe l’istituzione responsabile dell’emis‐ sione degli strumenti di debito, gli «EuroBond», garantiti dal bilancio comunitario e da quello degli Stati membri. Un mec‐ canismo che andrebbe affidato alla supervisione della Banca Centrale europea Bce . Un processo del genere garantirebbe una «condivisione» nell’emissione del debito. L’insicurezza riguardo alle attuali misure nazionali di supporto al settore bancario e il conseguente deterioramento dei bilanci nazio‐ nali, spaventano gli investitori. Lo strumento degli «Euro‐ Bond» mitigherebbe i rischi di volatilità e maggiori capitali internazionali sarebbero attratti in Europa. Dopo 10 anni di Unione Economica e Monetaria è tempo di chiederci come


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dare alla nostra moneta comune la possibilità di diventare un potente strumento per sostenere la crescita, l’occupazione e la battaglia contro il cambiamento climatico».


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Verso un modello di Hedge Funds senza più superdebito

Finalmente sembra muoversi qualcosa, a livello europeo, sul versante della regolamentazione degli Hedge Funds. Il primo segnale in tal senso è rappresentato dalla consultazione pub‐ blica, promossa dalla Commissione europea, sui rischi per la stabilità finanziaria rappresentati dai fondi speculativi. Si trat‐ ta di una consultazione che si chiuderà entro fine gennaio e che si spera possa rappresentare un utile contributo al dibatti‐ to europeo e internazionale in vista della prossima riunione del G‐20 dove la questione, se regolamentare o meno gli Hedge Funds, sarà all’ordine del giorno dei lavori. Come si può conti‐ nuare a pensare che l’attuale regolamentazione indiretta – se‐ condo la quale sono gli attori che investono negli Hedge Funds a essere controllati e cosi indirettamente anche gli Hedge Funds – rappresenti un modello efficace? Un elemento è sotto gli occhi di tutti: questo tipo di schema non è in grado di pro‐ teggere il settore bancario dai rischi di fallimento dei fondi speculativi e quindi di garantire la stabilità finanziaria. Eppure la reticenza del commissario europeo McCreevy nel legiferare Numero 017, p. 17 del 24/1/2009.


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in materia è ben conosciuta. Incurante anche del fatto che il Parlamento europeo, attraverso una relazione approvata a lar‐ ga maggioranza lo scorso settembre grazie all’ottimo lavoro del relatore Poul Nyrup Rasmussen Presidente del Partito so‐ cialista europeo , abbia chiesto con forza alla Commissione di regolare il settore. Il caso della mega‐truffa Madoff, l’ultima beffa, in ordine di tempo, per numerosi investitori, ha probabilmente aperto gli occhi anche al nostro Commissario europeo che ha promesso la presentazione di una proposta da parte dell’esecutivo en‐ tro il prossimo giugno. Una scadenza che va assolutamente ri‐ spettata e alla quale bisogna arrivare con una proposta seria e non con semplici indicazioni o linee guida per un settore dal quale difficilmente ci si può attendere una responsabile auto‐ regolamentazione. Il mercato finanziario europeo ha bisogno di regole per gli Hedge Funds capaci di garantire modifiche concrete. Mi riferisco soprattutto alla necessità di creare un sistema dove esista trasparenza rispetto ai livelli di espo‐ sizione di debito e rischio, l’origine e l’ammontare dei fondi raccolti e l’identificazione degli azionisti per tutti i progetti di investimento. È altresì urgente l’adozione di misure per evi‐ tare un eccessivo indebitamento causato da acquisizioni spe‐ culative, in modo tale che il livello di esposizione debito/ ri‐ schio sia sostenibile sia per fondi e imprese di private equity che per le compagnie acquisite.


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L’Europa ora riparta dal vecchio ma buono Piano Delors

Per la prima volta l’Europa si trova confrontata a una seria crisi recessiva. Il recente Consiglio europeo ha dato il semafo‐ ro verde per il Piano di rilancio europeo proposto dalla Com‐ missione Barroso. La BCE è intervenuta recentemente ta‐ gliando il costo del denaro, gli Stati nazionali si apprestano a mettere in pratica le ricette decise a Bruxelles per ridare fiato all’economia. Sarà sufficiente il Piano di rilancio da 200 mi‐ liardi per ripartire gli investimenti? L’intervento monetario della BCE basterà a ridare ossigeno alle numerose imprese in difficoltà nel reperire credito e ad alleviare la situazione per quelle famiglie indebitate che hanno visto lievitare nell’ulti‐ mo anno il proprio tasso di mutuo? I dubbi a riguardo sono numerosi perché queste strategie di intervento appaiono squilibrate se non si garantiscono pa‐ rallelamente e con urgenza misure di sostegno di natura fi‐ scale alle pensioni e ai redditi. È così che si combatte con maggiore credibilità la stretta creditizia che soffoca le impre‐ se e che si allontanano i fantasmi di una grave crisi occupa‐ Numero 002, p. 16 del 3/1/2009.


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zionale che può caratterizzare l’Europa in un tale scenario macroeconomico. Insomma la necessità è quella di orientarsi verso politiche anticicliche. La via per rilanciare la competiti‐ vità dell’Europa sul piano mondiale è quella di aumentare la spesa pubblica. Eppure nonostante la consapevolezza che le risorse europee sono insufficienti dei circa 200 miliardi di euro previsti da Piano di rilancio appena approvato solamen‐ te 30 provengono dal bilancio comunitario non si fa nulla per dotare l’Europa dei mezzi adatti. È proprio in un tale mo‐ mento di difficoltà congiunturale che l’Europa ha l’oppor‐ tunità di aprire una nuova stagione politica. Ma ci vuole co‐ raggio e ambizione. È il momento di dotare l’Unione di una reale autonomia finanziaria e lo ha ricordato dalla colonne del quotidiano francese «Le Monde», con l’autorevolezza che lo contraddistingue, Jaques Delors. Il già Presidente della Commissione europea ha ripreso il contenuto, ancora attuale, del Libro Bianco del 1993 «Crescita, competitività e occupa‐ zione» dove si faceva riferimento alla necessità di far ricorso alle obbligazioni europee per il rilancio economico. Eppure sull’utilizzo degli EuroBond per finanziarie le grandi opere infrastrutturali europee, e le politiche strategiche legate alle nuove tecnologie e alle energie alternative, continua a pesare la mancanza di ambizione di illustri personaggi della politica europea. Su tutti il Presidente Barroso. Ma penso anche alle ultime parole espresse a riguardo dal signor Trichet, presi‐ dente dell’Eurogruppo, che si è detto contrario alle emissioni di obbligazioni europee. Una contrarietà che probabilmente non prende in considerazione il fatto che i cittadini europei stanno pagando per la crisi finanziaria e per il sostegno pub‐


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blico alle banche e nonostante ciò non ci si decide ancora a recuperare risorse dal mercato attraverso gli EuroBond per una nuova stagione di investimenti pubblici.


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Alla Ue manca ancora l’autonomia finanziaria

Le difficoltà che sta incontrando l’Europa nel recuperare risor‐ se sufficienti per un concreto rilancio economico, in risposta ai venti di recessione, sono sotto gli occhi di tutti. La crisi econo‐ mica mondiale ha fatto ri emergere un problema alquanto delicato: la mancanza di reale autonomia finanziaria della Ue. Il crollo dei mercati finanziari e gli inevitabili interventi a sal‐ vataggio del settore hanno accentuato la consapevolezza del fatto che il bilancio comunitario non possiede reali poteri sta‐ bilizzatori. E la prova sta nel fatto che il piano di rilancio eco‐ nomico, presentato recentemente dal presidente della Com‐ missione europea Barroso, prevede l’impegno di ben 200 mi‐ liardi di cui, però, solamente 30 provengono dal bilancio Ue. Sorprende, allora, il contrasto tra la consapevolezza di tale pro‐ blematica e l’immobilismo politico che ne consegue. Procediamo per gradi. Il bilancio comunitario ha un costo per gli Stati membri. Ma, a ben guardare, l’Europa non costa poi così tanto. Il bilancio 2007 ammonta a 126,5 miliardi di euro, meno dell’1% della ricchezza comunitaria prodotta in Numero 253, p. 23 del 20/12/2008.


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un anno! Una cifra tanto più irrisoria se paragonata alle spese pubbliche nazionali che, nella maggior parte dei paesi mem‐ bri, assorbono circa il 50% del PIL. È ovvio quindi che la Ue si ritrovi con un bilancio che non ha alcun potere stabilizzatore in caso di shock economici. Perché allora non è aumentata la volontà dei governi di risolvere il problema? E perché Bar‐ roso non punta il piede sull’acceleratore rispetto a una rifor‐ ma, quella delle risorse proprie europee, decisa dal Consiglio europeo di Bruxelles già nel 2005? Così facendo si rischia di uscire dal cosiddetto periodo di revisione di metà periodo in riferimento alla programmazione finanziaria settennale 2007‐ 2013 senza aver ricavato alcuna conclusione politica concre‐ ta e quindi senza che la Commissione europea produca un te‐ sto di riforma del settore. Una delle ragioni che concorrono a spiegare l’attuale stallo politico è da ricercare nel metodo utilizzato di volta in volta per decidere sulle risorse europee. Un sistema di finanzia‐ mento che, per reggere all’urto dei vari negoziati, ha visto moltiplicarsi le eccezioni, le esenzioni, i rimborsi e le piccole regalie, a vantaggio di questo o quello Stato membro, fino a rendere così cristallizzata la situazione da impedire una qual‐ siasi iniziativa politica da parte di qualsiasi governo europeo. Ogni paese ha il proprio scheletro nell’armadio e pur ricono‐ scendo l’inefficienza del sistema si guarda bene dal mettere la questione della riforma sul tappeto. Per questo motivo la Commissione europea pur di non mettere le mani in una si‐ tuazione che rischia di risolversi in un nulla di fatto a causa dei veti incrociati dei governi e di trasformarsi in un boome‐ rang per Barroso soprattutto con l’approssimarsi di una sua eventuale ricandidatura preferisce cercare di volta in volta


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soluzioni tampone. Da qui la rinnovata attenzione dell’esecu‐ tivo nei confronti della Banca europa degli investimenti alla quale si chiede di reperire maggiori risorse sul mercato per finanziarie le opere infrastrutturali. Ma a quando, allora, un vero bilancio comunitario?


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Dove vanno a segno gli interventi pubblici

Per risolvere un problema si rischia di crearne altri, di ben più gravi dimensioni. Se ricapitalizzare le banche europee in difficoltà significa stravolgere gli equilibri di mercato nel set‐ tore bancario, allora va tirato il freno prima che sia troppo tardi. In relazione alla crisi economica mondiale in Europa si sta agendo su tre fronti: 1 normalizzare le condizioni di li‐ quidità sui mercati; 2 porre le basi per nuove regole nell’in‐ dustria dei servizi finanziari; 3 predisporre un piano coordi‐ nato per sostenere l’economia reale in difficoltà. Un percorso complesso rispetto al quale incombono numerosi rischi. Con‐ centrando l’attenzione sul primo punto, sono discutibili alcu‐ ni interventi nazionali già posti in essere Bnp Paribas e Ing dove i governi sembrano aver mascherato azioni finalizzate a sostenere i propri campioni nazionali in interventi di salva‐ taggio, facendo scricchiolare così i proclami di coordinamen‐ to fatti in occasione del vertice europeo di ottobre. Ben venga quindi il documento recentemente adottato dalla Commis‐ sione europea sulle linee guida che i governi dovranno rispet‐ Numero 248, p. 17 del 13/12/2008.


