La musica di Dale

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UAO Universale d’Avventure e d’Osservazioni

Benjamin Lefebvre

La musica di Dale

traduzione dall’inglese di Silvia Mercurio

ISBN 978-88-3624-986-2

Prima edizione italiana aprile 2023

ristampa 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0

anno 2027 2026 2025 2024 2023

© 2023 Carlo Gallucci editore srl - Roma

Titolo originale: In the Key of Dale

© 2022 Benjamin Lefebvre

© 2022 Arsenal Pulp Press

Pubblicato in accordo con Otago Literary Agency

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Benjamin Lefebvre La musica di Dale

traduzione dall’inglese di Silvia Mercurio

Per Jacob

Caro diario, cosa mi racconti?

Ah, già. Non puoi rispondermi.

Caro amico di penna, come stai? Io bene.

A dire il vero, mica tanto.

Capitolo 1: c’era una volta un ragazzo di nome Dale che viveva con sua madre e il suo patrigno, e a volte il suo fratellastro. Dale si sentiva solo e annoiato, così cominciò a scrivere di se stesso in terza persona. A pensarci bene neanche questa mi sembra una grande idea.

Dio, ci sei? Mmm, come non detto.

Lunedì, 28 febbraio

Caro pa’, una volta ho letto un libro in cui la protagonista scriveva sul suo diario per “buttare tutto fuori”, perciò, dopo essermi rigirato parecchio nel letto, quando ho visto che erano le tre del mattino ed ero ancora sveglio mi sono detto che non avevo niente da perdere nel provare a “buttare tutto fuori” al computer. Ci ho provato in diversi modi ma nessuno funzionava, allora ho deciso di scriverti una lettera. Mi sembra logico scrivere a te, dato che è un po’ a causa tua se ho bisogno di qualcuno con cui parlare. E anche se non puoi leggere, va bene lo stesso, perché in questo momento ho bisogno di parlare con qualcuno che non mi risponda.

Sono passati sette anni dalla tua morte. Io ne avevo nove o, come preferivo dire all’epoca, nove e tre quarti. Adesso ne ho sedici, quasi diciassette. Probabilmente se potessi vederci dall’aldilà non riconosceresti né me né mamma, né alcun aspetto delle nostre vite. E nemmeno io sono tanto sicuro che ti riconoscerei, nonostante le tue foto e i ricordi che ogni tanto rivivo nella memoria.

Forse sai (o forse dove sei tu non si “sanno” le cose) che dalla scorsa estate mi esercito assiduamente per perfezionare sei diffi-

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cilissimi brani per pianoforte – tra cui uno studio di Chopin che temevo davvero mi avrebbe fatto perdere un dito – in vista dell’esame pratico del Royal Conservatory of Music. Forse sai anche che di solito l’esame si svolge a giugno, ma quest’anno l’hanno anticipato a febbraio senza dirci il motivo. E forse sai pure che più mi esercitavo per prepararmi, più mamma mi dava il tormento. Ogni volta che si lamentava del fatto di sentirmi suonare lo stesso brano all’infinito, io attaccavo le cuffie alla tastiera, ma poi lei borbottava che tenere le cuffie così a lungo mi avrebbe rovinato l’udito. Oppure si avvicinava da dietro di soppiatto mentre cercavo di concentrarmi e mi posava le mani sulle spalle facendomi trasalire. A un certo punto ho spostato il piano in modo da potermici sedere con la schiena contro il muro e lei si è indispettita che l’avessi fatto da solo, perché a detta sua avrei potuto farmi male. E ogni volta che a cena veniva fuori l’argomento dell’esame, lei mi guardava con un sorriso che non era affatto gentile, tutto bocca e niente occhi.

