Claudia Marchetti - Di fronte e attraverso sculture

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CLAUDIA MARCHETTI di fronte e attraverso sculture

GALLERIA CERIBELLI




Un ringraziamento a Giuseppe Riva per la disponibilità e a [dia•foria per la collaborazione


CLAUDIA MARCHETTI di fronte e attraverso sculture

testo

Nadia Marchioni

GALLERIA CERIBELLI 2014


GALLERIA CERIBELLI

Vi a S . To m a s o 8 6 B e r g a m o

w w w. g a l l e r i a c e r i b e l l i . c o m

di fronte e attraverso

8 novembre - 30 dicembre 2014

info@galleriaceribelli.com



Mai si deve mentire. L’arte ha questo di particolarmente grande: non tollera la menzogna. Si può mentire in amore, in politica, in medicina; si può ingannare la gente, persino Dio; ma nell’arte non si può mentire.

Anton Pavlovič Čechov

Michel de Montaigne

Avrò forse perduto il mio tempo a studiarmi con tanta costanza e tanta cura? In realtà coloro che si osservano solo con la mente e a parole, quando capita, non si esaminano in modo così radicale né penetrano in se stessi tanto a fondo come colui che di questo ha fatto il proprio oggetto di studio, la propria opera, il proprio mestiere, e che s’impegna a fornirne una registrazione di lunga durata, in perfetta buona fede e con tutte le sue forze.

Autoritratti, figure, biomasse


Autoritratti, figure, biomasse. Riflessioni sull’opera di Claudia Marchetti

Conosco Claudia soprattutto attraverso la sua opera: una finestra aperta al dialogo con lei e con se stessi, uno specchio che riflette, attraverso la sua immagine, e non solo, frammenti di pensieri, epifanie, seduzioni, timori, attimi sospesi di un dolore o di una gioia. Di questi stati d’animo, che immediatamente riconosciamo come nostri (provando quello straordinario senso di appagamento e liberazione dalla clausura del corpo e della mente, nelle occasioni in cui ci sembra di essere profondamente uniti, per empatiche sconosciute strade, ad un qualche altro essere vivente) ci parlano le sue sculture, invariabilmente portatrici di un significato, un’emozione o suggestione che, seguendo il suggerimento dell’artista, siamo chiamati a condividere.

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La peculiarità dei suoi autoritratti, che solo ad un primo sguardo sembrano prestarsi ad una lettura in chiave psicoanalitica (che porterebbe, almeno in questo scritto, a conseguenze inevitabilmente superficiali nonché, temo, fortemente fuorvianti, come spesso accade quando i confini delle diverse discipline vengono scavalcati con troppa disinvoltura), mi pare vada cercata invece altrove, in un retroterra culturale archetipico, condiviso, per cui grazie a colti riferimenti iconografici -che paiono scaturire fuori con la massima naturalezza, senza artificiose programmazioni- l’osservatore è proiettato al confronto con l’opera, in una dimensione storica atemporale, che scavalca i secoli parlando una lingua a noi nota, azzerando in un battere di ciglia la distanza che fatalmente ci allontana in ogni attimo quotidiano. Il dialogo con queste figure, infatti, si instaura in un contesto che riconosciamo come contemporaneo, sebbene si affacci alla nostra mente la sensazione di un tempo che è stato sospeso, bloccato in un’eternità che permette di fermarsi e condividere con l’opera una sensazione, un pensiero, un sentimento. Nella quotidianità delle loro vesti ed attitudini, le donne di Claudia permettono di realizzare un desiderio inappagabile: lo scorrere del tempo, come noi lo conosciamo, si interrompe nella realtà circostante. Ci è fatto dono dell’opportunità di poter riflettere lungamente, guidati da queste mute compagne, su noi stessi, sui nostri desideri e fragilità, sul nostro posto nel mondo e sulle possibilità di istituire un reale rapporto di comunicazione/ comprensione con i nostri simili. Come per farci sentire al sicuro, in questa dimensione metastorica, le figure rimandano a modelli noti alla nostra cultura figurativa, che l’artista evoca con raffinata sapienza. La fissità ieratica del volto nell’“Autoritratto” (2011) in terracotta policroma richiama alla