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tare negli interventi di aiuto alle banche. Documento che na‐ sce anche dalla volontà di Bruxelles di evitare che gli aiuti si trasformino in uno strumento di concorrenza sleale e distor‐ siva del mercato interno. La differenziazione che viene fatta nel testo della Commis‐ sione, tra banche sane e istituti in difficoltà, e la conseguente diversificazione nelle condizioni di aiuto per queste ultime, rappresenta una specificazione che andava chiarita con ur‐ genza. Ritengo logico, infatti, che gli istituti bancari in difficol‐ tà debbano rispettare criteri di accesso agli aiuti pubblici più severi rispetto invece a quelle banche sostanzialmente sane, ma obbligate dalla stretta creditizia ad aumentare i fondi propri e quindi ad avere necessità di ricapitalizzare. Un ag‐ giornamento, quello in materia delle regole comunitarie sugli aiuti di stato alle banche, che risultava doveroso. Adesso sarà fondamentale che tale iniezione di risorse pubbliche alle ban‐ che sia in parte rigirata, riaprendo i rubinetti del credito, al‐ l’economia reale. Sono infatti soprattutto le Pmi che stanno pagando a caro prezzo una stretta creditizia senza precedenti con le ovvie conseguenze anche sui livelli di crescita e occu‐ pazione dei Paesi europei. In merito, attendiamo con interes‐ se il codice di condotta che la Commissione europea presen‐ terà entro Natale sulle linee da seguire per l’assegnazione di aiuti pubblici al settore delle imprese. Ora inizia una fase de‐ licata dove sarà fondamentale che la Commissione vigili seve‐ ramente sull’attuazione degli interventi nazionali, verifican‐ do, anche a posteriori, come i soldi pubblici siano stati utiliz‐ zati dalle banche beneficiarie.


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Niente Bretton Woods, ma la crisi incombe

Il vertice di Washington non ha rappresentato una seconda Bret‐ ton Woods, come detto da molti, ma ha trovato tutti d’accordo sulla necessità di vigilare e guidare l’operato dei soggetti che o‐ perano sui mercati finanziari mondiali, considerato che un si‐ stema con una regolamentazione, per così dire, «light» ha mo‐ strato tutta la sua insostenibilità. Dal vertice americano sono emerse semplici indicazioni per un’azione economica coordinata e concertata, soprattutto tra Usa ed Europa. Bisogna però am‐ mettere che i responsabili delle 20 maggiori economie mondiali non avrebbero potuto mai, in un solo pomeriggio, rivoluzionare la struttura mondiale della governance economica in piedi non certo da ieri. Tuttavia siamo arrivati a un momento decisivo, do‐ ve le riforme non sono più prorogabili. In poco piú di un anno abbiamo buttato al vento enormi risorse europee per salvare, appunto con soldi pubblici, un intero sistema bancario colpevole di aver mal gestito i propri e i nostri affari. Ora bisogna iniziare a occuparsi della tutela delle migliaia, di posti di lavoro che stanno sparendo ed evitare che l’economia crolli. In merito Ni‐ Numero 233, p. 15 del 22/11/2008.


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colas Sarkozy, nella sua veste di presidente di turno dell’Unione, sta tentando di indirizzare i Paesi europei verso un intervento strutturato a livello comunitario, finora senza riuscirci appieno. Tra l’altro a gennaio la presidenza francese sarà scalzata da quel‐ la ceca e bisognerà quindi capire se, con il nuovo anno e la nuova presidenza, la continuità di tale strategia coordinata sarà o meno garantita. Ma, soprattutto, con quali iniziative concrete l’Europa conta di affrontare un 2009 caratterizzato da una forte frenata della crescita economica? Non esiste, a oggi, un orientamento comune per affrontare la crisi dell’economia reale e al riguardo si dovranno analizzare le conclusioni del prossimo Consiglio euro‐ peo di dicembre, dove la questione sarà all’ordine del giorno. Come farà l’Europa a definire un intervento uniforme per affron‐ tare la recessione, non disponendo delle risorse finanziarie e so‐ prattutto non disponendo di una struttura decisionale adatta? Ancora una volta rischiamo di pagare a caro prezzo l’impotenza decisionale derivante dall’attuale stallo nell’approvazione del Trattato di Lisbona. Il rischio di assistere a interventi mal coor‐ dinati e differenti da Stato a Stato nell’affrontare la recessione deriva anche dal fatto che diverse sono le situazioni delle finanze pubbliche nazionali e più che al deficit penso ai differenti livelli di debito. Quei paesi tra cui l’Italia che hanno un enorme debito troveranno maggiori difficoltà nel reperire le risorse necessarie a sostenere gli investimenti e la produzione e a garantire i livelli occupazionali in un periodo così critico. Paradossalmente, in un contesto così complicato, torna di attualità una nota proposta da Jacques Delors: finanziare la crescita attraverso l’emissione di eurobbligazioni. Un’idea che, assieme al collega europarlamenta‐ re Mario Mauro, ho riproposto all’attenzione del Parlamento eu‐ ropeo attraverso una dichiarazione scritta.


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Ci vogliono regole forti per l’agenzia di rating

Anche le agenzie di rating avranno regole da rispettare. Sa‐ rebbe sbagliato però pensare che la proposta di regolamento appena presentata dalla Commissione europea sia legata solo alla crisi finanziaria e alla inaffidabilità dimostrata in questo frangente dalle agenzie. Risale al 1997 la famosa «influenza a‐ siatica» che sconvolse i mercati finanziari di mezzo mondo. Già in quella occasione con il crollo delle “tigri asiatiche” furono sollevati dubbi sulla fondatezza delle previsioni delle agenzie di rating. Nel 2001 il fallimento di Enron negli Usa, uno dei più gravi casi di delinquenza societaria, riportò l’attenzione sul tema del rating. Fino a quattro giorni prima del crack le ob‐ bligazioni Enron avevano la massima valutazione delle agen‐ zie. Una tempistica analoga si ripeté nel 2003 per Parmalat e di recente con Bearn Stearn e con Lehman Brothers. Rispetto a tali questioni, spesso le agenzie di rating si sono giustificate sostenendo che il loro ruolo fosse quello di esprimere una semplice «opinione» e che gli investitori restano liberi di sce‐ gliere se considerare tali indicazioni. Il discorso però non fila Numero 228, p. 24 del 15/11/2008.


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perché l’assegnazione di un rating positivo rappresenta un segnale forte per i potenziali investitori, siano essi professio‐ nali o retail, sul rischio legato a un determinato investimento. C’è poi da considerare che spesso i regolamenti degli investi‐ tori collettivi e di altri intermediari stabiliscono che i gestori possono investire solo in obbligazioni aventi un determinato rating minimo o comunque pongono limiti agli impieghi in titoli con rating basso. Perché finora l’Europa non ha fatto nulla per regolare un settore caratterizzato da un’evidente situazione di oligopo‐ lio? Nel 2002 l’Ecofin informale di Oviedo sollevò per la pri‐ ma volta il problema di una regolamentazione delle agenzie. Segnale che però non fu colto dalla Commissione europea. Due anni dopo, all’inizio del 2004, dopo il crack Parmalat fu la volta del Parlamento europeo esprimere preoccupazioni rela‐ tive alla qualità del rating e chiedere, in una risoluzione, l’istituzione di un’Authority per il settore. La Commissione europea attese il 2006 per pubblicare una comunicazione sul tema che non ebbe però alcun seguito legislativo perché paradossalmente la stessa Commissione ritenne che «l’utilità di una nuova iniziativa legislativa nel settore sia ancora da dimostrare». Ma questa crisi finanziaria ha fatto traboccare il vaso ed è partita un’iniziativa legislativa per regolare il settore. Su tale dossier, di cui sono responsabi‐ le per il gruppo socialista, il Parlamento europeo deve lancia‐ re un segnale forte ai cittadini.


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La riforma della moneta elettronica al vaglio del Parlamento

Che i cittadini italiani fossero poco avvezzi ai pagamenti elet‐ tronici lo si sapeva da tempo, ma a quanto pare in Europa so‐ no in buona compagnia. La moneta elettronica, di cui privati e imprese fanno un crescente uso nell’Unione europea, comin‐ cia solo oggi a soppiantare altri mezzi di pagamento. Tuttavia è ancora lungi dall’offrire tutti i benefici attesi otto anni fa, quando fu adottata la direttiva europea per regolare la mate‐ ria. La moneta elettronica è una sorta di «moneta virtuale», acquistata presso gli istituti autorizzati, tramite la quale è possibile fare acquisti senza necessariamente basarsi su un conto corrente. Il funzionamento è simile a quello delle carte che, prima dei telefonini, erano utilizzate nelle cabine telefo‐ niche al posto dei gettoni. Recentemente i consumatori hanno iniziato a utilizzare strumenti più moderni per i pagamenti elettronici, come per esempio il servizio PayPal di Ebay. Il problema è che gli attuali volumi di moneta elettronica sono bassi, soprattutto perché il numero di nuovi operatori en‐ trati sul mercato dei pagamenti dopo l’adozione della direttiva Numero 223, p. 16 dell’8/11/2008.


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nel 2000 è rimasto ben al di sotto delle aspettative. Alla fine del 2007 in Europa gli istituti di moneta elettronica autorizzati erano solamente 20 e, a fronte di 637 miliardi di euro di con‐ tanti in circolazione, la moneta elettronica rappresentava solo 1 miliardo. Dati sconfortanti in quanto, nella maggior parte de‐ gli stati membri, la moneta elettronica non è ancora considera‐ ta un sostituto credibile del denaro liquido. Gran parte delle cause di questo mancato decollo è da ricercarsi nell’inadegua‐ tezza del quadro giuridico e prudenziale per gli istituti di mo‐ neta elettronica. È per questo motivo che la Commissione ha presentato una proposta di revisione della direttiva, arrivata all’esame del Parlamento, e rispetto alla quale sono stato no‐ minato responsabile per il gruppo socialista. Le principali novità, introdotte per rispondere a queste criticità, riguardano l’ambito di applicazione della direttiva, una differente definizione di moneta elettronica e la revisione dei requisiti prudenziali, considerati troppo stringenti. La proposta di riformare la normativa vigente è condivisibile, così come adeguate sono le motivazioni che guidano l’inter‐ vento. Tuttavia l’approccio a tale riforma non può prescinde‐ re dalla crisi finanziaria e dai fattori di criticità del quadro re‐ golamentare europeo che stanno emergendo, soprattutto le conseguenze negative che una regolamentazione troppo leg‐ gera in termini di regimi prudenziali e vigilanza può compor‐ tare. Errori che non vanno ripetuti.


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Ma niente paletti anti-OPA

A seguire il dibattito politico italiano di questi giorni in meri‐ to alle vicende della crisi finanziaria pare che i fondi sovrani siano diventati il peggior nemico dal quale scansarsi. Il crollo del valore azionario di numerose società quotate in borsa po‐ ne preoccupazioni circa la possibilità di vedere gli assetti pro‐ prietari delle imprese italiane presi di mira. I principali indi‐ ziati sono i fondi sovrani dei ricchi paesi produttori di petro‐ lio che, disponendo di enormi capitali, potrebbero sfruttare questo momento per dedicarsi alle scalate societarie. Il pre‐ sidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, ha richiamato l’atten‐ zione sull’urgenza di adottare provvedimenti in grado di met‐ tere al riparo le imprese italiane da comportanti ostili. Credo si tratti di una cattiva idea. Soluzioni di tipo multila‐ terale offrono maggiori vantaggi rispetto agli interventi na‐ zionali. E i fondi sovrani hanno una dimensione, appunto, glo‐ bale. Se il governo italiano proponesse una norma anti‐opa non farebbe altro che scoraggiare ancora di più l’afflusso di capitale nel mercato azionario. Ricorrere a un simile inter‐ Numero 218, p. 18 dell’1/11/2008.


