Sotto l'ombra del gelso

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Elena varalta

Sotto l’ombra del gelso San Giovanni Lupatoto e la sua Terra


© Il Segno dei Gabrielli editori, 2018 Via Cengia, 67 – 37029 San Pietro in Cariano (Verona) tel. 045 7725543 – fax 045 6858595 info@gabriellieditori.it www.gabriellieditori.it ISBN 978-88-6099-368-7 Stampa Mediagraf (Padova), Marzo 2018 In copertina: La Corte Garofolo nella parte interna. Foto anni ’70. Azienda certificata 100% CO2 Free e 100% Energia elettrica da fonti rinnovabili


Grazie... al mio Maestro; ai miei nonni, ai loro racconti di terra, di vita, di guerra e speranza, grazie all’amore che mi hanno trasmesso; ai miei genitori, testimoni di quel mondo prezioso di cui si perdono ormai le ultime tracce; a Jacopo, custode del futuro, a cui dedico questi racconti; a Luciano, per il sostegno e l’incoraggiamento incondizionato; a Dino Bonetti, Silvio Bonetti, Bepi Filippi e alle loro famiglie per le inestimabili testimonianze; all’Associazione Radici di San Giovanni Lupatoto.



Indice

Prefazione di Luciano Mazzuca 9 Introduzione 13 Sul finire del Settecento

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A Palazzina…

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I Bonetti in Corte Garofolo

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Una piccola fortuna

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Gli anni d’oro: una corte, molte famiglie...

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Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma...

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28 giugno 1914: il giorno che sconvolse ogni cosa

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E di nuovo la guerra bussò alle porte

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Dal dopoguerra agli anni ’70 109 Dagli anni ’70 in poi

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Bibliografia 133

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Prefazione

L’agricoltura è stata la religione dell’uomo: il continuo e costante rapporto tra l’uomo e la terra è stato animato, vivificato da una vasta produzione di miti e immagini, che hanno da sempre accompagnato il mondo rurale. La storia della famiglia Bonetti è paradigmatica: rappresenta il canto di quel mondo che sin dai primordi riconosceva la sacralità, la numinosità della madre terra e dei suoi categorici ritmi, delle sue costanti richieste d’attenzione, dei suoi prodigi. La terra, che ha accompagnato, vivificando e nutrendo queste pagine, è la vera protagonista del racconto: le voci e i passi di Luigi, di Riccardo, di Gioanìn si sono intrecciati, quasi perdendosi, con i moti e i profondi sospiri di Gea, la nostra madre. Un canto notturno quello del mondo contadino, che a stento oramai sopravvive ai corrosivi e artificiosi cambiamenti: il tempo del sacro cede sempre più velocemente il passo al tempo dell’effimero, dell’immediato, del tracimante e tracotante piccolo “io” che calpesta la terra dimentico dei suoi ritmi e della sua fragilità. La terra è stata oggetto di profonda venerazione: sin dal Neolitico antico l’uomo professava una religione le cui linee caratterizzanti e i temi principali consistevano nella venerazione dell’Universo quale corpo vivente della Dea Madre 9


creatrice e nel profondo rispetto per ogni essere vivente, partecipe della divinità della Grande Madre. Sono al riguardo notevoli gli studi dell’archeologa lituana Marija Gimbutas. Nel linguaggio stesso, che come la terra rappresenta uno spazio da noi abitato e da cui siamo costantemente nutriti, sono rinvenibili le testimonianze della venerazione che l’uomo aveva nei confronti della terra: la diffusione della radice indoeuropea Go- Ge ne testimonia la trasversale devozione. La radice si ritrova naturalmente nel mondo greco (Gea, terra, Georgos, contadino), ma anche nella lingua dell’antico Egitto dove Geb è terra. La stessa radice appare poi nelle lingue moderne, e non solo in quelle derivate dal latino, ma anche in quelle slave, come il russo Gorod (città), God (anno), Godmost (abilità). La Grande Madre rappresentava la congiunzione degli opposti: dava la vita e nel contempo la morte, determinava la nascita e la fine a cui gli uomini non potevano fare altro che sottomettersi accettandone il continuo ritmo. Ascoltiamo la Gimbutas: «La Grande madre è lo stesso fato che dà la vita, ne determina la durata e se la riprende quando viene il momento. Fa questo perché controlla la durata del ciclo vitale. Come Reggitrice della Morte non punisce gli uomini perché peccano, essa compie il suo dovere. La rigenerazione comincia al momento della morte nel corpo della Dea, nel suo utero umido, che è stato rappresentato in forma animale come pesce, rana, tartaruga, porcospino, lepre o testa di toro». Il mondo contadino è stato l’altare dove il ritmo della Grande Madre veniva celebrato: l’attesa, le preghiere, gli scongiuri, che popolavano l’animo di Luigi e di Alfeo, sono gli stessi di tutti coloro che nel corso dei millenni, levando lo sguardo al cielo, presentivano e accettavano l’inevitabile 10


corso delle cose, la sottomissione all’imponderabile potenza della terra, madre e talvolta matrigna, che in un istante avrebbe potuto render vane le lunghe ore passate nella fatica e nel sudore. «Pietà oh Signora, pietà per il nostro lavoro, per il raccolto, per la nostra vita». Il mondo contadino è stato da sempre il mondo del limite, un argine e un freno a un delirio prometeico che oggi pretende di non vedere ostacoli davanti a sé. Il sudore, l’attesa, la sottomissione, la fierezza temperata dal ritmo delle stagioni, le preghiere, anche le imprecazioni e i lunghi silenzi, hanno accompagnato da sempre la vita ordinata, quasi monastica, del contadino, una figura sacra, un sacerdote della Terra, che ha attraversato la storia in punta di piedi, talvolta puntandoli e divenendo allora protagonista insostituibile di numerose, profonde rivoluzioni. Luciano Mazzuca