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alla memoria gli arcani ritratti del Fayyum, suggeriti dall’acconciatura e dall’intenso maquillage degli occhi, il cui sguardo diretto ed insondabile, appena velato da una vaga malinconia, conferisce alla figura una potente intensità emotiva, evocando l’atteggiamento pensoso e riflessivo di chi osserva la realtà con disincantato spirito critico. L’“Autoritratto-Ofelia” (2011) si lega inevitabilmente all’universo femminile shakespeariano, fornendo una più desolante risposta alla fiorita “Ophelia” di John Everett Millais, e passando, forse, per i dipinti in soggettiva nella vasca da bagno della sofferente Frida Kahlo, dove il velo d’acqua che ricopre il suo corpo immerso, lasciando giganteggiare solo i piedi, si popola di sogni e fantasmi, mentre la seducente tinta della stoffa che ricopre il corpo di Claudia, increspata quasi a simulare un velo d’acqua, nasconde solo parzialmente il corpo ed il volto straziati dalla terribile morte, giocando un contrasto tattile e cromatico con la terra su cui poggia la scultura. Quest’ultima evoca, inoltre, l’icastica umanità del “Cristo morto” di Mantegna, di cui richiama la postura ed il panneggio. Un invito alla riflessione sembra essere offerto dall’autoritratto “inequilibrio” (2011), dove il gioco di legno e sughero, la cui punta poggia fra le sopracciglia, (luogo dove le donne indiane si decorano con il bindi, considerato la sede della saggezza nascosta o dell’energia divina), pare anche indirettamente suggerito dalla colloquiale espressione di avere un chiodo fisso nella mente, poiché lo sguardo, nel favorire il gioco di equilibrio, spazia verso l’alto, a cercare un dialogo con l’infinito. Una similare attitudine del volto si nota anche nella scultura “Maddalena” (2013), in cui la quotidiana posa della giovane donna in piedi, elegantemente vestita, viene dinamizzata dallo sguardo rivolto verso il cielo, alla scoperta di un misterioso avvenimento che capta la sua attenzione o nella pacata contemplazione dell’universo.

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Gli autoritratti e l’universo femminile esplorati dall’artista, pur nella ricerca di una mimesi con il reale, non partecipano di quel desiderio di rappresentare la vita così come noi la conosciamo e come già è stata fermata dai candidi calchi di George Segal e dalle resine iperrealiste di Duane Hanson. Si suggerisce, piuttosto, una dimensione che trascende la realtà, un invito a compromettere le nostre certezze, a riconoscere la frammentazione della stessa nostra essenza in molteplici e diverse porzioni, offerte metaforicamente alla vista dalle figure in terracotta con fondo bianco; qui emergono, colorati naturalisticamente, solo alcuni dettagli anatomici giudicati dall’artista particolarmente significativi, come l’occhio, la bocca, l’orecchio, una porzione di capelli o di un abito. Questo particolare procedimento riveste per Claudia una speciale e duplice «volontà rappresentativa»; la sua traccia colorata suggerisce, infatti, «l’enigma del venire al mondo attraverso il colore e, dunque, la luce». Individuare con fasce colorate porzioni della figura già liberate (o nate, se si preferisce) dall’ancora inerte materia bianca, «provoca un’accelerazione percettiva che porta lo spettatore a completare mentalmente il mancante», a compiere con la fantasia assieme all’artista, e ciascuno a suo modo, l’opera della creazione. Alla colorazione naturalistica delle zone emergenti dal bianco si sostituiscono, talvolta, fasce di colore non uniforme, di tonalità diverse. Si tratta in questo caso di una riflessione dell’artista sulla luce «si danno delle possibilità, delle ipotesi di visualizzazione dell’opera, tali da rendere la scultura potenziale; il racconto varia al variare della luce invitando, nuovamente, l’osservatore ad una fruizione attiva e personalissima, stimolata da questi suggerimenti cromatici» (“A volte vorrei dire di no”, 2013). (Le frasi tra virgolette sono citazioni da una breve nota di Daniele Poletti “Precisazione” - n.d.A.)