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vento legislativo nazionale in questo momento, e soprattutto in un contesto come quello attuale, somiglierebbe molto a un’alzata di barricate protezionistiche che non gioverebbe né alla causa italiana né a quella dei paesi investitori. Se prendia‐ mo il caso dell’acquisizione del 4,9% di Unicredit da parte dei libici, si è trattato di un’operazione che faciliterà la ricapita‐ lizzazione della banca sul mercato a differenza di altri istituti. Ho sempre sostenuto, anche nel periodo precedente lo scoppio della crisi finanziaria, la necessità di affrontare la questione della regolazione dei fondi sovrani a livello euro‐ peo. Come? Non solo domandando maggiore trasparenza ai paesi detentori di tali fondi oppure chiedendo loro che le de‐ cisioni di investimento siano basate esclusivamente su obiet‐ tivi di tipo economico. Anche perché spesso si parla di paesi che non hanno una reale democrazia economica. Sono invece necessari solidi principi di governance che includano, per e‐ sempio, la chiara ripartizione e separazione delle responsabi‐ lità nella struttura interna della governance del fondo sovra‐ no, la trasparenza riguardo le politiche di gestione del rischio, la comunicazione di una politica di investimento che defini‐ sca obiettivi globali delle attività dei fondi, l’informazione sui principi generali di governance interna. Il codice di condotta proposto dalla Commissione Ue è un primo passo nella giusta direzione, ricordando che i capitali stranieri rappresentano, soprattutto ora, un’opportunità anche per il sistema delle im‐ prese italiane.


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Così riformeremo le agenzie di rating

L’affidabilità delle agenzie di rating, in questa crisi finanzia‐ ria, si è dimostrata disastrosa. Eppure ricoprono un ruolo di grande importanza per il buon funzionamento del settore fi‐ nanziario, considerato che il loro operato condiziona un ele‐ mento chiave della stabilità dei mercati: la fiducia degli inve‐ stitori. Se un investitore fa ricorso al giudizio di un’agenzia di valutazione su un prodotto finanziario, lo fa con l’obiettivo di ridurre al minimo i rischi del proprio investimento derivanti da uno scarso livello di informazione rispetto a quel determi‐ nato prodotto. Il problema è che proprio giudizi di massima affidabilità rispetto a prodotti che si sono poi rivelati disa‐ strosi hanno tratto in inganno gli investitori alimentando la sfiducia dei mercati. Che ci fossero problemi rispetto all’operato delle agenzie di rating il Parlamento europeo lo aveva già sottolineato 4 anni fa quando indirizzò alla Commissione europea la richie‐ sta di proporre una riforma del settore che affrontasse i prin‐ cipali problemi. La Commissione decise semplicemente di Numero 213, p. 16 del 25/10/2008.


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«osservare da vicino» l’attività delle agenzie di valutazione. Ora invece, considerata la drammatica situazione dei mercati e il “mea culpa” del presidente Barroso, la Commissione corre ai ripari affrettandosi a pubblicare una proposta – prevista per fine mese – di regolamentazione del settore. I punti sui quali intervenire per ridare credibilità alle a‐ genzie di valutazione – un settore caratterizzato tra le altre cose da un’evidente situazione di oligopolio – paiono chiari. Su tutti c’è il conflitto di interessi che ha caratterizzato l’o‐ perato delle agenzie in troppe occasioni. Un esempio è il caso degli investimenti strutturati dove l’agenzia di rating a un primo stadio offre «consigli» all’emittente di un titolo su co‐ me costruire lo stesso perché questo abbia un buon rating, in un secondo momento pubblica un rating che conferma i con‐ sigli appena offerti guadagnandoci su . Questo è un sistema che produce rischi e che compromette in partenza la traspa‐ renza di tali istituzioni soprattutto se poi, spulciando nei bi‐ lanci di tali agenzie, osserviamo che un’ingente fetta dei rica‐ vi viene proprio dalla finanza strutturata. La proposta di riforma che la Commissione europea uffi‐ cializzerà a giorni si spera possa essere l’occasione per af‐ frontare anche altri aspetti altrettanto importanti. Un dossier che arriverà all’esame del Parlamento europeo e rispetto al quale sono stato nominato relatore ombra. Tra i nodi da scio‐ gliere c’è la necessità di stabilire dei «paletti» rispetto ai mo‐ delli utilizzati nella valutazione, in merito sarebbe auspica‐ bile ricorrere a uno schema europeo di registrazione delle agenzie la cui competenza sarebbe da rimandare al Cesr Co‐ mitato europeo dei regolatori . È poi importante evitare che in futuro il processo di valutazione porti a un ingiustificato


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aumento del valore del prodotto come spesso è capitato. Una riforma seria permetterebbe alle stesse agenzie di rating di riconquistare la fiducia persa in questa crisi finanziaria.


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Perché serve un nuovo Piano Delors

L’Europa sta lentamente venendo fuori da un periodo storico particolarmente critico e che ha visto il suo momento più dif‐ ficile nella bocciatura del progetto costituzionale. Difficoltà che, oltre a indebolire la portata politica del processo di inte‐ grazione, hanno ostacolato anche il percorso verso il traguar‐ do di istituzioni più forti che doterebbero l’Europa di maggio‐ re autonomia decisionale. Da tempo si è aperto un dibattito per individuare la strada da percorrere per superare piena‐ mente la crisi degli anni recenti. Una riflessione che non può non tenere conto della situazione che sta caratterizzando la nostra economia. La congiuntura sfavorevole e il clima di incertezza conse‐ guente alla crisi dei mercati finanziari internazionali stanno determinando un preoccupante rallentamento economico e condizionando negativamente l’attuazione degli investimenti previsti nel quadro della Strategia di Lisbona, che vuole fare dell’Europa l’economia più competitiva al mondo.

Numero 208, p. 15 del 18/10/2008.


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Proprio rispetto all’esigenza che in Europa sia promosso un piano coordinato di investimenti capaci di rilanciarne la competitività a livello internazionale, ho ritenuto opportuno insieme con il collega Mario Mauro, vicepresidente del Par‐ lamento europeo, lanciare una proposta, ora all’attenzione dei colleghi europarlamentari: una «versione aggiornata» del «Piano Delors» utilizzando gli EuroBond per finanziare la cre‐ scita europea. Una proposta, presentata attraverso una di‐ chiarazione scritta, che si basa sul convincimento che inve‐ stendo nelle energie alternative, nella ricerca, nelle nuove tecnologie e nel capitale umano, l’Europa potrà davvero raf‐ forzare il proprio modello sociale ed economico. Gli Euro‐ Bond, come fonte addizionale di finanziamento rispetto al bi‐ lancio comunitario, potrebbero essere lo strumento più adat‐ to per finanziare progetti strategici come gli investimenti per il completamento delle reti europee nel settore dei trasporti e delle telecomunicazioni o ancora le spese per gli investimenti destinati a garantire nuove risorse energetiche all’Unione, compatibili con l’ambiente: energie rinnovabili, nuove fonti di energia pulita ecc. Uno strumento del genere avrebbe degli incontestabili van‐ taggi. Innanzitutto, a differenza delle altre fonti di finanzia‐ mento comunitario, come la risorsa Iva o il prodotto nazio‐ nale lordo, gli EuroBond non presentano un legame «nazio‐ nale» evidente. Caratteristica quest’ultima che li esclude dalle «battaglie» tra i Paesi europei sui «saldi netti». Considerando che la sottoscrizione degli EuroBond è volontaria, il loro uti‐ lizzo permetterebbe di effettuare di volta in volta una sorta di «test di mercato» dell’iniziativa europea che finanziano. In pratica, servirebbero anche da «cartina di tornasole» rispetto


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alla qualità dei progetti proposti dall’Unione europea. Per in‐ trodurli si potrebbe pensare a strumenti di garanzia oppure a strumenti di debito veri e propri garantiti dallo stesso bilan‐ cio comunitario, con la Banca centrale europea a fare da «con‐ trollore» dell’attività.


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Di fronte alla crisi un’Europa senza ricette

Questa crisi ci pone davanti due quesiti: il primo, relativo a come riformare il quadro normativo europeo in materia fi‐ nanziaria per evitare futuri disastri del genere; il secondo ri‐ guarda le ricetta europea da utilizzare per risollevare i mer‐ cati finanziari e riportare la fiducia. Vorrei soffermarmi su quest’ultimo punto con una riflessione provocatoria: bisogna ammettere che di fronte all’attuale crisi una ricetta europea non può esistere. Se un Paese come l’Italia, per esempio, si trovasse a dover affrontare il salvataggio di un istituto banca‐ rio in difficoltà dovrebbe farlo con mezzi propri. Il salvatag‐ gio di Fortis tramite l’intervento delle casse pubbliche olan‐ desi, belghe e lussemburghesi, gli interventi pubblici operati dai governi inglese e irlandese, la dichiarazione della cancel‐ liera tedesca Angela Merkel che promette di garantire la tota‐ lità dei depositi bancari all’interno della Germania, vanno let‐ ti in una sola maniera: manca una strada europea e coordina‐ ta per salvare gli istituti in difficoltà e i governi non fanno che

Numero 203, p. 15 dell’11/10/2008.


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muoversi in ordine sparso. Un «tesoro europeo» non esiste e sono quindi i «tesori nazionali» a essere utilizzati. Se le banche sull’orlo del fallimento necessitano di iniezio‐ ni di capitale devono sperare in interventi nazionali. Prendia‐ mo invece il caso di una grande banca europea che opera in differenti paesi. In una situazione di difficoltà quale sarà il Paese che si accollerà l’onere di spendere i soldi dei propri contribuenti se non esiste un legame diretto tra la banca e l’e‐ conomia di quel Paese? Ovviamente la risposta non c’è. Tra l’altro i Paesi le cui finanze pubbliche versano in cattive ac‐ que l’Italia ne è un esempio non potrebbero certo permet‐ tersi interventi di nazionalizzazione che farebbero ulterior‐ mente lievitare il debito pubblico. Rispetto a tale situazione si può affermare, senza timore di essere smentiti, che la presi‐ denza francese dell’Unione e la Commissione europea sono colpevoli di non aver saputo interpretare a dovere i segnali di una grave crisi internazionale del credito che stava conta‐ giando anche il sistema europeo. La prova sta anche nel fatto che il presidente Nicolas Sarkozy si rifiutò di iscrivere fra le priorità del semestre di presidenza le questioni finanziarie. Lo stesso Sarkozy che ha poi dovuto organizzare in fretta e furia il summit di Parigi. Un vertice che andava convocato prima, considerato che gli elementi di criticità sono presenti già da un bel po’ di tempo. Rimango inoltre dell’idea che sia l’Ecofin, che riunisce l’in‐ sieme dei 27 ministri delle finanze europei, a rappresentare il consesso «naturale» dove discutere di tali problematiche piut‐ tosto che una riunione tra i soli Paesi europei che siedono nel G8. Riallacciandoci quindi al primo quesito, come riformare il quadro normativo europeo in materia finanziaria per evitare


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futuri disastri del genere, è sempre più evidente che rispetto alle numerose proposte di riforma sul tappeto unica autorità di vigilanza, riforma delle agenzie di valutazione ecc. l’osta‐ colo principale resta la mancanza di volontà politica.


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Integrazione finanziaria, urgenza europea

Il terremoto che ha colpito i mercati finanziari internazionali, con epicentro Oltreoceano la crisi dei mutui subprime e con conseguenze anche in Europa vicenda Northern Rock , ha riportato al centro del dibattito europeo questioni sensibili relative ai presidi prudenziali da applicare ai mercati e alla necessità di trovare un coordinamento concreto tra politiche economiche, finanziarie e monetarie. Temi da affrontare con urgenza, considerate le ricadute che l’instabilità finanziaria ha sulle nostre economie reali. Da questo scenario è emerso un atteggiamento più prudente delle banche nel concedere finanziamenti, con un evidente contraccolpo per la crescita economica. L’intera economia europea sta mostrando negli ultimi mesi un forte rallentamento, in parte anche da attribu‐ ire all’erosione del potere d’acquisto dovuto agli aumenti dei prezzi dell’energia e dei prodotti agro‐alimentari e alla mag‐ giore prudenza di famiglie e imprese di fronte a una situazio‐ ne congiunturale più incerta. Il problema è che la crisi dei mutui subprime non è finita e continuerà a far sentire i suoi Numero 088, p. 23 del 3/5/2008.