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Introduzione

Quand’ero bambina tutto intorno a perdita d’occhio si stendevano prati di erba verde, dove le margherite e gli occhi della madonna crescevano spontanei in ciuffi che macchiavano l’orizzonte profumato. I prati erano interrotti solo dalle canalette scavate a mano, dove l’acqua scorreva scrosciante e fredda. Nell’aria risuonavano pochi rumori, ed era la voce di mia nonna che mi chiamava da lontano, la voce degli uomini che si cercavano nella campagna, era il garrito delle rondini o qualche solitario muggito dalle stalle. Di mattina il gallo salutava l’aurora col suo canto, e non disturbava il nostro sonno, ma nel dormiveglia ci ricordava l’approssimarsi d’un nuovo giorno. Di tanto in tanto un cane abbaiava e solo il rumore di qualche rara automobile o di un trattore rompevano il silenzio. E poi i profumi: quand’era tempo di concimare in febbraio, in giugno, arrivava forte e acre l’odore del letame; in ottobre invece ti invadeva il profumo del mosto che fermentava nei tini; d’estate poi, mentre correvo libera dai doveri della scuola, nell’aria fresca del mattino insieme al fischio del treno che giungeva chiaro e nitido dalla stazione di Porta Nuova, arrivavano folate di caffè tostato mentre a settembre l’odore fresco delle mele appena raccolte si spandeva per l’aria. Ecco la mia vita di bambina: cresciuta in una famiglia di contadini, gente semplice, dedita al lavoro e alla fatica, gente 13


che sapeva dare valore al frutto di quella fatica, a tutto ciò che consentiva di vivere, di nutrirsi, di sostentarsi. I Bonetti, numerosa famiglia di contadini, prima braccianti, poi piccoli proprietari terrieri, che hanno vissuto del lavoro della terra, dove padri, figli, mogli, madri e nipoti lavoravano insieme. Partiamo dalla fine del Settecento e seguiamo le loro vicende in una casa di corte come tante della campagna veronese in quegli anni. Una corte intorno a cui per 150 anni si è svolta la vita di diverse generazioni. È una storia contrassegnata anche dalla povertà e dalla tragedia della guerra, quella che gli ultimi combattono per chi comanda: ci furono gli anni del dominio austriaco e francese sul nord Italia, con i suoi soprusi e le sue sopraffazioni; più tardi, quando il governo di Antonio Salandra decise che l’Italia andava alla guerra, per primi partirono i contadini e tra questi vi furono i Bonetti; passarono solo 22 anni e Mussolini rinnovò quell’incubo: ancora una volta si prepararono a partire i contadini e nuovamente la storia si abbatté come una scure sulle nostre vite. Quando giunse l’era del miracolo economico, tutto iniziò a cambiare, molti vendettero i campi per dedicarsi ad attività più redditizie e il paesaggio intorno alla corte mano a mano si trasformò: quell’area che era stata da sempre campagna coltivata, iniziò a veder sorgere fabbriche e aree artigianali, il cemento e l’asfalto presero il posto dei prati, dei campi di mele, di mais e frumento. In corte Garofolo alcuni rimasero fedeli alla loro attività e continuarono fino agli anni ‘90 a vivere del lavoro della terra. E oggi cosa ne è di quel mondo? Cosa rimane del rapporto intimo tra gli uomini di allora e la natura, coi suoi ritmi e le sue regole? Mi chiedo spesso perché abbiamo costruito una società così distante dalla dimensione naturale. Il motore di questo cambiamento è stata la ricerca del benessere e la sete 14


di profitto, ma rimane da capire se questo che abbiamo raggiunto, non sia che un benessere apparente, in nome del quale rimaniamo prigionieri di vite dai ritmi sempre più estenuanti e in nome del quale stiamo rischiando di distruggere l’ambiente e l’intero pianeta. Chi è stato testimone di simili trasformazioni, non può che esserne rimasto profondamente segnato: ricostruire la memoria del nostro passato rievocando il mondo degli antenati, significa per me percorrere a ritroso il sentiero che ci ha condotti fino a qui, osservando e cercando di comprendere il valore e i limiti di scelte e cambiamenti. Questa narrazione non ha pretese di scientificità o di completezza storica: i fatti narrati sono frutto di una ricerca appassionata e hanno rispettato precisamente i racconti dei protagonisti che ho avuto la fortuna di incontrare, tuttavia gli eventi di cui parlo, non rappresentano l’interezza dei fatti. Se alcuni dei protagonisti di quel passato non sono stati menzionati, dipende solo dal fatto che tutto è stato filtrato attraverso la mia sensibilità e la mia personale esperienza di bambina, di donna, di libera interprete di una storia di cui mi sento parte.

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