Tuttavia il duro lavoro mi ha ripagato. Ieri mattina io e mamma siamo andati in città per l’esame, ed è andato bene! Non vorrei portarmi sfiga dato che i risultati arriveranno per posta tra un mese o giù di lì, ma so di aver fatto un’ottima figura. Alla fine ho incrociato una delle esaminatrici nel corridoio che mi ha detto delle cose carine sulla mia tecnica ed espressività e mi ha davvero sollevato l’umore. Mentre io e mamma uscivamo dall’edificio e attraversavamo le vie del centro, mi sono ripetuto quel complimento più e più volte nella testa, ed ero davvero fiero e felice. Non desideravo altro che continuare a sentirmi così ancora per un po’ e fantasticare sul futuro.

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Mamma però ha rovinato tutto con la sua solita strategia in due tempi. Prima mi ha detto che era contenta che fosse tutto finito così ora avrei potuto dedicare più tempo ai compiti. Me lo sono lasciato scivolare addosso dato che ho dei bei voti, ma quando siamo saliti in macchina e le ho chiesto che musica volesse per il ritorno, lei ha sferrato il secondo colpo. «Tesoro, vorrei che parlassimo di quello che è successo l’altra sera» ha detto, prima di lasciar spazio a un silenzio eloquente.

Non eravamo neanche usciti dal parcheggio che l’aria nella macchina iniziava già a crepitare. Ho sistemato la cintura di sicurezza in modo che non mi strangolasse e ho allungato la testa verso il finestrino per guardare il cielo. Lei fa sempre così: lancia un argomento di conversazione e poi aspetta che io abbocchi.

Peccato che questa volta non ci sia cascato. Non ho neanche sospirato per farle vedere che ero infastidito. Forse speravo che se non reagivo alle sue parole, la mia mente non le avrebbe assimilate, e avrei potuto continuare a godermi quella bella sensazione post esame. Ma per quanto mi opponessi, la mia testa continuava a cedere, anche se io cercavo di fingere di essere da un’altra parte. Sentivo che parlarne di nuovo con lei non avrebbe risolto niente, dal momento che non era la prima volta che avevamo quella conversazione, e sapevo benissimo che in realtà voleva parlare di tutt’altro.

Ecco cos’è successo: una sera della scorsa settimana in cui toccava a me caricare la lavastoviglie, mamma è entrata in cucina e mi ha sentito cantare una canzone pop. Non scriverò quale perché tanto non la conosceresti e perché non voglio ammettere

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che sapevo tutte le parole. Il punto è che si trattava di una canzone d’amore tra un uomo e una donna, e io stavo cantando la parte della donna un’ottava più bassa. All’inizio mi sono chiesto se per qualche ragione la cosa l’avesse turbata, ma è subito diventato chiaro che in realtà mamma era eccitata dalla possibilità che questo significasse qualcosa. E si è messa a farmi l’interrogatorio. Mi ha persino seguito da una stanza all’altra mentre io provavo a dileguarmi. Le ho detto la verità: la maggior parte dei duetti pop è scritta per un tenore maschio e un contralto femmina, e io non posso cantare la parte tenorile perché sono un baritono, ho la voce troppo bassa. Cantare la parte del contralto un’ottava più bassa mi permette di rientrare nella mia estensione. Non stavo cercando di cantare una canzone d’amore per un uomo, né tantomeno mi percepisco donna. E no, non avevo nessun dubbio.

Per lei era come se parlassi arabo – della musica non sa niente, tranne se la trova bella o no – quindi ha continuato a fissarmi con uno sguardo trepidante, come se stesse per iniziare un nuovo episodio della sua serie tv preferita. E quando oggi in macchina si è girata a guardarmi – anche se avrebbe dovuto tenere gli occhi sulla strada – ho rivisto quell’espressione.

Sapevo dove voleva arrivare, perciò non ho detto niente.