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effetti in Europa, ce lo ha ricordato in questi giorni anche il Fondo Monetario Internazionale prevedendo che le istituzio‐ ni finanziarie europee riporteranno ulteriori perdite per 43 miliardi di dollari, a causa degli effetti del dissesto provocato. Rispetto all’attuale crisi c’è stata in Europa una scarsa vigi‐ lanza preventiva, cioè cattiva capacità di identificare, negli scombussolamenti americani, i rischi gravi anche per l’econo‐ mia europea. Per colmare questa lacuna bisogna affrontare il principale paradosso: in Europa c’è una moneta unica, un so‐ lo sistema di pagamenti, un solo organismo che ha in mano la leva dei tassi d’interesse, ma non abbiamo un’autorità centra‐ le con il potere di coordinare la vigilanza insieme ai singoli regolatori nazionali. Restano invece ben 52 le differenti auto‐ rità che nei 27 Paesi, con regole diverse, controllano i propri settori finanziari e spesso non dialogano tra loro. Rafforzando il livello di vigilanza sui mercati finanziari e creando le condizioni per una «sorveglianza più integrata dei gruppi transnazionali» si può intervenire concretamente ri‐ ducendo le probabilità di subire collassi del sistema. Si sbri‐ ghi l’Europa a dotarsi di un’unica autorità di vigilanza, un primo passo raggiungibile perché si tratta di un obiettivo ben diverso dalla creazione di un’autorità unica di controllo, non realizzabile senza una modifica dei Trattati. Ovviamente, pur essendo il coordinamento una tappa ine‐ ludibile nel processo di crescita dell’Ue, non è certo l’unico aspetto sul quale dover lavorare e migliorare. Un maggiore grado di trasparenza nel settore e una maggiore integrazione dei mercati finanziari, sulla scia delle direttive Mifid, Basilea II, Sepa, restano elementi fondamentali per ripristinare la fi‐ ducia nel sistema finanziario.


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La scelta energetica sia libera. Ma coerente

L’energia è uno dei temi strategici principali sull’orizzonte eco‐ nomico europeo e mondiale. A Strasburgo, lo scorso anno, la Commissione europea ha presentato un pacchetto di misure volto a istituire una nuova politica energetica in grado di combattere i cambiamenti climatici e di rafforzare la sicurez‐ za energetica e la competitività dell’Ue. Il mercato energetico è particolarmente complicato, sia perché condiziona diretta‐ mente la competitività delle imprese e la vita quotidiana delle famiglie sia perché è difficoltoso il rapporto con la distribu‐ zione. Rappresenta inoltre, per eccellenza, un settore forte‐ mente condizionato da fattori geopolitici. Queste problematiche non devono però impedire di met‐ tere a frutto le potenzialità di un mercato di 450 milioni di consumatori e per questo bisogna avanzare nel processo di costruzione di un mercato interno anche a colpi di armoniz‐ zazione. Il rischio altrimenti è che l’Europa resti incapace di garantire un coerente equilibrio tra competitività dei mercati, sicurezza dell’offerta e sostenibilità ambientale. È evidente Numero 093, p. 23 del 10/5/2008.


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che permane un alto grado di concentrazione nel settore, a causa di equilibri ereditati dalla struttura pre‐liberalizzazione dei mercati nazionali. Inoltre, diversi mercati energetici sono caratterizzati dalla presenza di operatori dominanti che con‐ trollano la maggior parte delle importazioni energetiche e della produzione di energia. A questo si aggiunga che la con‐ correnza transfrontaliera è estremamente limitata. Non pos‐ siamo, quindi, considerare ancora il mercato europeo dell’e‐ nergia come un grande mercato integrato e competitivo, an‐ che osservando le politiche di rafforzamento dei propri cam‐ pioni nazionali promosse da differenti Stati. L’obiettivo euro‐ peo deve essere da un lato, quello di dare agli utilizzatori del‐ l’energia, cittadini o imprese, la possibilità di fare una vera scelta e, dall’altro, di incentivare gli ingenti investimenti che il settore dell’energia richiede. Fu la stessa Commissione euro‐ pea nel 2005, attraverso un’indagine sui livelli di concorrenza del settore, a richiamare l’attenzione sulla necessità di inter‐ venire con una separazione più netta tra la produzione e la distribuzione dell’energia, ovvero chi gestisce la rete deve es‐ sere un soggetto diverso e terzo dall’impresa verticalmente integrata. L’Italia su quest’ultimo punto, cosiddetto “unbun‐ dling” proprietario, ha l’enorme merito di essersi mossa in anticipo sugli altri. Ma perché un approccio del genere possa avere effetti benefici è necessario che sia applicato in manie‐ ra coerente in tutta Europa. Si deve partire da qui per affron‐ tare i problemi di economicità legati alle insufficienze dei mercati e alla scarsa trasparenza dell’informazione, senza di‐ menticare che va riformata anche la struttura e i poteri dei regolatori nazionali che sono oggi profondamente disuguali tra gli Stati membri.


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Le regole del gioco per i fondi sovrani

Benché esistano da oltre 50 anni, è da un decennio che i fondi sovrani hanno registrato un’espansione significativa. Oggi più di 30 paesi dispongono di fondi sovrani e a partire dal 2000 sono stati costituiti 20 nuovi fondi. Lo scorso anno i ministri delle finanze del G7 hanno invitato il FMI e l’Ocse ad avviare una riflessione sui meccanismi per affrontare le sfide poste da tali cambiamenti. Da qui è iniziata una discussione sulla governance di tali fondi. È innegabile che l’approccio europeo a tale argomento sia condizionato da diversi fattori, primo fra tutti, il fatto che il recente terremoto finanziario internazionale e la conseguen‐ te crisi di liquidità degli istituti bancari europei hanno evi‐ denziato il ruolo chiave avuto dai fondi sovrani al momento di fornire liquidità agli istituti in difficoltà. Un effetto stabiliz‐ zatore utile e positivo. È per questo che si è deciso, durante l’ultimo Consiglio di primavera dell’Ue, di proporre ai 27 Pae‐ si membri un «codice di condotta» da seguire affinché si adot‐ ti un approccio comune sulla materia. Numero 098, p. 27 del 17/5/2008.


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Tre sono le ragioni che mi portano a pensare che, quello dell’approccio comune, sia lo strumento più adatto da utiliz‐ zare: 1. le soluzioni di tipo multilaterale offrono più vantaggi ri‐ spetto ai singoli interventi nazionali e i fondi sovrani hanno una dimensione, appunto, globale; 2. in linea con la Strategia di Lisbona e nel rispetto dei principi del Trattato, l’Europa deve perseguire il suo impegno di apertura agli investimenti di capitali. Un approccio comu‐ ne, inoltre, aggira il rischio di interventi nazionali che porte‐ rebbero a una frammentazione del mercato interno con un danno all’economia europea nel suo complesso; 3. optare per un “codice di condotta” comune significa an‐ che evitare il ricorso alla via legislativa, scelta che si tradur‐ rebbe semplicemente in un’alzata di barricate protezionisti‐ che che non gioverebbe né alla causa europea né a quella dei paesi investitori. Resta però importante che tali intese comuni abbiano come riferimento solidi paletti. Non è solo domandando più tra‐ sparenza ai Paesi detentori di tali fondi o chiedendo loro che le decisioni di investimento siano basate su obiettivi di tipo economico che il quadro diviene più limpido, anche perché spesso si parla di Paesi che non hanno una reale democra‐ zia economica. Sono quantomeno necessari saldi principi di governance che includano, per esempio, la chiara riparti‐ zione e separazione delle responsabilità nella struttura in‐ terna della governance del fondo sovrano, la trasparenza ri‐ guardo le politiche di gestione del rischio, la comunicazione


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di una politica di investimento che definisca obiettivi globali delle attività dei fondi e l’informazione sui principi generali di governance interna che forniscano assicurazioni sull’inte‐ grità dei fondi.


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Fin dove si può armonizzare il mutuo

Mentre in Italia si discute della portabilità a costo zero dei mutui, in Europa la riflessione in materia di credito ipoteca‐ rio è concentrata soprattutto sul livello di integrazione del settore. È evidente che il mercato interno per i mutui nell’Ue non è stato completato, permangono ostacoli alle attività transfrontaliere, sia per i clienti che per le stesse banche, e le differenze tra un Paese e l’altro, relative alla gamma di pro‐ dotti disponibili, continuano a essere importanti. Uno scena‐ rio che ovviamente riduce di fatto la concorrenza e la possibi‐ lità di scelta da parte dei consumatori. Durante l’ultimo con‐ siglio Ecofin riunitosi a Bruxelles, i ministri europei hanno di‐ scusso dell’argomento sostenendo la posizione espressa dal Libro bianco della Commissione europea, il che si traduce in un «no» a interventi legislativi per l’integrazione del settore, almeno per il momento. Una scelta discutibile. Lasciando da parte i giudizi sulle pressioni fatte da alcuni Paesi, tra cui la Germania, perché fosse evitato lo strumento legislativo, biso‐ gna sottolineare alcuni aspetti. Numero 103, p. 13 del 24/5/2008.


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I differenti mercati ipotecari dell’Ue, pur presentando qual‐ che tendenza comune, continuano a essere molto diversi per dimensioni relative, tasso di crescita, varietà dei prodotti, ca‐ ratteristiche dei mutuanti, durata dei mutui e dispositivi di finanziamento. Per queste ragioni, solo in pochi casi i con‐ sumatori decidono di cercare condizioni migliori in Paesi eu‐ ropei diversi dal proprio e accendere un mutuo con istituti esteri. Non vi è dubbio che taluni ostacoli nel processo di inte‐ grazione a livello europeo in tale settore sono difficili da su‐ perare: la lingua, la distanza, le preferenze dei consumatori; ma ve ne sono altri che dovrebbero essere affrontati con un’a‐ zione forte dall’Ue. Mi riferisco, per esempio, alla possibilità di armonizzare, con una direttiva, le normative in ambito di informativa pre‐contrattuale e i termini per il cosiddetto rim‐ borso anticipato, questione fondamentale quest’ultima se si guarda alla diversità delle legislazioni nazionali in merito. Sarebbe poi necessario agire attraverso una raccomanda‐ zione agli Stati membri su aspetti importanti ma meno critici per l’integrazione. Si pensi alla necessità di assicurare nei va‐ ri Paesi che le misure di pignoramento e di vendita siano completate con una tempistica e a costi ragionevoli, che i re‐ gistri immobiliari siano messi online rendendoli così più tra‐ sparenti e affidabili, e che siano utilizzati criteri di valutazio‐ ne certi rispetto ai richiedenti. Un mercato unico del credito ipotecario, oltre a rappre‐ sentare un traguardo per i cittadini, sarebbe anche un ele‐ mento positivo per l’intera economia. Uno studio, commissio‐ nato da Bruxelles, è giunto alla conclusione che entro il 2015, nell’arco di un periodo di dieci anni 2005‐2015 , l’integra‐


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zione dei mercati della Ue del credito ipotecario potrebbe aumentare il PIL della Ue dello 0,7% e i consumi privati dello 0,5%. Cifre, queste da non trascurare.


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I passi da fare per regolare i mercati

Difficile prevedere se, quando l’attuale crisi finanziaria sarà al‐ le spalle, l’Europa sarà stata capace o meno di dotarsi di un si‐ stema efficace di prevenzione dei rischi per i propri mercati finanziari. Il dibattito su come rivedere la governance finanzia‐ ria europea e mondiale resta aperto e non privo di colpi di scena. La recente lettera firmata da Jacques Delors, Jacques Santer e sottoscritta da altre 12 personalità, fra ex premier e ministri, fra i quali Massimo D’Alema, che ha per destinatari il prossimo presidente di turno dell’Unione europea, Nicolas Sarkozy, e il presidente dell’Eurogoverno Manuel Barroso, ini‐ zia con un concetto che non lascia spazio a troppe interpreta‐ zioni: «Non possono essere i mercati finanziari a governarci!». Una frase forte che riprende un rischio reale. L’economia eu‐ ropea continua a soffrire delle ripercussioni di una crisi finan‐ ziaria importata dagli USA, ma nonostante ciò le contromisure adottate da Bruxelles sono, per ora, poco incisive. L’analisi fat‐ ta dagli illustri autori della lettera è condivisibile sia dal punto di vista dei fattori, che hanno fatto sì che la crisi si allargasse Numero 108, p. 12 del 31/5/2008.


