La storia dell'Inter in 50 ritratti

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Paolo Condò

Fabrizio Biasin

La storia dell’Inter in 50 ritratti illustrazioni di Sergio Varbella

Publisher

Balthazar Pagani – BesideBooks

Fact checking

Massimo Perrone

Editing della nuova edizione e fact checking

Fabia Brustia

Graphic design PEPE nymi

ISBN 979-12-221-1023-3

Nuova edizione aggiornata agosto 2025 ristampa 9876543210

anno 2029 2028 2027 2026 2025

© 2025 Carlo Gallucci editore srl - Roma

Stampato per conto di Carlo Gallucci editore srl

presso BALTO print, Utenos g. 41B, Vilnius LT-08217, Lituania

nel mese di luglio 2025

Gallucci è un marchio registrato

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CON UN’INTERVISTA A

ESTEBAN CAMBIASSO

ILLUSTRAZIONI DI

SERGIO VARBELLA

PAOLO CONDÒ FABRIZIO BIASIN ritratti in La storia dell , INTER INTER

Grazie a Paolo per aver pensato a me. E per aver apposto la sua firma di fianco alla mia. Una macchia indelebile nella carriera del «Pallone d’oro dei giornalisti sportivi».

Grazie a Federico, preziosa fonte di dati, aneddoti, sfumature interiste. Questo parallelepipedo è decisamente anche suo e, quindi, se avete delle lamentele prendetevela pure con lui.

Grazie a papà per avermi trasmesso la passione per il pallone e grazie a mamma che, a quella – la passione per il pallone –, ha saggiamente applicato un filtro nerazzurro.

Grazie a Gabriella che in un giorno pandemico del 2020 ha scelto autonomamente di chiuders in casa con me e – ritratto dopo ritrattoha visto crescere La storia dell’Inter in 50 ritratti

SOMMARIO

I RITRATTI

ITALO ALLODI

13 aprile 1928 (Asiago, italia)

3 giugno 1999 (Firenze, italia)

«Italo Allodi, uno dei padri del calcio moderno, diceva: “Quello del pallone è l’unico mondo in cui un muratore può diventare architetto da un giorno all’altro”.» Questa cosa l’ha raccontata Giuseppe Marotta, ovvero uno dei grandi eredi dello stesso Allodi. Entrambi sono passati da Inter e Juventus, per dire. Ecco, di Allodi possiamo serenamente dire che è stato uno dei dirigenti più importanti nella storia del calcio italiano, sicuramente il primo capace di essere decisivo nella costruzione delle rose.

Come tanti grandi dirigenti, Allodi a calcio non sa giocare. Per carità, arriva al professionismo, si dà da fare nel Gladiator di Santa Maria Capua Vetere, nel Forlì, nel Parma, ma non va oltre la serie C. Molto meglio puntare alla scrivania. E quindi prima il Mantova, poi, nel 1959, l’Inter. Parte nel ruolo di «segretario amministrativo», diventa deus ex machina del club di Angelo Moratti fino al 1968.

Suárez, Jair, Burgnich sono solo alcune delle sue innumerevoli intuizioni. Convince i campioni con le parole al punto da arrivare a un passo da Pelé, mica uno qualsiasi. Le intuizioni fanno il paio con la sua innata capacità di «trattare», indovinare dove tira il vento, tenere a bada Herrera, convincere Moratti a puntare su questo e quello. Ecco, «organizzazione» è la sua parola d’ordine, la stessa che lo porta a vincere tre scudetti, due coppe dei Campioni e altrettante Intercontinentali.

Nelle faccende tecniche entra una volta sola: l’Inter perde sul campo del Padova di Rocco e allora suggerisce al Mago una tattica meno spregiudicata. Herrera se ne frega abbastanza, lui pure e va avanti con il suo stile fatto di trattative «al limite» e imposizioni portate avanti negli stanzoni dell’hotel Gallia. Arriva a un passo persino da Beckenbauer, parola dello stesso Allodi: «Un’estate lo catturai. Era in vacanza sull’Adriatico e lo convinsi a trasferirsi all’Inter. Firmammo il contratto a Cesenatico, nel capanno balneare del conte Rognoni. Mi tradì la federazione, che nel 1965 chiuse le frontiere».