Ma lei impazzisce quando smetto di risponderle, anche se non è l’unica ragione per cui lo faccio. Ho imparato a mie spese che è meglio non dire niente quando sai perfettamente che parlare può solo peggiorare le cose. Da quando le ho raccontato la mia teoria secondo cui Bach ha scritto la Toccata in Fa diesis minore

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per fare dispetto alle future generazioni di studenti di pianoforte anche dall’aldilà, e lei mi ha detto che ero esagerato, ho cercato con tutto me stesso di non darle alcun motivo per ripetermi una cosa del genere.

Ho quindi selezionato un duetto d’amore sull’iPod il cui tenore è praticamente un eunuco, ma lei ha spento l’autoradio con il comando sul volante prima che iniziasse la parte cantata. Per cui abbiamo viaggiato in silenzio e io ho ingannato il tempo riproducendo qualche vivace motivetto nella mia mente.

Ben presto, mentre ci dirigevamo a ovest, sulla statale sono comparsi i cartelli per Guelph e d’un tratto mi sono ricordato.

«Ma’» ho detto, rimettendomi composto «visto che passiamo da Guelph, possiamo fermarci al cimitero prima di tornare a casa?»

Dato che non mi rispondeva, mi sono girato verso di lei e nei suoi occhi ho visto uno sguardo strano, come se non fosse più concentrata sulla strada. Ho sentito le mie sopracciglia aggrottarsi ma poi lei si è riscossa.

«Oh, tesoro» ha detto «è stata una lunga giornata. Sono molto stanca. Perché non ci vai questo weekend? Ormai hai la patente, posso prestarti la macchina»

«Ma ci passiamo accanto, e oggi è l’anniversario della morte di papà» ho detto. Pensavo di essere ragionevole. Insomma, dài, avrei anche potuto farle notare che se lei pensava di essere stanca, poteva almeno provare a immaginare com’era stata la giornata di uno che era salito su un palco per farsi giudicare da una giuria dopo un anno e mezzo di lavoro, ma non l’ho fatto.

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Mamma non ha detto niente, quindi ho guardato fuori dal finestrino e ho cercato di pensare ad altro. Ben presto però mi si sono riempiti gli occhi di lacrime, che mi scorrevano sul viso nonostante facessi finta di ignorarle. Forse era da qualche anno dopo la tua morte che non mi succedeva. Non so se il mio si possa considerare un pianto, la sensazione è quella di avere dei rubinetti al posto degli occhi e di essere uscito senza controllare di averli chiusi bene. Ma è tremendo perché mi sembra di non poter fare nulla, se non aspettare che smettano da soli.

Ho guardato il paesaggio sfrecciare accanto a noi – alberi, rimasugli di cumuli di neve e qualche vecchia fattoria qua e là

mentre pensavo alla miriade di cose che avrei potuto dire ma non ho detto. Ben presto però ho sentito l’auto slittare verso la corsia di destra e ho intuito che stavamo imboccando il cavalcavia per la statale 6. Poi mamma si è diretta a nord, verso Guelph. Non ha detto una parola, e io nemmeno, finché a un certo punto non ha imboccato l’ingresso principale del cimitero e ha parcheggiato. «Hai dieci minuti» ha detto con un tono che mi è sembrato estraneo.

Sono sceso dalla macchina. Il sole splendeva ancora, ma il vento aveva ripreso, quindi mi sono coperto bene e ho attraversato l’ingresso pedonale fino a raggiungere il sentiero di ghiaia. Nonostante non ci andassi da un paio di anni, mi sono detto che non ci avrei messo molto a riconoscere un qualche punto di riferimento che mi avrebbe guidato verso la tua tomba.

Ma mi sbagliavo. Mi sono ritrovato a un incrocio senza sapere da che parte andare. Non sapevo cosa fare. Allora ho chiuso gli

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occhi e ho cercato di ricordarmi il giorno del tuo funerale, ma quando mi sono sentito il cuore in gola ho scacciato quel ricordo. Ancora non mi spiego come sia potuto accadere, è vero che sono venuto a trovarti solo un paio di volte da quando mamma ha sposato Helmut e abbiamo lasciato Guelph, ma prima ci venivo sempre in bici.