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Recentemente le figure di Claudia hanno preso a dialogare con materializzazioni di forme generate dalla mente, osservate con infantile ottimistica curiosità (“Contatto n.1”, 2013), con maturo distacco o con il rassegnato e pacato spirito della vecchiaia (“Contatto n. 2”, 2013). Queste forme, che l’artista definisce biomasse, vivono anche come entità autonome e rappresentano manifestazioni del pensiero nel loro aspetto più astratto, cui l’esperienza del modellare è riuscita a dare forma. Il risultato richiama palesemente la materia organica: la plasticità globulare e ad anse evoca il movimento e il flatus dell’informe. Le biomasse si offrono al fruitore accogliendo ogni possibile significato estetico e contenutistico, talvolta minacciose, più spesso ammiccanti alla vista e al tatto con colori seducenti. L’articolazione di queste sculture si complica ulteriormente laddove Claudia utilizza l’antica tecnica di cottura Raku, di origine giapponese, che introduce l’elemento casuale nell’ultima fase del processo creativo, provocando evidenti crettature, che innervano l’opera di un reticolo di segni il cui percorso è imprevedibile1. Desiderio dell’artista è quello di ingigantire le biomasse fino a renderle sculture abitabili, percorribili, da esplorare nei più riposti meandri, renderle un luogo che favorisca il gioco o il raccoglimento, strutture aperte al dialogo con il fruitore e lo spazio esterno. La potenzialità di queste ipotetiche architetture è evocata in mostra da alcuni recentissimi disegni di grande formato che, sebbene mostrino un’autonoma valenza estetica, attendono la collaborazione di un tecnico e qualche illuminata committenza per poter divenire parte tridimensionale del nostro universo urbano.

Nadia Marchioni

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1 Come spiega Claudia: «La caratteristica principale di tale tecnica, sta tutta nella parte finale della cottura dello smalto che viene effettuata a riduzione di ossigeno. Il pezzo deve essere modellato con una speciale argilla molto resistente agli shock termici. Dopo una prima cottura viene smaltato e se si vuole l’effetto bianco con la crettatura nera non si dà uno smalto colorato ma solo cristallina trasparente. A questo punto si effettua la seconda cottura a temperature molto elevate, intorno ai 920 gradi, raggiunti i quali il pezzo deve essere tolto dal forno, lasciato all’aria aperta per una decina di minuti in modo tale che la temperatura si abbassi repentinamente e lo smalto si strappi. La ceramica deve ora essere posta in un contenitore pieno di foglie secche, segatura o carta, materiali infiammabili che al contatto con il manufatto, ancora a temperature molto alte, prendono fuoco. Il contenitore viene chiuso, l’ossigeno al suo interno brucia e il fumo che si sviluppa penetra nelle crepe dello smalto e annerisce la ceramica sottostante. (Nel caso si siano usati smalti colorati la mancanza di ossigeno fa sì che emerga la parte metallica del colore ottenendo sfumature e riflessi che con la cottura normale non si possono avere)».

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[...] puntellò il bastone davanti a sÊ e incrociò le mani sul manico; aveva le unghie laccate di rosso e le dita le brillavano di OPERE gemme. Da sotto la tenda calata delle palpebre, le brillavano anche gli occhi. La bocca era pitturata di rosso e il collo cascante e reticolato tremolava sotto il pomello vizzo del mento, ai lati del quale le ganasce colorate di belletto pendevano molli dagli zigomi bitorzoluti. [...] Patrick McGrath Grottesco


Carla terracotta policroma 2008 altezza cm 87

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Maddalena terracotta policroma 2013 altezza cm 152

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Indovina? terracotta policroma 2008 altezza cm 65

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Indovina? trittico terracotta policroma, legno, ferro 2014 altezza cm 191, 166, 193

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inequilibrio autoritratto terracotta policroma, legno, sughero 2011 altezza cm 65

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Autoritratto terracotta policroma 2011 altezza cm 86

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Autoritratto/Ofelia terracotta policroma 2011 base cm 186x60



Mi è sfuggito qualcosa terracotta policroma 2013 altezza cm 77

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Mi è sfuggito qualcosa figura intera terracotta policroma 2013 altezza cm 89

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M’ama non m’ama figura intera terracotta policroma 2014 altezza cm 49

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M’ama non m’ama terracotta policroma 2014 altezza cm 71

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Senza titolo (Sospensione) bozzetti terracotta policroma 2013, 2014 altezza da cm 13 a cm 20

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A volte vorrei dire di no terracotta policroma 2013 altezza cm 70

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A volte vorrei dire di no figura intera terracotta policroma 2014 altezza cm 87

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Soggiorno terracotta policroma 2013 altezza cm 56

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Di fronte terracotta policroma 2014 altezza cm 69

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Di fronte figura terracotta policroma 2013 altezza cm 60

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Io ti ho visto terracotta policroma 2014 altezza cm 70

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Contatto n.1 terracotta policroma, ceramica 2013 altezza cm 65

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Contatto n.2 terracotta policroma, ceramica raku 2013 altezza cm 58

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Contatto n.3 terracotta policroma 2013 altezza cm 66

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Contatto n.4 terracotta policroma 2013 altezza cm 68

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Contatto n.5 terracotta policroma 2014 altezza cm 71