Poi sì, è vero, ci sono anche i guai, le accuse di corruzione agli arbitri che lui scansa senza giri di parole: «Bugie. Se bastassero orologi e pellicce saremmo tutti campioni del mondo».

ALESSANDRO ALTOBELLI

28 novembre 1955 (Sonnino, italia)

Il destino di Alessandro Altobelli, detto Spillo, non era quello del calciatore, parola sua: «Avrei dovuto fare il macellaio. Terminata la terza media andai a lavorare dal macellaio Merluzzi; appena potevo lasciavo il bancone e scappavo a giocare. Se pensiamo che la mia carriera è partita da un paese dove non c’era neppure il campo di calcio…». Già, a Sonnino non c’era il campo, poi il barbiere Gaspare Ventre fondò la Spes e Alessandro fiorì come primula a primavera. Quella «primula» smilza e salterina giocherà nell’Fc Internazionale dal 1977 al 1988, vincerà uno scudetto e due coppe Italia, segnerà 209 reti in 466 partite (secondo marcatore di sempre alle spalle di Meazza), non vincerà mai il titolo di capocannoniere (secondo nel 1979-80, 1982-83 e 1984-85) e se ne andrà in polemica con mister Giovanni Trapattoni, giusto «in tempo» per perdersi il titolo dei record. «Era il 1988 e non andavo d’accordo con Trapattoni. Così vado agli Europei, segno alla Danimarca e gioco la semifinale senza squadra. Quando mi chiama Boniperti sono io che rinuncio a un contratto ancora in essere con l’Inter e affronto anche il rischio di sentirmi dare del “traditore” dagli interisti. Certo, oggi rimane il rimpianto di non aver chiuso all’Inter con quel secondo scudetto dei record. Me lo sarei meritato.» Già, finì alla Juve, senza successo. In mezzo, tante gioie e pure dolori, ma soprattutto gioie: lo storico gol nella finale del Mondiale 1982 o il record di reti in coppa Italia (cinquantasei), per dire.

La fine della carriera lo catapulta in una nuova «era altobelliana»: diventa capocannoniere della nazionale di beach soccer ai Mondiali 1995 e 1996, si candida nel 1996 per il centrodestra alla camera dei deputati (senza successo), negli anni Duemila diventa commentatore per l’emittente araba BeIn Sports. Il suo carattere? Diciamo che stiamo parlando di un tizio senza peli sulla lingua. Sentite qua: «Il mio cognome, Altobelli, è l’anagramma di Balotelli, ma tra me e Mario ci passano duecento gol e tanto altro ancora…». Chiarissimo.

ANTONIO VALENTÍN ANGELILLO

5 settembre 1937 (Buenos Aires, Argentina) 5 gennaio 2018 (siena, italia)

Ci tocca partire da un dato di fatto: Antonio Valentín Angelillo, con la maglia dell’Inter, non ha vinto niente. E voi direte: «E allora cosa ci fa qua in mezzo?». Ci fa, ci fa, eccome se ci fa, intanto perché nella stagione 1958-59 la buttò dentro trentatré volte in campionato, abbastanza per realizzare il record nei tornei a diciotto squadre (totale in nerazzurro 127 partite e settantasette gol), in più perché aveva quell’allure, quello stile, quel modo di fare tutto suo che da un lato lo resero unico e dall’altro gli crearono non pochi problemi di «convivenza», quando nel 1960 a Milano sbarcò sua maestà Helenio Herrera. Lui, giocatore duttile ma fin troppo fantasioso, poco piaceva al Mago che, ovvio, ai lupi solitari – per quanto bravi – preferiva i «soldati» disposti al sacrificio. E infatti a un bel punto lo fece gentilmente «accomodare» e al suo posto puntò su Suárez con cui vinse tutto e pure di più.

