Marta mulè francesco salvatore
cronache delle anime e del caos

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Marta Mulè e Francesco Salvatore
Le vite di ieri. Cronache delle Anime e del Caos
ISBN 979-12-221-1077-6
Prima edizione ottobre 2025
ristampa 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0
anno 2029 2028 2027 2026 2025
© 2025 Carlo Gallucci editore srl - Roma
Mappa di Edoardo Bardelle
Pubblicato in accordo con Otago Literary Agency
Gallucci e il logo sono marchi registrati
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Marta Mulè Francesco Salvatore

A mio padre, e al nostro prossimo incontro. Marta

Non sapevamo ancora cosa ci avrebbe riservato il destino, come non lo sa nessun uomo che abbia mai calpestato questa terra. Se non riuscivamo a scorgere l’orizzonte era solo perché non eravamo pronti a cercarlo davvero, perdendoci invece nelle ombre di chi era venuto prima di noi.
Avevamo appena iniziato a conoscerci per quello che eravamo, ed era già una sfida più grande di qualunque altra ci fosse capitata prima. Con lo sguardo al futuro e la mente persa nella confusione di un passato che non potevamo afferrare fino in fondo, aspettavamo una rivoluzione senza sapere di stare aspettando.
Ma poi è arrivato il giorno in cui abbiamo imparato a guardarci indietro in un modo diverso.
Ed è stato da quel giorno che, finalmente, abbiamo iniziato a capire.
Tutto quello che leggerai è successo davvero. Eppure, per quanto ogni narratore lo desideri dal profondo del suo cuore, nessuna storia riproduce alla perfezione la realtà nella quale si specchia. I dettagli si appannano. Le sfumature sbiadiscono. Interi capitoli restano nascosti dietro porte inaccessibili, a meno che qualcun altro non le apra per noi.
La realtà è un arcipelago di eventi, e l’atto di raccontare li unisce per mezzo di ponti. Per narrare una storia bisogna riempire quei piccoli spazi vuoti. Bisogna inventare, ma farlo non rende quella storia meno vera.
Parlo a te, allora, che non sai nulla di tutto quello che ci è accaduto. Parlo a te, perché è importante che anche tu possa capire.
Nulla ricorderò della mia vita, se non due cose: l’Amore e tutte le vite di ieri.
Lotte Thorvald-Schmidt, Dizionario di ciò che ricordo
Pur essendo ancora così giovane, ad Alessandro sembrava che la bellezza del mondo si trovasse soprattutto nelle cose che esistevano da prima di lui.
Era sempre stato così, fin da quando era piccolo e non aveva ancora piena coscienza di quanto il tempo fosse sconfinato, né di come nessuno avrebbe mai potuto riportarlo davvero indietro.
Passava notti intere davanti alle videocassette sulle civiltà antiche che gli aveva comprato suo padre e, in un attimo, si calava nei panni di un guerriero celta con il corpo tatuato, o del messaggero reale che trasportava informazioni cifrate per l’imperatore Inca. Di giorno si perdeva invece tra le fotografie in bianco e nero conservate nella cassapanca di suo nonno, o si lasciava stordire dall’odore dei vecchi libri di storia di sua madre. E più la vita lo faceva crescere, più quel legame inspiegabile con l’ignoto alle sue spalle gli appariva inevitabile e affascinante.
Non ne parlava spesso, almeno con i suoi coetanei. La considerava un’altra parte di sé, una parte che non gli piaceva condividere davvero con nessuno. O quasi.
Ogni domenica mattina si affacciava sulla soglia di uno studiolo nel seminterrato del suo palazzo. Lì trascorreva le giorna-
te un anziano geometra dai capelli bianchissimi, sempre chino sulla scrivania. Se il vecchio accennava una smorfia (che da lontano sembrava un sorriso), allora Alessandro capiva che poteva entrare a tenergli compagnia.
Il geometra Demetrio Cappellini gli parlava dei tempi andati, spargendo davanti a lui tutto il suo armamentario: mappe logorate dal tempo, fotografie dai toni seppiati tra fogli di carta velina, progetti di case e palazzi che forse erano esistiti anche se nessuno li ricordava più, o che avevano cambiato faccia così tante volte da diventare un’altra cosa. Davanti a quelle pagine mute e piene di meraviglie, ad Alessandro sembrava che il signor Cappellini lo stesse aspettando da tutta la vita solo per ritrovarsi lì con lui, in un seminterrato zeppo di polvere, di storie, di voci che nessuno poteva più sentire.
Lo incontrò anche la mattina del suo diciannovesimo compleanno, il 10 agosto 1999. L’inizio della nostra storia. Passarono insieme solo una manciata di minuti, perché il geometra non sembrava avere molto tempo da dedicargli, ma ci tenne a lasciargli in regalo una mappa di Roma che, a detta sua, risaliva addirittura alla metà del Cinquecento.
