CAPITOLO 1
Belloveso
Piana del fiume Avara, regno celtico dei Biturigi –mese di Elembion del 586 a.C.
Il tempo stringeva.
Questione di istanti, e sarebbe stata battaglia.
Ceidrac afferrò l’ultimo ramo alla sommità del pioppo e si issò in cima, tirandosi dietro la piccola gabbia con i corvi.
Fece passare la gamba sopra una biforcazione del fusto e vi si sedette, riprendendo fiato: aveva scelto l’albero più alto e aveva dovuto arrampicarsi il più in fretta possibile.
Si passò una mano sul volto per rimuovere il sudore impastato di polvere di corteccia, ancora preda del senso di urgenza.
La visuale era perfetta: le acque dell’Avara luccicavano come argento fuso nel sole del mattino, snodandosi nella piana come un gigantesco serpente che entrava e usciva dalle distese dei boschi appassiti dal caldo umido di quell’estate torrida.
Più vicino, agli estremi opposti della prateria, i due eserciti erano schierati uno di fronte all’altro.
I colori delle insegne risaltavano contro il grigio del cielo che minacciava neve. Le bocche di ferro dei carnix, scolpite a guisa di musi animaleschi, erano ancora mute ma già sollevate e pronte a mugghiare i loro ululati di morte.
Ceidrac scosse il capo: Biturigi Cubi e Biturigi Vivisci si fronteggiavano immobili a distanza, due tuath generati dallo stesso sangue, due popoli gemelli pronti a scannarsi a vicenda per il predominio sulla terra in cui erano nati.
Spostò il proprio peso da una natica all’altra, preparandosi ad agire come gli era stato ordinato: grazie agli dèi, era arrivato in tempo. I corvi nella gabbia si agitavano, aggrappandosi alle sottili sbarre e frullando le ali, ma i piccoli cappucci di cuoio impedivano loro di gracchiare attirando l’attenzione.
All’improvviso, la tensione esplose.
I due eserciti lanciarono un boato di grida quasi all’unisono e sollevarono le spade, sbattendole contro gli scudi.
Le bocche metalliche dei carnix emisero una nota prolungata e vibrante dalla parte dei Vivisci, cui fece eco un’altra nota altrettanto lunga dalla parte dei Cubi.
Gli schieramenti si misero in marcia decisi, mentre la musica di guerra aumentava di volume. L’energia era qualcosa di palpabile: nonostante la distanza e l’altezza a cui si trovava, Ceidrac avvertì lo stomaco contrarsi per il richiamo innato alla battaglia. Era anche lui un biturige, e sapeva cosa si provava in quei momenti.
L’urlo dei due eserciti risvegliò i tamburi e la marcia si trasformò in una corsa selvaggia: i due tuath si river-
sarono inarrestabili verso lo scontro frontale, vibranti di rabbia e violenza.
Ceidrac mise mano alla gabbia dei corvi: il momento di lanciare il segnale era giunto.
Aprì lo sportellino, vi infilò la mano e tolse uno a uno i cappucci agli uccelli. Poi li liberò, lanciandoli nell’aria. Si appoggiò al tronco scaldato dal sole e osservò con trepidazione i corvi che si sollevavano in volo, gracchiando e compiendo evoluzioni sopra il campo di battaglia, come neri messaggeri del dio Brennan sulla tavola bianca del cielo.
2.
La cornacchia si levò all’improvviso dai bassi rami della palude.
Il frullare d’ali colse di sorpresa Segoveso, che si voltò di scatto, brandendo la spada.
L’uccello si allontanò tra gli alberi ritorti, scomparendo nel grigiore palustre, e Segoveso, immobile nell’acqua alta fino alle ginocchia, riprese a respirare.
Vide che suo fratello non si era fermato e si incamminò nuovamente per non restare indietro. Nel farlo si girò a lanciare un’occhiata verso i tre guerrieri della scorta.
Il primo a sinistra continuava a manipolare con gesto scaramantico la fibula a forma di triskel che gli chiudeva il mantello, mentre mormorava rivolto più a sé stesso che ai compagni.
