Due storie

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Vittorio Storti

due storie -----

Numero 42 Giorno d'autunno


Numero 42

Sono ancora turbato dallo strano sogno che ho fatto questa notte. Così mi sono ricordato di quella sera dello scorso anno quando, tornando a casa dal lavoro, nel momento di entrare in ascensore, con me saliva un signore che non avevo mai incontrato prima. “Toh, una faccia nuova!” dico tra me, e poi saluto: « Buongiorno. » « ’giorno. » La risposta è forse un po’ sostenuta. Comunque azzardo: « Che piano? » « Sesto, grazie. » Eseguo. E intanto penso: “Oh bella, il sesto piano è il mio. E ci abitiamo solo in due famiglie, la mia e quella del mio vicino. Ex vicino, perché ha traslocato due mesi fa. Quindi l’altro appartamento dovrebbe essere vuoto. O no?” L’ascensore sale silenzioso, e in silenzio stiamo tutti e due, io e l'altro. Guardo la pulsantiera, poi il soffitto della cabina, infine mi guardo le scarpe. Involontariamente lo sguardo mi scivola sulle sue, di scarpe, e cerco di non farmi accorgere (sono un po’ sporchine, eh?). Lui, lo vedo con la coda dell’occhio, fa 2


più o meno allo stesso modo. E tutti e due abilmente evitiamo di incrociare gli sguardi. Ma come sono lunghi sei piani! Finalmente siamo arrivati, e intanto ho avuto il tempo di pensare qualcosa. Io sarei uno che parla poco, ma qualcosa bisogna pur dire. E se questo fosse il mio nuovo vicino? Io sono il vicino più anziano, e toccherebbe a me di parlare per primo: « Ah, lei è forse il nuovo vicino? » « Sì, da ieri. » « Allora... ben arrivato! » Tendo la mano e: « Molto lieto, io sono Brambilla. » « Io sono il quarantadue. » Sguardo allibito (il mio). « Numero quarantadue. Sul citofono. » Sguardo allibito (sempre il mio). « Non lo sa? È la privacy! » « Ah già! » Adesso non sono più allibito, ma piuttosto avvisato. Cioè messo sull’avviso, che il signore dev’essere un tipo un po’ originale.

In casa trovo che mia moglie non è ancora rientrata, impegnata com’è in questo periodo in estenuanti riunioni a scuola. Arriva appena in tempo per la cena, e non so come, 3


dimentico di riferirle l’episodio.

Due sere dopo incontro una signora mai vista prima, che tiene per una mano un bambinetto e con l’altra regge un sacchetto della spesa. Stesso ascensore, stessa commedia. Solo che, nella schermaglia degli sguardi durante la salita, gli occhi mi cadono anche sul didietro della signora. “Notevole, però” penso tra me “certo che la signora ha voluto esagerare. Che numero sarà? Più che un sedici mi sembra un… quarantadue?” E infatti! Appena arrivati al mio (al nostro) piano, mi azzardo a presentarmi: « Buongiorno, io sono Brambilla. Lei è la signora…? » « Numero quarantadue. » « Sul… citofono? » « Ovvio, sul citofono! » Allora provo ad attaccare col piccolino. « Ciao bello. Come ti chiami? » Nessuna risposta. « Parla poco, sa? È timido. Buonasera! » « ’sera! » Identificazione completa con il numero (o col citofono?). Così non ho potuto sapere il nome della signora, moglie del

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numero quarantadue. Moglie probabile, ma non si può sapere, sempre per via della privacy. E il bambino? Parla poco, ma se parlasse direbbe anche lui che è un quarantadue. Di citofono. Anche lui avrà pur diritto alla sua piccola privacy!

Similmente alla prima sera in cui avevo incontrato lui (il quarantadue), anche questa volta entrando in casa non trovo mia moglie, nuovamente in riunione a scuola. Rientra per la cena, e ci mettiamo subito a tavola.

Dopo cena in televisione danno un film che non vogliamo assolutamente perdere: è ”Schindler’s List”, di Spielberg. Abbiamo appena il tempo di sederci in poltrona davanti al nostro televisore che incominciano a trasmettere. È un film dai toni color grigio scuro, fumoso di camini e con la neve che continua a cadere. Fa rabbrividire. Ad un certo punto c’è una scena in cui si vedono masse di internati che si muovono trascinando i piedi nella neve e si mettono in fila con le loro gamelle per avere un misero pasto. Sono vestiti con un leggero pigiama a righe, molti di loro hanno cucita addosso la stella di Davide, e tutti portano il loro numero che devono ricordare a memoria.