Oltre a sentirsi un po’ imbarazzato da tanta generosità, Alessandro rimase assai stupito: in quegli anni, Cappellini aveva sempre dimostrato un grande attaccamento per i suoi tesori provenienti dal passato; lo guardava di traverso se li osservava troppo da vicino, e a malapena gli concedeva di maneggiarli direttamente. Quella mattina, invece, si comportò come se quel regalo fosse per lui l’atto di condivisione più naturale del mondo.
«Alcuni palazzi sono ancora in piedi» disse. «Anche se non saranno tutti al posto giusto. Chi ha dipinto questa mappa si è perso qualche baracca e così ha spostato un po’ i palazzi per far combaciare gli isolati».
«Deve valere tanto lo stesso»
«Qualcosa vale, è ovvio, anche se non quanto avrebbe potuto se fosse stata perfetta. Però, che importa? Le cose perfette sono quelle che riservano meno sorprese. Ne esistono tante di mappe sbagliate come questa, ma ognuna è sbagliata a modo suo».
Alessandro annuì. Ai suoi occhi, era un’altra occasione per scoprire che cosa il tempo aveva cambiato, nascosto, stratificato o rinnegato. Quella mappa era uno sguardo impossibile che tornava a farsi vero ogni volta che la fissava. Forse mancava qualche casa, ma che importanza aveva davvero?
Il pendio del colle Celio, in pieno centro, era tra i suoi posti preferiti perché da lì riusciva ad abbracciare con lo sguardo il passato della sua città. Il Palatino, la Via Sacra, l’Anfiteatro: non era una questione di bellezza architettonica, quei luoghi gli evocavano i dettagli nascosti, i nomi perduti, le loro storie, e soprattutto le persone che le avevano vissute.
Quali uomini e quali donne avevano guardato il Colosseo, si chiedeva, quando la gigantesca statua di Nerone gli si ergeva ancora accanto? Quanti sacerdoti avevano percorso la Via Sacra affrettandosi verso i templi dei Fori? Poteva vedere tutte quelle persone, se chiudeva gli occhi, anche se erano solo figure prese in prestito dai libri di scuola, dai film, dagli sforzi dell’immaginazione. Era come avvicinarsi alla verità, senza mai toccarla davvero.
Quella necessaria ricerca lo attraeva e tormentava. Era come un pensiero fisso dal sapore agrodolce, che appaga e poi lascia dietro di sé l’insoddisfazione. Si scopriva a sfiorare oggetti invecchiati dal tempo per immaginare a chi fossero appartenu-
ti. Toccava un libro di poesie scovato in un mercatino di piazza Sonnino e vedeva una ragazza seduta a terra in un rifugio antiaereo, mentre fuori dalle finestre il mondo cadeva a pezzi. Raccoglieva una chiave arrugginita trovata mentre vagava senza direzione con il suo skate e vedeva due bambini ormai adulti che chiudevano la casetta sull’albero in cui avevano condiviso sottovoce paure e speranze. Una volta, a Ponte Sisto, aveva immaginato un giovane sacerdote appoggiato alla balaustra per rinfrescarsi. Sognava la libertà di un futuro diverso mentre il vescovo, con uno sguardo torvo, gli ordinava di riunirsi alla processione contro l’epidemia di peste.
Quella viscerale connessione con il passato sembrava dare un senso più profondo ai suoi passi e alle sue giornate, in un modo che nemmeno lui riusciva a spiegarsi. Fino a quel giorno, almeno.
Alessandro sfrecciava giù per il rione Monti semideserto con il regalo di Cappellini in un tubo di cartone nella borsa a tracolla; la Converse sinistra salda sulla tavola da skate, la destra impegnata a spingerlo in avanti. Le rotelline sobbalzavano sull’asfalto irregolare con un rumore sordo. Aveva smesso di scrosciare poco prima dell’alba, e l’aria che Roma gli sputava in faccia non dava sollievo, umida com’era. Sentiva il sudore sulla nuca; frugò nella tasca dei pantaloncini e con un elastico si legò i lunghi capelli scuri in un codino.
Attorno a lui, il deserto delle otto di mattina ad agosto. Molti dei suoi amici si erano rifugiati sulla costa, su qualche riva di lago o, nel più noioso dei casi, in un paesino verso l’Appennino. A lui restare non dispiaceva, e si alzava presto per attraversare la città mezza vuota mentre i baristi annoiati abbassavano le tende da sole alla vana ricerca di un po’ di frescura.