«La donna che cerchiamo dicono cresca come la luna. Che diventi più alta degli alberi…
Scrutavano tutti e tre fra i tronchi contorti simili a
dita di cadaveri, cercando di spingere la vista oltre marcescenti tendaggi di rampicanti.
«Mio nonno» continuò il guerriero «mi raccontava di come lei sapesse farsi in pezzi per lasciarsi cadere, un arto alla volta, nei comignoli, per poi ricomporsi una volta dentro le abitazioni, e…»
«Taci!» lo interruppe in sordina Segoveso.
L’uomo obbedì, ma i suoi occhi e quelli dei due compagni continuarono a sondare inquieti la palude.
Segoveso capiva i loro timori. Anche lui conosceva fin da bambino le storie su quella che, in modo scaramantico, i vecchi accanto al fuoco chiamavano la buona compagna, e sapeva che la gente di Avaricon negli ultimi anni aveva finito con l’identificarla con la strana figura che viveva sola in quella palude. Fantasie, favole nate da fiati avvinazzati nelle lunghe notti invernali… Ma allora perché i druidi avevano mandato addirittura due principi come lui e suo fratello a cercare il misterioso tesoro che quella donna custodiva?…
Avanzarono nel ventre molle della palude un passo dopo l’altro, divorati dalle zanzare e nel completo silenzio rotto solo dagli strilli isolati degli aironi e dal borbottio della mota.
«Il figlio del fabbro» riprese il guerriero, «l’ha vista emergere oltre gli alberi dalla curva di un sentiero… e ha perso la ragione.»
«Basta!» sibilò Segoveso, afferrandolo per la giubba e fissandolo negli occhi.
Lo lasciò andare e cercò lo sguardo di suo fratello, ma questi scrutava avanti a sé, impassibile, dando loro la schiena.
Segoveso lo guardò, ammirando il suo coraggio. Ne studiò una volta di più il fisico agile e snello, meno pos-
sente del suo ma non per questo meno vigoroso. Sotto al mantello vestiva i colori del loro clan, e reggeva con forza il manico della spada. Dal palmo della mano, come una florescenza minuziosa e geometricamente perfetta, gli risaliva lungo il braccio fino alla spalla il tatuaggio che il divino Taranis aveva impresso sotto la sua pelle, in quel giorno lontano in cui lo aveva toccato con la sua folgore. Quel disegno, simile alle volute ramificate di un lungo germoglio, insieme alla macchia di capelli candidi che gli attraversava la chioma scura, sfumando come una fiamma dalla fronte alla nuca, era il vero segno che distingueva suo fratello da chiunque altro. Era il marchio della sua predestinazione.
Mentre lo osservava, suo fratello si fermò all’improvviso.
«Ecco la sua casa.» disse.
Segoveso sforzò gli occhi, perforando la nebbia sospesa tra i tronchi e i muschi.
E infine la scorse.
A mezzo miglio di distanza da loro, a terra, la capanna era incistata nel groviglio degli alberi come l’uovo di un ragno. Se ne scorgevano le pareti sghembe di pietra e il tetto di paglia annerita dal cui comignolo usciva una sottile colonna di fumo.
I tre guerrieri della scorta cominciarono a dare segni di inquietudine.
«Principi…» esordì il primo di loro, continuando a stringere la fibula nella mano. La sua spada tremava.
Segoveso annuì.
«Il vostro compito è finito.» disse –Potete tornare.»
I guerrieri esitarono solo un istante, prima di voltarsi e, facendo meno rumore possibile, avviarsi di gran passo.
Segoveso e suo fratello ripresero l’avanzata verso la capanna.
3.
Dalla cima del pioppo, Ceidrac vide i due eserciti scontrarsi frontalmente, compenetrarsi e fondersi in una mischia spaventosa.