«Dove diavolo sei, papà?» ho esclamato, ma ovviamente tu non potevi rispondermi.

Poi però, nel silenzio che è seguito, un uccello ha sorvolato la mia spalla e si è posato su una lapide vicina. Io non capisco un tubo di flora e fauna, quindi l’unica cosa che posso dirti è che era un uccello di un rosso acceso con una macchia nera intorno al becco, ragione per cui spiccava tanto nel paesaggio grigio.

Danzava, saltellava e mi guardava ruotando la testa di qua e di là come per tenere alta la guardia nei confronti dei predatori.

Quindi sono rimasto lì, ho respirato e mi sono guardato intorno in cerca di qualche indizio. In lontananza un camion ha fatto retromarcia emettendo un bip in Mi bemolle.

Dopo un po’ l’uccello è volato via ed è atterrato su un’altra lapide più distante. A quel punto i dieci minuti erano passati, per cui mi sono girato e sono tornato verso la macchina che mamma aveva tenuto accesa. Ho pensato di farle notare quanto fosse dannoso per l’ambiente, ma alla fine l’ho solo ringraziata per essersi fermata, non ho commentato il fatto che ce l’avesse così tanto con me da non scendere nemmeno dalla macchina, mi sono rimesso la cintura e ho trovato un po’ di musica strumentale nell’iPod a cui fortunatamente lei non si è opposta. Non mi ha chiesto

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niente, il che è stato un bene perché non avrei mai ammesso che non ero riuscito a trovare la tua tomba. Dopodiché siamo tornati a casa in silenzio, con tutte quelle domande intrappolate nella mia testa.

Non so se rimarresti scioccato nel sapere che mamma si è risposata, ma è successo, tre anni fa. Helmut mi piace. Non cerca di essere mio padre o cose del genere, e adora cucinare, per cui a cena c’è sempre qualcosa di interessante. È un avvocato specializzato in casi di risarcimento per incidenti su suolo pubblico, perciò con lui è difficile avere l’ultima parola, ma tutto sommato andiamo d’accordo.

Ha anche un figlio che ha qualche mese meno di me. Si chiama Gonzales, ma per qualche ragione lo chiamano tutti “Gonzo”. Non siamo propriamente amici. Helmut e la sua ex moglie hanno l’affidamento congiunto, perciò Gonzo vive una settimana con noi e una con sua madre, Iliana. Lei l’ho vista solo da lontano, ma sembra una persona gentile.

Quando siamo arrivati a casa, Helmut era in cucina a dare gli ultimi ritocchi alla cena. Mi ha chiesto com’era andata la giornata, ma mamma ha attaccato a rispondere come se io non ci fossi. Allora mi sono versato un bicchiere d’acqua e ho fatto per scendere nella mia stanza, ma dopo essermi richiuso alle spalle la porta in cima alle scale mi sono seduto sui gradini e ho realizzato che l’unico modo per capire che cosa avesse infastidito tanto mamma era origliare.

Aveva una lunghissima lista di lamentele. Tanto per cominciare, io ero scontroso. Ero lunatico (non ricordo se ha usato il

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termine “musone” o l’ha soltanto sottinteso). Con lei non mi aprivo mai. Tutte cose che Helmut ha liquidato come tipici atteggiamenti da adolescente. Mamma però ha aggiunto anche che ero un manipolatore, perché avevo usato le lacrime e il senso di colpa per l’anniversario della tua morte per ottenere quello che volevo, anche dopo che lei mi aveva detto di no. Infine ha detto che non avevo alcun rispetto dei limiti o dei suoi sentimenti. Dell’esame non ha detto niente – nemmeno se pensavo che fosse andato bene o male – se non che almeno “era finita”, come se tutto quel lavoro fosse stato un calvario più per lei che per me.

