L'ARCHEOLOGIA DI CHRIS CUNNINGHAM

L’ARCHEOLOGIA DI CHRIS CUNNINGHAM _DIPARTIMENTO DI NUOVE TECNOLOGIE PER L’ARTE _CORSO DI STORIA DELL’ARTE CONTEMPORANEA _PROF. NICOLETTA LEONARDI

_GABRIELE MARCHINA _MATRICOLA 41586 _ACCADEMIA BELLE ARTI DI BRERA _AA 2019-2020 SESSIONE AUTUNNALE

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INTRODUZIONE: I NUOVI CODICI DELL’ARCHEOLOGIA

IL VIDEOCLIP NEGLI ANNI ‘90

CHRIS CUNNINGHAM: UN COLTELLO NEL VENTRE TELEVISIVO

IL LAVORO DI CUNNINGHAM: COME TO DADDY

CONCLUSIONE

BIBLIOGRAFIA

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INTRODUZIONE: I NUOVI CODICI DELL’ARCHEOLOGIA É possibile considerare Chris Cunningham in termini di Archeologia dei Media?

Per far ciò è necessaria una premessa.

Questa disciplina è una modalità di studio e ricerca che passa sotto la sua lente d’ingrandimento gli errori, i vicoli ciechi e i tentativi falliti relativi all’evoluzione di una tecnica. È una metodologia storica per la comprensione del cambiamento dei media che considera l’innovazione del mezzo principalmente in visione della sua capacità di parlarci dell’evoluzione della tecnica.

In questo caso, l’evoluzione della cinematografia.

Così, negli anni 50/60/70 abbiamo assistito alla nascita di piccole Nouvelle Vague in ogni parte del mondo, differenti per la resa finale delle opere ma unite da quel sentire comune, che oggi con maggior consapevolezza chiameremmo Zeitgeist, votato al sovvertimento di regole giudicate opprimenti.

In Italia, tra i tanti sperimentatori troviamo nomi noti al grande pubblico come Mario Schifano, che lavora per un superamento della pittura e produce una trilogia di video-opere (”Satellite”, “Umano non Umano“, “Trapianto, Consunzione e Morte di Franco Brocani”), caratterizzate da una forte componente espressionista tipica delle sue composizioni.

E’ ormai un dato storico di come i grandi archeologi del mezzo Americani (il New American Cinema, capitanato da registi come Jonas Mekas e Stan Brakhage) abbiano messo in discussione le pratiche del cinema classico, rendendole obsolete e sperimentando nuove modalità di rappresentazione. La macchina da presa non più semplice elemento invisibile che riprende, ma filtro attivo nel caratterizzare le inquadrature e personaggio silenzioso della messa in scena.

Il punto focale passa così dall’oggetto della rappresentazione alla modalità della rappresentazione.

Colori sparati, utilizzo di pellicole scadute, interventi manuali sulla pellicola (Norman Mclaren docet) fanno della pratica video di Schifano un chiaro esempio di Archeologia del Mezzo.

“La realtà del mondo nel dopoguerra si comprende?

E perchè mai dovremmo creare un sistema coeso e comprensibile di rappresentazione?” devono essersi chiesti.

Ma più ci si avvicina alla nostra contemporaneità, più la lente d’ingrandimento si allontana dall’oggeto in esame, mostrando zone d’ombra e forzandoci nella necessità di definizione di nuovi codici che rendano l’Archeologia attuale.

Fin qui si è però parlato di avanguardie storicizzate, con archeologie dai limiti ben definiti e visibili.

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IL VIDEOCLIP NEGLI ANNI ‘90 Gli anni 90, periodo di maggior produzione di Chris Cunningham, sono un decennio fondamentale per l’evoluzione del Videoclip musicale. Nato in seno alla televisione, e dirottato poi su palinsesti sempre più specifici, in questo periodo trova ampio spazio nella programmazione di Mtv, emittente che più di ogni altra diffonderà commercialmente questa forma d’arte. In questo decennio, il cambiamento maggiore consiste in un’emancipazione della figura del regista, in una visione più autoriale e meno sacrificata a una “catena di montaggio”.

Le star della musica scelgono i registi in base al loro approccio ed alla loro estetica, ridimensionando la figura monopolizzante della musica a favore di una nuova concezione che vuole il video a pari importanza.

Questa è l’era d’oro del videoclip, l’era dei grandi budget e dei nomi stellati: Michel Gondry, Mark Romanek, Spike Jonze e, appunto, Chris Cunningham.

CHRIS CUNNINGHAM: UN COLTELLO NEL VENTRE TELEVISIVOw Chris Cunningham, classe 1970, è un regista di videoclip, spot pubblicitari e cortometraggi attivo sin dalla prima metà degli anni 90. Iniziato agli effetti speciali a soli 17 anni come aiuto nella realizzazione di Hellraiser 2: Prigionieri dell’Inferno, lavora come fumettista e viene successivamente chiamato da Stanley Kubrick per collaborare al suo progetto AI: Artificial Intelligence, che però non vedrà mai la luce.