Le grida degli uomini e gli ululati dei carnix sovrastavano il cozzare delle lame. Qua e là alcuni guerrieri venivano rigurgitati verso l’alto dall’impasto della marea umana. Avevano giusto il tempo di ruggire roteando in aria la spada per colpire, e subito venivano inghiottiti di nuovo dal magma sottostante. Le urla di furia e di agonia si accordavano in un concerto micidiale ritmato dai rintocchi del metallo.
Ceidrac continuava a osservare, stringendo le labbra. Si appoggiò con la destra a un ramo e scrutò la distesa di boschi che proseguiva pressoché ininterrotta fino all’orizzonte.
Gli uomini del rix avevano visto il segnale dei corvi?
Tornò a seguire la battaglia, preoccupato. Si domandò perché, se il sovrano sapeva che lo scontro stava per avere luogo, gli avesse richiesto di avvertirlo solo all’ultimo istante.
Si passò una mano tra i capelli… e proprio allora si accorse del brontolio sordo che, più forte del clamore della battaglia, si sollevava dal limite della foresta.
Pochi attimi ancora, e dalla vegetazione emerse la cavalleria regale.
Le insegne del clan del Cinghiale svettavano alte tra i destrieri, scintillando sotto i raggi del sole. Ceidrac non
poté reprimere un moto di entusiasmo: c’era qualcosa di divino in quell’apparizione così gloriosa.
In mezzo ai cavalieri spiccava lo stallone del rix Ambigato, reso inconfondibile dalla rarissima colorazione del suo manto, nera nella metà sinistra del corpo e bianca nella metà destra. L’elmo da parata del rix sfavillava sotto il cielo.
Ceidrac scagliò via la gabbia vuota e scese velocemente dall’albero.
Raggiunti i rami più bassi del pioppo si lasciò cadere, attutendo l’atterraggio con una capriola. Si rialzò subito e si mise a correre in direzione della piana. 4.
La capanna si faceva sempre più vicina.
L’acqua della palude aveva lasciato il posto a un terreno duro e compatto, che risuonava a ogni passo come un tamburo.
Segoveso camminava nella nebbia accanto a suo fratello, attento alle radici ritorte che affioravano dal suolo.
Man mano che si avvicinavano alla baracca, attraverso la bruma ne apparivano sempre più distinti la struttura irregolare, il tetto di paglia marcia parzialmente sfondato, le assi storte, corrose in più punti dall’umidità.
Una luce rossastra balenò all’improvviso oltre le fessure tra le tavole.
Si arrestarono entrambi.
In quell’esatto istante, vicino a loro il terreno esplose con una vampata, rigettando una colonna di fuoco alta come un uomo. La fiammata raggiunse i rami di un on-
tano, incendiandone alcune foglie, poi si ritirò, scomparendo nel terreno da cui era fuoriuscita.
Segoveso deglutì, indietreggiando di un passo.
«Attento.» disse a un tratto suo fratello, mettendosi in guardia.
Segoveso seguì il suo sguardo.
Dalla direzione della capanna stavano sopraggiungendo a grandi balzi tra la vegetazione tre creature. Si muovevano indefinibili nella nebbia e correvano a quattro zampe… ma indossavano vesti umane.
Le teste deformi dalle labbra arricciate mostravano una dentatura spaventosa da cui si staccavano filamenti di bava. Gli occhi, piccoli e scuri, sembravano buchi in un cranio bitorzoluto e munito di corna appuntite da demone. Proprio sotto di esse, penzolavano due lunghe orecchie.
«Sacri dèi!» esclamò Segoveso «…Korrigan!»
Nonostante l’evidenza, la sua mente si rifiutava di accettare che simili creature leggendarie esistessero davvero.
I ringhi dei mostri facevano da sottofondo allo scalpiccìo dei piccoli piedi e delle piccole mani sul terreno compatto, mentre le creature apparivano e scomparivano, irreali tra i banchi di nebbia.
Segoveso si mise in guardia, imitando suo fratello. 5.
La mischia fratricida dei Biturigi si incurvò nel mezzo sotto la spinta della cavalleria regale. Le maglie dell’intreccio umano si allentarono, sfilacciandosi fino a sciogliersi.