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Biomassa n.1 ceramica 2013 base cm 50x40

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Biomassa n.2 ceramica 2013 base cm 47x46

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Biomassa n.3 ceramica 2014 base cm 56x40

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Biomassa n.4 ceramica 2014 base cm 50x35

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Biomassa n.5 terracotta patinata 2014 base cm 65x45

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Biomassa n.6 terracotta patinata 2014 base cm 40x30

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Biomassa n.7 terracotta patinata 2014 base cm 62x45

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Biomassa n.8 terracotta patinata 2014 base cm 20x21

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Biomassa n.9 terracotta patinata 2014 base cm 22x21

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Biomassa n.10 ceramica raku 2014 base cm 45x44

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Biomassa n.11 ceramica raku 2014 base cm 33x36

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Biomassa n.12 ceramica raku 2014 base cm 43x27

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Biomassa n.13 ceramica raku 2014 base cm 31x25

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Biomassa n.14 ceramica raku 2014 base cm 69x23

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Biomassa n.15 ceramica lustro 2014 base cm 38x25

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Biomassa n.16 ceramica lustro 2014 base cm 50x23

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Struttura-volume, 1 tecnica mista su carta 2014 cm 150x120

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Struttura-volume, 2 tecnica mista su carta 2014 cm 150x120

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Struttura-volume, 3 tecnica mista su carta 2014 cm 150x120

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Struttura-volume, 4 tecnica mista su carta 2014 cm 150x120

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Struttura-volume, 5 tecnica mista su carta 2014 cm 150x120

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AP P E NDI C E

Conversazioni con Nadia Marchioni Daniele Poletti


N.M.


Quando hai cominciato ad elaborare le tue biomasse? Riesci a collegarle ad un qualche evento biografico e/o a una specifica suggestione figurativa di cui ti fa piacere parlare? Quello delle biomasse è un argomento relativamente recente. È da circa due anni che ci sto lavorando, ho iniziato con schizzi a lapis, poi con disegni sempre più definiti anche colorati con gessetti a tinte contrastanti; solo nell’ultimo anno ho trasportato il tema nella scultura. In realtà le origini di questo argomento risalgono ai tempi del liceo, ovviamente non in questa forma e con questa intenzione. Scarabocchiavo al margine delle pagine dei quaderni disegnetti di volute, riccioli, gocce d’acqua o piante immaginarie che potevano svilupparsi all’infinito, mescolandosi fra loro in un tutt’uno organico che trascendeva il mondo vegetale, animale e minerale. Erano quei disegni senza importanza, di quelli che si fanno quando si parla al telefono o si ascolta una lezione più o meno interessante… mi piaceva farli, anche per semplice compiacimento estetico. Con il tempo mi sono resa conto che erano il risultato della fascinazione per argomenti e forme diverse: ad esempio le linee sinuose (a Viareggio bene o male ho sempre avuto sott’occhio l’architettura e le decorazioni Liberty); la stupefacente varietà e precisione delle forme naturali, il senso del movimento nello spazio; ma soprattutto la sensazione di attrazione-repulsione che si prova nel vedere una materia molle che si muove nell’atto di prendere sembianze definite, nell’atto della generazione di un essere la cui anatomia non è riconducibile necessariamente a un organismo già esistente. Le attuali biomasse sono profondamente diverse rispetto a quei primi disegni, hanno perso la leggerezza dell’inconsapevole, c’è stata una trasformazione radicale dal ricorrente e ingenuo disegno alla materia modellata, probabilmente a un occhio esterno non sembrano neppure collegati, ma io so che è così. Quelle prime immagini hanno fatto (e stanno facendo) dentro di me quello stesso percorso di mutazione che la materia fa partendo dal pane di creta.