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all’Europa – mercati finanziari poco e mal regolati e un’in‐ dustria che ha dimostrato di non essere capace di un’efficace autoregolamentazione – sia dal punto di vista delle iniziative proposte – la necessità di creare un «comitato europeo di cri‐ si» in grado di ripensare le regole della finanza internazionale. Per ora la Commissione europea ha deciso di lanciare una consultazione pubblica sul ruolo dei tre comitati europei di regolatori nazionali per il settore bancario, assicurativo e dei titoli, il Cebs, il Ceiops e il Cesr. I tre comitati potrebbero aver la responsabilità di seguire le evoluzioni del mercato e pre‐ sentare relazione al Consiglio, in collaborazione con il Comi‐ tato di controllo bancario della Banca centrale europea Bce . Un rafforzamento dei lavori dei comitati europei che potreb‐ be porre le basi per una cultura europea della supervisione. Ma se queste sono le ricette europee, sullo scenario inter‐ nazionale vi sono delle riforme altrettanto auspicabili. Appa‐ re ineludibile una revisione delle funzioni di sorveglianza del Fondo Monetario Internazionale FMI . Penso a una revisione delle competenze che potrebbe prevedere il potenziamento della cooperazione tra il Fondo e le altre istituzioni com‐ petenti per la stabilità finanziaria. Perché non conferire, per esempio, al FMI nuove competenze circa la gestione di un early warning system su scala globale? Una riforma questa necessaria e che andrebbe accompagnata a un generale raf‐ forzamento del coordinamento tra le politiche perseguite dai Paesi di rilevanza sistemica. In occasione della crisi finanzia‐ ria degli anni 90, per esempio, si riunirono in Germania i 20 ministri delle finanze e i 20 governatori delle banche centrali dei Paesi più influenti, tra cui Cina, India, Brasile, Indonesia,


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Arabia Saudita, Sud Africa e Turchia. Un esempio del fatto che non si può prescindere dallo scenario mondiale per prevenire e affrontare temi così delicati.


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Sui servizi bancari una questione di mobilità

Migliorare il livello di mobilità dei clienti, fornire un modulo informativo che sia centrato sulle voci di costo, eliminare qualsiasi vincolo contrattuale non chiaramente necessario che impedisca o metta in difficoltà la mobilità della clientela, valutare la fattibilità di un motore di ricerca web europeo che permetta la comparazione dei servizi offerti dagli istituti ban‐ cari dei differenti Paesi dell’Unione. Queste sono solamente alcune delle indicazioni che il Parlamento europeo, appro‐ vando a grande maggioranza un mio rapporto di iniziativa, vuole offrire per migliorare l’efficienza dei servizi bancari al dettaglio in Europa. Un comparto che genera un volume di affari annuo pari al 2% del PIL dell’intera Unione e che rimane «osservato specia‐ le» da quando, nel 2007, la Commissione europea ha concluso un’indagine per valutarne i livelli di efficienza e concorrenza riscontrando non poche problematiche. I servizi bancari risultano più costosi lì dove il livello di in‐ formazione per i clienti è scarso, dove questi hanno difficoltà al Numero 113, p. 22 del 7/6/2008.


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momento di voler cambiare banca e dove è frequente il ricorso a forme leganti di più servizi, cioè forme contrattuali che non permettono al consumatore di orientarsi verso un singolo ser‐ vizio ma lo obbligano ad accettarne altri collegati. Questi ele‐ menti accompagnati dalla combinazione, in alcune realtà, di un’alta concentrazione del mercato e di barriere all’entrata permettono alle banche di influenzare il livello dei prezzi per i consumatori e le piccole imprese. Problemi che vanno affron‐ tati rapidamente per recuperare il rapporto di fiducia dei con‐ sumatori verso il sistema dell’industria bancaria. Nella relazione del Parlamento viene ricordato che a ga‐ rantire un adeguato livello di concorrenza non basta la sem‐ plice numerosità degli operatori: per capirlo è sufficiente guardare a Paesi come Olanda e Belgio che, pur avendo il mi‐ nor numero di gruppi bancari a operare sul mercato, regi‐ strano il più basso livello di spesa media di conto corrente. In Italia, i circa 120 euro di costo medio che il cliente deve paga‐ re per il mantenimento di un conto, sono ancora troppi ri‐ spetto ai 15 dell’Olanda. Grazie alla cosiddetta legge Bersani, che prevede la portabilità del conto corrente e del mutuo a costo zero, ci si è dotati in Italia di una legislazione all’avan‐ guardia che da maggior respiro ai cittadini. Nonostante le nu‐ merose difficoltà che ancora si riscontrano nell’applicazione della normativa Bersani, bisogna sottolineare che l’industria bancaria italiana sta facendo dei passi in avanti soprattutto in termini di trasparenza. L’esperienza di «Patti chiari», per la comparabilità dei prezzi praticati dai differenti istituti, è stato un buon segno ma non ancora sufficiente, non essendo previ‐ ste, infatti, certificazioni ufficiali e sanzioni per le banche che non rispettano quanto dichiarato. Con il rapporto del Parla‐


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mento europeo l’auspicio è che si raggiunga una normalizza‐ zione tra i servizi offerti dalle differenti industrie bancarie europee e soprattutto che, per i consumatori, il rapporto con la propria banca divenga più «umano».


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Basta con Hedge e private equity senza rete

Quando, nell’agosto 2007, alcune tra le maggiori banche mon‐ diali sono state investite dalla dura crisi finanziaria, l’Europa era occupata a discutere della rischiosità dei prodotti derivati e della scarsa trasparenza di Hedge Funds e dei fondi di pri‐ vate equity. Pur considerando che, in relazione all’attuale cri‐ si, le cause dirette non dipendono dai fondi speculativi e di private equity, tuttavia, questo periodo di instabilità ha evi‐ denziato la fragilità di tali strumenti e la loro forte interdipen‐ denza con altri attori chiave, come banche d’investimento o ancora le agenzie di rating. Già un anno fa, prima ancora che si palesasse la crisi dei mercati, il Forum di Stabilità Finanziaria aveva suggerito il rafforzamento di strumenti in grado di ga‐ rantire il sistema dai potenziali rischi sistemici legati ai fondi speculativi e ad altri strumenti a elevata leva finanziaria. Un passo logico dettato dal fatto che le risposte che l’Europa può offrire, in termini di regolamentazione e controllo, devono con‐ siderare la sempre maggiore integrazione e complessità dei mercati. La questione relativa a una migliore regolamentazio‐ Numero 118, p. 32 del 14/6/2008.


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ne dei fondi speculativi e di private equity va considerata con‐ giuntamente all’esigenza di migliorare anche la regolamenta‐ zione di altri attori finanziari attraverso un approccio norma‐ tivo che prenda quindi in conto tutte le parti interessate. Per‐ ché pensare che le attuali strutture europee di regolamenta‐ zione non debbano essere innovative quanto gli attori che so‐ no chiamate a regolamentare? L’obiettivo di Bruxelles deve essere quello di mirare a una normativa transfrontaliera mi‐ gliore, più coerente e armonizzata per un settore che negli ul‐ timi sette anni ha assunto sempre più peso senza però miglio‐ rare i propri livelli di trasparenza. Le maggiori preoccupazioni in relazione ai fondi speculativi e ai fondi d’investimento pri‐ vati riguardano l’inadeguata gestione del rischio, i livelli di in‐ debitamento eccessivo e la generale stabilità finanziaria. Su questi tre elementi è necessario che l’Unione europea preveda un approccio regolamentare in grado di garantire: – che indipendentemente dalla struttura giuridica dei fondi speculativi, sia previsto un requisito di capitale adeguato al livello dell’ente che controlla l’investimento del fondo; – l’istituzione di un’agenzia di rating pubblica europea che con il suo ruolo favorisca la concorrenza nel settore; – la definizione di un quadro comunitario per la registrazio‐ ne e autorizzazione delle società di gestione dei fondi spe‐ culativi o di private equity con la previsione di una banca dati che ne riporti tutte le informazioni; – l’indicazione di un limite massimo di indebitamento dei fondi speculativi; – la soluzione dei conflitti di interessi che esistono tra le banche di investimento e i fondi di private equity.


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Oggi le autorità pubbliche non dispongono di informazioni sufficienti sull’ammontare, sulla natura e sulla proprietà delle esposizioni in private equity. Un ammodernamento in tal sen‐ so della normativa comunitaria gioverebbe ai mercati finan‐ ziari, agli investitori e ai consumatori.


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C’è il niente nelle risposte Ue al caro-barile

Il colore rosso continua a caratterizzare l’economia e la finanza internazionale. L’inflazione non mostra segnali di frenata, la crescita europea resta a dir poco lenta, gli Stati Uniti lottano per evitare la recessione, i mercati finanziari restano gli amma‐ lati eccellenti ancora sotto l’effetto del «virus» dei subprime americani. Per non parlare del prezzo del petrolio, arrivato or‐ mai a livelli inaccettabili per le nostre economie. In Europa l’energia e le derrate alimentari rappresentano rispettivamen‐ te il 10% e il 20% delle spese domestiche. Nell’ultimo trime‐ stre del 2007 l’aumento dei prezzi del petrolio ha contribuito per lo 0,8% in media all’inflazione di Eurolandia. Pare evidente che la causa del prezzo del greggio fuori controllo, oltre che nell’aumento della domanda mondiale, è da ricercare nel dol‐ laro debole: essendo gli scambi del greggio effettuati in dollari, banalmente ma realisticamente si può affermare che più questo scende più il prezzo del barile viene spinto verso l’alto. Eppure sembra che a Bruxelles ricordare questo passaggio sia vietato. La Banca Centrale Europea dal canto suo dichiara Numero 123, p. 21 del 21/6/2008.


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di essere pronta a ritoccare al rialzo i tassi d’interesse, consi‐ derati i rischi inflazionistici dovuti al caro‐energia. Ma di qua‐ le inflazione stiamo parlando? Si tratta di una dinamica di ri‐ alzo dei prezzi collegata in gran parte alla speculazione in at‐ to sul prezzo del petrolio. Un fattore negativo, certo, che però non si capisce perché debba ricadere solamente sulle spalle dei cittadini europei, i quali subirebbero un rialzo dei tassi che provocherebbe la definitiva chiusura dei rubinetti di con‐ sumi e investimenti tagliando ancora di più le gambe dell’eco‐ nomia. Mentre in Italia si chiama in causa il leggendario Robin Hood per spaventare i produttori petroliferi, sul versante eu‐ ropeo la commissione Barroso per affrontare la situazione “minaccia” addirittura «un’analisi sul funzionamento dei mer‐ cati petroliferi e degli oli combustibili», sulla base della quale entro fine anno dovrebbero essere formulate raccomanda‐ zioni e proposte per porre rimedio alla crisi. Il termine «mi‐ naccia» in questo caso è ovviamente ironico, come appare i‐ ronica pure la tempistica scelta dalla Commissione per indi‐ care rimedi alla crisi. Chiunque si può rendere facilmente conto purtroppo della vacuità dell’azione europea su que‐ sto versante. L’unico elemento concreto che rimane in piedi, questa sì una reale minaccia, è la possibilità ventilata dalla BCE di rialzo del costo del denaro. Sarebbe comprensibile una scelta del genere se si trattasse di rischi inflazionistici deri‐ vanti da fattori endogeni, ma così non è, e la BCE si sta assu‐ mendo una grossa responsabilità nel sostenere questa linea. Chissà se, considerato che gli Stati Uniti pare si stiano orien‐ tando a rivalutare nuovamente il dollaro, si può sperare in un ripensamento da parte di Francoforte. Una logica, questa, che


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non fa che evidenziare, se ce ne fosse ancora bisogno, il punto debole dell’Unione europea: la mancanza di una governance economica efficace, che non permette di esprimere una guida politica su materie importanti, ma costringe a parare i colpi provenienti da Oltreoceano.


