Lorenzo Rulfo Finisce l’amore prima di cena
A mia figlia Isabella, per avermi insegnato tutto
Zero
Se sono vagamente nervoso è perché una pistola non l’avevo mai vista, prima d’ora.
Ma il ragazzo che mi ha invaso il salotto e mi agita un’arma in faccia – neanche fosse un ventaglio – non mi fa paura. A settantatré anni, due infarti e quattro matrimoni alle spalle, la calma è l’unico lascito che ho davvero ottenuto dalla vita.
Potrei domandargli cosa vuole da me, che ci fa in casa mia o perché ha deciso di accostare il rosa della t-shirt al marrone dei pantaloni, ma l’unico pensiero che riesco a formulare è rivolto alle cose che perderei se morissi adesso. Certamente non vedrei Jane, mia figlia, nel ballo di fine anno. Non mangerei più hamburger, non cavalcherei né sorriderei ancora. Non piangerei Isabelle.
Più che questa irruzione a mano armata, ciò che davvero mi infastidisce sono le sue scarpe, sporche, sul tappeto che Isabelle mi ha regalato, tanti anni fa,
al ritorno da un viaggio in India. Fosse stato un ladro più educato le avrebbe levate e poggiate nell’angolo del tinello, come usano fare gli ospiti.
Il ragazzo – potrebbe essere mio nipote – mi guarda, forse aspetta la risposta a una domanda che non ha fatto. Non importa, il gioco del non farai mai più è l’unica cosa che mi sembra davvero sensata, ora. Non suonerò il piano né telefonerò a un amico. Una volta morto non sarò più autorizzato a sbagliare bus e trovarmi al mercato del pesce di Tokyo Tsukiji – con quei colori pazzeschi e la cortesia assurda di chi lo anima – o a passeggiare nel West End di Dallas; a desiderare una donna, corteggiarla, comperarle dei fiori.
Scrivere. Non potrò più scrivere. Aprire il pacco con dentro le copie del mio ultimo romanzo. Sollevarlo in aria sorridendo di un sorriso idiota, forse nell’unico istante possibile di felicità.
Il ragazzo mi guarda senza parlare, la pistola nella mano destra, le scarpe sul tappeto. Con i suoi occhi neri e la sua prepotenza sta cercando di entrarmi nell’anima, così come ha fatto con la casa. Mi fissa da sotto al ciuffo nero che senza sosta seguita a cadergli sulla fronte, e che ricaccia su soffiando con impazienza.
«Che cosa vuoi?» biascico.
«Sta’ zitto» risponde.
«Se sono i soldi…»
«Sta’ zitto, ho detto»
«Non sono ricco ma…»
Mi impone il silenzio alzando la pistola in direzione dei miei occhi blu, in un gesto che non può essere frainteso. D’accordo. Gli suggerirei, se solo mi permettesse di parlare, di perquisirmi, legarmi e frugare in ogni stanza. È la mia antica abitudine di provare distacco per le cose che accadono senza che io le possa controllare. Provo distacco di fronte alle tragedie quando non c’è possibilità di intervento, né libero arbitrio. Quando sono tragedie di altri. Per questo gli insegnerei, ora, il suo mestiere di ladro: per essere liberato dalla scelta e quindi dalla più discreta forma di colpa. Legato e incolpevole. Ma lui rimane immobile, unito a me dal filo invisibile di uno sguardo.
E mentre mi rassegno, in quell’esatto istante, è in grado di sorprendermi. Perché inizia a scuotere la testa, da sinistra a destra, in un moto di sdegno e disapprovazione.
C’è un perfetto sconosciuto al centro del mio salotto; è giovane, armato e mal vestito, e per di più mi giudica. Come se sapesse tutto di me. Anche ciò che io ignoro.
Il ragazzo tende la mano – armata – e fa un passo verso di me, barcollando. «Fra dieci secondi sarai morto» dice, e poi aggiunge: «Mi dispiace».
«Dieci» comincia a contare, ed è come se iniziasse una danza. Ogni secondo è un passo, con il suo rumore, sordo. Un battito di ciglia.
«Nove».
Prende, in un lungo respiro, tutto il fiato che i suoi polmoni possono contenere, ma in men che non si dica lo risputa fuori. Come quando si soffre e ci si chiede: Sarà questa la cosa giusta?
Tra il nove e l’otto capisco che non è un semplice ladro, né un vagabondo, è qualcosa di più.
Forse non lo sa neanche lui perché vuole farmi fuori, come un bambino che si è spinto troppo in là in una prova di coraggio, ma tornare indietro gli fa più paura che saltare nell’abisso. “Cresci” gli ordinerei.
«Otto».
Non smette di fissare il mio viso, puntandolo con la pistola, mentre sputa le parole, che gli cadono dalla bocca ancora tremanti e incerte – come le parole di chi ama o di chi muore. Come le parole di chi uccide.
«Sette».
Non è qui per i miei orologi, per i soldi o l’argenteria. Non ero io quello che giudicava, era disgustato di sé. E ora vuole eliminare me per espiare la sua colpa?
«Sei».
«Aspetta, fermati».
Bel tentativo, ma non ci ho creduto abbastanza. E poi non può sentirmi, se davvero sono il suo sacrificio. Se ammazzarmi è veramente l’unico modo per porre fine al suo soffrire. Ammesso che davvero soffra. Come se i suoi dèi, di fronte al mio sangue, potessero smettere di torturarlo e lasciarlo in pace. Non posso niente contro le Erinni che gli nuotano negli occhi.
«Cinque».
Meglio allora tornare con la mente a mia figlia e al suo ballo; al sorriso di Isabelle.