Quando ci siamo seduti a tavola la questione era già archiviata. Mamma ha preferito darmi addosso per le condizioni della mia stanza e perché era da una vita che non facevo la pulizia dei denti, cosa che a quanto pare la mette in cattiva luce dato che lei fa l’igienista dentale. Io sono semplicemente rimasto lì a spostare il cibo da un angolo all’altro del piatto. Era un vero peccato perché Helmut aveva preparato tutte le mie pietanze preferite, compreso il pollo glassato che è praticamente una sinfonia di sapori.

Dopo cena ho telefonato a Rita, la mia insegnante di pianoforte da quando ci siamo trasferiti qui, per farle sapere che pensavo di essermela cavata bene. Ho anche colto l’occasione per ringraziarla di tutto, dato che ora dovrò cercare un nuovo insegnante, perché a quanto pare l’allievo ha ormai superato la maestra. «Non aspettare troppo a contattare le persone sulla lista che ti ho dato» ha detto lei. Sono sicuro che cercava solo di essere gentile,

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ma in quel momento avevo ancora le dita doloranti per quel brano di Debussy che mi ha sempre fatto pensare a una botte che rotola allegramente giù per una ripida collina, per cui le ho dato una risposta vaga.

Dopodiché ho scritto a Jordana, perché avevo proprio bisogno di qualcuno con cui parlare. Dovresti ricordarti di Jordana, pa’. Siamo rimasti amici anche dopo che ha iniziato a frequentare quella sua lussuosissima accademia di arti dello spettacolo a Boston, ma spesso è difficile intercettarla. Ogni volta che le scrivo qualcosa del tipo: “Ciao, sentiamoci uno di questi giorni” , lei mi risponde solo “Certo. Quando vuoi”. E quando le chiedo a bruciapelo se è disponibile per una chiacchierata, spesso passano giorni prima che si faccia viva, sempre che mi risponda. Mentre mi preparavo per andare a letto, ho sentito il telefono vibrare e l’ho preso in mano sperando di trovarci una sua risposta, ma era solo una notifica della batteria che stava per morire, se non l’avessi subito attaccata alla corrente.

Non lo so. Forse è tutto inutile. Sto scrivendo una lettera che non potrà mai essere recapitata – sono abbastanza sicuro che si chiami “lettera morta”, un nome piuttosto appropriato – solo perché non ho nessun altro con cui parlare. Insomma, quando ero piccolo io e te andavamo d’accordo e ho dei bellissimi ricordi di noi due che passiamo il tempo a suonare insieme. Ma se fossi ancora vivo ti parlerei in questo modo? Oppure ti comporteresti come mamma e Helmut, assillandomi per i compiti invece di dirmi che sei fiero di me perché sono andato bene all’esame di pianoforte?

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Comunque, sono quasi le quattro del mattino e ho gli occhi che mi bruciano per il bagliore dello schermo quindi ora nasconderò questo file nella cartella “Preferenze di sistema” e cercherò di dormire un po’.

Il tuo affezionato figlio, Dale

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Stampato per conto di Carlo Gallucci editore srl presso Rotomail Italia spa (Vignate, MI) nel mese di marzo 2023

aie Cardigan ha sedici anni ed è un genio della musica. È orfano di padre e da un po' ha capito di essere gay, ma il problema principale della sua vita non è tanto questo, quanto latimidezza e l'incapacità di stringere vere amicizie. Gli unici momenti in cui non ha paura di farsi vedere dagli altri per com'è veramente sono quando suona o canta, ed è proprio in una di queste occasioni che Rusty si accorge di lui. È l'inizio di un'amicizia o di qualcosa di più? A Dale in realtà non importa. L'unica cosa che conta sono le sensazioni che prova quando è insieme a Rusty, quelle che pensava solo la musica potesse regalargli: leggerezza, appagamento, felicità. E più di ogni altra cosa: libertà.

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