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Più coraggio nei finanziamenti Ue alle Pmi

Si potrebbe affermare che i veri giganti dell’economia euro‐ pea sono le piccole e medie imprese Pmi . Ben il 99% delle aziende del Vecchio continente è composto da Pmi, che im‐ piegano circa i due terzi del totale degli occupati nel settore privato. A loro è imputabile un’alta percentuale dell’attività economica europea e dal punto di vista occupazionale sono loro a dominare la classifica: in Paesi come l’Italia, per esem‐ pio, rappresentano il 47% degli occupati. Eppure, guardando ai dati forniti da Eurobarometro, l’imprenditoria non sembra essere tra le carriere preferite dei cittadini europei. A quanto pare, infatti, ben il 60% dichiara di non aver mai pensato di avviare un’impresa in proprio. Un elemento di diffidenza che si spiega anche attraverso due fattori: resta complicato l’ac‐ cesso al credito per gli imprenditori e ancora di più per i gio‐ vani imprenditori e si è fatto troppo poco sul versante della semplificazione legislativa a vantaggio delle imprese. Sebbe‐ ne il Mercato unico, con i suoi circa 450 milioni di potenziali consumatori, sia ormai una realtà da oltre un decennio, la Numero 128, p. 15 del 28/6/2008.


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gran parte delle piccole e medie imprese il 63% del totale è tuttora attiva unicamente nel proprio Paese di origine. Biso‐ gna considerare che le imprese di dimensioni ridotte presen‐ tano generalmente costi operativi accessibili e un’elevata flessibilità, ma sono più sensibili ai mutamenti dell’ambiente economico in cui operano, agli oneri amministrativi e alla frammentazione dei mercati dei capitali. È chiaro che il mer‐ cato non può, da solo, portare alle imprese volumi di finan‐ ziamenti sufficienti a condizioni accessibili. In questo conte‐ sto risulta allora essenziale un intervento dell’Unione euro‐ pea che risponda a queste due necessità, considerata la deli‐ catezza di tale settore per le sorti della Strategia di Lisbona. Ben vengano allora le dichiarazioni del presidente della Ban‐ ca europea per gli investimenti Bei , che ha recentemente promesso nuove misure dirette a semplificare e rendere più flessibile l’accesso al credito per le Pmi. Giusto ampliare la gamma dei prodotti finanziari proposti, adattandoli più stret‐ tamente alle particolarità locali e alle necessità specifiche del‐ le imprese. La Bei ha ora di fronte a sé due compiti precisi: da un lato, deve rivolgersi ad alcuni settori specifici del mercato quelli che hanno maggiori difficoltà per aumentarne i fondi, dall’altro deve andare oltre il sostegno tradizionalmente cen‐ trato sulle attività materiali, valutando anche il finanziamen‐ to a favore degli aspetti immateriali dello sviluppo delle im‐ prese, a cominciare dalla ricerca per lo sviluppo tecnologico. Un’azione di questo tipo, se accompagnata parallelamente da una razionalizzazione degli oneri burocratici, sarebbe una vera e propria boccata di ossigeno per chi fa impresa. Tra il 2001 e il 2006, l’Unione europea ha stanziato 500 milioni di euro per le Pmi. Alla fine del 2005 da questi fondi avevano già


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tratto vantaggio quasi 250 mila imprese. Tuttavia, se in alcuni Paesi l’accesso ai prestiti resterà possibile solamente per un’azienda start‐up su quattro, allora inevitabilmente il circo‐ lo virtuoso si arresterà di colpo.


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Microcredito senza frontiere

In alcune realtà europee incoraggiare il lavoro autonomo, la formazione e lo sviluppo di piccole imprese attraverso forme di microcredito appare una prassi, in altri Paesi, invece, non lo è affatto. In Italia, secondo qualificati studi e osservazioni sul funzionamento del settore, l’attività di microcredito è piuttosto deludente e l’entità dei capitali coinvolti in progetti del genere non è assolutamente paragonabile al mercato cre‐ ditizio tradizionale. Il credito per chi ha idee imprenditoriali valide, ma scarse garanzie economiche, continua per essere un miraggio. Sono, infatti, ancora troppo poche le banche che, oltre all’erogazione di un prestito, si fanno promotrici di in‐ terventi di accompagnamento nella fase di progettazione e di start‐up di un’iniziativa imprenditoriale. Rimane, inoltre, rilevante la differenza tra il numero di esperienze sviluppa‐ te nel Centro‐Nord e quelle realizzate nel Mezzogiorno. Un fenomeno, quello dell’esclusione finanziaria, da non sotto‐ valutare.

Numero 133, p. 23 del 5/7/2008.


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In Europa, il microcredito si rivolge principalmente a due categorie, alle piccole imprese e alle persone svantaggiate che tentano di passare al lavoro autonomo e incontrano difficoltà ad accedere ai servizi bancari tradizionali. Durante gli ultimi venti anni, l’economia europea si è evoluta passando da una struttura trainata da grandi industrie a una più basata sulle piccole imprese, il che ha ovviamente fatto crescere la do‐ manda di mini‐credito. Per affrontare il problema e garantire un accesso adeguato ai finanziamenti non bastano, però, ini‐ ziative isolate di alcuni governi europei, sono invece necessa‐ rie azioni congiunte di ampio respiro da parte delle autorità nazionali e comunitarie. Azioni tese a migliorare l’ambiente giuridico e istituziona‐ le nei vari Paesi, promuovere la diffusione delle migliori pra‐ tiche e mettere maggiore capitale a disposizione degli istituti di microcredito. Gli strumenti per affrontare queste sfide so‐ no numerosi. Risulterebbe utile, per esempio, che nei pro‐ grammi nazionali di riforma, collegati alla Strategia di Lisbo‐ na, sempre più Paesi europei iniziassero a introdurre azioni rivolte a favorire la nascita e la diffusione di istituti microfi‐ nanziari non bancari. Ben venga, a riguardo, la proposta della Commissione europea di istituire una nuova struttura in gra‐ do di fornire assistenza tecnica per il consolidamento e lo svi‐ luppo di tutti gli istituti microfinanziari non bancari, agevo‐ lando la loro messa in rete e permettendo a questi un più am‐ pio accesso ai finanziamenti europei. Tra l’altro tale struttura avrebbe anche assicurato il sostegno finanziario grazie al bi‐ lancio attualmente disponibile per l’assistenza tecnica nel quadro dei fondi strutturali – il Fondo europeo di sviluppo regionale Fesr – gestito dalla stessa Commissione. Inoltre,


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in Europa l’armonizzazione normativa consente attualmente alle banche autorizzate in uno Stato membro di funzionare in altri Stati mediante servizi transfrontalieri, oppure aprendo filiali. Perché non allargare tale possibilità anche ai fornitori di microcrediti diversi dalle banche?


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Se non c’è concorrenza è inutile tassare i petrolieri

A quanto pare il ministro Giulio Tremonti, con le sue propo‐ ste, cerca di trasferire in Europa le ricette utilizzate in patria nella lotta agli speculatori. Sostenere che la crescita interna‐ zionale dei prezzi del petrolio sia curabile con un intervento sulle compagnie petrolifere è una maniera semplicistica di analizzare la realtà dei fatti. Inoltre, confondere una concreta proposta di politica energetica con la semplice pressione sul‐ l’esercizio delle norme europee a garanzia della concorrenza non mi pare la maniera corretta di affrontare il problema del caro‐prezzi. È per questo che la proposta del ministro, rivolta alla Commissione europea, di utilizzare contro chi specula sui mercati internazionali l’articolo 81 del Trattato appare come una non notizia. L’articolo 81 del Trattato di Roma è indiriz‐ zato contro i comportamenti anti‐concorrenziali sul mercato europeo, e con l’articolo 82 l’Ue ha il potere di sanzionare i soggetti colpevoli degli abusi. Sia l’articolo 81 sia l’articolo 82 sono quindi per definizione strumenti che vengono utilizzati ex‐post, prevedendo sanzioni ad personam per l’abuso di po‐ Numero 134, p. 6 dell’8/7/2008.


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sizione dominante, oppure per distorsione della concorrenza da parte di un attore del mercato. È qui che vedo il principale paradosso della proposta di Tremonti: ancora una volta si sfugge da una seria opera di policy per ripiegare su provvedi‐ menti di facciata. In Europa le cose non funzionano così. Pren‐ diamo come esempio proprio il settore energetico. Rispetto alle inefficienze dei mercati energetici l’Ue ha seguito un per‐ corso ben preciso. La Commissione europea avviò un’inda‐ gine di settore per individuare gli ostacoli principali. Uno di questi era la mancanza di separazione societaria chi gestisce la rete deve essere un soggetto diverso e terzo dall’impresa verticalmente integrata che provocava situazioni di distor‐ sione della concorrenza. Il terzo passo è stato chiedere agli Stati di lavorare alla separazione societaria delle reti elettri‐ che. Questo per dire che sanzionare una compagnia applican‐ do l’art. 82 è una cosa, ben altra questione è presentare una proposta su come migliorare strutturalmente la situazione sul mercato. Ben venga quindi un’applicazione coraggiosa e onesta del diritto di concorrenza rafforzando, come è giusto che sia, l’im‐ pegno ex‐post sia da parte della Commissione europea sia da parte delle autorità nazionali garanti per la concorrenza su tali mercati. Ma parallelamente, per essere realmente incisivi, occorre prevedere una riorganizzazione coerente dei mercati, continuando l’opera iniziata di separazione proprietaria delle reti e impegnandosi sul versante delle interconnessioni. Per‐ ché allora il governo di cui fa parte Tremonti non lavora alla separazione delle reti di approvvigionamento e trasporto del gas? In Italia quello del gas è un mercato nevralgico, che go‐ verna il funzionamento del mercato dell’energia elettrica e


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che condiziona fortemente la spesa dei cittadini. Se si vuole andare incontro ai consumatori allora bisogna agire su questi elementi concreti. In Italia, con la cosiddetta Robin Tax, ri‐ schiamo di assistere a un aumento dei prezzi dell’energia e‐ lettrica e gli operatori, ai quali è imposta la tassa, semplice‐ mente ne trasferiranno l’onere sui prezzi al consumo.


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Fiscalità delle imprese ancora in ordine sparso

Quando si parla dell’attuazione dell’Agenda di Lisbona in Eu‐ ropa, di come incentivare la competitività delle imprese o an‐ cora di come favorire la concorrenza tra i diversi soggetti che operano sul mercato interno, bisogna fare i conti con un grande ostacolo che si frappone alla realizzazione di una poli‐ tica realmente comune per la crescita: i 27 differenti regimi fiscali europei. Nel campo dell’imposizione fiscale poco è cambiato negli anni e gli stati membri sono dotati fondamen‐ talmente degli stessi regimi di tassazione delle imprese che avevano prima della creazione del mercato unico. Eppure si tratta di un fattore centrale perché possano es‐ serci pari condizioni per tutte le imprese sul mercato euro‐ peo. Il permanere di 27 basi imponibili diverse nei sistemi di tassazione societaria comporta non solo costi e inefficienze per le società che hanno attività transfrontaliere, ma anche perdite per gli Stati membri a causa delle frodi e dell’evasione fiscale. Il dibattito in Europa sulla questione è aperto e passi in avanti negli ultimi anni ne sono stati fatti pochi. La Com‐ Numero 138, p. 27 del 12/7/2008.