Negli anni 90 diventa famoso grazie alla collaborazione con Aphex Twin e la sua Warp Records, che produrrà molte delle sue opere.

Personaggio critico e poco incline ad apparizioni in tv e a rilasciare interviste, Cunningham è un vero artigiano digitale che ha prodotto alcune tra le immagini più potenti e controverse mai apparse, denotando una lucidità di sguardo (interno ed esterno) impressionante.

Mutazioni, cyborg, città alienanti, visioni analogiche distorte, personaggi oscuri che sembrano provenire dagli incubi Cyberpunk di Gibson e Burroughs quanto dai nuovi modelli di avanguardie cinematografiche resi da David Cronember e Shinya Tsukamoto.

L’opera di Cunningham fa tesoro della pratica di sperimentatori come il New American Cinema ponendo l’errore tecnologico come paradosso per esprimere la nuova realtà del mondo, come il largo uso di Lens Flare (solitamente evitate in questo genere di palinsesto) e sgranature dovute alla bassa risoluzione delle riprese.

Con i primi anni 2000, Chris Cunningham si avvicina sempre più al mondo dello spot pubblicitario e lavorerà in questo settore fino al 2009, creando audiovisivi spiazzanti ben in linea con il nuovo trend che ha contribuito a creare. Saranno suoi clienti marchi come Playstation, Gucci, Levi’s, Nissan, Telecom Italia.

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IL LAVORO DI CUNNINGHAM: COME TO DADDY Come To Daddy è il primo lavoro che il regista realizza per Aphex Twin, famoso dj e boss della Warp Records, che più avanti produrrà molte sue opere. Il video inizia mostrando una periferia sporca e alienante, fatta di grattacieli grigi e muri scrostati. Una signora porta a spasso il cane, che si ferma davanti a un televisore per urinare. L’apparecchio prende vita e proietta delle strane immagini distorte di un personaggio che recita una nenia “I want your soul, I need your soul”.

Dal nulla appare una baby gang di nani che prende il televisore e lo porta in giro come in un “tecno-rituale”, sempre più minacciosi nei confronti dei malcapitati che incrociano la loro strada.

Come già visto anche in Videodrome (David Cronemberg), dall’apparecchio esce un mutante che attira a sè la babygang in quanto figli/adepti ed inizia ad aggirarsi per i vicoli della periferia.

La prima cosa che salta agli occhi è un’importante manipolazione delle immagini digitali. L’inconscio tecnologico contemporaneo trova nel regista uno dei suoi maestri e più appassionati rilettori: distaccandosi prepotentemente dalla pellicola, Cunningham costruisce un mondo dove il digitale è metafora di un collasso umano. L’immagine è diventata ormai quantificabile in bit digitali e algoritmi, venendo assorbita dalla cultura del software, cosicchè ci è impossibile comprenderne appieno la visione tralasciando un’interpretazione matematica della sua natura.

Si passa con essa da una struttura chimica a una struttura matematica: il blu livido delle ambientazioni del video non è più il colore della pittura (portatore di una forte connotazione materica e gestuale), quanto piuttosto un insieme di codici e codifiche atte a settarne

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i parametri all’interno di un reticolato di pixel. Va da sè che l’Archeologia dei Media con il digitale inizi ad apparire sempre più come uno studio sul software, che ci spinge ad analizzare la specificità di ogni singolo medium per mettere realmente a fuoco la loro influenza sul nostro modo di concepirli.

Il passaggio fondamentale, dall’analogico al digitale, richiede un’evoluzione delle modalità in cui vediamo questi processi, la determinazione di nuovi codici concettuali dei media in quanto attrazione, tattilità ed effetto senza le quali è impossibile applicare una reale Archeologia.

La digitalizzazione di cui Cunningham è portatore non è da considerarsi come punto di arrivo, ma una rottura epistemologica che ha implicazioni con la visione dell’intero ventaglio dei Nuovi Media, una sorta di grado zero grazie al quale riflettere sulla comprensione della storia del Cinema che della sua Teoria.

L’idea chiave è che non solo i Media cambino il mondo, ma che esso stesso sia in continuo cambiamento grazie alle complesse logiche che ne regolano l’andamento: questi possono comunque considerarsi come casi emblematici di quello che definiremmo Zeitgeist, grazie ai quali tenere sotto controllo la direzione intrapresa.

Un fattore cardine all’interno dell’opera è il corpo: la “nuova carne” di Cronemberg si rivela qui come oggetto catalizzante emozioni e desideri inespressi.

Non c’è volontà di sessualizzarlo, quanto di mostrare un subconscio che “si è fatto carne” tramite un rito pagano tecnologico. Il mutante che prende vita dallo schermo televisivo è portatore delle prospettive e delle paure

che l’umanità proietta verso il Medium, e viene alla luce solo dopo esser stato trasportato tra i vicoli e parcheggi buio della metropoli come un idolo pagano, quasi a ricordare una processione cristiana.

