

Periodico Trimestrale Gratuito di divulgazione Medico Scientifica
DICEMBRE 2022 ANNO 7 N. 4
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Periodico Trimestrale Gratuito di divulgazione Medico Scientifica
DICEMBRE 2022 ANNO 7 N. 4
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Medico di base: non un tuttofare da dare per scontato
C. Barbati
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Hanno collaborato a questo numero:
Chiara Barbati Giornalista
La testata MTD - More Than Drug è registrata presso il Tribunale di Napoli - reg. n° 49 del 17 ottobre 2016
Intervista a un medico di base sul ruolo della medicina territoriale e sulle difficoltà sul campo
Chiara Barbati Giornalista
Sono i meno considerati del sistema, i più sottovalutati. Eppure, sono anche i primi che chiamiamo quando qualcosa non va, quelli a cui ci affidiamo, di cui ci fidiamo. Quello del medico di base – medico di medicina generale – è un lavoro molto più importante di quanto si pensi e, purtroppo, molto più difficile di quel che sembra. Non si tratta, però, di difficoltà legate alla materia, quanto alle disfunzioni del sistema, che non è in grado di mettere i medici del territorio nelle condizioni giuste per svolgere il loro lavoro con serenità, assicurando ai pazienti l’assistenza sanitaria di cui hanno bisogno, e ai professionisti il rispetto dei diritti dei lavoratori.
Il ruolo del medico di base è fondamentale per la Sanità Pubblica. Affidare ogni cittadino a un medico che ne segue tutti i dettagli relativi alla salute, che offre cure ai malanni, prevenzione opportuna e che sbriga molte faccende burocratiche – come le prescrizioni o i certificati – sgrava il sistema di tantissimo lavoro. Eppure, chi vive o osserva questo mestiere da vicino lamenta una sorta di tendenza a considerare il medico di base un tuttofare, un jolly a cui rifilare qualunque compito che non si sa a chi affidare. E poiché le difficoltà sul campo di un lavoro sommerso e spesso sottovalutato difficilmente emergono, abbiamo deciso di intervistare uno di loro, una professionista che ci ha illustrato il ruolo e le difficoltà della medicina territoriale.
Com’è il lavoro del medico di base?
«Vorrei prendere in prestito, per descrivere le difficoltà del nostro lavoro, le parole che Silvestro Scotti ha utilizzato recentemente. Nel corso di un’intervista concessa alla nota trasmissione Report, il Segretario Nazionale del Sindacato si è visto più volte posta una domanda sulla quantità di lavoro che comporta essere un medico di base. Il nostro lavoro, però, non si può quantificare, non può essere calcolato in ore. Il nostro lavoro si fa finché c’è necessità di farlo. Non ci sono turni che finiscono e colleghi che ci sostituiscono quando il nostro orario di lavoro è terminato. C’è solo una grandissima quantità di cose da fare, che non possono essere lasciate a metà o rimandate. Fin troppo spesso non si considera quello dei medici di base come un lavoro necessario, utile. Non è ben compreso, all’esterno, quali – e quanti –siano i nostri compiti. Oltre al lavoro di cui tendenzialmente si è a conoscenza, come ambulatorio, visite, ricette, ma di cui difficilmente si vede il carico, esiste una serie di incombenze che limitano molto il nostro lavoro ma di cui non si ha alcuna contezza. Basti pensare che le autorità sanitarie, come le Asl, organizzano il loro lavoro poggiando sul nostro, caricandoci
di una serie di prestazioni aggiuntive sempre in aumento e affidando a noi ogni eventuale nuova necessità. L’abbiamo visto quando è scoppiata la pandemia, quando i medici di base sono stati in prima linea nell’alleggerimento del lavoro degli ospedali. Ma accade, in modo sommerso e invisibile all’esterno, ogni giorno».
Quali sono le principali difficoltà che si incontrano?
«Sicuramente un gran problema è la nostra condizione di liberi professionisti: spesso il nostro lavoro non è chiaro, mentre il resto della struttura sanitaria è organizzata con ruoli ben definiti. Per esempio, accade spesso che lo specialista ambulatoriale debba svolgere alcuni compiti per così dire burocratici che spesso rimanda a noi. Lo specialista lavora a orario, ha un numero di visite contate, e chi non entra viene messo in lista d’attesa. Noi, invece, non abbiamo liste d’attesa e non lavoriamo a ore, lavoriamo finché non abbiamo finito tutti i controlli, le visite domiciliari, le prescrizioni, i vaccini, le prenotazioni e le consulenze dei nostri pazienti. Per questo, il nostro lavoro non può essere quantificato. Esistono, però, una serie di disposizioni che avrebbero ridotto il nostro lavoro e che non vengono effettivamente messe in pratica da altre tipologie di professionisti, come i medici ospedalieri. Ed è per questo che la situazione si fa più complicata.