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missione europea propone da tempo l’introduzione di una base imponibile comune consolidata per le società. Significa fare in modo che il reddito imponibile delle imprese che ope‐ rano nel mercato interno sia determinato secondo un insieme di regole comuni definite a livello europeo applicabili al sin‐ golo gruppo societario. Un approccio sostenuto dal Parlamen‐ to europeo e dall’allora relatore del dossier Pier Luigi Bersa‐ ni. Si tratta però di un’operazione complicata sia dal punto di vista politico, perché diversi sono i paesi contrari ad affronta‐ re temi inerenti alla fiscalità, sia dal punto di vista tecnico, per le difficoltà che si riscontrano nell’identificazione degli indicatori per il calcolo di una base imponibile comune. Diffi‐ coltà che non devono però arrestare il dibattito e il processo già avviato. Le motivazioni per continuare in questa direzione sono evidenti. In primis, la necessità di semplificare e ridurre i costi gestionali e amministrativi incoraggiando così le im‐ prese a investire e a operare in una dimensione europea e non solo nazionale. Inoltre, importante, è la questione della trasparenza, perché uniformare le basi imponibili rendereb‐ be più difficili eventuali comportamenti opportunistici e sa‐ rebbero finalmente e pienamente leggibili e confrontabili i di‐ versi livelli di tassazione applicati in Europa. Poiché è necessaria l’unanimità per l’adozione di un prov‐ vedimento del genere, per superare i dubbi dei paesi contrari bisogna spingere per un approccio graduale all’inserimento di una base comune, facoltativa all’inizio, con una valutazione a medio termine per considerare se procedere poi a una fase di inserimento obbligatorio.


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L’euro è più forte dell’Europa

Gli attuali equilibri o piuttosto squilibri dell’economia mon‐ diale riportano al centro dell’attenzione le sfide che l’Europa dell’euro deve affrontare. Dieci anni fa, con il lancio della mo‐ neta unica, l’Europa ha messo a segno la più importante ri‐ forma monetaria dai tempi di Bretton Woods. Una tappa che ha modificato lo scenario economico mondiale e inviato un chiaro segnale politico, ai cittadini europei e al resto del mon‐ do, sulla determinazione di cui l’Europa può essere capace quando si tratta di decisioni legate al futuro comune e alla prosperità economica. Un decennio, quello della moneta uni‐ ca, caratterizzato da successi e da qualche incontestabile dif‐ ficoltà. L’economia dell’area euro ha seguito un percorso di inte‐ grazione economica e finanziaria più rapido rispetto al resto dell’Ue e la sua resistenza agli shock esterni è aumentata. Le politiche fiscali hanno contribuito a sostenere la stabilità ma‐ croeconomica dell’eurozona, ma soprattutto sono stati consi‐ derevoli i progressi conseguiti nel risanamento dei bilanci Numero 143, p. 15 del 19/7/2008.


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negli ultimi anni. Il disavanzo registrato lo scorso anno è pari solo allo 0,6% del Pil rispetto a una media del 4% negli anni ’90. Grazie alla moneta unica è stata favorita l’integrazione economica e dei mercati, la scomparsa del rischio di cambio e la riduzione dei costi delle operazioni transfrontaliere hanno, infatti, facilitato lo sviluppo del mercato unico. L’euro ha avuto l’effetto di accelerare l’integrazione dei mercati finanziari. Basti osservare il dato relativo alle concen‐ trazioni transfrontaliere tra banche: i sedici maggiori gruppi bancari detengono più del 25% delle loro attività Ue al di fuori del proprio Paese di origine. L’area dell’euro è diventata un po‐ lo di stabilità per l’Europa e per l’economia internazionale. Quale sarebbe, senza l’euro, la situazione dei nostri mercati fi‐ nanziari e delle nostre monete rispetto all’attuale turbolenza finanziaria mondiale? Ci sono tuttavia delle attese che non sono state rispettate. Su tutte il basso tasso di crescita delle economie appartenenti all’eurogruppo. Con il suo 2% annuo, la crescita potenziale resta deludente e continuiamo a registrare differenze sostan‐ ziali tra i Paesi nei loro tassi di inflazione e nei costi unitari del lavoro, elementi questi che producono inevitabilmente uno squilibrio in termini di competitività tra le diverse realtà. L’Europa inoltre, inizia a confrontarsi con gli squilibri eco‐ nomici mondiali accumulatisi negli ultimi 15 anni, come l’au‐ mento dei prezzi del petrolio, dei generi alimentari e delle materie prime, rispetto ai quali, l’euro non riesce a svolgere un ruolo stabilizzatore e il motivo è evidente: l’area dell’euro non possiede una strategia internazionale correttamente de‐ finita, tanto meno una rappresentanza internazionale effet‐ tiva. È urgente che l’Europa si doti di una strategia all’altezza


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dello status internazionale della sua moneta esprimendosi con una sola voce sulle politiche del tasso di cambio e assu‐ mendosi le proprie responsabilità rispetto alle questioni rela‐ tive alla stabilità finanziaria e alla vigilanza macroeconomica. La strada delle riforme resta quindi aperta perché anche que‐ ste nuove sfide possano essere affrontate con successo.


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Un Erasmus per i giovani imprenditori

Lo stato di salute delle piccole e medie imprese Pmi europee va monitorato di continuo per due motivi: perché il 99% delle aziende europee è composto da Pmi e perché queste impiegano circa i due terzi del totale degli occupati nel settore privato. Ga‐ rantire un buono stato di salute alle nostre piccole imprese si‐ gnifica anche affrontare, attraverso un’azione a livello comuni‐ tario, alcuni temi che incidono sullo sviluppo imprenditoriale: la semplificazione delle pratiche amministrative, gli aiuti di Sta‐ to o anche i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali. In merito, un passo significativo lo ha fatto la Commissione eu‐ ropea presentando lo Small Business Act Sba per l’Europa, un piano d’azione diretto proprio a stimolare il potenziale di cre‐ scita e di occupazione delle Pmi partendo da un principio poli‐ tico di fondo e da una parola d’ordine: «Pensare prima di tutto alle Pmi». Un piano d’azione fatto di principi politici guida e di interessanti proposte legislative, mi riferisco, per esempio, alla proposta di regolamento che introduce uno statuto per la socie‐ tà privata europea oppure ancora alle proposte di revisione Numero 145, p. 6 del 23/7/2008.


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delle norme che regolano le esenzioni in blocco delle Pmi sugli aiuti di Stato e sui tassi d’Iva ridotti applicabili ad alcuni servizi. Rappresenta un bel passo in avanti poter offrire alle società private europee una semplificazione in termini di creazione, formazione del capitale, partecipazione azionistica e organiz‐ zazione interna. L’obiettivo dichiarato dell’Ue, da qui al 2012, è di ridurre i costi amministrativi del 25%! Operare secondo gli stessi principi in tutta Europa rappresenta il migliore incentivo all’internazionalizzazione delle nostre realtà imprenditoriali. Misure queste che tra l’altro danno più significato anche ad al‐ cune iniziative promosse proprio dal Parlamento europeo. È grazie a una mia proposta, inserita nel Bilancio europeo, che è stato lanciato il cosiddetto «Erasmus per imprenditori». Un progetto che trasferisce ai giovani imprenditori l’idea di fondo del programma Erasmus dedicato agli universitari: favorire la mobilità internazionale. I giovani imprenditori potranno così confrontarsi con i loro colleghi europei. Positiva, infine, la riforma che esenta i Paesi europei dal do‐ ver notificare alla Commissione gli aiuti che concedono alle Pmi. L’ammontare dell’aiuto pubblico che sarà possibile con‐ cedere sarà aumentato, passando dal vecchio 7,5% al 10% per le medie imprese e al 20% per le piccole società. È però un peccato dover constatare che la Commissione europea abbia abbandonato l’obiettivo di un aumento di 5 punti percentuali nella partecipazione delle Pmi al 7° Programma Quadro di Ri‐ cerca & Sviluppo 7PQ . Uno strumento, quello del 7PQ, che nel primo periodo di attuazione ha permesso, attraverso i fi‐ nanziamenti indirizzati alle infrastrutture di ricerca delle re‐ gioni meno efficienti, la creazione di poli regionali di ricerca e per la ricerca a vantaggio, soprattutto, delle imprese.


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Così riparte il Mediterraneo

Il Mediterraneo torna al centro del dibattito politico dopo il summit dei 43 capi di Stato e di governo tenutosi a Parigi, do‐ ve la presidenza francese e la Commissione europea hanno posto le basi per la nascita dell’Unione per il Mediterraneo. Una scelta resa necessaria dai limiti dimostrati dal processo di Barcellona esistente dal 1995, e dalla preminenza della di‐ mensione Est‐Ovest nella politica comunitaria che ha condot‐ to all’allargamento avvenuto nel 2004, sancendo la storica ri‐ unificazione del continente. La riunione di Parigi offre una boccata di ossigeno a una politica euro‐mediterranea, il cui bilancio degli ultimi 15 anni è piuttosto insoddisfacente in rapporto alle aspettative suscitate al momento del suo varo. La progressiva liberalizzazione degli scambi, tema economico centrale del partenariato, non ha promosso né la produzione, né la crescita, né l’occupazione. Non si è ancora tradotto in realtà l’impegno assunto dall’Europa di offrire ai Paesi della sponda Sud del Mediterraneo una prospettiva di parteci‐ pazione al mercato interno né, tantomeno, si sono registrati Numero 148, p. 18 del 26/7/2008.


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progressi significativi sul piano del dialogo culturale volto a contribuire «alla pace, alla stabilità e alla prosperità» della regione, un ambito, questo, ovviamente condizionato dai tra‐ gici eventi dell’11 settembre e dal rovente scenario medio‐ rientale. L’accrescere delle disparità sociali ed economiche tra le due sponde del Mediterraneo richiede, oggi più che mai, la creazione di uno spazio comune integrato nell’economia mondiale. Per raggiungere tale traguardo bisogna passare at‐ traverso politiche economiche da valutare non soltanto in termini di contributo alla crescita, ma anche rispetto alla cre‐ azione di posti di lavoro e allo sviluppo delle regioni povere. Troppe volte la politica commerciale dell’Ue è stata in con‐ traddizione con la sua politica di sviluppo. Per questo gli ac‐ cordi commerciali tra Ue e i paesi della sponda sud del Medi‐ terraneo devono perseguire l’obiettivo della riduzione del di‐ vario di ricchezza tra le due aree. Rispetto a tale scenario l’Unione per il Mediterraneo, pro‐ posta a Parigi, presenta aspetti innegabilmente positivi ma lascia anche spazio ad alcune perplessità. Bene il fatto che si sta lavorando a progetti concreti con ricadute positive sulle popolazioni: autostrade del mare, disinquinamento del Medi‐ terraneo, università euro‐mediterranea, energie rinnovabili, sostegno alle Pmi. Positive anche la possibilità di program‐ mare progetti gestiti da gruppi limitati di Paesi uniti da un co‐ mune interesse specifico, e la previsione della partecipazione diretta del settore privato alle realizzazioni. Tuttavia, parte della debolezza del progetto sta nella mancanza di un dialogo sereno tra i Paesi terzi interessati. Difficile, infatti, immagina‐ re di portare a termine obiettivi ambiziosi se prima non si


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normalizzano i rapporti diplomatici tra alcuni di questi Paesi dove, solo per fare un esempio, il libero scambio tra loro è an‐ cora un miraggio. Criticabile anche la scelta di trattare troppo marginalmente l’aspetto etico e politico relativo alla demo‐ cratizzazione, alla libertà d’espressione e ai diritti dell’uomo. Un progetto, quindi, ancora non ben delineato ma che ha il merito di riportare il Mediterraneo al centro dell’attualità po‐ litica.


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La doppia delusione del Doha Round

Il fallimento del negoziato del «Doha Round» lascia sul tappeto importanti questioni irrisolte. I 153 paesi membri del Wto, l’Or‐ ganizzazione Mondiale del Commercio, non sono riusciti ad ac‐ cordarsi sulle modalità di liberalizzazione degli scambi nel set‐ tore agricolo e in quello dei prodotti industriali. Impossibile na‐ scondere la delusione nel vedere che il vero nodo, ossia la ridu‐ zione dei sussidi agricoli europei e americani e l’apertura dei mercati agricoli dei paesi in via di sviluppo, non sia stato sciolto ma abbia evidenziato le difficoltà di dialogo tra le grande po‐ tenze commerciali. La spaccatura che ha segnato la fine dei ten‐ tativi di negoziato ha visto gli Stati Uniti da una parte e Cina e India dall’altra. L’oggetto del contendere è stata la revisione del cosiddetto «meccanismo di salvaguardia speciale». L’aspetto grave è che un intero negoziato, che aveva all’ordine del giorno anche discussioni relative a telecomunicazioni, servizi finanzia‐ ri e trasporti, si sia bloccato su un singolo punto. Un meccani‐ smo, quello «di salvaguardia speciale», che prevede la possibili‐ tà per un Paese di alzare unilateralmente i propri dazi in caso di Numero 173, p. 22 del 30/8/2008.