Preso da una intuizione improvvisa, e forse per sciogliere 5


con una battuta un po’ del pathos del momento filmico, esclamo: « Guarda quanti numeri di citofono! » « Ma sei impazzito? » « Aspetta, al primo stacco ti spiego. »

Alla prima raffica di pubblicità, le racconto i miei incontri in ascensore. « Ah, li hai visti? Io non ancora. Devono aver fatto trasloco quel sabato in cui eravamo fuori Milano! Adesso capisco anche perché non hanno messo il nome sulla porta! » « Gente senza nome! Si potrebbe persino dubitare della loro esistenza. » « Beh, tu almeno li hai visti. Dovrei essere io a dubitare... » « Voglio dire che, da un certo punto di vista, negare il nome di una persona è come annullarne l’esistenza. Secondo la logica per cui "mi chiamano con un nome, quindi esisto". » « Non so perché, questa cosa mi ricorda Cartesio. » « Può darsi. Però nei campi di concentramento sostituivano il nome con un numero, proprio per negare l’esistenza di quei deportati. » « Non per negare l’esistenza, ma la dignità di persone. È come dire: "voi non siete persone, ma numeri!". » Provo a insistere con le mie teorie:

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« Allora considera che anche nella Bibbia c’è un concetto che si avvicina… Addirittura anche gli animali potrebbero essere associati a questo concetto di senza-nome=nonesisto. » « Ma quando? » « Mi sembra nella Genesi, al momento della creazione. Quando Adamo deve dare un nome a tutti gli animali. » « Che sono già stati creati da Dio…» « ...ma l’uomo, mentre chiama per nome ciascuno di essi, è come se li creasse di nuovo. » « Mmm, questo mi sa di eresia! » « Però è innegabile la potenza del nome. Voglio dire: il significato del nome che si fa materia. » « Meglio lasciare queste elucubrazioni a persone come Umberto Eco! » « E va bene. Ma perché credi che uno voglia sostituire il nome sul citofono con un numero? » « Non lo so. Forse per nascondersi. Magari uno è un pentito di mafia, oppure non vuole farsi trovare dal creditori, o da quelli delle tasse. » « Sì, ma mettere un numero è come dire: “guardate che qui abita uno che si vuole nascondere”. Allora è meglio un nome falso. »

La fine dello stacco pubblicitario mi salvò dallo spararne di 7


peggiori, e non riprendemmo più quel discorso. Naturalmente non venimmo a capo del nome dei nostri nuovi vicini, con i quali peraltro gli incontri erano veramente sporadici. Cosa che nei nostri condomìni è possibile, e direi anche normale.

Fu solo un mese fa che drammaticamente i misteriosi vicini tornarono alla ribalta. Al cancelletto di ingresso del nostro condominio trovai affisso un annuncio di morte così concepito:

LUTTO PER LA MORTE DI …nr. 42… La data dei funerali sarà comunicata successivamente. Pompe Funebri Perseghetti”

Andai a chiedere in portineria, mi vergognavo di dire che non conoscevo il nome dei vicini, ma non volevo nemmeno carpire più informazioni del necessario. Anche il custode è tenuto al rispetto della privacy dei condomini. È un po’ come un medico, che conosce i vizi e le virtù dei propri pazienti, ma non li divulga. « Buongiorno, ho visto l’annuncio di morte del… quarantadue. Sono senza parole. » In realtà volevo dire: “Che cosa è successo? È morto il

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signore? È morta la signora? Il piccolino? Sono morti tutti?” (una tragedia!). « Una disgrazia, un incidente d’auto, lo sa come succede. In autostrada. » Lo so come succede. Ma a chi sarà successo? « Il... signore? » « Sì, il signore. Era da solo in macchina. » « Mi dispiace. E dei funerali, non si sa niente? » « Sull’annuncio dicono che faranno sapere. » « Grazie, e buongiorno. »

Mi aveva già detto troppo. Per la privacy intendo. La data dei funerali non venne mai comunicata. Invece qualche giorno dopo comparve un biglietto di ringraziamento, scritto col computer, in cui la famiglia quarantadue ringraziava.