Questo non toglie nulla alla grandezza dell’oriundo Antonio Valentín, bomber micidiale in campo – pur in un’Inter non così competitiva – e bomber pure fuori dal campo: celebri le sue serate passate al fianco di Ilya Lopez (vero nome Attilia Tironi), ballerina che fece frizzare il sangue dell’ala Angelillo e ribollire quello di Herrera.

E dire che gli esordi milanesi non furono decisamente dei migliori, al punto che patron Angelo Moratti confidò un atroce dubbio all’amico Gianni Brera: «Temo che mi abbiano fregato: questo non è quello vero». Moratti a quel punto scelse la via della «carota» e chiese a due scapoloni del gruppo – Masiero e Fongaro – di accompagnare il ragazzo a divertirsi (leggi «night»). In una di quelle sere conobbe proprio la Tironi e si sbloccò, pensa te…

Con la nazionale azzurra ebbe meno fortuna: due sole presenze (undici con l’Argentina e altrettanti gol prima dell’«esodo» all’estero) e un grande rimpianto, quello del Ct Guillermo Stábile, che a specifica domanda («Perché la fortissima Albiceleste ha perso il Mondiale del 1958?») rispose così: «L’attaccante più forte al mondo gioca nell’Inter, a Milano».

Ah, da osservatore scoprì Javier Zanetti, decisamente non uno qualunque…

NICOLÒ BARELLA

7 febbraio 1997 (Cagliari, Italia)

Se c’è una parola che torna sempre, quando si parla di Nicolò Barella, è “internazionale”. Centrocampista di caratura internazionale. Il giocatore italiano più internazionale. Vicecapitano dell’Internazionale. Forse per questo ha scelto l’Inter dopo la sua Cagliari, la sua Sardegna, in cui un giorno di certo tornerà. È il centrocampista che ogni allenatore vorrebbe avere e che ogni avversario vorrebbe evitare: piedi buoni, polmoni infiniti, sempre dentro la partita come se ne andasse della sua vita.

Arriva all’Inter nell’estate del 2019 con quell’aria da ragazzino testardo e i capelli ribelli, direttamente da Cagliari, città che gli scorre dentro. All’inizio qualcuno storce il naso: «Sì, bravo, ma è pronto per l’Inter?» Lo era. Lo è sempre stato. Ha raccontato di aver avuto due maglie quando scorrazzava sui campi in terra battuta, su e giù per la Sardegna: una del Cagliari e una dell’Inter, squadra per cui simpatizzavano i suoi familiari. Anzi, quelle nerazzurre erano due: Ronaldo e Recoba. Barella ha scelto l’Inter prima di farsi scegliere dall’Inter. Per questo ha creato un legame spontaneo con la gente. I tifosi vedono in lui un giocatore che ci tiene davvero, uno che soffre e gioisce come loro. Soprattutto uno che va in campo anche quando la vita si frappone. È accaduto qualche anno fa, non era il solito Barella perché stava perdendo un figlio prima che nascesse. Non l’ha detto a nessuno se non ai compagni che l’hanno aiutato, protetto e accompagnato in quel cerchio oscuro. Quando poi la notizia si è saputa, allora i tifosi si sono resi conto dell’abnegazione di questo ragazzo. Anzi, di questo uomo.

Gli piace fare una vita normale. Le vittorie le festeggia a cena con la sua famiglia, sua moglie e i bambini. Sceglie un buon vino, una sua passione, e magari cucina qualcosa. La routine è quella del papà: si sveglia presto, porta i figli a scuola, va ad allenarsi, torna a prendere i figli e li porta a fare sport. Non ama i riflettori, cerca l’intimità. È stato così anche quando c’è stato il funerale di Gigi Riva, inevitabilmente il suo idolo.

Se siete tifosi nerazzurri, chiedetevi se lo cambiereste con qualcuno. No, vero? Incedibile. Senza prezzo. Un’eccezione alla regola. Nicolò è l’Inter che corre, che lotta, che non molla un centimetro, che controlla il gioco, che ha qualità, che sa cosa fare. Non più “Pazza” ma autentica.

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