Kounellis, Jannis.

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a quanto già affermato, e a cui pur si rimanda2, su questo importante capitolo del lavoro di Kounellis nuovi spunti di riflessione. Rapidità e atti sacrificali Con il frequente ricorso a grandi macchie, in questi anni Kounellis introduce nel suo lavoro un grado nuovo e ulteriore di accelerazione operativa, peraltro già pervenuta a un quoziente che sembrava invalicabile; ciò se si considera che egli, da tempo, accoglie e si dispone a soddisfare committenze di episodi espositivi dei quali l’annuncio precede talvolta di pochi giorni non solo l’esecuzione dell’opera, ma persino il suo concepimento. Non è infrequente il caso, anzi, che egli giunga alla vigilia di tale scadenze pressoché privo di un predisposto repertorio di opere, affrontando così, sul luogo, il processo di formalizzazione del lavoro, spesso attraverso l’individuazione di una polarità attorno alla quale ‘costruire’ una spazialità resa significativa mediante precise creazioni. Ma, come per altre modalità linguistiche declinate nel suo ormai vasto componimento, si rende necessario domandarsi da dove e quando possa aver avuto origine la morfologia della “macchia” nel suo lavoro, onde poterne seguire la metamorfosi e le funzioni nel lento processo di definizione della forma e comprendere sia il suo assiduo lavoro di scoperta ed elaborazione di nessi semantici, alla stregua di un etimologo, sia i ‘passaggi’ sensibili di carattere iconografico maturati di volta in volta nella messa a punto delle nuove forme. È di tale profondo e incessante rovello che si deve tener conto, se si vuole interpretare con aderenza e soddisfazione la ‘lingua’ di Kounellis. Ora, per quanto riguarda la “macchia”, che nell’affiche

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stradale della mostra di Milano appare prodotta da un bicchiere d’inchiostro rovesciato su un foglio di carta, è palese che essa abbia a che fare con l’‘errore’; un avvenimento incidentale che ‘allontana dal giusto o dalla norma convenuta’, insomma qualcosa che si può ritenere uno ‘sbaglio’. In una elencazione lessicale tra i sinonimi della “macchia” si rinviene anche il termine ‘colpa’. Così viene naturale interrogarsi di quale avvenimento siano effetto tanto l’‘errore’ quanto l’eventuale ‘colpa’ tra le elaborazioni a cui Kounellis si dedica con intensità da molti anni. E, ben lontano da qualsiasi analisi psicologica, ma invece restando sul piano della pura indagine filologica, l’evento che presenta maggiori analogie con la macchia è il precedente formale e gestuale significativo del Senza titolo del “quintale di carbone” scaricato sul pavimento dello studio nel 1967 e da Kounellis delimitato subito con un perimetro tracciato mediante una linea a fascia di colore bianco di forma riquadrata. La gestualità di rovesciare il carbone per terra e il disporsi incontrollato di quello sul pavimento ha numerosi aspetti in comune con il rovesciamento dello smalto nero, la cui occupazione del suolo e il cui dilagare è altrettanto incontrollabile quanto la caduta del carbone. Se allora si dà come possibile questo raffronto, la linea bianca che riquadra il “quintale di carbone” nel caso della “macchia” è sostituita dal cerchio di sedie stretto attorno ad essa nella mostra di Milano. In entrambi i casi Kounellis delimita e traccia un confine e ordina la casualità di caduta dei materiali, conferendo loro una ‘forma’. Nel “quintale di carbone” infatti, come pure nella “macchia” è vivo il fantasma dell’informel, identità linguistica sotto cui il giovane Kounellis è cresciuto, ma alla quale egli

– com’è ormai noto – volta subito le spalle, sin dalla concezione dei dipinti del ’60 a base di ‘frecce, cifre e lettere’, con un gesto ‘compositivo’ di inequivocabile riferimento, che coniuga il suo lavoro al clima linguistico cubista e alla spazialità frutto di diverse suggestioni che includono l’affresco masaccesco, la pagina dei corali liturgici gregoriani, la segnaletica del paesaggio urbano e perfino alcuni fotogrammi del film La Corazzata Potemkin di Eisenstein! Il dato evidente è l’atto sacrificale con cui Kounellis si libera definitivamente dal quadro informale e soprattutto dalla spazialità di cui il quadro da cavalletto è l’emblema. Quell’atto audace e rischioso, un vero salto nel buio – che poteva essere interiorizzato come possibile ‘errore’ e certamente come motivo di ‘colpa’ per avere – di fatto – assassinato la pittura dei padri elettivi a lui precedenti, da Boccioni a Fontana, a Burri e altri, veniva compiuto in piena consapevolezza e tagliando ogni ponte dietro di sé, onde non poter tornare indietro. Quella presa da Kounellis con il Senza titolo (1967) del “quintale di carbone” è una decisione radicale, non priva di drammaticità, di dubbi e rimorsi, ma assunta con la lucidità di chi deve assicurarsi lo spazio vitale che lo renda all’altezza di formulare pronunciamenti rivoluzionari nel processo pittorico, capaci di ‘cogliere’ e ‘far vedere’ la nuova sensibilità e le nuove esigenze spirituali e civili dell’epoca. Se un’equazione si potesse scrivere, essa sarebbe così composta: la “macchia” sta al “quintale di carbone” come l’oleosa fluidità sta all’asciutta frammentazione. Il fantasma apparso agli occhi di Kounellis nel lontano 1967 ha assunto, infatti, numerose morfologie prima di giungere ai bordi di queste insondabili macchie, peraltro già in procinto di genera-

re nuove sembianze, come risulta da alcuni recenti conseguimenti morfologici di sorprendente qualità dinamica integrale (i tavoli neri di Parigi, 2007). Lo sviluppo interno ai processi della forma impresso da Kounellis al suo lavoro e che coniuga il “quintale di carbone” alle “macchie” descrive l’impressionante arco temporale di circa quarant’anni, entro i quali si possono individuare i differenti aspetti e modificazioni di quella iniziale intuizione divenuta una delle immagini fondamentali della sua opera. A semplice titolo di rievocazione schematica, si può ritenere che, dopo il Senza titolo (1967), appartengano a tale sviluppo “la carboniera” (1967), la “rosa nera” (1967)

Senza Titolo, 2004, Collezione Bolongaro, La Marrana, (La Spezia), foto di Aurelio Amendola

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Kounellis, Jannis. by Galleria Il Ponte - Issuu