Torno in portineria. « Mi scusi, non ho visto l’annuncio con la data dei funerali del mio vicino. Magari ci sarei andato. » Magari lì avrei saputo almeno il nome, e forse addirittura il cognome. « Non l’hanno comunicato. In confidenza però uno dei condomini mi ha detto che lo hanno cremato, e le ceneri, portate direttamente al cimitero, sono state sepolte in una fossa comune. » 9


Ho un sussulto, seguito da una rapida intuizione. « Forse è per la privacy? » « Bravo, proprio per quella! » --Ieri se ne sono andati. Mamma e figlio numero quarantadue hanno traslocato. Mi dispiace, forse potevo cercare di socializzare; anche per il bambino, poveretto, con quei genitori. Ah, questa benedetta privacy! Adesso spero che vengano dei vicini normali, senza numero ma con un nome normale. Tipo Rossi, o anche Scianquagliulo. Un nome pronunciato, comunicato a tutti, e scritto perfino sul citofono.

Intanto questa notte ho fatto un sogno strano, di quelli che ti dici chissà, ieri sera devo aver mangiato qualcosa che mi è rimasta sullo stomaco. Il mio vicino che arriva in paradiso, e dice: “Son qua!”. Il signore che lo accoglie ha una gran barba e i capelli bianchi, gli occhi fiammeggianti e la statura imponente. Il mio vicino è intimidito; dice ancora: « Sono qua! » « Chi sei? » « Sono il quarantadue. » 10


« Che cosa? » « Sono il quarantadue. Di citofono. » « Non conosco nessun numero quarantadue. Vai al diavolo! » « Come? » « Non ti conosco. Per me non esisti, vai al diavolo! Vai all’Inferno! Lì c’è posto. » « Ma come è possibile? Ma lei... chi è? » « Io? Sono il numero Uno! » « Di…citofono? » « Certo. È la privacy! »

V.Storti, 2013 11


Giorno d'autunno

Sul banco di prova i relè reed frinivano come cicale. Andrea li toglieva uno ad uno dalla giostra nella quale da più di un’ora battevano al ritmo di cinquanta impulsi al secondo. Ogni tubetto reed era contrassegnato da un numerino scritto su un pezzo di nastro giallo. Uno alla volta li inseriva nel sistema di misura e armeggiava con levette e manopole. Leggeva sugli strumenti i valori di Ohm e Amperspire e li annotava accuratamente in una tabella.

Si fermò un istante e impaziente lanciò un’occhiata al grande orologio appeso ad una parete del laboratorio. “Sono le quattro e dieci” sospirò “forse ce la faccio a finire le misure” si disse. Tra poco sarebbe cominciato il solito sciopero che ogni pomeriggio da un po’ di tempo a questa parte si aggiungeva alle giornate di sciopero generale, alle mezze giornate, agli scioperi di reparto e non ricordava più quant’altro.

Meccanicamente riprese ad estrarre i suoi relè reed dalla giostra, sottoporli a misura e annotarne i valori. 12


Nella tabella una nuova colonna di numeri si riempiva a fianco di quella delle misure eseguite prima della prova “di sbattimento”, come la chiamavano scherzosamente fra colleghi.

I quali colleghi stavano cercando anche loro di finire le prove. Al venerdì spegnevano sempre le apparecchiature e ripulivano i tavoli. Li intravedeva attraverso i banconi: Armando e Gaetano che parlottavano tra loro mentre staccavano i cavetti volanti di collegamento, Paolo che armeggiava in un armadio metallico, mentre Alberto scriveva un rapporto seduto alla sua scrivania.

A proposito di tutte quelle prove che facevano sui componenti, quando si doveva misurare una consistente quantità di pezzi, gli capitava spesso di fantasticare di apparecchiature in grado di leggere automaticamente i valori, di registrarli e fare da sole tutti i calcoli, “sparando” fuori i risultati in forma di grafici già belli e pronti. Andrea guardava la sua tabella ormai completa. I calcoli di media e varianza li avrebbe fatti lunedì prossimo, un po’ a mano e un po’ aiutandosi con la Divisumma del laboratorio. In caso di dubbi sulle formule di “chi quadrato”, Poisson e altro, in un cassetto della scrivania di Gaetano era custodito 13


gelosamente il Boldrini di statistica.

Adesso era ora, e qualcuno stava già uscendo. Ci mise un po’ per spegnere tutte le apparecchiature, smontare e riporre i cavi e gli strumenti di misura. « Ciao. Stai qui stanotte? » l’Armando scherzava sempre. « Certo che no. Adesso me ne vado anch’io ».