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Sapresti indicare il momento in cui le tue figure hanno iniziato a “dialogare” con le biomasse? Evidentemente l’argomento figura è radicalmente diverso dalle biomasse. Come accennavo prima in questi anni mi sono sempre dedicata alla rappresentazione della figura umana, ho cercato, e cerco, di far emergere, attraverso i miei personaggi, stati d’animo e condizioni psicologiche di vario tipo. Vorrei riportare in luce quella condizione di intimità, di intesa reale che si può avere fra due persone o anche solo con se stessi che, a mio avviso, troppo spesso perdiamo di vista a causa dell’impostazione di vita della società in cui viviamo (l’osservazione è banale forse, ma piuttosto vera). Nei miei lavori c’è sempre la volontà di calare il personaggio nella realtà, ma allo stesso tempo di creare una sorta di bolla intorno ad esso, che lo isoli dal frastuono circostante senza però perdere il contatto: in un certo senso cerco di creare un canale preferenziale fra scultura e osservatore. Per ottenere questo spesso le sculture si avvalgono di attributi: un sasso, un giochino di equilibrio, uno scialle, un abito o di un oggetto immaginario celato da un movimento. Le biomasse sono una prosecuzione, un’ evoluzione di questi attributi. Provengono, talvolta, dall’interno/interiorità dei personaggi, altre volte sono casualmente incontrati. Per quanto riguarda il significato di questa “convivenza” preferisco che sia chi guarda a trovarlo, non c’è una spiegazione assoluta, ognuno deve dare la sua, le opinioni sono sempre valide. A quale tua urgenza ti sembra possa rimandare il frequente ricorrere nella tua scultura di figure che imitano la tua immagine (non sono certa che si possa parlare di autoritratti)? Sì, in alcuni casi sono autoritratti dichiarati, in altri no ma tutti dicono che ci sono somiglianze. Non posso dire che ci sia una vera e propria urgenza nel rappresentare me stessa, quantomeno non in questo momento. In passato sì, era un modo per parlare di me senza

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ricorrere a troppe parole, che sono due cose che non amo fare, poi mi piace raccontare qualcosa che so. La domanda più frequente che mi viene posta è: perché modelli solo donne? La mia inevitabile e ormai classica risposta è: perché io stessa sono donna e del mondo maschile conosco ben poco, come potrei parlarne? L’argomento autoritratto è una conseguenza di questo mio modo di procedere, per me è necessario parlare di qualcosa che almeno in parte padroneggio, non dico in assoluto perché ci sono sempre punti oscuri anche negli argomenti più conosciuti. Gli autoritratti rappresentano dunque un punto di partenza, mi permettono di esprimermi e allo stesso tempo di conoscermi meglio, una volta esaurito questo processo posso passare oltre. Periodicamente ci torno sopra, riaffrontando me stessa, faccio un resoconto, forse segno le tappe del mio percorso. La tua “Ofelia” rimanda all’immagine del tuo corpo senza vita. Come convivi con il pensiero della morte? Ofelia è un lavoro apotropaico e ironico, anche se per molti probabilmente è solo macabro. La morte in sé è un argomento che mi provoca sensazioni contrastanti. Naturalmente il fatto che sia inevitabile me ne impedisce l’accantonamento, non posso far finta che non ci sia. Purtroppo nel corso della vita dobbiamo scontrarci spesso con la morte ed è, il più delle volte, un’esperienza dolorosa sia che riguardi la scomparsa di persone a cui siamo legati, sia che riguardi il gatto di casa o la pianta segata ingiustamente nel giardino del vicino, ovviamente con le debite distinzioni. Allo stesso tempo sarei curiosa di sapere chi è nel giusto: i cultori dello spirito o i materialisti? Onestamente spero che i primi abbiano qualche chances in più, altrimenti sarebbe solo una tristezza immensa e la vita in sé non avrebbe una gran ragione di essere. Ironia a parte, la morte mi spaventa, ho paura della perdita di chi amo e ho paura dell’eventuale dolore fisico che potrebbe accompagnare la dipartita. Spero di non accorgermene quando accadrà e spero dopo di trovarmi in mezzo a persone allegre.

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Hai un immaginario poetico, letterario, figurativo al quale ti sembra di poter avvicinare la tua opera? Non saprei, una risposta diretta è difficile. Sono tanti gli artisti dei quali subisco il fascino: Burri, Moore, Brancusi e Kan Yasuda, ma potrei aggiungere Hopper, Caravaggio, Canova, Schmidlin; in letteratura Allende, Morante, McGrath, Buzzati, Palahniuk… sono tanti e appartengono a epoche e stili estremamente diversi, ognuno di loro mi coinvolge per un motivo particolare e probabilmente incarna un aspetto della mia interiorità. Credo che ognuno di noi avverta affinità con determinati artisti (che sono oggettivamente dei perfetti sconosciuti), perché ritrova nelle loro opere anche solo un’infinitesimale parte di se stesso, anche inconsciamente. Le tue donne sembrano ordinariamente immerse nella realtà contemporanea, ma anche rimandare alla categoria letterario-figurativa del “perturbante”, per cui l’immagine umana restituita fedelmente nelle tre dimensioni (manichini, bambole, automi) genera, talvolta, un senso di mistero o disagio in chi vi si imbatte. Se condividi questa sensazione a lavoro ultimato, potresti commentarla? Effettivamente il richiamo alla realtà è uno degli scopi del mio lavoro, penso i miei personaggi come nostri con-viventi, vorrei che fossero sentiti da chi osserva come presenze dichiaratamente vive. Onestamente spero che non provochino disagio negli altri come non lo provocano in me, piuttosto che suscitino altre emozioni, anche l’antipatia, questo significherebbe che tra scultura e osservatore si è instaurato un dialogo e che c’è intesa come fra due esseri viventi; si avverte disagio quando ci si sente ingannati, quando l’altro non si espone ma cerca di penetrare la nostra intimità. Detto questo credo ci sia da fare una distinzione fra ciò che si propone di essere una scultura e ciò che rappresentano un manichino, una bambola o un automa.