«Quando un paziente viene dimesso dall’ospedale, la legge prevede che sia il medico dimettente, ovvero lo specialista, a emettere il certificato medico di malattia Inps. Invece, la maggior parte delle volte alcune informazioni importanti, come la prognosi, vengono omesse, e questo compito viene rimandato al medico di base. Allora io mi trovo non solo a fare i certificati di malattia che già mi spettano, quelli del paziente che resta a casa perché malato, ma anche quelli dei pazienti dimessi dall’ospedale, probabilmente malati e che hanno bisogno di riposo, e che invece devono recarsi in studio da me per mostrarmi i motivi della malattia, quando questo compito avrebbe potuto – e dovuto – essere svolto al momento delle dimissioni.
«C’è un eccesso di burocrazia, un po’ per inefficienza della Asl, un po’ per mancato aggiornamento degli specialisti, che non si adeguano alla legge Brunetta. Noi segnaliamo quotidianamente queste disfunzioni all’Ordine dei Medici, che ormai ha acquisito che noi siamo appesantiti nel nostro lavoro da questa situazione, ma l’attivazione delle disposizioni continua a tardare.
«La stessa situazione si ripete, per esempio, anche con alcuni esami che adesso sono prescrivibili da parte degli specialisti, come le risonanze magnetiche. Si tratta di esami molto costosi, che un medico di base non può prescrivere con leggerezza se non ha tutte le informazioni che possiede lo specialista che ha richiesto quell’esame. Potendo prescriverlo loro, adesso, si eliminerebbe un problema. Invece, fin troppo spesso l’onere della prescrizione viene rimandata a noi, senza neanche una prognosi accurata che spiega per quale motivo è richiesta la prescrizione di tale esame. Io mi trovo spesso in difficoltà, perché non posso prescrivere esami costosi – noi siamo controllati sulla spesa sanitaria – senza avere la certezza che sia necessario, e lo specialista fin troppo spesso non solo non emette la prescrizione lui stesso, ma nel rimandarla a me omette anche dettagli importanti e mi costringe a indagare ulteriormente, rifacendo un lavoro che ha già fatto lui, o a rincorrerlo per avere maggiori infor-
mazioni, pur di non rifiutare la prescrizione al paziente. Nelle altre Regioni, i medici specialisti hanno un ricettario. Da noi, invece, io devo vedere la visita dello specialista, devo acquisire se ha scritto la diagnosi, devo capire se è giusta la sua richiesta in base alla diagnosi che lui fa, che non sempre è descritta, e devo prendermi io la responsabilità per una cosa che non dovrebbe ricadere su di noi».
«Non si gestiscono, non bene almeno. Nel mio studio, siamo in 5 persone a lavorare. Per fare il mio lavoro, con 1600 pazienti – e stanno pensando di aumentare il massimale a 1800 o addirittura di arrivare fino a 2000 – non basta una persona, ne servono cinque, tutte mantenute da un unico stipendio: due dipendenti e due liberi professionisti che collaborano con me, perché è impossibile per me svolgere l’intero lavoro che ci è assegnato da sola. Il problema è che l’organizzazione è sempre confusionaria, le informazioni che ci giungono dalle autorità competenti sono spesso confuse, e non c’è reale contezza del nostro lavoro. Per esempio, ci è da poco stato comunicato che dovremo prestare servizio per sei ore a settimana nelle case di comunità. Io ho bisogno di altre quattro persone per fare il mio lavoro, talvolta resto in studio fino a tarda sera, e adesso dovrò anche svolgere sei ore nelle case di comunità? E quando dovrei farle, se io già ne faccio tante e neanche riesco a finire, e ho bisogno di altre persone per smaltire il lavoro che ufficialmente è riservato solo a me? Essere libero professionista, per noi medici di base, significa essere liberi di pagare qualcuno per dividere il lavoro che da soli non riusciamo a fare, o tenerci tutto il guadagno svolgendo però un lavoro non produttivo né efficiente. Oppure di lavorare incessantemente senza fermarci e senza che i diritti dei lavoratori siano rispettati, per fare tutto da soli e farlo bene. Insomma, in ogni caso noi ne usciamo sconfitti, e anche i nostri pazienti, che non riescono a ricevere i servizi di cui hanno bisogno perché noi siamo oberati di lavoro».
Cosa vorrebbe dire a chi è responsabile di questa situazione e anche a chi non conosce le dinamiche e le problematiche dietro il lavoro del medico di base? «L’insoddisfazione più grande è forse il fatto di non essere riconosciuti nel nostro lavoro. Non per velleità di merito, quanto per efficienza delle cure. Se non è chiaro all’esterno quanto sia importante ciò che facciamo, e quanto ogni nuova incombenza ci appesantisca, rendendo sempre meno efficiente ciò che facciamo. È il paziente a rimetterci. Si crea uno spreco di energie dovuto al malfunzionamento del sistema. Il mio ruolo, il mio lavoro, è sfruttato male, non è valorizzato nelle sue potenzialità e diventa la sede di accumulo del lavoro altrui. E il problema non è solo mio, che non vivo serena e che sicuramente lavoro molte più ore di quanto sia legalmente tollerato. Il problema è dei cittadini, dei nostri pazienti, che vivono in un sistema che non è in grado di garantire l’assistenza di cui hanno bisogno».
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