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notevole aumento delle importazioni agricole. Ma è sulla defi‐ nizione di «notevole aumento» che la spaccatura tra i grandi protagonisti del negoziato si è palesata, con gli Stati Uniti, timo‐ rosi di un escalation protezionistica, che chiedevano di rivedere il limite verso l’alto, e Cina e India intransigenti nel domandare una revisione verso il basso e insofferenti nei confronti delle sovvenzioni americane a taluni produzioni agricole di impor‐ tanza strategica negli scambi, come il cotone. Ma l’indiziato maggiore per il fallimento resta la mancanza di volontà politica di chiudere il negoziato. Le ambizioni dei principali protagoni‐ sti erano troppo condizionate dalle rispettive politiche interne. Per il ministro indiano è stato più semplice tornare a casa senza un accordo piuttosto che firmare un compromesso che non sa‐ rebbe stato il miglior risultato possibile per il proprio Paese. Lo stesso si può dire per il negoziatore americano che, in caso di marcia indietro sul meccanismo di salvaguardia speciale, a‐ vrebbe dovuto gestire le critiche della maggioranza democrati‐ ca del Congresso Usa in piena campagna elettorale per le presi‐ denziali. Non bisogna poi tralasciare il ruolo delle lobby dei produttori agricoli la cui pressione è risultata probabilmente decisiva. La delusione per il fallimento del negoziato è doppia, considerando l’incertezza delle prospettive economiche globali e il persistente aumento dei prezzi alimentari. Il pericolo è che da tale passo falso possano nascere le basi perché i governi giu‐ stifichino posizioni maggiormente protezionistiche. L’antidoto a scenari del genere non può che essere quello di proseguire il processo avviato e riprendere i negoziati, dopo un periodo di riflessione, partendo dai progressi realizzati durante queste ul‐ time discussioni. Basti pensare che su 18 punti dei 20 all’ordine del giorno dei lavori c’era già un accordo.


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Il pagamento elettronico cerca spazio

Il processo di creazione di un mercato unico europeo dei ser‐ vizi di pagamento al dettaglio in Europa prosegue a buon rit‐ mo. Già dal gennaio del 2008, con l’introduzione della Sepa, Area unica dei pagamenti in euro, sono state superate le bar‐ riere che fino a oggi hanno caratterizzato i diversi sistemi di pagamento nazionali all’interno dell’Europa. Nei 27 Paesi mem‐ bri dell’Unione europea, più Islanda, Norvegia, Svizzera e Lie‐ chtenstein, è possibile oggi effettuare operazioni di pagamento in euro come se fossero fatte all’interno dei confini nazionali. Una tappa fondamentale nel percorso di integrazione dei mer‐ cati finanziari, paragonabile per portata e complessità all’intro‐ duzione dell’euro. La realizzazione di un mercato integrato dei pagamenti con condizioni, diritti e obblighi uniformi, è un con‐ tributo importante all’abbattimento delle barriere che ancora separano i singoli stati europei in un ambito così sensibile e importante nella vita quotidiana come i sistemi di pagamento. Un sistema dei pagamenti integrato, infatti, è un fattore critico di coesione istituzionale oltre che economico se pensiamo che Numero 178, p. 20 del 6/9/2008.


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ogni anno in Europa vengono realizzati 231 miliardi di opera‐ zioni, per un valore complessivo di 52 mila miliardi di euro. In questi ultimi giorni dall’EPC European Payment Council , l’or‐ ganismo di coordinamento e di indirizzo del progetto, compo‐ sto da banche e gruppi bancari europei sono arrivati ulteriori segnali positivi. È stato pubblicato un documento di indirizzo che mira a facilitare l’attuazione dell’area unica dei pagamenti in euro l’obiettivo è far si che le differenti carte di pagamento europee siano accettate ovunque nella zona Sepa. A otto mesi dalla sua introduzione il 50% dei bonifici degli italiani è stato fatto seguendo la disciplina del Sepa, ovvero, con il semplice utilizzo del codice internazionale Iban. Ma la vera trasformazione del settore avverrà nel momento in cui l’Italia recepirà al massimo entro un anno la direttiva sui servizi di pagamento, e cioè la base giuridica della Sepa. Con la direttiva vengono fissati requisiti qualitativi minimi che i servizi di pagamento dovranno rispettare, quali i tempi di esecuzione e la responsabilità del prestatore di servizi di pagamento per la corretta esecuzione della transazione. Con il recepimento della direttiva sarà finalmente possibile aprire il mercato anche a una nuova categoria di soggetti specializzati nell’offerta di servizi di pagamento, denominati «Istituti di pagamento», che potranno esercitare tale attività finanziaria in parallelo a un’attività com‐ merciale. Una maniera questa per aprire il mercato a soggetti dif‐ ferenti dalle banche così da portare maggiore concorrenza in un settore abbastanza rigido e con tariffe ancora troppo elevate. Un’operazione da cui ci si aspetta un notevole giovamento per l’intera economia: basti pensare che un aumento del 10% della quota di pagamenti elettronici in Europa favorirebbe un incre‐ mento dei consumi interni fino a mezzo punto percentuale.


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Nell’Ue la microfinanza si affida a Jasmine

La difficoltà di accesso al credito in Europa, per chi ha idee imprenditoriali valide ma manca di strumenti finanziari per metterle in pratica, continua a costituire un grande ostacolo. In Europa l’attività di microcredito è deludente e l’entità dei capitali coinvolti in progetti del genere non è paragonabile con il mercato creditizio tradizionale. Sono ancora troppo po‐ che le banche che, oltre all’erogazione di un prestito, si fanno promotrici di interventi di accompagnamento nella fase di progettazione e di start‐up di un’iniziativa imprenditoriale. La presentazione, da parte della Commissione europea, del‐ l’iniziativa «Jasmine» è quindi un buon segnale e un passo in avanti nella risoluzione di tali problematiche. Si tratta di un nuovo strumento finanziario rivolto sia a fornire assistenza tecnica alle istituzioni di microfinanza per aiutarle a essere intermediarie finanziarie credibili e ottenere più facilmente capitali, che a finanziare operazioni di istituti non bancari promettenti affinché riescano ad accordare prestiti a soste‐ gno di progetti. Numero 193, p. 16 del 27/9/2008.


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Il valore aggiunto di tale iniziativa sta proprio nel suo ca‐ rattere europeo, perché per affrontare il problema del micro‐ credito non bastano iniziative isolate di alcuni governi, ma so‐ no invece necessarie azioni congiunte di ampio respiro da parte delle autorità nazionali e comunitarie. L’originalità di «Jasmine» è mettere insieme una grande molteplicità di attori: dalle istituzioni Ue Commissione, Banca europea degli inve‐ stimenti e Parlamento alle banche pubbliche e private. In Eu‐ ropa, il microcredito si rivolge principalmente a due categorie, alle piccole imprese e alle persone svantaggiate che tentano di passare al lavoro autonomo e incontrano difficoltà ad accede‐ re ai servizi bancari tradizionali. Secondo le stime fornite da Eurostat, infatti, la domanda potenziale di microcredito nel‐ l’Unione europea potrebbe generare più di settecentomila ri‐ chieste di nuovi prestiti per circa 6,3 miliardi di euro. E saran‐ no soprattutto le persone escluse dai servizi finanziari classici che faranno uso di questi microprestiti. Domanda di micro‐ crediti che negli ultimi anni è andata sempre più crescendo, un elemento questo che non deve sorprendere considerato che, durante gli ultimi venti anni, l’economia europea si è evo‐ luta passando da una struttura trainata da grandi industrie a una basata sulle piccole imprese, il che spinge automatica‐ mente in alto la richiesta di piccoli prestiti. In attesa del de‐ butto ufficiale di «Jasmine», che è previsto per il 2009, sareb‐ be auspicabile che anche i governi europei facciano la propria parte, introducendo per esempio nei programmi nazionali di riforma, collegati alla Strategia di Lisbona, azioni rivolte a fa‐ vorire la nascita e la diffusione di istituti microfinanziari non bancari. Sarebbe un doppio passo in avanti, per le imprese e per l’economia europea.


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Caro Barroso, perché non ti batti per il supervisore?

Che strana sensazione arrivare a Bruxelles e trovare lo sportel‐ lo dell’istituto bancario Fortis, che ha una filiale proprio in Par‐ lamento, affollato di persone che in fila attendono di poter ri‐ prendere i propri risparmi per destinarli a un posto più sicuro ma lo sarà davvero? . Giusto il tempo di salire in ascensore e arrivare alla scrivania per leggere sulle agenzie di stampa che Nout Wel‐link, governatore della Banca Centrale olandese, ras‐ sicura i vertici europei e i cittadini della buona riuscita del sal‐ vataggio di Fortis concluso dai governi di Belgio, Olanda e Lus‐ semburgo. Le parole del governatore Wel‐Link, e poi le rassi‐ curazioni dei suoi colleghi europei, alla fine della giornata sem‐ brano cadere nel vuoto e il valore di Fortis toccherà valori ne‐ gativi da record. Questo accade perché i cittadini non credono più nella sincerità e nella serietà di chi governa i mercati finan‐ ziari e sono preoccupati per i loro risparmi, per l’accesso al credito e per le loro pensioni. Non ci credono più perché, a un anno dall’inizio della crisi, in Europa poco e niente è stato fatto per dimostrare che non si vuole più incappare in simili disa‐ Numero 198, p. 12 del 4/10/2008.


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stri. Un capitalismo selvaggio che in questi anni non ha più in‐ vestito nelle imprese e nell’occupazione, ma si è sbilanciato pe‐ ricolosamente in una speculazione incontrollata. Una derego‐ lamentazione generale dei mercati finanziari che non appare più sostenibile. L’intervento straordinario di parziale nazionalizzazione del gruppo bancario Fortis è un segnale preoccupante per l’intero sistema. Che il “bubbone” della crisi dei subprime si fosse tra‐ smesso all’Europa era cosa evidente, ma più grave è che a oggi ancora non si conoscano, o peggio non si rendano pubblici, i numeri precisi di questa crisi finanziaria. Le stime del Fondo Monetario Internazionale divergono di molto da quelle tra‐ smesse in ambito europeo. È allora urgente che durante il prossimo vertice del Forum di Stabilità Finanziaria si faccia chiarezza anche su questo punto, perché noi tutti abbiamo il diritto di conoscere il reale stato di salute dei nostri istituti bancari di riferimento per fa‐ re delle scelte informate. Tra l’altro l’intervento di salvataggio di Fortis non rappresenta una ricetta anticrisi applicabile ai prossimi potenziali casi. È inimmaginabile continuare a na‐ zionalizzare le perdite di gestioni irresponsabili. Interventi straordinari come questo sono invece l’ennesima prova della necessità di accelerare nell’opera di riforma del sistema di vi‐ gilanza bancaria. Una promessa che la presidenza francese della Ue per ora disattende colpevolmente. Abbiamo visto be‐ ne come l’Europa paga anche le conseguenze del «no» del Congresso americano al piano di salvataggio presentato da Bush. Questo perché la Ue non è capace di parlare da pari a pari con gli Usa. Soltanto dotandoci di un supervisore euro‐ peo che rappresenti gli interessi della zona euro potremo un


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L’Anatra zoppa

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giorno presentarci come un interlocutore credibile sulla sce‐ na internazionale e discutere sul come affrontare insieme emer‐ genze del genere. Ma qui torniamo a parlare di riforme, una parola che sembra essere completamente sconosciuta alla Commissione Barroso.


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Finito di stampare nel settembre 2010 con tecnologia print on demand presso il Centro Stampa “Nuova Cultura” p.le Aldo Moro, 5 ‐ 00185 Roma www.nuovacultura.it per ordini: ordini@nuovacultura.it int_9788861344655_14


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