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Nel primo caso il realismo, più o meno forte, e la tecnica diventano strumenti necessari per evocare, per generare nello spettatore l’idea della vita. L’arte non deve fornire allo spettatore un oggetto completo, finito, ma deve dare un input affinché l’osservatore elabori e definisca in modo personale l’opera che ha di fronte. La scultura si comporta come una specie di istantanea tridimensionale che cattura, mantenendolo vivo, un momento preciso. Attraverso la forma la scultura deve rendere le sensazioni di un’atmosfera o di un sentimento; la forma quindi è importante come mezzo, non come fine della scultura. Nel caso in cui avvenga il contrario si ha un oggetto sicuramente ben fatto, esteticamente impeccabile, ma annoverabile fra i manufatti di artigianato. Nel caso di manichini, bambole e automi ci troviamo di fronte a elementi che non hanno lo scopo di evocare il senso del vitale, ma semplicemente imitano le forme viventi, non ne catturano quello che Barthes definirebbe lo strutturale, si limitano all’inganno. Un manichino è un oggetto che mette a disagio perché, come dicevo prima, non si espone, le sue fattezze non ci parlano della sua personalità, è un essere vuoto e quindi profondamente diverso da noi, lo avvertiamo come alieno, falso, non ci può essere dialogo.

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D.P.


Hai dedicato parte della tua vita alla danza classica: è in qualche modo sopravvissuta questa esperienza nel tuo percorso artistico? Suppongo di sì. Ogni esperienza, anche la più piccola, lascia segni e concorre alla formazione del nostro carattere, del nostro modo di pensare, di vedere e concepire quello che abbiamo intorno. Tutto quello che facciamo o ci capita plasma la nostra realtà apportando modifiche, magari inizialmente impercettibili, ma che avranno forti ripercussioni nel futuro. La danza classica (ma direi la danza in generale) ha occupato in modo intenso buona parte della mia vita, non solo come numero di ore dedicate, ma soprattutto per il coinvolgimento intellettuale e sentimentale. La danza è in primo luogo una disciplina, è molto dura, più le dai e più pretende, ma, come ogni buon educatore, dispensa gratificazioni dopo gli sforzi più duri e dopo l’impegno dimostrato. In questo modo si è spinti a continuare e una volta entrati nel meccanismo è veramente difficile uscirne. Ma, se da una parte ha questa faccia rigida e austera, dall’altra mostra la gioia, la vita. La danza è la pulsazione primitiva, nasce come tale, come manifestazione del sacro attraverso il corpo. Con il tempo e nelle varie culture ha preso attitudini specifiche diversificandosi in innumerevoli tipi di balli ognuno con uno scopo e talvolta con codici espressivi (danze tailandesi, indiane, flamenco…..) precisi alla cui base c’è sempre questo istinto. La danza classica nello specifico è forse fra le espressioni più complicate, e nasconde molto la parte istintuale ma, sotto strati di tulle paillettes e nastrini, il sacro primordiale si muove. Ogni gesto, ogni spostamento deve nascere dal dentro, anche il movimento di una singola mano deve provenire dall’interno del corpo e della mente, deve prendere energia dal pavimento, dunque dalla Madre Terra. Come può tutto questo non aver lasciato dentro di me residui importanti? Anche solo da un punto di vista estetico l’abitudine a vedere e creare sul corpo degli altri, e sul proprio, linee fluide che fanno scorrere energia, non può essere dimenticata. L’armonia ricercata per anni, il movimento studiato e sperimentato, non possono far altro