La sua ragazza lo aspettava. « Sono a studiare in Sormani. Vieni a prendermi? » gli aveva detto. « Bene. Posso essere lì alle cinque e mezza ».

L’appuntamento con Anna era davanti alla biblioteca. Con l’auto l’avrebbe raggiunta, sarebbero andati magari a prendere qualcosa al bar, poi l’avrebbe accompagnata a casa. Un paio d’ore per stare assieme, sembrava sempre troppo poco ma era già qualcosa. Con il suo pacco dei libri sottobraccio schizzò fuori quasi correndo. Paolo lo inseguì trafelato fino alla cartelliera. Davanti alla timbratrice lo stuzzicò: « Dove vai così di corsa? Non dirmi che vai in università anche stasera! ». Andrea alzò le spalle « Ci vediamo lunedì. Ciao » disse sorridendo. 14


« Ciao ».

Non gli andava di parlare di Anna coi colleghi di ufficio. Anche se tra loro c’era un ottimo rapporto, preferiva tenere separate la vita di ufficio e la vita fuori... E poi Anna era importante, il loro rapporto era una cosa preziosa, da proteggere e custodire gelosamente.

Mentre varcava la soglia dello stabile di via Bernina, meccanicamente si guardò il polso. Aveva timbrato alle cinque meno venti, ma il suo orologio era indietro di quasi mezz’ora. Lo portò all’orecchio per sentire il ticchettio ”Accidenti, non va ancora bene. Pazienza!” mormorò tra sé.

Raggiunse la Dauphine parcheggiata dietro l’angolo, aprì, buttò i libri sul sedile dietro e mise in moto. Si buttò nel traffico che andava verso il ponte di via Farini. Cominciava a scurire, così accese le luci. Seguiva lo stesso percorso che faceva ogni sera per andare all’università. Si trovò subito incolonnato, costretto ad un’andatura quasi a passo d’uomo. Friggeva perché temeva di arrivare in ritardo. Era spesso in ritardo, ed era sempre di corsa. Al lavoro, all’università serale, a casa. La ragazza, che era la cosa più importante, confinata negli spazi che riusciva a ritagliare in mezzo a tutti gli altri impegni. 15


“Già, quanto ad impegni anche lei ha i suoi. Si sta laureando in lettere e fa anche delle supplenze a scuola”.

Non potendo sfuggire all’ingorgo, tentò di evadere con il pensiero. Come spesso succedeva iniziando mentalmente un lungo monologo. Ripensava ai primi giorni, ai primi mesi di lavoro. Aveva cominciato a lavorare nell’azienda con altri suoi compagni di scuola. Erano un bel gruppo, ma erano portatori di un po’ di quei fermenti che cominciavano ad agitare il mondo studentesco. Ripensava ai discorsi tra compagni, le motivazioni e i dubbi sulla scelta della professione. Le delusioni, anche, di chi usciva dalla scuola con tante aspettative, e doveva fare i conti con la realtà del mondo del lavoro. Un po’ di quelle inquietudini e qualche rimostranza avevano cercato di trasferirle anche in alto... ricordava una frase che aveva detto loro il capo del personale: « Forse loro preferivano impiegarsi nel settore delle correnti forti? ». “Già, anche quella poteva essere una buona scelta. Però io alla fine come professione ho scelto le telecomunicazioni. O forse le telecomunicazioni hanno scelto me”, diceva tra se con un pizzico di autoironia.

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“Se poi si vuol dare al lavoro un valore etico, le telecomunicazioni rappresentano una buona scelta. Costruire telefoni, dare un telefono ad ogni famiglia è cosa buona. E c’è anche la curiosità per questa tecnica che conosco ancora poco, ... e forse la promessa di grandi cambiamenti dietro l’angolo, se davvero l’elettronica farà il suo ingresso nelle telecomunicazioni. In questi due anni di formazione ho visto il reparto che progetta i tradizionali circuiti elettromeccanici, ma anche il laboratorio di progettazione elettronica che sta lavorando sui sistemi del futuro. E intanto mi macino un po’ di misure su questi nuovi relè... ”.

Per preparare il futuro l’azienda assumeva diplomati e laureati in varie discipline, non soltanto in telecomunicazioni ma anche in elettrotecnica, elettronica, meccanica, matematica o fisica, e li inseriva in un percorso di formazione interna che toccava vari reparti. Non tutti rimanevano, anzi prima di finire quel periodo parecchi avevano lasciato l’azienda attratti dalle offerte della concorrenza.