A quell’ora, con il sole che lasciava in ombra solo le viuzze più strette, sentiva la città veramente sua. Era nato lì, certo,
e c’erano sette fiere generazioni di romani, da parte di suo padre Massimo, a motivare l’amore per quel dedalo di sanpietrini e palazzi nobiliari. Ma la sensazione che provava era più intima. Come la condivisione di uno stesso sangue, se la città ne avesse avuto uno.
La mattina presto era poi il momento migliore per scattare fotografie. Anche nel giorno del suo compleanno Alessandro era uscito con la Leica che gli rimbalzava sul fianco. Arrivato davanti al Colosseo, si era seduto su un muretto con le gambe a ciondoloni nel vuoto: aspettava che passasse qualcuno per catturargli l’ombra con uno scatto. Il sole radente deformava le figure in proporzioni mostruose e lui le immortalava sul rullino. Era sempre stato più interessato alle ombre che alle persone, come a voler fermare per sempre il loro passaggio sulla sua stessa terra.
Sua madre Anita, fotografa di professione, gli aveva chiesto perché ci tenesse tanto a quelle foto che riempivano le pareti della sua camera. Alessandro era rimasto in silenzio, gli occhi di un colore difficile da definire, forse verde scuro, dentro a quelli neri di lei.
«Non è importante il perché, comunque» aveva detto Anita dopo un momento, con un sorriso. «Però ti dirò perché piacciono a me: tutto passa, le ombre forse più di ogni altra cosa. Eppure eccole qua, ferme per sempre attorno a te».
Stava ripensando proprio a quelle parole quando l’attenzione gli cadde su una catasta di pietre vicino alle sue gambe, delimitata da una transenna improvvisata.
Saltò giù e prese in mano una pietra piatta che si trovava in cima, guidato da un istinto che soltanto in seguito avrebbe riconosciuto come ancestrale, ma pur sempre suo.
Al contatto, una leggera scossa gli mandò piccoli pruriti elettrici in cerchi concentrici sul palmo della mano. Erano co-
me ghirigori tra le falangi e il polso. La pietra era porosa ma resistente, e più leggera di quanto si aspettasse; sotto era irregolare e più scura, per via dell’umidità del temporale della notte precedente, mentre la parte superiore era levigata. La mise al sole per guardarla meglio: c’erano poche lettere incise, a malapena abbozzate. l i v i a e.
Qualcosa fece clic nella sua mente. Una volta, da bambino, il nonno gli aveva mostrato lo scompartimento segreto della sua grande scrivania in mogano. Una leggera pressione, un clic, la superficie scende, la superficie risale, e rivela un vano nascosto.
Ecco, anche nella testa di Alessandro si aprì un vano nascosto. All’inizio vi trovò soltanto una semplice consapevolezza: quello era tufo.
Poi il vano mentale si scardinò dalle guide e il contenuto gli si rovesciò addosso, travolgendolo. Si chinò sulle ginocchia e tentò di respirare profondamente. Era il metodo di sua nonna, che soffriva spesso di capogiri: rimaneva immobile, a palpebre serrate, ogni volta che veniva travolta da quei tremendi mal di testa che, a sentire lei, erano il prezzo di tutte le decisioni difficili che aveva dovuto prendere nella vita.
La testa si ostinava però a vorticare, rimpiazzando lo spazio di ogni pensiero con un senso di nausea. Preso dal panico, cercò invano qualcuno attorno, ma trovò soltanto un tenue accenno di arcobaleno oltre il Celio. Fu l’ultima scheggia di realtà che i suoi occhi registrarono.
Quel giorno, per la prima volta, Alessandro non ebbe bisogno di immaginare: toccare quella pietra gli ricordò una storia. La sua storia.
Un legame indissolubile unisce lanima di ognuno ad altre sei Anime Affini, e a ununica Anima Gemella. Al termine di ogni vita le anime si reincarnano, si cercano e a volte si sfuggono, identiche a se stesse ma in corpi diversi. Questa relazione è nota solo ai pochi in grado di tornare nelle proprie vite passate, e a diciannove anni Alessandro scopre di essere uno di loro. Una misteriosa Fondazione, con sede nel centro di Roma, riunisce da secoli la comunità dei Viaggiatori tra le Vite, ed è qui che Alessandro conosce Margherita e Lorenzo, impegnati come lui a esplorare questa loro straordinaria capacità. Ma conoscere il passato non è sempre una benedizione, perché la linea che divide il bene dal male, il passato dal futuro e il libero arbitrio dalla necessità, è spesso indefinita e confusa, come i sentimenti che Alessandro, Margherita e Lorenzo cercano piano piano di chiarire prima di tutto a se stessi.
In tempi burrascosi, i Viaggiatori hanno il potere di contrastare il Caos che, inesorabile, minaccia di prevalere.