Penso a tutti i miei personaggi. A quelle vite, immaginate, che senza di me non esisterebbero. E provo colpa, ora, per i torti che ho fatto loro, per averli plasmati assecondando il minimo giudizio degli altri.
Per aver dato e tolto, a mio piacimento, come un dio capriccioso. Eppure, nonostante la colpa, per nessuno di loro morirei. Ma per Isabelle… Certo, per lei sì. Se me lo chiedesse, se mai l’avesse fatto. Non sarebbe banale, quantomeno ai miei occhi. Morire per un amore, o per denaro, o per salvare un cane che sta annegando nel Tamigi, può sembrare ridicolo a chiunque, ma per lei…
La ricordo avvolta nell’accappatoio blu, appena uscita dal fiume Mamoré al Dolphin Lodge, con le labbra viola dal freddo e gli occhi piantati nei miei,
nel tempo in cui facevamo l’amore perché era l’unica cosa che aveva senso fare, prima delle parole che non si dovrebbero mai dire, prima di tutto quello che è accaduto dopo, e persino adesso, a distanza di più di cinquant’anni, devo sforzarmi di trattenere il cuore e il suo galoppo.
«Quattro».
Parlo ancora: «Quanti anni hai? Non devi farlo per forza». Ma nemmeno questa volta funziona. Indietreggio urtando il tavolino in noce Morden Ward su cui poggia la copia del “Times” con l’articolo sullo stupro di Finsbury Park. Non potrei più leggerlo, se morissi. Con la pubblicità del Porridge Kellog’s e le previsioni del tempo. Piovoso, per lo più.
Il rumore dell’urto sarebbe insignificante in qualsiasi altro momento, nessuno lo sentirebbe, ma in questo preciso istante echeggia nelle mie orecchie rimbombandoci dentro, così forte che devo chiudere gli occhi.
«Tre».
Con il dito carezza piano il grilletto, senza forza, per paura di premerlo in anticipo. Respira ancora, una goccia di sudore gli scivola giù dallo zigomo sinistro. Posso vedere tutto, a tre secondi dalla morte, come un supereroe. Ogni smorfia, gesto, sentimento. Riesco a percepire il male che lo muove, la rabbia che si porta dentro. Persino il rumore che fa la sua lin-
gua passando ripetutamente sull’ultimo molare. Posso tante cose ma non riesco, per quanto mi sforzi, a capire il perché.
«Due».
Perché mai fra due secondi sarò morto?
Per la mia arroganza? Nei tanti anni di cattedra mi è accaduto, e più di una volta, di trattare duramente i miei allievi. Così insegno loro a crescere, li trasformo in adulti, umiliando quei bambini mocciosi che non sarebbero in grado nemmeno di comprare il latte, figuriamoci di vivere. Questo ragazzo, però, non lo conosco, sono certo di non averlo mai visto. Scarto l’opzione.
Per amore, allora? La vendetta di un amante? Mi è capitato, sì, di avere relazioni con donne sposate, ma l’ultima è oramai un ricordo di anni fa, Rose, quando ero impantanato nel terzo e penultimo matrimonio. Non può avere a che fare con questo, il ragazzo è troppo, troppo giovane. Scarto anche questa possibilità e in mano non mi rimane niente.
Mezzo secondo per fermare l’immagine di Rose e dei suoi capelli. E poi: «Uno».
Un secondo, il più lungo della mia vita. Il tempo rimasto, tutto il tempo davanti. Chiudo gli occhi.
Non è l’idea di morire da vigliacco a preoccuparmi, ma tanto vale concentrarsi su un pensiero, scel-
to a caso nella memoria oppure inventato. Meglio che lasciarsi andare guardando in faccia lui. Lo conosco da meno di un minuto e già gli porto rancore per aver deciso di estirparmi dall’universo, cancellarmi con una pistola.
Tante volte ho cancellato, io, un personaggio uscito male, o un’idea infelice… Devo farmene una ragione, quantomeno per coerenza.
Avrei ancora tanto davanti… Tanti errori che non ho avuto il tempo di fare. E poi c’è il ballo di mia figlia. E c’è la mia Isabelle, pure se non è mai stata, per così dire, mia. Per quello che conta.
«Zero. Addio, Emilio».
Aspetto. Sento lo spostamento d’aria mentre prende bene la mira, aggiustando la traiettoria, studiandola al millimetro. Sento un respiro più intenso di tutti i precedenti e mi preparo a cadere.
Farà male? Mi accorgerò di qualcosa?
Spalanco gli occhi. Ripenso alle parole pronunciate.
«Hai detto “Emilio”?»
Quello deglutisce, fa cenno di sì.
«Chi cazzo è Emilio?»
Lorenzo Rulfo è nato a Torino nel 1985.
Autore e imprenditore, ha esordito molto giovane come attore in Rai. Ha scritto testi teatrali e romanzi per ragazzi e ha partecipato all’antologia di racconti Le farfalle nello stomaco , pubblicata sempre da Gallucci. Dal 2014 dirige Book on a Tree, la factory creativa fondata da Pierdomenico Baccalario.
Immagine di copertina: © Shutterstock
Foto dell’autore: © Veronika Szkanderova
«L’amore, Leon. L’amore non è niente. Ci si innamora la mattina, uscendo di casa, bevendo il caffè, pensando che è la cosa più grande dell’universo, che sarà per sempre… e quel bastardo finisce prima ancora di sedersi a tavola per cena».
“Se non hai davvero intenzione di leggere questo libro, non fare l’errore di scorrere con gli occhi l’incipit. Non farlo, o questo romanzo non ti darà scampo”.
Giuseppe Festa