“Io però alla fine sono rimasto, mentre tutti i miei compagni se ne sono andati in altre aziende. E un po’ di insoddisfazione può essere uno stimolo per migliorare, forse 17


è così per tanti giovani che cercano di arrivare al diploma frequentando l’istituto tecnico serale. Una specie di riscatto per chi proviene da famiglie di operai”.

Altri già diplomati come lui andavano all’università serale. Come l’Armando che era iscritto come lui a Economia. « Una buona scelta » diceva, « che può dare buone opportunità in futuro ». Era una scelta che integrava una formazione scolastica che percepiva troppo tecnica. Chissà...

Intanto si era lasciato indietro il ponte, aveva superato il Cimitero Monumentale ed aveva imboccato il viale dei Bastioni di porta Volta. C’era un traffico nervoso. Cercò con lo sguardo un orologio stradale per trovarvi conferma del suo ritardo.

“Anna è già là ad aspettarmi? Speriamo non ancora! Certo questi scioperi in parte fanno comodo, perché possiamo vederci più spesso. Poi mi avanza qualche ora in più per studiare, o per andare a qualche lezione pomeridiana. Però se fossimo sposati... per chi ha famiglia è dura, con la busta paga più corta!”.

Se all’inizio il peso degli scioperi lo avevano sostenuto 18


soprattutto gli operai, lasciando gli impiegati liberi di aderire o meno, poi le cose erano cambiate. Dopo la comparsa di un manifesto di denuncia di una decina di crumiri, con tanto di nomi e cognomi, appeso al muro di fronte all’ingresso principale, gli operai dei reparti di produzione avevano cominciato a girare per gli uffici per tirare fuori i cosiddetti “furbi”. Che si fosse d’accordo o meno con gli scioperanti, era consigliabile uscire, e la stessa direzione lo consigliava, per evitare situazioni spiacevoli.

Costeggiò il Castello e si buttò su Largo Cairoli “Forse facevo meglio a scegliere un’altra strada!”. Puntò deciso verso l’imbocco di via Dante. Qui un paio di auto della polizia bloccavano l’accesso verso piazza del Duomo. Un vigile con la paletta alzata fermava il traffico, mentre provenienti dal centro arrivavano ambulanze a sirene spiegate. Soffocò un’imprecazione, pensando che tutto sommato lui aveva solo un problema di ritardo, mentre quelli...

Passate le ambulanze, il vigile agitando nervosamente la paletta fece cenno di proseguire oltre. Cercava di non allontanarsi troppo dalla sua meta, ma ormai era come se una forza misteriosa gli impedisse di andare dove voleva. Quando si rese conto di questo, cominciò a 19


cercare con lo sguardo un posto dove parcheggiare. Lo trovò finalmente in via Senato, dove salì con due ruote sul marciapiede, chiuse l’auto e si mise a correre verso il centro. Cercava di aprirsi un varco tra la gente che gli veniva incontro. Dopo un po’ cominciò ad ansimare, e rallentò un poco l’andatura.

C’era qualcosa di strano nell’aria, troppa gente forse, ed era diventato importante, anzi vitale, non mancare al suo appuntamento, anche se ormai era fuori tempo, forse di una buona mezz’ ora, il sudore sulla fronte, sul collo, gli occhiali appannati, e lui che ogni tanto urtava qualcuno correndo ormai un po’ scompostamente “Ah, se avessi fatto un po’ di atletica, adesso avrei più resistenza!”. Non era certo un fisico atletico, la milza gli doleva, a dallo stomaco gli saliva in bocca un sapore acre di sangue. Se qualcosa era contro di lui quella sera, bisognava ad ogni modo superarla.

Stava arrancando in piazza San Babila quando si sentì chiamare. Vide i capelli biondi di lei. « Anna! » l’intenzione era forse di gridare, ma il suo nome uscì soffocato. 20


« Ho pensato che non potessi venire così sono venuta a prendere la metropolitana ». « Scusa ma c’è un traffico terribile. E’ tutto bloccato ». « Lo so, mentre ero in biblioteca ho sentito un’esplosione. Dicono che sia scoppiata una caldaia ». In mezzo alla gente che rincasava, si formavano qua e là dei capannelli che discutevano animatamente. « Dove hai lasciato la macchina? ». « Di là. Andiamo. »

Quella sera al telegiornale dissero che era esplosa una bomba alla Banca dell’Agricoltura, in piazza Fontana a Milano. Era il dodici dicembre del 1969 .

V. Storti, 2000 21


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