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che influenzare la mia ricerca, sia nelle figure che nelle biomasse. Cerco di far sì che le varie parti dei miei lavori “collaborino” armonicamente per la resa di un significato unitario. Per te l’arte e la scultura, in particolare, sono mezzi espressivi che devono “dimostrare” o “convincere”? Per come la vedo io né l’una né l’altra. “Dimostrare” e “convincere” sono due parole che non mi piacciono se associate all’arte, sottintendono un senso di autorità e di imposizione. Non credo ci sia bisogno di fare nessuna delle due cose, l’arte deve parlare, mostrare, attirare a sé; è lo spettatore che dovrebbe lasciarsi coinvolgere, penetrare un’opera e farsi a sua volta penetrare. Direi piuttosto che l’arte ha il dovere di dialogare, di suggerire punti di vista diversi che non necessariamente devono imporsi, ma far semplicemente riflettere: poi possono essere accettati o meno, senza nessun obbligo. E.A. Poe nella “Lettera rubata” suggerisce che ciò che è nascosto può essere trovato, purché venga cercato con sufficiente attenzione e diligenza; mentre ci vuole un intelletto superiore per trovare ciò che si ha sotto gli occhi. Sembra che il tuo percorso creativo sia partito dal secondo punto che indica Poe, per arrivare al primo (nei tuoi lavori più recenti si contemplano anzi entrambi i percorsi: l’evidente e il nascosto che si palesa), che ne pensi? Stando alle affermazioni di E.A. Poe in effetti il mio sembra essere un percorso a ritroso, ma io non credo che ci sia un modo preordinato di procedere, ognuno di noi segue una strada soggettiva delineata dal proprio modo di essere. Nel mio lavoro sono partita dall’analisi del reale che sembra, per Poe, essere l’approccio più difficile. In realtà non penso che sia vero, tutto dipende dalla sensibilità di cui una persona è dotata. La nostra quotidianità è fatta di innumerevoli momenti, di emozioni che spesso tendiamo a sottovalutare, a dimenticare pensando che non siano significativi, ma sono

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proprio queste particelle di tempo che formano la nostra vita. Un’espressione, una piega del volto, un abito, un gesto o un colore hanno per me un valore ineguagliabile, certo un paesaggio mozzafiato ci dà un’emozione forte, ma sicuramente è nella minuzia di certi particolari del consueto che possiamo intravedere il mondo interiore degli altri e di noi stessi. Bisogna saperli rappresentare e valorizzare in modo giusto questi frammenti di vita. Come ci ha insegnato Duchamp basta decontestualizzarli e acquisiscono subito un’altra valenza, un’altra dignità. L’evidente nella realtà non è così difficile, basta avere la pazienza di osservare. Credo che al contrario sia più difficile dare una forma a ciò che non si è mai visto, a quello che sta nei nostri pensieri più profondi, talvolta nell’inconscio. Non si tratta di fantasia, bensì di dare la giusta fisicità a qualcosa di completamente astratto e ignoto, a una sensazione che magari ci accompagna da quando siamo bambini, di dare forma a una parte sconosciuta di noi stessi. In ogni caso penso che sia ciò che è evidente, sia ciò che è nascosto abbiano bisogno di una buona dose di concentrazione e introspezione per essere mostrati. Il lavoro che stai svolgendo sulle biomasse è più vicino ai concetti di modularità della natura ripresi da Gaudì o all’immaginario cinematografico del primo Cronenberg? Direi che è più vicino a Cronenberg anche se non ne rispecchia l’aspetto più scuro e perverso. Naturalmente la fascinazione verso Gaudì è fortissima, le forme e i colori delle sue architetture non possono non appassionare. Superficialmente potrei dire che mi ispiro al suo lavoro ricercando nella natura forme da rielaborare, ma la differenza sta nel fatto che Gaudì appunto riprendeva la modularità delle strutture naturali, ne studiava la funzione e le applicava alle architetture creando edifici che si inserivano armoniosamente nell’ambiente e che allo stesso tempo erano adeguati allo scopo per cui erano costruiti. C’è un aspetto razionale che io non osservo, le mie biomasse non sono il risultato di attenti studi di rapporti e misure, cercano solo di rimandare alla mente l’idea di una forma che può