I piccoli nani che trasportano il media sono i giovani, incarnati in mutanti uniformati nelle sembianze dalla divinità tecnologica.

Non ci sono persone di mezz’età, si passa da personaggi di un età definibile attorno all’adolescenza per arrivare alla presenza della nonna, simbolo di un mondo degli adulti incompatibile con la realtà che deve affrontare (non è un caso che quando il mostro si sveglierà, urlera addosso alla signora che non potrà far altro che subire passivamente la sua onda d’urto).

Appare chiara la volontà di schierarsi in maniera violentemente critica contro un immaginario da Mtv, caratterizzato da narrazioni atte principalmente alla rappresentazione edonistica e lussureggiante della music star di turno. Questa scelta radicale ci porta a riconsiderare l’operato del regista in termini meramente pubblicitari: la critica risulta così forte per la presenza di un lavoro approfondito per inserirlo nel palinsesto commerciale.

Difficilmente, in un mercato Underground, avrebbe avuto pari carica rivoluzionaria.

Molti sono anche gli effetti riferibili ad un territorio videoartistico, come se Cunningham volesse elevarsi a un registro “più alto” e riagganciarsi a una produzione precisa della storia della produzione video, non come sfoggio di stile ma sempre con una resa espressiva propedeutica alla narrazione.

Volti distorti dell’essere all’interno del televisisore richiamano gli esperimenti di Woody Vasulka, e gli schizzi d’acqua sono resi in maniera molto simile a quelli che abbondano nella storia della videoarte (non a caso, l’acqua è l’elemento primario più utilizzato nella rappresentazione astratta, da Plessi a Viola).

La metropoli per Cunningham è il posto centrale dove tutto accade, che connota ogni azione in una prospettiva disumanizzata e disumanizzante. É un mondo del sogno che circonda il media (il televisore esibito), grazie al quale è riscontrabile un’attinenza con i media immaginari, nella misura in cui Lacan considera, appunto, l’immaginario una parte integrante della creazione del mezzo.

La metropoli appare come Mediascape artificiale: i mutanti costruiscono il loro spazio nell’affiorare delle loro paure relative allo spazio. Come presi da un movimento biunivocamente inconsapevole, manipolano il pezzo di mondo che occupano e a loro volta (il buio dei vicoli) li include, li determina nella loro natura di mostri (vien da pensare alla teoria di Postman, secondo il quale «Emerge uno spazio culturale caratterizzato dalla massiccia presenza dei media, capace di influenzare la mentalità collettiva»1).

Il televisore è imparentato con lo spazio, appare come elemento di rifiuto al pari della spazzatura che lo circonda: ma nell’opera di Cunningham non facilita la mediazione tra gli individui e il loro mondo, quanto piuttosto crea portali per altre dimensioni fantasmagoriche nella loro essenza di pixel. Se consideriamo la teoria di Walter Benjamin secondo cui «I Media sono i nuovi organi che innervano il corpo sociale»2, le prospettive di questo corpo per Cunningham sono tutt’altro che rosee.

1, 2 Pietro Montani, Dario Cecchi, Martino Feyles, Ambienti Mediali, Meltemi, 2018.

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CONCLUSIONE Alla luce della precedente analisi, si è appurato il grado in cui l’opera video (definirla cinematografica sarebbe oltremodo riduttivo) del regista possa fornire da spunto per una serie di riflessioni basate sulla storia e sulla percezione del mezzo utilizzato.

Forzare le possibilità del mezzo fino ai suoi limiti, utilizzare una drastica cesura con il passato analogico e analizzare le implicazioni delle sue opere nell’inconscio tecnologico sono solo alcuni dei campi di analisi che interessano l’artista e che ci aiutano a dar una rilettura più attuale e specifica della storia dei New Media.

BIBLIOGRAFIA Jussi Parikka, Archeologia dei Media, Carocci Editore, 2019.

Pietro Montani, Dario Cecchi, Martino Feyles, Ambienti Mediali, Meltemi, 2018.

Gabriele Balbi, Paolo Magaudda, Fallimenti Digitali: Per un Archeologia dei ‘Nuovi’ Media, Unicopli Editore, 2018.

Herrki Huntamano, Elementi di Schermologia – verso un archeologia dello schermo, Trad. It. R. Terrosi, Kaiak Edizioni, 2014.

Luca Pacilio, Il videoclip nell’era di YouTube. 100 videomaker per il nuovo millennio, Bietti Editore, 2014.

Alessandro Amaducci, Simone Arcagni, Music Video, Edizioni Kaplan, 2007.

Chris Cunningham, Rubber Jhonny, WarpFilms, 2005.

Francesca Alfano Miglietti, Identità Mutanti, Bruno Mondadori, 2004.

Chris Cunningham, The Work of Director, Palm, 2003.

Piergiorgio Pardo, Il Cyberpunk, Xenia Tascabili, 2001.

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