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essere naturale ma è del tutto immaginaria. Gaudì si attiene alla realtà piuttosto fedelmente, combina in modo fantasioso particolari realmente esistenti fino a creare degli ibridi: in una stessa architettura possono convivere lo scheletro di una balena e circonvoluzioni vegetali, ovviamente niente di tutto ciò esiste nella realtà, ma se andiamo a isolare i vari particolari li ritroviamo tali e quali in qualche essere vivente. Al di là dell’aspetto formale forse, quello che più potrei riprendere dal grande architetto è la vivibilità delle opere. I suoi edifici si trasformano in vere e proprie sculture abitabili, chiunque le può percorrere, sono esseri viventi che entrano in relazione con chi ne fruisce, non sono semplici ambienti dove dormire, cucinare o passeggiare. Allo stesso modo mi piacerebbe riuscire a fare il processo inverso, metamorfosare le biomasse in costruzioni e ambienti realmente vivibili. Le “tue donne” hanno sempre rappresentato frammenti sospesi di realtà, lasciando intravedere un prima e un dopo narrativi. Con le biomasse, sole o in relazione con la figura umana, cosa si racconta? Si continua a parlare di un istante sospeso, sia la figura che la biomassa sono ciò che non erano un attimo prima e ciò che non saranno un attimo dopo. Le biomasse sono ognuna un’individualità diversa o è un’unica individualità che assume di volta in volta forme diverse, che si evolve? Probabilmente sono individualità distinte, ognuna si manifesta con una forma voluta per uno scopo preciso e sono sempre e comunque in evoluzione. Questo non esclude la possibilità che siano sezioni di un’unica entità o che siano la proiezione di una parte del nostro io.

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Quanto è figurativa la scultura delle biomasse e quanto informale quella delle “donne”? Questa è una distinzione che non trovo adeguata al mio lavoro. Le biomasse, come dicevo prima, sono la forma di qualcosa di astratto, la materializzazione di un concetto, di una sensazione. Chi può sapere qual è la forma reale di ciò che non ha corpo? Sono infinite le sembianze che possiamo immaginare e ciascuna di esse è perfettamente adeguata e possibile, la realizzazione in creta è solo una trasposizione di una immagine nello stesso modo in cui un ritratto lo è di un volto.

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Personali: 2009 2006 2004 2003 2001

Galleria Jannone, Milano Galleria Ceribelli, Bergamo Sala Grasce, Centro Culturale Luigi Russo. Pietrasanta Dall’aria, dall’acqua, dalla terra. Cappella di Palazzo Mediceo. Seravezza Onirica. Cappella di Palazzo Mediceo. Seravezza

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Collettive: 2013 2012 2011 2010 2010 2009 2008 2008 2008 2007 2007 2007 2004 2002 2001 2001 2001 2001 2001 2000 1999

Trompe l’oeil, Le Gallerie dei Gerosolimitani, Perugia Prima edizione Premio Fondazione Henraux, su invito di Mario Botta L’altra faccia, Le Gallerie dei Gerosolimitani, Perugia Premio Sulmona, su invito di Vittorio Sgarbi Premio Arciere, Isola di Sant’Antioco, Cagliari, su invito di Vittorio Sgarbi Art Verona, Verona, con Galleria Jannone Arte Forte, Forte dei Marmi, con Galleria La Subbia Vitarte, Viterbo, con Galleria La Subbia Miart 2008, Milano, Galleria Ceribelli Miart 2007, Milano, con la galleria Atonia Jannone Nuovi pittori della realtà, Milano, Pac 58° Premio Michetti, Chieti La palestra di Accademo, Isola Palmaria Micro Cosmos, Pietrasanta Mostra della pietra lavorata, Castello di San Niccolò Infieri ‘01, Accademia di Belle Arti di Carrara XIV Edizione del Simposio Internazionale di Scultura “La memoria del presente dalla shoah alla cultura di pace”, Carrara Premio Nazionale Mario Borgiotti Rotonda 2001, Livorno Mostra di pittura “Corpus Domini corpus Christi”, Cattedrale di Massa Novissima anatomia, Museo La Specola Firenze. Infieri ‘99.

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Foto Silvio Pennesi (3S FotoArte) FotOne per le pagg. 15 e 23 Eugenio Bucherato per la pag. 19 Grafica [dia•foria diaforia.org Stampa Poligrafiche Castelli Bolis novembre 2014



Claudia Marchetti nasce nel 1974 a Viareggio, dove vive e lavora. Nel 2003 consegue il diploma di laurea con lode in scultura presso l’Accademia di Belle Arti di Carrara.

Nadia Marchioni ha studiato letteratura e storia dell’arte all’Università di Pisa. E’ stata docente incaricata di Storia dell’arte contemporanea presso la stessa Università e curatrice di esposizioni sull’arte italiana dell’Otto e Novecento, ambito in cui continua a svolgere le proprie ricerche.

In copertina “A volte vorrei dire di no” Retro copertina “Biomassa” (foto Silvio Pennesi)


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